Gtk 1, Rivista di Psicoterapia

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dicembre 2010/01

HUMAN COMMUNICATION CENTER

ISSN: 2039-5337

Istituto di Gestalt Therapy Kairòs

01 psicopatologia




RIVISTA QUADRIMESTRALE ON LINE GESTALT THERAPY KAIRÒS rivista di psicoterapia Direttore Scientifico Giovanni Salonia Direttore responsabile Orazio Mezzio Caporedattore Giovanna Giordano Ufficio legale Silvia Distefano Comitato Scientifico Paola Argentino Angela Ales Bello Eugenio Borgna Bruno Callieri Vincenzo Cappelletti Piero Cavaleri Valeria Conte Ken Evans Sean Gaffney Erminio Gius Bin Kimura Marilena Menditto Aluette Merenda Rosa Grazia Romano Antonio Sichera Christine Stevens Editing Agata Pisana Traduzioni e Consulenza per la lingua inglese Luisa Pacifico Riproduzioni opere d’arte A cura della Spazio Forni Young di Ragusa e dell’artista Sasha Vinci Layout Paolo Pluchino Marco Lentini

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GESTALT THERAPY KAIRòs rivista internazionale di psicoterapia. Indirizzo per la corrispondenza: GESTALT THERAPY KAIRòS Rivista di psicoterapia Via Virgilio, n°10 97100 Ragusa Sicilia Italia Richieste: Editoriali +39 0932 682109 Abbonamenti +39 0932 682109 FAX +39 0932 682227 Email: redazione.gtk@gestaltherapy.it Website: www.gestaltherapy.it

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Trasfigurazioni (particolare installazione SITE#1)



L’appeso (autoritratto)


Editoriale

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In questo numero Ricerca

INDICE

INDICE 11

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L’angoscia dell’agire tra eccitazione e trasgressione La Gestalt Therapy con gli stili relazionali fobicoossessivo-compulsivi Giovanni Salonia Il paziente borderline: una ostinata e sofferta richiesta di chiarezza Intervista a Valeria Conte a cura di Rosa Grazia Romano Arte e psicoterapia

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Ricordo di Alda Merini Paola Argentino Prendimi l’anima Giuliana Gambuzza Nuove applicazioni cliniche

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Gestalt Therapy e Onoterapia: nuove applicazioni della pet therapy Silvia Zuddas e Francesco Padoan Letture

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Nello Dell’Agli, Aluette Merenda, Fabio Presti, Assunta Tolentino

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EDITORIALE

EDITORIALE Una rivista come uno spazio aperto, di condivisione e di ricerca. Una rivista come un’opportunità, di dialogo e di confronto. Una rivista come un segno, di attenzione al nostro tempo e di speranza in un cambiamento possibile. Una rivista on-line, per essere all’altezza dei tempi e per aggiungere una voce a tante altre significative ed importanti, che in diverse forme contribuiscono al dibattito sulla sofferenza e sul disagio. Una rivista bilingue, per poter camminare nel mondo con libertà e vasto respiro. Una rivista di Gestalt Therapy, perché la ricerca, il dialogo, la tensione verso la storia e la speranza in un mondo che può essere rifatto sono nel dna della GT. Ecco in sintesi il senso e il desiderio di questa nostra piccola impresa, che vuole aprire dentro il web una nuova via di accesso all’universo gestaltico, alle sue vocazioni e alle sue possibilità. Cominciamo come sempre si comincia, con trepidazione e magari anche un po’ di ansia. Ma anche con la certezza che non si tratta qui di gestire un nostro patrimonio, bensì di offrire uno strumento di riflessione a cui voi, tutti voi, lettori più o meno occasionali (e poi, speriamo, fedeli e appassionati), siete chiamati a dare sostanza e sviluppo. Vorremmo insomma che questa rivista fosse come un’agorà, uno spazio vivo consegnato a terapeuti, studiosi, operatori, uomini e donne che hanno a cuore il loro lavoro, il piccolo destino di cui sono protagonisti, perché non ci si può arrendere alla banalità e al non senso, non ci si può accodare al diluvio di ‘già detto’ che spesso ci sommerge e ci scoraggia. Per questo, in primo piano nella nostra rivista troverete sempre testi di ricerca nel campo della teoria clinica: articoli o interviste che servano a fare il punto e ad aprire prospettive, in chiave gestaltica, sui disagi più gravi e urgenti del nostro tempo. In questo numero, un’intervista a Valeria Conte sui borderlines curata da Rosa Grazia Romano e un lungo ma scorrevolissimo saggio di Giovanni Salonia sulle FOC saranno come l’antipasto di uno stile che accompagnerà costantemente il nostro percorso. Vogliamo dare poi molto spazio alla poesia e alle arti: un artista ci ‘scorterà’ ogni volta, con le sue immagini e le sue

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creazioni, nell’esplorazione del dolore e nella previsione di una cura umana possibile. Cammino, questo, della nostra on line review, che si snoderà in collaborazione con la Galleria d’arte Spazio Forni Young di Ragusa (Spy), che per il primo numero ci propone le opere dell’artista Sasha Vinci. A lui e alla Galleria va il nostro ringraziamento. E poi la poesia. Troverete in questo numero due perle preziose. La prima è un ricordo di Alda Merini scritto da Paola Argentino, che con la Merini ebbe a suo tempo un breve ed intenso contatto. Da questa storia fra donne nacque una lirica fino ad oggi inedita, dedicata da Alda all’amica psichiatra, che Paola ci consegna come un dono grande. E poi, alla fine, potrete godere della poesia della relazione terapeutica espressa in un testo di speciale bellezza scritto da una giovane e promettente poetessa: Giuliana Gambuzza. Le consuete, importanti recensioni (raccolte in Letture e una rubrica ‘di frontiera’, dedicata alle nuove applicazioni cliniche (qui su onoterapia e Gestalt, scritto da Silvia Zuddas e Francesco Padoan) chiudono il cerchio. O meglio lo aprono. Buon viaggio a tutti. Ragusa, 3 dicembre 2010

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IN QUESTO NUMERO

IN QUESTO NUMERO

Giovanni Salonia pag. 19 Psicologo, psicoterapeuta, docente presso l’Università Pontificia Antonianum di Roma, già docente di Psicologia Sociale presso l’Università LUMSA di Palermo, Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt dell’Istituto di Gestalt Therapy HCC Kairòs (Venezia, Roma, Ragusa) e dei master di II livello cogestiti con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, é didatta conosciuto a livello internazionale e professore invitato presso numerose università italiane ed estere. Ha scritto, oltre a numerosi articoli pubblicati in riviste estere e nazionali, Comunicazione Interpersonale (con H. Franta), Kairòs, Odòs, Sulla felicità e dintorni, su tematiche sia antropologiche che cliniche. Direttore di GTK, rivista on line di psicoterapia, è stato Presidente della FISIG (Federazione Italiana Scuole ed Istituti di Gestalt). Valeria Conte pag. 61 Psicologa, dirigente presso il Dipartimento di Salute Mentale dell’ASP provinciale di Ragusa; psicoterapeuta e didatta Supervisore Ordinario riconosciuto dalla FISIG (Federazione italiana Scuole ed Istituti di Gestalt). Membro del comitato scientifico e responsabile didattico e clinico dell’Istituto di Gestalt Therapy HCC Kairòs, è responsabile del coordinamento scientifico dei corsi ECM organizzati dallo stesso e didatta nei master di II livello cogestiti con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Docente nei corsi regionali dell’Assessorato alla Sanità istituiti per la formazione del personale sanitario del SSN, ha pubblicato saggi e articoli su riviste nazionali ed estere. Rosa Grazia Romano pag. 61 Psico-pedagogista, ricercatrice confermata di Pedagogia Generale e Sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Messina, dove insegna Pedagogia delle Relazioni Educative e Metodologia della Ricerca Pedagogica. Fa parte del Collegio Docenti del

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Dottorato di Ricerca Internazionale in Pedagogia e Sociologia Interculturale della stessa Università. Ha pubblicato volumi, articoli in volumi e in riviste internazionali per i tipi: Franco Angeli, Herder, Armando, La Scuola, Pensa MultiMedia. Paola Argentino pag. 77 Psichiatra, psicoterapeuta, attualmente è dirigente responsabile dell’U.O. Psichiatraa di Collegamento del Dipartimento di Salute Mentale di Siracusa. Ricercatrice dell’Istituto Superiore di sanità per il progetto nazionale salute mentale e per la demenza di Alzheimer. È coordinatore scientifico-didattico e docente nei Master di II livello istituiti in Sicilia dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e didatta dell’Istituto di Gestalt Therapy HCC Kairòs. Giuliana Gambuzza pag. 81 Laureata in Filosofia con tesi di Etica Sociale, scrive versi “da quando ha imparato a tenere la penna in mano”. Francesco Padoan e Silvia Zuddas pag. 85 Psicologi-psicoterapeuti, operano da anni nel campo clinico. Svolgono attività di consulenza, formazione e psicoterapia presso il loro studio e presso enti pubblici e privati. Attualmente stanno approfondendo l’applicazione dei principi teorici della Gestalt Therapy all’onoterapia presso il centro CO&SIA in provincia di Udine. Nello Dell’Agli pag. 97 Psicologo, psicoterapeuta, è didatta presso l’Istituto di Gestalt Therapy HCC Kairòs e docente di Psicologia presso la Facoltà Teologica di Sicilia. Didatta nei master di II livello organizzati dall’Istituto di Gestalt con l’Università del Sacro Cuore di Roma, ha pubblicato numerosi articoli e riviste. Ricordiamo inoltre, fra i suoi libri, Lectio divina e lectio humana. Un nuovo modello di accompagnamento spirituale e Parola, Eucaristia e guarigione. Aluette Merenda pag. 105 Psicologa, psicoterapeuta, formata in Psicoterapia della Gestalt presso l’Istituto di Gestalt HCC, Ricercatore universitario presso

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la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Palermo, è docente per supplenza di Psicodinamica dello Sviluppo e delle Relazioni Familiari presso i Corsi di Laurea in Psicologia (V.O.), Educatore della prima infanzia ed Educatore interculturale. Attualmente, svolge attività clinica e, in qualità di didatta, fa parte dello staff della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt dell’Istituto di Gestalt HCC presso la sede di Palermo. Fabio Presti pag. 109 Psicologo, psicoterapeuta, si è formato presso l’Istituto di Gestalt HCC., è nato e vive a Roma dove svolge attività clinica. Dal 2000 è impegnato nel campo delle tossicodipendenze. Attualmente è supervisore e coordinatore di progetti di riduzione del danno rivolti a persone tossicodipendenti. Assunta Tolentino pag. 111 Psicologa, psicoterapeuta, lavora presso il CEFPAS di Caltanissetta occupandosi del coordinamento di attività formative. Coautrice di pubblicazioni nel campo della formazione manageriale e della formazione continua nel SSN, è didatta presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt dell’Istituto Gestalt Therapy HCC Kairòs.

Sasha Vinci Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Firenze.Vive e lavora a Scicli (Rg). Direttore artistico del progetto “il primo viaggio”, realizzato e presentato al C.A.M. (Campus Archeologico Museale) a Selinunte. Ha pubblicato nel 2008 Pass/O+, Arte E Critica n.56. Drops of art, abitare Magazine n.1. Catalogo CAM Cantiere1 “Il primo viaggio”.

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RICERCA

L’ANGOSCIA DELL’AGIRE TRA ECCITAZIONE E TRASGRESSIONE La Gestalt Therapy con gli stili relazionali fobicoossessivo - compulsivi Giovanni Salonia Che dici? Se ti abbraccio forte forte, ho qualche chance in più di scampare alla morte?” Franco Marcoaldi1

1. Gestalt Therapy e psicopatologia

Nell’ermeneutica della GT, ogni disturbo psichico rivela (e deriva da) un’ interruzione del processo di avvicinamento dell’O. all’A.

La Gestalt Therapy (GT)2 legge le fobie, le ossessioni e le compulsioni (FOC) come stili relazionali disfunzionali che rivelano una seria difficoltà dell’Organismo (O.) ad entrare in contatto3 nutriente4 con l’Ambiente (A.)5, nonostante ne abbia desiderio e intenzionalità. Nell’ermeneutica della GT, infatti, ogni disturbo psichico rivela (e deriva da) un’ interruzione del processo di avvicinamento dell’O. all’A.: interruzione che avviene in momenti differenti del percorso relazionale temporale che conduce l’O. a realizzare il contatto con l’A.. Fallire nel contatto con l’A. blocca la crescita e produce sintomi.

1 F. Marcoaldi (2008), Il tempo ormai breve, Einaudi, Torino, “La potenza dell’abbraccio”, 61. 2 Per un’introduzione alla Gestalt Therapy: F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma, ed. or. 1951; I. Polster, M. Polster (1983), Terapia della Gestalt integrata, Giuffrè, Milano, ed.or. 1973; M. Spagnuolo Lobb (a cura di) (2001), Psicoterapia della Gestalt. Ermeneutica e Clinica, Franco Angeli, Milano. 3 Cfr. G. Salonia (2001), Tempo e relazione. L’intenzionalità relazionale come orizzonte ermeneutico della Psicoterapia della Gestalt, in M. Spagnuolo Lobb (a cura di), Psicoterapia della Gestalt. Ermeneutica e clinica, cit., 65-85. 4 ‘Contatto nutriente’ nel linguaggio della GT è un incontro valido e funzionale con l’Ambiente. 5 L’A. per la GT è l’alterità nella sua varietà (animata e inanimata).

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Un esempio. Dopo aver parlato con un amico, io so (ne divento maggiormente consapevole quando mi concentro)6 se il contatto con lui è stato pieno o no verificando le seguenti domande: “Ho detto ‘quello’ che volevo dire? Ho detto ‘tutto quello’ che volevo dire? Ho interagito come volevo?”. Se le risposte sono affermative, il contatto è stato pieno e ha nutrito l’amicizia; se le risposte sono negative, il contatto è stato in tutto, o in parte, fallimentare. Si parla di competenza relazionale di una persona quando abitualmente è capace di contatti pieni con l’ambiente. Un altro punto centrale della psicopatologia della GT è dato dall’analisi del momento preciso in cui accadono le interruzioni lungo il percorso del contatto, che va dal bisogno dell’O. alla sua concreta realizzazione, che è l’incontro con l’A.7 Tale itinerario è scandito, nella teoria del contatto della GT, in precisi passaggi: il primo è quello dell’orientarsi (sapere dove si vuole andare); il secondo quando emerge l’energia e l’O. si muove verso l’A.; il terzo è il momento in cui l’O., ormai prossimo all’A., decide di consegnarsi; infine avviene l’incontro (il contatto, finalmente!); nell’ultima fase l’O. assimila e cresce per l’avvenuto contatto (Tav. 1). Tali passaggi – o fasi – si succedono in modo epigenetico: in ognuna l’O. assimila la precedente e si prepara per la successiva.

Orientamento

Azione

Decisione

Finalmente

6 Cfr., al riguardo, G. Salonia (1986), La consapevolezza nella teoria e nella pratica della Psicoterapia della Gestalt, Quaderni di Gestalt, 3, 125-149. 7 G. Salonia (1989b), Tempi e modi di contatto, Quaderni di Gestalt, 8/9, 55-64.

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Un altro punto centrale della psicopatologia della GT è dato dall’analisi del momento preciso in cui accadono le interruzioni lungo il percorso del contatto

Assimilazione (traità intrapersonale)


Ogni passaggio da una fase all’altra, come si sa, suscita desiderio e paura. A livello evolutivo, il bambino apprende la competenza relazionale se in tali passaggi riceve il sostegno evolutivo specifico da parte delle figure genitoriali.

Ogni passaggio da una fase all’altra, come si sa, suscita desiderio e paura. A livello evolutivo8, il bambino apprende la competenza relazionale9 se in tali passaggi riceve il sostegno evolutivo specifico da parte delle figure genitoriali. Se la figura genitoriale, invece di contenere le ansie naturali del bambino, si impaurisce a sua volta, il bambino sarà caricato anche della paura dell’adulto e la sua ansia diventerà angoscia e terrore: perderà la spontaneità nella esperienza dell’O. e, anziché andare avanti verso il contatto pieno, produrrà un sintomo. Il sintomo, quindi, nella GT, rimanda all’interruzione di un cammino verso il contatto e ‘sta al posto’ (‘instead of’) del passo che l’O. ha bloccato perché travolto dall’angoscia. È utile precisare che l’interruzione del contatto di cui stiamo discorrendo non va letta in termini comportamentali, ma a livello di vissuti corporei e relazionali. Ad esempio, se due partners sono impegnati in una conversazione telefonica e ad un tratto cade la linea, si ha un’interruzione di contatto solo comportamentale (non riguardante i processi di contatto). Se, invece, mentre conversano uno dei due si sente offeso e non lo esplicita e continua a parlare riducendo lentamente e sempre di più il proprio interesse verso l’interazione, in questo caso si tratta di un’interruzione dei vissuti relazionali e corporei (anche il suo corpo si chiude), sebbene continuino le interazioni verbali. Tornando alla fase evolutiva, anche il sostegno o la mancanza di sostegno nella relazione evolutiva passa attraverso la corporeità prima che attraverso i contenuti: gli introietti genitoriali (“Non fare questo o quello!”) bloccano la spontaneità del bambino non tanto per i contenuti ma per le tensioni corporee, per il tono di voce con cui inconsapevolmente il genitore agisce sul corpo del bambino10. Concludendo, le interruzioni del contatto (che, a seconda della fase in cui accadono, prendono forme di disturbo differenti11)

8 G. Salonia (1989a), Dal Noi all’Io-Tu: contributo per una teoria evolutiva del contatto, Quaderni di Gestalt, 8/9, 45- 53. 9 G. Salonia (1997), Maturità in Dizionario di Scienze dell’Educazione, Università Pontificia Salesiana, Roma, LAS-LDCSEI, Roma, 662-665. 10 Sul concetto di intercorporeità cfr. G. Salonia, Edipo dopo Freud. Gestalt Therapy e teorie evolutive, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, prossima pubblicazione. 11 G. Salonia (1989a), Tempi e modi di contatto, cit.

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si apprendono nella relazione primaria, si manifestano nelle varie relazioni che l’O. tenta di instaurare con l’A. e potranno trovare soluzione e cura in una relazione che sia terapeutica.

2. Quale interruzione specifica per gli stili relazionali fobici, ossessivi, compulsivi? Nel paradigma della GT – come già accennato – i disturbi si differenziano a seconda del diverso momento in cui si è interrotto il cammino dell’O. verso la pienezza dell’incontro. Fobie, ossessioni, compulsioni sono disturbi che rivelano interruzioni del ciclo di contatto12 nel momento specifico (seconda fase dello sviluppo) in cui l’O., dopo essersi orientato verso la nuova direzione, inizia ad avvertire eccitazione ed energia per muoversi verso l’A. (fase dell’azione/ manipolazione)13 (Tav. 2).

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Orientamento

Azione

Decisione

Finalmente

12 G. Salonia (2010), L’anxiety come interruzione nella Gestalt Therapy, in L. D. Regazzo (a cura di), Ansia, che fare? Prevenzione, farmacoterapia e psicoterapia, CLEUP, Padova. 13 Cfr. C. Mascarello (2008), La Psicoterapia della Gestalt con il disturbo ossessivo compulsivo: un caso clinico, Tesi di specializzazione della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt. Istituto di Gestalt HCC Kairòs, sede di Venezia.

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Assimilazione (traità intrapersonale)


I coniugi Perls scoprirono che, con la nascita dei denti e la masticazione, si sviluppa una forma di aggressività (che, contrariamente a quanto è sostenuto abitualmente, non è l’anticipo del tempo dell’aggressività, ma la scoperta di un altro tipo di aggressività)

Il crescendo dell’eccitazione (aumento dell’ampiezza del respiro e dell’energia, attivazione del corpo) è, infatti, preparazione necessaria per portare avanti l’intenzione di raggiungere l’A. L’energia aggressiva14, che ha lo scopo di confrontarsi con l’A. prima di incontrarlo, si sviluppa in due momenti con due forme ben distinte: nella fase della dentizione e in quella anale. I coniugi Perls scoprirono15 che, con la nascita dei denti e la masticazione, si sviluppa una forma di aggressività necessaria per addentare, prendere, destrutturare e assimilare l’A.16. L’enfasi su tale scoperta (che, contrariamente a quanto è sostenuto abitualmente, non è l’anticipo del tempo dell’aggressività, ma la scoperta di un altro tipo di aggressività17) portò ad un cambiamento radicale del paradigma dell’apprendimento e, quindi, anche della psicoterapia, sostituendo all’introiezione ‘passiva’ teorizzata da Freud la destrutturazione e l’assimilazione. Momento significativo di questo cambio di paradigma relazionale è quello in cui il bambino ‘morde il seno’: con tale gesto, egli chiude la modalità interattiva ma tranquilla del succhiare e introduce, nell’esserci-con18 il corpo della madre, la novità della forza dei denti. Sono molteplici le risposte che può offrire il corpo della madre ai primi morsi al capezzolo: ritirarsi, irritarsi, punire, sorridere, riconsegnarsi e quant’altro. Interessante il rito della tribù degli Utku, in cui dopo i primi morsi la madre sorride e dice in una sorta di ‘mantra’: “Non

14 L’aggressività nella GT ha valenza positiva, in quanto indica la forza per realizzare se stesso. Cfr. G. Salonia, M. Spagnuolo, A. Sichera (2001), Dal “disagio della civiltà” all’adattamento creativo. Il rapporto individuo/comunità nella Psicoterapia del terzo millennio, in M. Spagnuolo Lobb (a cura di), Psicoterapia della Gestalt. Ermeneutica e Cinica, cit., 180-190 15 F. Perls (1995), L’io, la fame e l’aggressività, Franco Angeli, Milano, ed or. 1947/69. 16 Ibidem. 17 Tesi comune nel mondo della GT; cfr., ad esempio, I. From, V. Miller (1997), Introduzione al testo classico della GT: F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, cit. 18 Diversamente da Stern – D. Stern (1995), La costellazione materna, Boringhieri Bollati, Torino – preferisco parlare non tanto di schemi dell’essere-con ma dell’esserci-con, per richiamare la tradizione fenomenologica.

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ha cervello” (cioè, “non lo fa apposta”)19. Si tratta di un momento delicato: la risposta del corpo della madre (conferma, riconoscimento, squalifica, punizione, abbandono) segnerà l’esperienza dell’aggressività nel corpo del bambino20. Se la nuova forza che il bambino sta esprimendo riceve feedback corporeo negativo si blocca, producendo fantasmi di terrore, di distruttività o di cattiveria21. L’aggressività di questa fase ha una sua peculiarità dovuta al fatto che è connessa con la fame e con la sopravvivenza: per tali ragioni le interruzioni hanno una gravità e un’intensità che in alcuni casi si configura come psicotica22. Successivamente, nel corpo del bambino si sviluppa l’attenzione (libido) verso lo sfintere anale23. Il bambino si accorge che, oltre a ricevere dall’A. il cibo (che mastica e destruttura per assimilare o che rifiuta sputando), adesso ha un potere tutto suo: può ‘trattenere’ o ‘lasciare andare’ dal suo corpo la cacca. L’accorgersi di tale potere opera un cambiamento epistemologico della percezione di sé e dell’altro. Il bambino apprende un altro paradigma relazionale24: controllando, infatti, lo sfintere anale (ogni sfintere è frontiera tra il dentro e il fuori) sperimenta un potere che interessa non solo il proprio corpo ma anche quello genitoriale, il quale – come il bambino si accorge subito – attende i prodotti della sua decisione. La differenza notevole tra i due tipi di aggressività, che si sviluppano in tempi diversi, spiega anche la varietà dei sintomi

19 J. L. Briggs, Autonomia e aggressività nel bambino di tre anni. Il caso degli Utku, in R. Le Vine, R. New (a cura di) (2009), Antropologia e infanzia. Sviluppo, cura, educazione: studi classici e contemporanei, Raffaello Cortina ed., Milano, 301-319. 20 Questo vale anche per l’allattamento artificiale, quando il bimbo comincia a mordere il ciuccio del biberon e la madre si infastidisce, cerca di scuoterlo per far riprendere la suzione o ‘sta al gioco’. 21 Molte angosce primarie di cui parla la letteratura e la clinica infantile – D. W. Winnicott (1970), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma – andrebbero lette in questo contesto di adulti che esasperano paure di bambini invece di contenerle. 22 Devo alla psichiatra dott.ssa Paola Argentino questa puntualizzazione clinica. 23 S. Freud (1989), Tre saggi sulla teoria sessuale e altri scritti. 1900-1905, in Opere, vol. IV, Bollati Boringhieri, Torino. 24 G. Salonia, Edipo dopo Freud, cit.

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L’aggressività di questa fase ha una sua peculiarità dovuta al fatto che è connessa con la fame e con la sopravvivenza. Successivamente, nel corpo del bambino si sviluppa un potere tutto suo: può ‘trattenere’ o ‘lasciare andare’


Fobie, ossessioni e compulsioni rientrano nella stessa area clinica, perché hanno in comune il terrore (paura non sostenuta) come risposta nel corpo del bambino al fatto che il corpo genitoriale non sostiene l’emergere di vissuti di eccitazione ed energia

e dei vissuti diversi nelle differenti patologie a seconda del momento in cui avviene l’interruzione. L’interruzione nella fase della dentizione (transizione dal ricevere al manipolare) porterà sintomi dei disturbi FOC, quella invece nella fase anale produrrà sintomi sul versante proiettivo (attribuire all’A. la paternità dei propri vissuti). In tale quadro evolutivo, fobie, ossessioni e compulsioni rientrano nella stessa area clinica, perché hanno in comune il terrore (paura non sostenuta) come risposta nel corpo del bambino al fatto che il corpo genitoriale non sostiene l’emergere di vissuti di eccitazione ed energia. In particolare, nello stile fobico il blocco dell’energia avviene proprio nel momento in cui questa appare nel corpo, nello stile ossessivo e compulsivo-contenitivo nel momento in cui si tenta di controllare l’energia quando se ne sperimentano le prime sensazioni, nello stile compulsivoespulsivo quando sono già stati sperimentati in modo positivo i vissuti di eccitazione, ma essi sono stati valutati come distruttivi dal corpo genitoriale e quindi si cerca disperatamente di espellerli (Tav 3 in ingrandimento).

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SENTIRE Orientamento

AGIRE Azione

TRASGREDIRE Decisione

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3. Stile relazionale fobico La fobia viene descritta come paura immotivata e intensa di un oggetto o di uno spazio, percepiti irrealisticamente come pericolosi. Come vedremo più avanti, in effetti il soggetto non ha di per sé paura dell’oggetto (non teme tanto che gli faccia male), ma ha fobia delle sensazioni che esso gli provoca. La fobia riguarda, quindi, fondamentalmente, l’angoscia del sentire determinate emozioni che il corpo valuta insopportabili.

3.1. Premessa antropologica

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La paura di sentire emozioni è antropologicamente insita nel cuore umano. L’uomo si vanta del suo essere ‘animale razionale’, quasi a segnare con l’aggettivo ‘razionale’ il confine che lo nobilita separandolo dall’animale. Si ha paura che un’emozione possa destabilizzare equilibri già assestati nel proprio corpo e nelle proprie relazioni (l’etimo di ‘emozione’ – ex moveo – non rimanda alla spinta ad agire?). La paura delle sensazioni e delle emozioni è connessa con la paura del corpo e con gli impulsi negativi che possono venir fuori dal suo sfondo. Tuttavia, perché l’O. raggiunga l’integrità e la pienezza26 del proprio sviluppo, deve sperimentare e vivere tutte le emozioni, con la fiducia nella spontaneità e autoregolazione del corpo e della relazione27.

25 Ho premesso ad ogni disturbo una riflessione antropologica per evidenziare il senso antropologico (che coinvolge ogni esistenza) di ogni disturbo e per arricchire il ground del lavoro terapeutico. 26 Integrità e pienezza sono i due bisogni fondamentali dello sviluppo: la prima indica la sensazione della propria individualità (ho il senso della mia unicità nel mondo), la pienezza fa riferimento – direbbe Goodman – all’audacia per esprimere fino in fondo se stessi. Per un approfondimento del concetto di pienezza, cfr. anche G. Salonia (2008), La psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano. 27 G. Salonia, M. Spagnuolo Lobb, A. Sichera (1997), Postfazione, in F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman, Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit.

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La fobia riguarda fondamentalmente, l’angoscia del sentire determinate emozioni che il corpo valuta insopportabili


Anche a livello culturale siamo passati dalla filosofia del “capire” a quella del “sentire”28. L’esserci-nel-mondo si comprende nel ‘sentire’ la propria presenza nel mondo: il sentire, in altre parole, è la comprensione dell’A. che ci orienta e ci guida. Il sentire rimanda al corpo come luogo da cui parte una genuina umanizzazione della condizione umana. Tutto questo si apprende innanzitutto nella intercorporeità fra la figura genitoriale e il bambino. Quando il bambino, nel suo corpo che cresce, avverte la tensione del sentire, ovvero l’intensificarsi del ritmo respiratorio che dà forma alle emozioni, ha paura e cerca un corpo che lo accolga, un corpo che, attraverso il contenimento, dia al suo corpo il coraggio che lo rende integro. Se questo accade, il bambino imparerà ad avere fiducia nelle sensazioni corporee, nelle emozioni, e avrà appreso che esse portano alla pienezza relazionale e personale. Se il corpo del bambino non ‘trova’ il corpo dell’adulto (perché assente o impaurito), allora la paura normale delle proprie sensazioni si trasforma – come già descritto – in terrore, diventa fobia: si blocca il respiro che andava ad aprirsi, i muscoli si tendono e viene chiuso ogni varco all’energia emozionale. Nella fobia si ha una distorsione percettiva, per cui, onde evitare di sentire determinate emozioni, si connette detta sensazione (di cui si ha terrore) con un oggetto esterno (si sa, è più facile controllare il nemico esterno che quello interno). Goodman scrive: “Il nevrotico è convinto dell’evidenza sensoriale, laddove il sé che si concentra sente una lacuna dell’esperienza”29.

28 L. Feurbach (1994), La nuova filosofia si fonda sulla verità dell’amore, sulla verità delle sensazioni, in La filosofia dell’avvenire, Laterza, Bari, ed.or. 1843, 150; cfr. anche G. Bonaccorso (2006), Il corpo di Dio. Vita e senso della vita, Cittadella, Assisi. Alla conoscenza del mondo occorre sostituire il ‘sentire’ il mondo: cfr M. Merleau Ponty (2003), Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano,ed.or.1945. 29 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997), Teoria e pratica della Terapia della Gestalt, cit., 267; cfr. anche, sulla rigidità percettiva e correlati corporei, il testo di V. Ruggieri (2002), L’esperienza estetica. Fondamenti psicofisiologici per un’educazione estetica, Armando editore, Roma.

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Per la GT la cifra che, in ultima analisi, coglie l’intima essenza dello stile relazionale fobico sta nel fatto che evitando l’oggetto fobico il bambino protegge la relazione con la figura genitoriale, perché ha fatto la terribile esperienza che portare al confine di contatto quelle sensazioni destabilizzerebbe la relazione per lui fondamentale, in quanto creerebbe angoscia nell’adulto e lui farebbe sentire di nuovo il terrore dell’essere lasciato solo con le proprie paure. 3.2 Livello descrittivo Nello stile relazionale fobico il paziente si sente costretto ad evitare il contatto con determinati oggetti (animati od anche inanimati) o con precise condizioni ambientali (spazi ampi/ agorafobia o spazi ristretti/claustrofobia) per non avvertire sensazioni sgradevoli e insopportabili. Come dicevamo, nonostante il termine ‘fobia’ richiami la paura, il soggetto in realtà non teme un pericolo concreto (se, ad esempio, ha fobia delle cavallette non ha certamente la paura di essere divorato), ma sente come insopportabile le sensazioni che la vicinanza delle cavallette provoca nel suo corpo. Tali sensazioni sono percepite anche incombenti nella loro fissità (come una figura rigida che non si evolve in sfondo), per cui il soggetto ha bisogno di controllare minuziosamente ogni ambiente nuovo per assicurarsi che nel suo campo percettivo non sia presente (e non possa diventarlo) l’oggetto fobico. Come abbiamo visto, questo terrore è stato appreso in una relazione nella quale il paziente non è stato sostenuto nell’emergere dell’eccitazione del suo corpo. Senza una mano che dia contenimento, le sensazioni che dovrebbero condurre al contatto diventano pericolose e bloccano il cammino dell’intenzionalità relazionale. A questo punto, il bambino connette la sensazione interna insopportabile con un oggetto esterno più facile da controllare. Avviene così un intreccio circolare e interdipendente tra il restringimento del mondo esterno (dal quale vengono esclusi gli oggetti fobici) e il restringimento dello schema corporeo e delle relazioni del soggetto. Restringimento che diventa particolarmente rigido perché ha il compito immane di controllare la spinta ad andare nel mondo, dove si potrebbero incontrare gli oggetti fobici che lo abitano.

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Per la GT la cifra che coglie l’intima essenza dello stile relazionale fobico sta nel fatto che evitando l’oggetto fobico il bambino protegge la relazione con la figura genitoriale


La gravità del disturbo fobico è connessa con la parziale o totale compromissione della vita relazionale, professionale e sociale.

Una fobia di particolare gravità è quella da contagio, più arcaica rispetto alle altre che analizzeremo, in quanto si colloca nella primissima fase in cui si passa dall’introiezione all’energia/azione.

Per comprendere il mondo del paziente fobico è necessario tener presene che egli è contestualmente attratto e terrorizzato dall’oggetto fobico: le sensazioni che non vuole sentire – attraverso l’evitamento fobico – lo attraggono in modo irresistibile, in quanto appartengono alla sua identità e sono una sfida alla sua pienezza e alle sue relazioni. La gravità del disturbo fobico è connessa con la parziale o totale compromissione della vita relazionale, professionale e sociale. Le fobie si presentano in varie forme e a vari livelli di gravità (nevrosi e psicosi)30: fobie da contagio, fobie diffusive invalidanti, fobie monotematiche e fobie postraumatiche. Una fobia di particolare gravità è quella da contagio: paura che l’oggetto esterno – di cui si ha terrore – possa entrare dentro il corpo. Mentre quando la fobia riguarda un oggetto il pericolo sembra circoscritto e può essere tenuto fuori, nella fobia da contagio l’oggetto è impercettibile (pulviscolo, polvere, frammenti di vetro o di sporcizia) e difficilmente controllabile anche a livello visivo. Sapere che il materiale tossico è presente anche se sfugge alla vista diventa l’incubo del paziente, il quale si sente costretto ad evitare ogni luogo che abbia una possibilità anche minima di essere stato contagiato. La fobia di fondo è quella che un’emozione percepita come pericolosa possa attraversare la pelle ed entrare dentro il corpo senza che il soggetto se ne accorga e la possa fermare. È una paura più arcaica rispetto alle altre che analizzeremo, in quanto si colloca nella primissima fase in cui si passa dall’introiezione all’energia/azione. Questa paura si apprende spesso in una relazione primaria nella quale la figura genitoriale è fisicamente intrusiva. Una paziente mi ricordava dell’irritazione esplosiva che le suscitava il corpo della madre: quando iniziava ad abbracciarla, progressivamente il contatto corpo a corpo diventava asfissiante e anche doloroso a causa di morsetti che volevano essere d’affetto ma le facevano male e la infastidivano violentemente. Quando provava a sottrarsi, veniva accusata di essere fredda e di non volere bene.

30 Cfr. G. Salonia (2001), Disagio psichico e risorse relazionali, Quaderni di Gestalt, 32/33, 13-23. Rimando ad un prossimo lavoro l’approfondimento teorico e clinico dei disturbi gravi (psicosi).

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Nelle fobie diffusive, poiché le emozioni che si cerca di evitare premono nel corpo per essere consapevolizzate, non sarà sufficiente l’evitamento di un oggetto e si avrà bisogno di sceglierne sempre di nuovi, nell’illusione che sia possibile controllare il mondo interno attraverso il controllo del mondo esterno.

Le fobie monotematiche bloccano solamente il senso di pienezza del soggetto.

Se la persona cresce con la sensazione che i suoi confini anche corporei non siano delineati in modo deciso e controllabile e che l’ambiente possa in tanti modi forzarli, svilupperà facilmente una fobia da contagio. La mancanza di pelle, come perimetro che protegge, rimanda alla mancanza dei confini dell’io. Per tale ragione, spesso, le fobie da contagio diventano così pervasive da annullare la vita sociale del paziente. Nelle fasi acute diventa difficile anche il vivere a casa, per cui si evitano al massimo i contatti con l’esterno e si consumano tempo ed energie nell’estenuante (per sé e per gli altri) controllo e pulitura di eventuali contaminazioni/penetrazioni di ‘materiale tossico’. Se la fobia riguarda oggetti ben precisi che aumentano a macchia d’olio (si inizia con uno oggetto e poi a questo se ne aggiungono continuamente altri), parliamo di fobia diffusiva. Poiché le emozioni che si cerca di evitare premono nel corpo per essere consapevolizzate, non sarà sufficiente l’evitamento di un oggetto e si avrà bisogno di sceglierne sempre di nuovi, nell’illusione che sia possibile controllare il mondo interno attraverso il controllo del mondo esterno. Quando questo tipo di fobia diventa sempre più pervasiva, il soggetto progressivamente eviterà tutti gli oggetti che entrano nel campo percettivo, fino a rinchiudersi a casa in una regressione sempre più grave. Infatti – come abbiamo detto – l’essere umano non può diventare adulto senza sperimentare e vivere le emozioni necessarie per lo sviluppo e l’integrità della propria persona. Oltre a questa categoria di fobie (diffusive), esistono fobie ben circoscritte (monotematiche) che bloccano solamente il senso di pienezza del soggetto. Si tratta di soggetti che hanno un buon senso di integrità e di vita relazionale, professionale e sociale, ma non riescono a superare fobie di precisi oggetti o situazioni (ad es., la fobia dell’aereo e simili) che rimandano a qualche lieve blocco della crescita. Poiché l’oggetto rimane sempre lo stesso e non è presente in modo abituale nell’esistenza del soggetto, egli con accorgimenti tattici riesce ad evitarlo senza notevoli disagi. Nel momento in cui il soggetto viene attratto da un nuovo compito evolutivo (a livello affettivo o professionale) che lo costringe a fare i conti con l’oggetto fobico, prende in considerazione la concreta possibilità di ricorrere ad una psicoterapia per superare questo limite.

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Infine, le fobie post-traumatiche. Si parla di trauma quando il soggetto subisce una violenza imprevista e imprevedibile. L’essere stati colpiti a sorpresa senza essere pronti, e quindi in situazione di impotenza, rende drammaticamente negativa l’esperienza. Si sa che quando il soggetto non può esprimere attivamente se stesso nell’interazione con l’ambiente, vive una sensazione sgradevole che assume valenze ed intensità a seconda del significato dell’esperienza. È necessario elaborare tutta la complessità del trauma (e dei tanti vissuti da esso provocati) per ripristinare la distrutta spontaneità dell’O. Nelle fobie post-traumatiche il fulcro del disturbo è costituito da interrogativi e domande che cercano risposte: l’O. si chiede in prima battuta come mai sia successo; in seconda come potrà evitare che riaccada e si ritrovi vulnerabile; infine come mai nessuno fosse stato lì a proteggerlo31.

Nelle fobie posttraumatiche il fulcro del disturbo è costituito da interrogativi e domande che cercano risposte

4 Stile relazionale ossessivo Le ossessioni sono pensieri, impulsi o immagini a carattere invasivo e ripetitivo che si presentano alla mente non voluti, irrazionali e incontrollabili da parte dell’individuo. La loro funzione sembra essere quella di controllare l’energia e le sensazioni che il corpo inizia ad avvertire e di cui si impaurisce, perché le sente come incontenibili spinte ad azioni distruttive. È il rischio dell’agire che si vuole controllare: l’azione, infatti, è rischiosa perché si può sbagliare, si può fare del male, e rende responsabili in prima persona. L’azione è, in ultima analisi, il luogo in cui l’unicità della persona si esprime in modo irreversibile, diventa visibile al mondo intero e traccia le linee dell’identità32.

31 Può accadere che un trauma slatentizzi nodi problematici del soggetto, per cui si può passare da fobie postraumatiche a fobie da contagio. 32 Riflessioni al riguardo in L. Saraceno (2007), La vertigine della libertà. L’angoscia di Soren Kierkegaard, Giunti ed., Firenze.

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La loro funzione sembra essere quella di controllare l’energia e le sensazioni che il corpo inizia ad avvertire e di cui si impaurisce perché le sente come incontenibili spinte ad azioni distruttive


4.1 Premessa antropologica: l’angoscia dell’agire

Quando Goethe scrive nel Faust “In principio era l’azione”, intuisce la necessità di un capovolgimento di paradigma: vedere l’azione come costitutiva dell’identità e fonte generatrice di pensieri e di identità

L’azione può accadere senza essere preceduta da pensieri e – ciò nonostante, o appunto per questo – risultare geniale ed artistica. Nell’azione sperimentiamo in modo corposo la nostra unicità e la nostra creatività.

Quando il bambino comincia ad essere consapevole dell’eccitazione e dell’energia nel suo corpo (si modifica il ritmo respiratorio, si sente muovere vero l’azione), ha paura e voglia di muoversi, ma se il corpo genitoriale che gli sta accanto è anch’esso impaurito, al bambino arriva una sensazione di pericolo imminente. Questo meccanismo di cui abbiamo già parlato, in realtà, non deriva solo da una difficoltà individuale della figura genitoriale nel ‘sostenere’ l’azione verso cui il bambino si dirige, ma ha radici culturali. Veniamo, infatti, da un contesto sociale nel quale l’azione era percepita come pericolosa, per cui doveva seguire il pensiero. Era considerata, infatti, una mera conseguenza del pensiero: l’importante era pensare, l’agire veniva dopo come sua emanazione. Si attribuiva al pensiero anche la funzione di preparare il più cautamente possibile l’azione. L’azione veniva interpretata come luogo di molti rischi: l’irreversibilità (dopo che è compiuta si può rinnegare, ma non cancellare del tutto), la pericolosità (se ci si lascia andare senza controllo all’azione si rischia di sbagliare, di far male), il limite (se agisco mi definisco e sono esposto al giudizio: io sarò colui che ha fatto ‘quella’ azione), la responsabilità (“Chi è stato?” è la domanda che l’uomo teme di sentirsi rivolgere, sicché frasi del tipo “Sono stato io!” o “Sei stato tu!” possono caricarsi di valenza drammatica e risuonare quasi come condanna senz’appello). Quando Goethe scrive nel Faust “In principio era l’azione”33, intuisce la necessità di un capovolgimento di paradigma: vedere l’azione come costitutiva dell’identità e fonte generatrice di pensieri e di identità. Merleau-Ponty34 sottolinea come l’azione abbia una valenza originale e originaria rispetto al pensiero. L’azione può accadere senza essere preceduta da pensieri e – ciò nonostante, o appunto per questo – risultare geniale ed artistica. Nell’azione sperimentiamo in modo corposo la nostra unicità e la nostra creatività. L’uomo non

33 J. W. Goethe (1997), Faust, Mondadori, Milano, ed.or.1831. 34 M. Merleau-Ponty (1979), Il corpo vissuto, a cura di F. Fergnani, Il Saggiatore, Milano.

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ha la misura di se stesso solo nell’ “io penso”, ma include come intimo elemento della propria identità l’ “io posso”. Il bambino che riesce per la prima volta a prendere un oggetto, a camminare, avverte un cambiamento decisivo nella definizione di sé. Definizione che non deve essere preceduta dalla consapevolezza: anzi, a volte, sarà solo l’azione a renderci consapevoli di alcuni vissuti e a chiudere delle esperienze incomplete (Gestalt aperte). Parliamo – è bene precisarlo – dell’azione che prende forma proprio nell’esperienza di contattare il mondo diventando storia: una storia, direbbe Gadamer, che si costruisce assieme e che non esisteva prima di essere agita. Questa azione – quella giusta – genera vissuti corporei e pensieri positivi su di sé, sugli altri, sul mondo, sulla vita35.

L’azione che prende forma proprio nell’esperienza di contattare il mondo diventando storia genera vissuti corporei e pensieri positivi su di sé, sugli altri, sul mondo, sulla vita

4.2 Livello clinico Partiamo dalla consapevolezza che attraverso i pensieri ossessivi il paziente adesso, in maniera disfunzionale e dolorosa, si prende cura di sé. Il controllo eccessivo che esso esercita è dovuto alla eccessiva mancanza di cura da parte delle figure genitoriali. Poiché dall’assenza del controllo spontaneo evolutivo delle figure genitoriali non ha imparato l’intimo controllo spontaneo, il paziente tenta in tutti i modi attraverso i pensieri ossessivi di tenere sotto controllo quelle energie emozionali che considera pericolose. Per F. Perls i pensieri ossessivi rappresentano un succhiotto36:

35 Laborit, nei suoi studi sulla SIA (sintomi inibizione azione), ha dimostrato che il blocco dell’azione è all’origine dello star male psichico e relazionale. Cfr. H. Laborit (1990), Elogio della fuga, Mondadori, Milano. 36 “Il succhiotto permette lo scarico di una certa dose di aggressività, ma, a parte ciò, non produce nessun cambiamento nel bambino, cioè non lo nutre”… “Non c’è niente che non possa servire come succhiotto per aiutarci ad evitare i cambiamenti nella realtà. Prendiamo, ad esempio, i pensieri ossessivi, che possono durare per ore e ore, tenendo il paziente occupato senza portarlo ad una decisione o ad una conclusione”: F. Perls (1995), L’io, la fame e l’aggressività, cit., 146-147.

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Attraverso i pensieri ossessivi il paziente adesso, in maniera disfunzionale e dolorosa, si prende cura di sé.


I pensieri ossessivi, pur avendo forme diverse, hanno come caratteristica comune l’indecisione, che esprime (quasi rende visibile) il dramma interiore-relazionale: “Mi lascio o non mi lascio andare alle emozioni nella relazione?”.

L’O. si apre e si chiude rispetto all’emozione che lo attrae e lo terrorizza, in un’altalena asfissiante.

un attaccarsi per non agire, per non rischiare di provocare un cambiamento delle relazioni. Lo stile relazionale ossessivo, infatti, si sviluppa in una fase evolutiva più avanzata rispetto alla modalità fobica. La paura – che non sostenuta è diventata terrore – emerge nel corpo del bambino quando le emozioni iniziano ad essere avvertite e spingono all’azione. È come se il bambino avesse ricevuto il primo sostegno nel sentire i vissuti, ma poi gli è mancato un sostegno nel lasciarsi andare al fluire delle emozioni. Adesso il corpo del bambino sente l’energia, ma non si fida e tenta in modo disperato di tenerla sotto controllo. Mentre il corpo (lo schema corporeo) del fobico è come se fosse rimpicciolito, il corpo dell’ossessivo è tesissimo, essendo egli continuamente impegnato in modo drammatico nel compito immane di controllare le energie che avverte. I pensieri ossessivi, pur avendo forme diverse, hanno come caratteristica comune l’indecisione, che esprime (quasi rende visibile) il dramma interiore-relazionale: “Mi lascio o non mi lascio andare alle emozioni nella relazione?”. Le indecisioni concernono alcune tematiche di fondo: la sicurezza/insicurezza (“Ho spento/non ho spento il gas”, “Ho chiuso/non ho chiuso la porta”), la salute (“Ho il cancro/non ho il cancro”), la colpa (“Sono/non sono responsabile”), la perfezione (“Sbaglio/non sbaglio”). Tale indecisione chiaramente ripropone il processo dell’O. che si apre e si chiude rispetto all’emozione che lo attrae e lo terrorizza, in un’altalena asfissiante. Né l’energia che si consuma nell’indecisione e nella tortura dei pensieri ossessivi si placa, dato che, in effetti, non raggiunge lo scopo. I pensieri ossessivi si distinguono in ego sintonici, quando il soggetto ne intende le ragioni, sente che sono propri (deve sapere se ha chiuso il gas o no, deve decidere se imbucare la lettera che ha scritto); o ego distonici, avvertiti come estranei, provenienti dall’esterno (per esempio: bestemmie non volute, immagini di aggressività, parolacce e quant’altro). Questi ultimi spesso rimandano ad una rabbia furiosa, perché connessi all’aggressività orale nella sua terribile declinazione ambivalente: avvertire rabbia contro la persona da cui si dipende e, proprio per questo, non poterla esprimere. Geniale la soluzione di questa ambivalenza inventata da Letizia, la figlia di sette anni di una ex paziente con stile relazionale ossessivo: “Mamma – dice fu-

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riosa – devi morire, ma non subito: tra cinque minuti”. Se il bambino non è sostenuto e non trova una soluzione, un’angoscia di morte lo travolge; morte propria, ma anche morte delle persone care indispensabili. Da tali sfondi emergono pensieri – a volte fantasie – ego distonici che hanno temi e immagini di violenza, spesso intensa (pensieri ossessivi di azioni contro i propri cari, vedere teste che rotolano, e immagini simili). Come accennato, la paura di fondo è quella del separarsi, dell’avere emozioni proprie: il diventare unici come rischio di morte. È – in questi senso – interessante notare come il disturbo aggredisca proprio il pensiero, che è il luogo e l’inizio della separazione e della differenziazione. Anche in questo caso siamo di fronte ad un’armonia – sapiente e paradossale – dell’autoregolazione organismica e relazionale: nasce il pensiero, ma non potendo condurre alla differenziazione, si blocca il regressivo attaccamene all’altro.

La paura di fondo è quella del separarsi, dell’avere emozioni proprie: il diventare unici come rischio di morte.

Nasce il pensiero, ma non potendo condurre alla differenziazione, si blocca il regressivo attaccamene all’altro.

5. Stile relazionale compulsivo Le azioni compulsive sono azioni che il paziente si sente costretto a compiere sotto la spinta di un’ irresistibile coazione interna per placare l’eccessiva tensione (pensa che se non compie quella determinata azione precipiterà nel terrore e potrà accadere qualcosa di terribile). Le compulsioni contenitive vanno distinte da quelle espulsive (che vedremo più avanti) e che riguardano specificatamente gesti di purificazione che non hanno, invece, scopi di contenimento. La frequenza di un’azione compulsiva è variabile: da un ritmo periodico (che crea qualche difficoltà) ad un ritmo così intenso da rendere impossibile la vita sociale e personale.

5.1 Azioni compulsive contenitive Nella compulsione contenitiva la persona compie dei gesti che servono a placare la tensione dovuta alla sensazione che l’energia avvertita sia insostenibile. A differenza di quello che avviene nei pensieri ossessivi – che cercano di controllare le emozioni e che, con i penseri evitano l’azione – i gesti conte-

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Le azioni compulsive sono azioni che il paziente si sente costretto a compiere sotto la spinta di un’ irresistibile coazione interna per placare l’eccessiva tensione


nitivi hanno lo scopo preciso di placare la tensione diventata insopportabile.

5.1.1 Livello antropologico

Si compie un gesto rituale per non compiere il gesto di contatto percepito come pericoloso

A livello antropologico il rito è un gesto socializzato che ha il compito di regolare i rapporti sociali: nella sua regolarità e prevedibilità, è una sintesi veloce e leggera del fatto che la relazione tra le persone è rimasta pacifica e non è stata intaccata da eventi o pensieri negativi contro l’altro. Quando incontrando una persona non viene rispettato o viene modificato il rito, si manda all’altro il messaggio chiaro che si vuole cambiare (in positivo o in negativo) la prossemica relazionale (avvicinarsi o allontanarsi). Parliamo di rituale quando la persona non si sente più libera di scegliere se compiere o no un gesto, ma si sente costretta a compierlo per fare abbassare il livello di ansia. Anche qui, come nel pensiero, si ha un’armonia paradossale: la persona ha paura di agire per il rischio che l’azione comporta ed ecco che, bloccando l’azione ‘giusta’ che porterebbe al contatto, l’O. si inventa un’azione rituale che ha lo scopo di scaricare la tensione del non agire. Si compie un gesto rituale per non compiere il gesto di contatto percepito come pericoloso.

5.1.2. Livello clinico Partiamo da un esempio. Una paziente aveva una paura tremenda di buttar via, insieme ai rifiuti, delle cose preziose. Non buttava quindi mai l’immondizia, ma la ammonticchiava in una stanza, sapendo che l’avrebbe controllata: aveva così l’immagine che la spazzatura non era buttata, ma controllata in attesa di ritrovare eventuali oggetti preziosi. Tale gesto – si chiarì dopo – aveva il senso di controllare la sua paura che, lasciandosi andare all’aggressività, perdesse delle cose (dei legami) per lei importanti. Dentro lo stesso campo fenomenologico (contenere le emozioni percepite come incontrollabili) ma con sfumature differenti, si possono porre i rituali, i tic e le balbuzie.

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I rituali – come dicevamo – sono ripetizioni di uno stesso gesto codificato (per es., se non conto tre volte non posso chiudere la porta) finalizzate a controllare un’emozione avvertita come pericolosa e incontrollabile. Ripetuti sempre nello stesso modo, diventano così una sorta di struttura che contiene l’energia e sono sostenuti da un pensiero magico: “Se faccio questo gesto riuscirò a controllare i miei impulsi, cioè non succederà niente di male”. È l’opposto della fiducia nella spontaneità dell’O. Sono gesti idiografici, percepiti come obbligatori (rituali anancastici). Una ragazzina non riusciva ad addormentarsi se prima non disponeva le scarpe una verso la porta e una verso il letto: in questo modo placava la voglia e la paura di scappare da casa. Essi si differenziano dalle stereotipie – gesti idiografico-relazionali – che servono a creare un cordone di sicurezza nell’esperienza psicotica della relazione. I tic – quando non hanno una base organica – sono comportamenti riflessi con caratteristica di ripetitività e rappresentano una sorta di scarica corporea di una tensione che diventa insopportabile a livello corporeo. Tema di fondo che si ritrova spesso nei tic è l’impossibilità di esprimere il disaccordo nell’ambiente familiare. Nonostante siano percepiti come qualcosa di atemporale e aspaziale, ad un’attenzione accurata (microanalisi) ci si accorge che sono connessi ad un impennarsi di tensione emotiva nel clima familiare. In una seduta familiare i genitori parlavano dei tic del figlio – presente! – che non riuscivano a capire. Fu interessante notare che i tic venivano fuori ogni volta che ricorreva una parola precisa che essi usavano nei confronti del figlio. Anche il tic ha una forma creativa che narra della trama relazionale nella quale emerge. Evitando interpretazioni (veloci e imposte), diventa interessante risalire – sempre accompagnati dal consenso e dalla verifica della persona – dal tic fino alla storia che esso in forma poetica sintetizza. Nella balbuzie si ha il terrore di esprimere un pensiero diverso o aggressivo nei confronti di qualche familiare che si teme. La persona sente la spinta ad esprimersi, ma sente anche forte il blocco. Dal punto di vista corporeo, il cortocircuito della balbuzie è causato dal fatto che da una parte il corpo è impaurito e bloccato in un’inspirazione cronica, dall’altra

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Tema di fondo che si ritrova spesso nei tic è l’impossibilità di esprimere il disaccordo nell’ambiente familiare

Nella balbuzie si ha il terrore di esprimere un pensiero diverso o aggressivo nei confronti di qualche familiare che si teme


per parlare deve espirare: balbettare è il risultato del tentativo ostinato di espirare rompendo lo spasmo dell’inspirazione (un compromesso tra il dire e il non dire). Che si tratti di un blocco nell’espressione della propria unicità (in termine di avere un proprio pensiero o la propria rabbia), è evidente nel fatto che chi balbetta riesce bene a cantare in un coro o anche da solo, perché in questo modo non esprime la propria unicità ma ritorna in confluenza con un ‘noi’ da cui non si è differenziato.

5.2. Azioni compulsive espulsive

5.2.1 Livello antropologico : angoscia del trasgredire

L’angoscia di fondo è quella di essere abbandonati o puniti perché si è trasgredito un divieto

Mentre nella fobia il terrore di fondo è quello di essere travolti dalle sensazioni, nei pensieri ossessivi e nelle coazioni contenitive quello di tenere sotto controllo le emozioni che spingono all’azione, nelle coazioni espulsive il soggetto ha fatto già una certa esperienza delle emozioni nel suo corpo, ma è stato angosciato (sul versante della colpa o del terrore) dalle reazioni corporee delle figure genitoriali, per cui tenta in modo agitato di liberarsi della colpa con gesti che, essendo inefficaci, non lo placano e si ripetono senza fine. Avvertire le emozioni (in particolare quelle legate all’aggressività e alla sessualità) ha provocato reazioni di panico, di tensione o di allontanamento nei corpi delle figure genitoriali, per cui il bambino sente un oscuro terrore come se avesse fatto qualcosa di terribile ‘contro’ i genitori. L’angoscia di fondo è quella di essere abbandonati o puniti perché si è trasgredito un divieto. Perls aveva intuito che il senso di colpa è legato alla paura di uscire dalla confluenza e l’indurre il senso di colpa è un modo per impedire al bambino di differenziarsi. Frasi del tipo: “Sei cattiva!”, “Queste cose non si fanno alla mamma”, “Non vuoi bene alla mamma se fai questo”, “Certe cose neppure si pensano” comunicano al corpo del bambino (già ad iniziare dal tono di voce!) il terrore della punizione e dell’abbandono come reazione ad una colpa di cui lui non è consapevole. Ma la spinta alla propria unicità preme nel corpo del soggetto, per cui egli torna ad aprirsi alle emozioni, a trasgredire, e torna – ancora

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una volta – a tentare di purificarsi, in un andare e venire che esaspera il suo corpo e quello degli altri. Per lavorare in modo chiaro con pazienti che hanno uno stile compulsivo-espulsivo, è utile ricordare i diversi sensi in cui può essere intesa la colpa. Quella nevrotica (senso di colpa) nasce dall’angoscia di lasciare la confluenza, che si declina come paura della solitudine e dell’unicità, come terrore di eventuali rappresaglie da parte di chi si è abbandonato; il sentirsi colpevoli di fronte ad un errore commesso è invece sano ed esprime senso di responsabilità (anzi, è necessario ribadire che per crescere in modo integro e pieno bisogna accettare tale rischio: gli umani possono sbagliare, possono trasgredire e produrre sofferenza negli altri). È segno di integrità, in tale evenienza, riconoscere con umiltà e dignità lo sbaglio compiuto o il dolore arrecato. Una paziente raccontava di non riuscire a non tradire il marito e, nello stesso tempo, non riusciva ad assumersene la responsabilità: si diceva che questo non sarebbe dovuto accadere a lei e torturava (se stessa e gli altri) con gesti compulsivi espulsivi (lavare continuamente biancheria) per espellere il desiderio di tradire e il tradimento stesso. È necessario tener presente che anche il separarsi in modo sano produce sofferenza (la solitudine di chi se ne va e il dolore di chi è lasciato). La nascita – come ha intuito Rank37 – è metafora del sano separarsi: travaglio per chi nasce e per chi partorisce. Egli parla di una colpa antropologica – il debito (in tedesco colpa è Schuld, che significa colpa e debito) – contratta proprio negli inizi: ogni uomo è debitore sia nei confronti di chi ha rischiato la vita per dargli la vita, sia della comunità che lo ha fatto crescere. Attraversare questa colpa sana è necessario per diventare unici, artisti della propria vita. Si espia tale colpa antropologica quando si ritorna alla comunità non più in un modello relazionale fuso, ma consegnando alla comunità il proprio unico e irripetibile contributo.

37 O. Rank (1990), Il trauma della nascita, Sugarco ed., Milano, ed.or. 1924.

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5.2.2 Livello clinico

Scopo del gesto compulsivo espulsivo è voler espellere dal proprio corpo un’esperienza diventata insopportabile

È un dramma più inquietante di quello di Macbeth: la colpa può essere assunta e, in seguito, perdonata od espiata, ma il sentirsi in colpa nevrotico non ha via di uscita

Nella compulsione espulsiva, come abbiamo visto, si compiono gesti che sembrano rispondere ad uno scopo preciso (lavare i denti, le mani, ecc), ma che in realtà vengono attuati per placare l’angoscia. Mentre il rituale è preciso e placante (lavare le mani tre volte), la compulsione espulsiva non ha tempo e numeri come perimetro e può prolungarsi fino a rendere esausti. Scopo del gesto compulsivo espulsivo è voler espellere dal proprio corpo un’esperienza diventata insopportabile, una sensazione corporea aggressiva o sessuale che il corpo ha avvertito con interesse ma che ha provocato uno sconvolgimento nel corpo dei genitori. Il soggetto teme di essere punito o abbandonato per aver provato l’eccitazione e, per non essere ‘buttato fuori’ dalla relazione, inizia il vano tentativo di ‘buttare fuori’ dal proprio corpo l’esperienza e il bisogno. Lo fa con un gesto che vorrebbe poter espellere, ma non ha esito perché altri sono i percorsi della consapevolezza. È un dramma più inquietante di quello di Macbeth: la colpa può essere assunta e, in seguito, perdonata od espiata, ma il sentirsi in colpa nevrotico non ha via di uscita. Diventa gesto tragicamente inutile ostinarsi a purificarsi le mani da parte di chi, non avendo compiuto alcun delitto, si sente nonostante tutto in colpa. Ma ogni sintomo ha una sua dolorante logica. Poiché l’energia non può essere espulsa, il gesto compulsivo, in modo paradossale e indiretto, ottiene quello che nega di voler ottenere: tiene legati a sé gli altri (da cui non ci si separa), ma esasperandoli in modo perverso. Maria quando inizia a lavarsi i denti porta avanti questo gesto per mezz’ora e a volte anche più. Se la famiglia deve uscire con lei, è sufficiente che lei dica “Scusate, devo prima lavarmi i denti” per annullare ogni progetto familiare. Il sintomo, infatti, può diventare invalidante sia a livello personale che familiare. La forza quasi violenta con cui il soggetto compie il gesto espulsivo dice anche la rabbia che egli prova per doversi privare di una parte di sé (dichiarata insopportabile per la relazione, e quindi per il suo corpo).

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6. Il lavoro terapeutico con stili relazionali FOC Il primo passo a livello terapeutico – come sappiamo – è quello di collocare la richiesta di aiuto all’interno del Ciclo Vitale personale o familiare38. Anche quando il malessere dura da anni, va rivolta l’attenzione al momento in cui il soggetto chiede aiuto perché è allora che il disturbo, da tempo sopportato, è diventato insopportabile per il profilarsi di un nuovo compito evolutivo. Il ‘verso dove’ l’O. sta andando (il ‘dove andare’ a livello evolutivo) è sempre il filo di Arianna di un lavoro terapeutico. Si rivela molto utile (al paziente e al terapeuta) iniziare con due o tre sedute familiari39 prima del lavoro personale, in modo da entrare (sia il terapeuta che il paziente) nello sfondo in cui si è formato lo stile relazionale FOC. Anche se – come comprensibile – i membri della famiglia tenteranno sempre di riportare il tema del discorso sul disagio del ‘paziente designato’ (PD), nella seduta si renderanno visibili le modalità relazioni della famiglia e, in modo specifico, quelle della coppia genitoriale nei confronti dei figli e, in particolare, del soggetto che soffre di FOC. Decidere se continuare con sedute familiari o lavorare con il paziente e rivedere la famiglia dopo tempo è una scelta delicata, che deve tenere conto del rischio di stigmatizzare come PD il soggetto che soffre il disturbo FOC. Quando possibile, si rivela molto utile suggerire alla coppia genitoriale di intraprendere un percorso terapeutico parallelo, per non ostacolare – in modo inconsapevole – il percorso del figlio. Se chi sta male è invece un genitore, allora si convoca la famiglia attuale. Nella seduta si avrà una visione circolare di come il sintomo coinvolga non solo il partner (che diventa, spesso, un care giver) ma anche i figli. Il lavoro terapeutico sarà continuato o individualmente con colui che soffre o in coppia. Un’attenzio-

38 Cfr. G. Salonia (1987), Il lavoro Gestaltico con le coppie e le famiglie: il ciclo vitale e l’integrazione delle polarità”, Quaderni di Gestalt, 4, 131-142; G. Salonia (1986), La Consapevolezza nella teoria e nella pratica della Psicoterapia della Gestalt, cit. 39 Su GT e terapia familiare, cfr. G. Salonia (2009), Letter to a young Gestalt therapist for a Gestalt therapy approach to family therapy, The British Gestalt Journal, 18, 2.

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ne particolare – quando portatore di un sintomo è un genitore – va data all’eventuale disturbo della funzione personalità: chi ha un sintomo FOC ha la tendenza a dismettere la funzione genitoriale, creando un disagio relazionale notevole per i figli, che possono diventare marginali (a volte anche per la coppia), vista l’intensità e la pervasività del sintomo. Si rivela controproducente curare la sofferenza FOC di un genitore senza lavorare sulla funzione genitoriale. Non tanto (è ovvio) per accrescere delle responsabilità, bensì piuttosto come risorsa per la terapia e in vista del prendersi cura dei figli. Obiettivo a lungo termine della terapia è il riappropriarsi dell’energia da cui si è terrorizzati, per poter così raggiungere l’altro, realizzando contatti pieni e nutrienti. Si dice che i pazienti FOC mettono alla prova la pazienza del terapeuta. In effetti fobie, ossessioni e compulsioni sono sintomi molto resistenti e ripetitivi, per cui la terapia non è facile né semplice. Il paziente si attacca al sintomo, qualunque esso sia (fobia, ossessioni, compulsioni), con la stessa ostinata e inflessibile forza di colui che, per non precipitare nel baratro, si attacca alla corda che lo salva. Chiedere ad un paziente FOC di fidarsi delle parole rassicuranti che gli si dicono è come se, ad una persona che ha sotto di sé il burrone, si dicesse “Molla la corda!”. Il sintomo, lo sappiamo, sostituisce la mancanza delle figure genitoriali, per cui il paziente ha detto a se stesso: “Se non mi prendo io cura di me, nessuno se ne curerà”. “Come posso fidarmi di lei – mi dice una paziente – se i miei genitori, pur volendomi bene, hanno fatto degli errori? Come posso fidarmi che lei non sbaglierà con me?”. Compito del terapeuta è creare un clima di fiducia, nel quale egli stia con il tormento del paziente e man mano diventi visibile al paziente (all’inizio, infatti, il terapeuta per il paziente è solo una protesi: chi si tiene attaccato alla corda non vede nessuno). In ogni caso, in tutti e tre gli stili relazionali, sarà necessario molto tempo per creare questo clima di fiducia, vista l’esperienza terribile vissuta dal paziente. Aiuta il lavoro del terapeuta la certezza che il paziente non ha solo paura, ma è anche attratto da quell’emozione che (attraverso l’oggetto fobico, i pensieri ossessivi e le compulsioni) cerca di tenere a bada. Il terrore copre, infatti, vissuti che appartengono al paziente e di cui egli ha bisogno per sentire la

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Obiettivo a lungo termine della terapia è il riappropriarsi dell’energia da cui si è terrorizzati, per poter così raggiungere l’altro, realizzando contatti pieni e nutrienti.


propria integrità e pienezza: come si potrebbe sperimentare e vivere la pienezza dell’essere umani senza aggressività e unicità, senza sessualità e legame interdipendente?. I pazienti tenteranno per tutta la seduta (e dopo) di non parlare di altro che delle loro fobie o ossessioni. Si può dire, in modo semplice, che il miglioramento di tali pazienti può essere misurato anche da quanto tempo in terapia parlano di altri temi. Ricordo una paziente che, quando ormai stava migliorando e parlava di altri temi della sua vita, mi chiedeva con un sorriso connivente: “Prima di finire, per cinque minuti possiamo parlare dei miei pensieri?”. Diceva Brecht che anche da guariti si continua a guardare con amore e con un po’ di nostalgia la stampella che in altri tempi ci ha aiutato a camminare… Consapevole – come ci ricordano Perls e Goodman – che il “nevrotico ha perso il contatto con lo sfondo della personalità, e rimane consapevole soltanto del sintomo”40, il terapeuta cercherà di ripristinare nel paziente il recupero dello sfondo, la trama relazionale che il sintomo racchiude. Risulta efficace, in questa direzione, l’invito al paziente di collocare il sintomo in un contesto, iniziando a stilare una sorta di ‘gerarchia’ dell’intensità durante la giornata: così si passerà dalla percezione del disturbo come evento atemporale e aspaziale (“Mi capita”) alla consapevolezza che il sintomo è connesso con situazioni di tensione a livello relazionale (“Adesso che ci penso, sto peggio quando lei/lui dice…”, “Quando sto solo…”). A poco a poco emergerà così l’interruzione del contatto su cui si è innestato il sintomo. Durante la seduta il paziente continua a chiedere: “Ma siamo sicuri che ho chiuso la macchina?”. Sembra che la domanda giri a vuoto e venga ripetuta casualmente, ma, se si presta attenzione (microanalisi), ci si accorge come essa ritorni più insistente proprio mentre il paziente sta parlando con il terapeuta di un tema di particolare difficoltà. Nel compito di ridare sfondo relazionale al sintomo, diventano illuminanti domande del tipo: “Come cambierebbero i rapporti con le persone significative (con me terapeuta!) se lei non avesse più la fobia, i pensieri ossessivi, i sensi di colpa, il bisogno di compiere gesti compulsivi?”.

40 F. Perls, R. Hefferline, P. Goodman (1997), cit., 359

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In tutte e tre queste patologie, lo abbiamo detto, il vissuto corporeo relazionale è il terrore: terrore di sentire l’energia attivata nel corpo, terrore dell’azione che porta all’emozione, terrore di separasi e trasgredire. Il terrore è un’esperienza che paralizza il corpo e, nella fattispecie, irrigidisce il paziente creando schemi corporei rigidi: il corpo del fobico è ‘rimpicciolito’ (non accoglie alcune emozioni), quello dell’ossessivo è teso, ed in particolare con gli sfinteri contratti, il corpo del compulsivo è agitato. Il lavoro sul corpo sarà sempre dentro la consapevolezza dell’intercorporeità tra i corpi del paziente e del terapeuta.

6.1. Lo stile relazionale fobico Le fobie da contagio rimandano ad una situazione arcaica in cui al bambino è stato impedito dall’invadenza della figura genitoriale di avere la pelle come confine di contatto tale da segnare la frontiera tra il mondo proprio e il mondo esterno. La fobia di essere contagiati riguarda, come dicevamo, elementi impalpabili e poco controllabili (polverine, frammenti di sporcizia). In questi casi la seduta familiare permette di individuare quali aree dell’O. sono state maggiormente invase. Compito della terapia sarà quello di aiutare la persona a comprendere quali specifiche emozioni ha difficoltà a sentire dentro la sua pelle e a non vivere come contagiate dall’A. Il lavoro terapeutico verterà su due versanti: la definizione dei confini della pelle e il riconoscimento delle emozioni che si temono. Per individuare tali vissuti che creano fobia, può essere utile esplorare le fantasie catastrofiche (“Cosa succede se entri in contatto con questa polverina che temi ti possa contagiare?”, “Come sai che contagia?”, “Cosa stavi facendo quando ti sei accorto per la prima volta della polverina?”). Nello stesso tempo, se sorretti dalla crescente fiducia nei confronti del terapeuta, si cercherà di dare sostegno al corpo del paziente nel confrontarsi progressivamente con i vissuti temuti. Il lavoro con il corpo del fobico da contagio punterà sul risentire i confini corporei come propri e invalicabili. Le fobie diffusive e quelle monotematiche rimandano – come accennato – a due diversi livelli di crescita: l’integrità e la

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il corpo del fobico è ‘rimpicciolito’, quello dell’ossessivo è teso, il corpo del compulsivo è agitato.

Il lavoro sul corpo sarà sempre dentro la consapevolezza dell’intercorporeità tra i corpi del paziente e del terapeuta.

Il lavoro terapeutico verterà su due versanti: la definizione dei confini della pelle e il riconoscimento delle emozioni che si temono


Il passaggio dall’oggetto fobico al vissuto permette al corpo del paziente – sostenuto dal corpo e dalla relazione del terapeuta – di consapevolizzare e riuscire a contenere l’eccitazione e l’energia che evita.

pienezza. Le prime riguardano l’integrità, mentre quelle monotematiche rimandano alla pienezza. Le diffusive sono gravi perché interferiscono con la vita sociale, mentre quelle monotematiche sono marginali nella vita del soggetto e gli riducono lievemente la libertà nell’andare nel mondo. Dal punto di vista metodologico, l’avvicinare (anche nella fantasia) l’oggetto fobico al paziente, in GT ha lo scopo di far prendere consapevolezza del vissuto corporeo e relazionale che l’oggetto evoca. Nel caso, ad esempio, di un paziente che ha fobia dei topi, gli si chiede da una parte di immaginare la presenza del topo e, dall’altra, di sentire cosa avviene nel suo corpo. Il passaggio dall’oggetto fobico al vissuto permette al corpo del paziente – sostenuto dal corpo e dalla relazione del terapeuta – di consapevolizzare e riuscire a contenere l’eccitazione e l’energia che evita. Particolarmente utile si rivelano le domande che permettono al paziente di avere una percezione più accurata delle chiusure e delle tensioni del proprio corpo (funzione-es del sé): “Cosa cambia nel tuo corpo alla vista dell’oggetto? In quali parti senti che si chiude? Se senti la mia vicinanza e il mio sostegno, quale parte del tuo corpo si rilassa e si apre?”. Altre domande aprono la dimensione relazionale: “In che modo saresti diverso nella tua vita se non avessi la fobia? E come e cosa cambieresti nelle tue relazioni a casa, a lavoro, con me terapeuta?”. La domanda “Cosa succederebbe se non potessi evitare l’incontro con l’oggetto fobico?” serve ad esplorare le fantasie catastrofiche, ma anche a far prendere contatto con potenzialità che abitualmente rimangono nello sfondo. Alcune tecniche ed esperimenti gestaltici. Con i ragazzi (e non solo) si rivela molto utile la metafora dell’accostarsi all’oggetto fobico con la ‘bacchetta magica’, in quanto rimando alla forza e al potere che l’O. ha difficoltà a sperimentare. Si tratta, in ultima analisi, di ripristinare nel paziente la fiducia in se stesso attraverso il suo fidarsi del terapeuta. Può essere anche utile, per le fobie di animali, chiedere alla persona di identificarsi con l’animale e di compiere i gesti tipici dell’animale di cui si ha paura: la fobia è fobia di ciò che non faccio, non esprimo. Spesso proprio nella descrizione dell’oggetto fobico (“invadente, schifoso, viscido…”) il paziente esprime i vissuti di cui ha paura. Lavorare sulle fobie permet-

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te all’O. di sentire le emozioni che lo spingono ad incontrare l’altro e a sperimentare la spontaneità e la pienezza dell’incontro e del proprio mondo. Si rivela inoltre efficace il dialogo con l’oggetto fobico (in particolare quando si lavora con fobie monotematiche). Famoso, nella storia della GT, il lavoro di F. Perls con una persona che aveva fobia dell’aereo, in cui chiese al soggetto in questione di immaginare di parlare con il comandante, così da fargli prendere consapevolezza del terrore che aveva di affidarsi a qualcuno. Lucia ha la fobia dei topi. Dopo averle chiesto di descrivere a lungo il topo di cui ha fobia (dimensioni, caratteristiche, ecc), le chiedo di concentrarsi per sentire quali emozioni questa descrizione le suscita. La sua paura è dovuta al fatto che i topi si possono – dice lei – infilare dappertutto. Avendo ormai conquistato una buona consapevolezza, ad un certo momento ricorda un episodio di quando era piccola: ha due anni e si trova con alcuni familiari vari in una stanza, ad un tratto tutti cominciano ad agitarsi, le voci diventano tese e acute perché si è scoperto che il ciripà è rosicchiato da topi. Qualche urlo – “Ci sono i topi!” – ed inizia una ricerca affannosa ed agitata. Lucia si sente attraversata (anche adesso nel raccontarlo) da un brivido di freddo e da sensazione di terrore. Quando le dico di rimanere nella scena del ricordo, ma con la bacchetta magica e scegliendo una persona che le possa stare vicino, ella non trova – nella stanza del ricordo – nessuno dei presenti da cui poter ricevere calore. Le dico di ricorrere ad una persona presente nella sua vita attuale, ma sente una lotta forte perché ha molta paura di lasciarsi andare alla sensazione di ricevere calore. Quando lo accetta, il brivido di freddo si scioglie, a poco a poco comincia ad avvertire il calore. Le chiedo in quale parte del corpo sente maggiormente il calore, lei risponde che ha sentito la sensazione forte e liberante del bacino che comincia ad aprirsi. Le dico di assaporare queste sensazioni. Quando vedo il suo corpo placato, le chiedo come va e mi risponde: “Sento il mio corpo caldo, in alcune parti come fosse la prima volta. E mi sono adesso chiare tante situazioni della mia vita affettiva attuale”. La fobia è sì una porta chiusa, ma quando si riesce ad aprirla si entra in un mondo (o, meglio, in un corpo) di calore e di forza che dà (o ridà) il senso di integrità e di pienezza.

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La fobia è sì una porta chiusa, ma quando si riesce ad aprirla si entra in un mondo di calore e forza


6.2. Lo stile relazionale ossessivo Nel lavoro terapeutico con pazienti che hanno pensieri ossessivi è necessario tener presenti alcuni presupposti già accennati: - i pensieri ossessivi sostituiscono le figure genitoriali e sono un modo in cui il soggetto, in forma esasperata, tenta di prendersi cura di sé; - l’eccesso di controllo da parte dei pazienti cerca di supplire ad una mancanza grave di sostegno genitoriale; - i pensieri ossessivi esprimono l’indecisione del soggetto, che da una parte sente l’attrazione per alcuni vissuti e dall’altra ne è terrorizzato; - l’interruzione di contatto che porta pensieri ossessivi avviene nella fase in cui l’O. sente emozioni che spingono all’azione; - le emozioni che spingono verso l’azione (attive) fondamentalmente sono l’aggressività e la sessualità, perché portano a muoversi verso l’altro; - l’intervento terapeutico deve innanzitutto facilitare la consapevolezza corporea (funzione-es del sé) chiedendo: “Cosa senti?”; - si lavora sulla funzione-personalità del sé quando si affrontano i temi dell’affidarsi (esperienza non facile per chi non è stato sostenuto) e del rischiare la propria unicità.

Una linea di lavoro specifica per lo stile ossessivo riguarda il portare al confine di contatto le emozioni di cui si ha terrore proprio perché si tratta di interruzioni dell’azione.

È comunque importante, come abbiamo detto, creare un clima di fiducia nella relazione terapeutica e connettere il sintomo prima con situazioni attuali concrete della vita e poi, in modo tutto speciale, con la relazione terapeutica. Una linea di lavoro specifica per lo stile ossessivo riguarda il portare al confine di contatto le emozioni di cui si ha terrore proprio perché si tratta di interruzioni dell’azione. Si tratta di proporre esercizi fisici che facciano sperimentare l’energia corporea che si innalza, raggiunge un’acme e ridiscende. Afferma Perls: “Se una persona sopprime l’aggressività, come nei casi di nevrosi ossessiva, se reprime la sua rabbia, dobbiamo trovare una via d’uscita. Dobbiamo dargli un’opportunità di sfogarsi. Colpire una palla, spaccare la legna o ogni altro tipo di sport aggressivo come il calcio, fanno qualche volta

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prodigi”41. In realtà il paziente non ha soppresso ma ha evitato – per paura – di sentire l’aggressività, per cui nel proporre tali esercizi è necessario stare molto attenti a non dare al paziente l’immagine di una persona da colpire (aumenterebbero il terrore e la sintomatologia) e dare, specie nelle prime battute, un sostegno anche corporeo al paziente. Anche l’emettere un suono che venga dal profondo e che raggiunge in modo progressivo il suo apice si rivela utile. Aiutare il paziente a costruire l’urlo come espressione di integrità e di pienezza – nel senso delle arti marziali o della terapia primaria di Janov42 – è un modo di sostenere la sua energia. Attraverso questi esercizi il corpo del paziente apprende progressivamente a fidarsi dell’energia e a rischiare di esprimerla. È importante che ci sia in tutti gli esercizi fisici l’andamento del crescendo, dell’acme e del plateau: si tratta, in effetti, della metafora del percorso che porta alla pienezza del contatto. Mentre per il depresso l’esercizio fisico ha lo scopo di fargli sentire il corpo attraverso una stanchezza reale, per l’ossessivo l’esercizio serve a distendere il corpo e a far prove di contatto allenando il corpo. Dopo un esercizio completo, il paziente rimane piacevolmente sorpreso di quanta distensione sperimenta e di come i pensieri ossessivi siano andati via (almeno per un po’). Momento delicato è quello in cui il paziente richiede al terapeuta certezze… impossibili: “Mi puoi garantire che… non cadrà il tetto, non mi ammalerò, non è colpa mia, non farò un incidente?”. È ovvio che non si possono dare risposte precise: come può il terapeuta garantire che non cadrà il tetto, quando lui stesso non ha la certezza di poter completare la frase che ha iniziato? Come rispondere, allora? Chiaramente non si tratta di un problema cognitivo. Il terapeuta deve tener presente che solo dalla certezza di una relazione genitoriale si impara a tollerare le inevitabili incertezze della vita, per cui si ricorre allo stile rassicurativo che usano le figure genitoriali con le paure del bam-

41 F. Perls (1995), L’io, la fame, l’aggressività, cit., 126. 42 V. Janov (1970), The primal Screem, Delta Book, Dell Pubblishing Co., New York.

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Dalla certezza di una relazione genitoriale si impara a tollerare le inevitabili incertezze della vita


bino. Per ogni paziente il terapeuta deve trovare (inventare) una frase che rassicuri ad un livello di certezza ‘genitoriale’ (non falsa, ma neppure tecnica), tenendo presente che ciò non ha un valore in sé, ma serve a costruire una relazione rassicurante di sostegno e di fiducia. Fare lunghi discorsi, cercare di convincere dell’illogicità dei pensieri ossessivi o dei comportamenti compulsivi non serve a molto, anzi è controproducente perché provoca ulteriori esasperazioni, in quanto il paziente troverà sempre nelle tante parole del terapeuta una contraddizione, una perplessità che gli renderanno ancora più difficile affidarsi. È importante trovare la frase che artisticamente dà la sicurezza ed usarla sempre in modo che lentamente il paziente l’assimili.

6.3. Lo stile relazionale compulsivo

6.3.1. Compulsioni di contenimento Le compulsioni di contenimento, come già detto, rivelano che l’intensificarsi delle emozioni accresce nel paziente la paura di non saperle controllare. L’azione compulsiva non esprime la spontaneità dell’O., ma serve ad accrescere il controllo perché non escano di nascosto emozioni percepite come distruttive. Controllare la chiusura del gas molte volte, ad esempio, è un gesto relazionale, sia nella misura in cui esprime il disagio di chi ha ricevuto una responsabilità maggiore delle proprie possibilità, sia se esprime la paura che un’emozione negativa possa uscire da sé. Quando chiedo a Lucio di fare davanti a me il gesto con cui chiude il gas parecchie volte, emerge spesso dal tono di voce, dal gesto delle mani, dall’espressione della faccia che è presente in lui la rabbia per essersi dovuto assumere una responsabilità che avrebbe dovuto toccare ad altri: notai negli occhi di Lucio, quando mi ripeté il gesto, un lampo che poi mi disse essere rivolto alla madre. Può emergere, oppure, la paura che possa venir fuori un’emozione negativa: Mary stava lì a controllare se veramente fosse chiusa la porta, quasi ad essere sicura che tutto il suo mondo interiore fosse stato recintato.

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La differenza di significato di questi due gesti che sembrano uguali ricorda il principio che la GT lavora non sui comportamenti ma sui vissuti relazionali. Ogni volta che rientra a casa, Giulia deve uscire di nuovo per andare a controllare se per caso guidando ha investito senza accorgersene qualcuno. In certi periodi questo gesto diventa un incubo che le rovina la giornata. Quando le chiedo come mai non si accorgerebbe di un incidente se avvenisse, lei mi risponde che la sua paura riguarda un investimento con la parte posteriore della macchina. Parlando della rabbia che ha avuto sempre difficoltà ad esprimere, mi racconta di una volta in cui in una domenica lei, quindicenne, era entrata in una stanza in cui erano riuniti molti familiari e parenti vari, uno dei quali aveva fatto ad alta voce un commento pesante sul suo fisico (in quel periodo era molto robusta) ed in particolare sulle dimensioni del suo didietro. Le chiedo come si è sentita e lei risponde immediatamente: “Era un parente che mi voleva molto bene”. Quando commento la sua risposta, lentamente emerge la rabbia, tanta rabbia. E tanta solitudine: nessuna l’ha difesa e ha sostenuto la sua rabbia. Diventa chiaro che non c’era sostegno per la sua rabbia perché aveva appreso che essa avrebbe distrutto i legami parentali. Lei commenta: “Non era la prima volta”. Quando le faccio notare la strana somiglianza tra il commento del parente sul ‘didietro’ e la sua fobia di investire con il didietro… una squillante risata ci dice che ormai, avendo compreso la saggezza del suo organismo, può liberarsi da quella tensione e dare al corpo la spontaneità di esprimersi anche attraverso un dare un calcio nel didietro … a chi le manca di rispetto. Riguardo alla sua paura, non potrò dirle “Non investirai nessuno” (chi può dirlo?), le dirò piuttosto: “Ti insegnerò ad avere fiducia in te quando guidi”. In questa risposta è incluso anche un altro elemento della suacompulsione: il fatto che essa accade proprio quando Giulia esprime se stessa diventando autista, esprimendo la propria unicità di cui però non ha imparato ad avere fiducia.

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La differenza di significato di due gesti che sembrano uguali ricorda il principio che la GT lavora non sui comportamenti ma sui vissuti relazionali.


6.3.2. Compulsioni espulsive

Nelle compulsioni espulsive il lavoro terapeutico va prevalentemente sulla funzione-personalità del sé

L’intervento terapeutico non punterà tanto ad amplificare nel corpo del paziente l’esperienza delle emozioni (che sono comunque presenti), quanto piuttosto a ristrutturare la valutazione corporea e cognitiva delle emozioni stesse.

L’interruzione è avvenuta quando l’O. ha ricevuto dall’A. una valutazione decisamente negativa dell’esperienza vissuta

Nelle compulsioni espulsive il lavoro terapeutico va prevalentemente sulla funzione-personalità del sé: come il soggetto vive il sentire una determinata emozione? Come l’assimila? ‘Chi’ diventa dopo aver vissuto tale emozione? Nelle ossessioni espulsive il paziente si sente costretto a compiere dei gesti che hanno lo scopo di espellere i vissuti che il corpo ha avvertito. Mentre nei rituali o nei gesti di contenimento il soggetto ha la sensazione (anche se momentanea) di placarsi, nelle compulsioni espulsive la sua angoscia non si placa, anzi sembra aumentare man mano che il gesto si ripete, e finisce solo perché si è esausti. L’intervento terapeutico, quindi, non punterà tanto ad amplificare nel corpo del paziente l’esperienza delle emozioni (che sono comunque presenti), quanto piuttosto a ristrutturare la valutazione corporea e cognitiva delle emozioni stesse. Il corpo del compulsivo espulsivo va placato perché vive come esperienza di base l’agitazione, il bisogno di buttare via qualcosa che lo fa sentire in pericolo. È molto efficace per queste persone cominciare a distinguere i diversi livelli dell’esperienza: cosa sente (nome e significato dell’emozione); come l’emozione è percepita dal suo O. (piacevole o spiacevole, interessante o no) e, infine, come valuta tale esperienza e in base a quale criterio. L’interruzione è avvenuta quando l’O. ha ricevuto dall’A. una valutazione decisamente negativa dell’esperienza vissuta (“Come hai potuto dire questo? Provare queste emozioni?”, ecc). Un tema che emergerà sarà perciò certamente il senso di colpa, rispetto al quale sarà necessario esplorare sia il correlato corporeo (quale parte del corpo si sente tesa quando si sente in colpa) sia lo schema cognitivo del sentirsi in colpa (quale modello dell’esser-ci-con ha appreso). Va esplorato anche il coinvolgimento di altre persone nel sintomo (chi assiste al gesto compulsivo espulsivo? chi è trattenuto vicino al paziente a causa di questo gesto?, ecc) perché – come accennato – nel senso di colpa sono presenti sia la spinta a separarsi sia la sua negazione. Peraltro, il comportamento compulsivo è rinforzato proprio dal fatto che ottiene il restare con gli altri non in termini evolutivi ma regressivi, per sé e per gli altri.

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La fiducia nel terapeuta permetterà di attraversare l’angoscia del separarsi nella gratitudine ma anche nel dolore, scoprendo un’inesplorata fiducia in se stessi e nella persona che si lascia.

7. Verso la pienezza dell’unicità e dell’incontro Abbiamo visto come le FOC siano disturbi che insorgono proprio nel momento in cui l’O. si prepara a diventare unico sperimentando l’eccitazione energetica delle emozioni. Otto Rank43 parla delle due fobie che attraversano la vita dell’uomo: fobia dell’appartenenza propria del narcisista e di chi ha sviluppato la propria identità da un lato, e fobia della separazione da parte di chi si sente impaurito dall’uscita dalla confluenza del ‘noi’ (ed ha, dunque, paura di vivere). Negli stili relazionali FOC sembra che siano presenti ambedue le fobie: il diventare unici nell’eccitazione corporea provoca prima paura della morte e, dopo, paura della vita. Il non avere sperimentato il sostegno specifico del ‘noi’ crea il terrore del separarsi e quello dell’affermarsi: i pazienti, indecisi, oscillano tra la paura della morte e la paura della vita, nella ricerca di un sostegno, di un corpo che li accolga e li lasci andare… Grossman44, in un toccante e breve racconto, coglie, con l’intuito dello scrittore, l’intima connessione e il reciproco condizionamento tra unicità e appartenenza. Ben e la sua mamma stanno facendo una passeggiata, verso sera. La mamma lo guarda e gli dice: “Sei dolcissimo, non c’è nessuno al mondo come te!”. Lui ci resta male: “Ma io non voglio che al mondo ci sia soltanto uno come me!”. La mamma prova a spiegare che ognuno è unico e che questa è una cosa bella, ma il bambino resta triste: “Allora di ogni persona ce n’è solo una al mondo?”. La mamma annuisce. “E perciò sono tutti soli?” – incalza lui. “E non ti senti sola…da sola?”. La mamma conferma la solitudine di tutti,

43 Cfr. la stimolante presentazione delle teorie di O. Rank in E. Becker (1982), Il rifiuto della morte, Paoline, Roma, ed. or. 1973. 44 D. Grossman (2010), Ruti vuole dormire e altri racconti, Mondadori, Milano, “L’abbraccio”, 17-30.

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I pazienti oscillano tra la paura della morte e la paura della vita, nella ricerca di un sostegno, di un corpo che li accolga e li lasci andare…


Solo chi è (stato) abbracciato forte forte può sentire ed agire la propria unicità! E può abbracciare l’altro … perché non ha paura né di morire né di vivere.

e lo abbraccia. Lo tiene stretto e sente battere forte il cuore del suo bambino come il bambino sente il cuore della sua mamma. La mamma l’abbraccia forte forte. “Adesso non sono solo” – pensa Ben – Adesso non sono solo”. E così la madre gli spiega che era per questo che avevano inventato l’abbraccio: per unire le solitudini. Si può aggiungere, pensando ai pazienti FOC, che solo chi è (stato) abbracciato forte forte può sentire ed agire la propria unicità! E può abbracciare l’altro … perché non ha paura né di morire né di vivere.

Abstract L’Autore presenta una lettura sistematica dei disturbi fobici, ossessivi e compulsivi secondo l’ottica della Gestalt Therapy. L’ermeneutica proposta rivela da una parte un’originale ed illuminante rilettura dei sintomi FOC, fondata su un’esperienza clinica trentennale, e dall’altra un’adesione intransigente e puntuale ai principi fondanti del modello teorico della Gestalt Therapy. Ognuno dei tre stili relazionali è affrontato in un’analisi antropologica e clinica esaustiva, all’interno di una cornice di riferimento che primariamente definisce l’eziopatogenesi relazionale dei sintomi in discussione e, più in generale, del disturbo psichico, in una visione chiara e clinicamente comprovata. L’articolo si chiude con un ulteriore contributo sulla specificità del lavoro terapeutico. Sezione particolarmente utile a tutti coloro che - nei diversi approcci terapeutici - lavorano con i disturbi FOC. L’articolo presenta modalità rigorose di declinazione teorica e clinica della Grstalt Therapy e condivide ricerche dell’Istituto di Gestalt Therapy HCC Kairòs alla comunità gestaltica a livello nazionale e internazionale. For the English abstract click here

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BIBLIOGRAFIA

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L’eterna attesa


RICERCA

Il paziente borderline: una ostinata e sofferta richiesta di chiarezza Intervista a Valeria Conte a cura di Rosa Grazia Romano

In ambito clinico la percezione di un aumento della patologia borderline è oggi, ormai, un dato condiviso. Esiste, secondo te, un nesso tra i cambiamenti sociali della postmodernità e l’aumento di questa patologia? La storia delle psicoterapie e la nascita di nuovi modelli epistemologici ci dice molto sulla influenza che i cambiamenti sociali hanno sull’emergere di nuove patologie. I pazienti cambiano e conseguentemente cambiano anche i modelli di cura. Nello sviluppo del concetto di relazionalità della Gestalt Therapy (GT), il nostro Istituto ha sviluppato e portato avanti, come chiave di lettura del rapporto società/individuo, i diversi e complessi modi in cui stiamo nelle relazioni. Il direttore scientifico dell’Istituto, Giovanni Salonia, focalizza da anni l’attenzione su quello che definisce “modello relazionale di base” (MRB), per cui la società si modifica e dà priorità all’individuo o alla comunità a seconda del contesto e dei bisogni emergenti (guerra, fame, epidemie, etc.)1. I modi di relazionarsi dei soggetti, cioè, rispecchiano sempre il tempo in cui si vive2. Se ci guardiamo intorno, l’uomo di oggi è immerso in un generalizzato senso di smarrimento che lo porta a vivere il futuro, il lavoro, le relazioni come incerte, a

1 Distinguiamo, infatti, un MRB fondato sul ‘noi’, tipico dei periodi di emergenza, da un MRB basato sull’ ‘io’, che è quello del mondo in cui viviamo attualmente. Questa chiave di lettura, messa a punto da Giovanni Salonia, è ampiamente illustrata in G.Salonia (2005), Femminile e maschile: un’irriducibile diversità, in R.G. Romano, Ciclo di vita e dinamiche educative nella società postmoderna, Franco Angeli, Milano, 54-69. 2 Cfr. A. Kardiner (1965), L’individuo e la sua società, Bompiani, Milano.

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vivere un senso di confusione nel quale sente che gli mancano punti di riferimento e nello stesso tempo gli viene richiesto in maniera sempre più pressante di essere grande, di saper fare da solo. Oggi i bambini, gli adolescenti, gli individui – in qualsiasi età della vita – hanno tante possibilità, non hanno limiti alla propria potenzialità: infatti viene sempre più enfatizzata l’esperienza e si percepisce il dover chiedere come fragilità e incapacità. Si apprende così a crescere da soli3. Ma la comunità oggi non è forte e l’individuo nasce e cresce dentro un pensiero debole4 ed una liquidità informe5; ciò comporta un passare rapidamente da vissuti di idealizzazione – che si concretizzano nel bisogno e nella ricerca di appartenenze rigide, ad esempio a gruppi fondamentalisti (solo apparentemente forti) – ad una eccessiva svalutazione dell’altro, con esasperazione dell’autoreferenzialità e della spasmodica ricerca di realizzazione. È una società – questa postmoderna – dai confini sempre più indefiniti, insicuri ed incerti, che dà necessariamente vita a soggetti sempre più indefiniti, insicuri ed incerti, che incontrano non poche difficoltà nella loro naturale ricerca di felicità6. È la società tutta che potremmo oggi definire ‘borderline’ perché i soggetti, il ciclo di vita, le relazioni stesse sono sempre più caratterizzati da confini e contorni instabili ed incerti. Pertanto, la sfida che oggi si pone per tutti gli approcci psicoterapici, e per la GT in particolare (che dà, appunto, una particolare rilevanza al contesto), è trovare nuove modalità di comprensione del disagio e nuove modalità di intervento clinico per i borderline. Mi stai dicendo, cioè, che c’è un riscontro fra patologie e stili relazionali che caratterizzano una società?

3 Cfr. R.G. Romano (2005), Ciclo di vita e dinamiche educative nella società postmoderna, Franco Angeli, Milano 4 G. Vattimo, P.A. Rovatti (a cura di) (1998), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano. 5 Z. Bauman (2002), Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari. 6 Riflessioni al riguardo in G. Salonia (2004), Sulla felicità e dintorni, Argo, Ragusa.

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Sì, certamente. Stiamo parlando di modi di essere in relazione e di costruire relazioni che caratterizzano la società di oggi con modalità relazionali specifiche e che ritroviamo a diversi livelli e nei diversi contesti affettivi (rapporti di coppia, rapporti genitori/figli), educativi, lavorativi e istituzionali. Questo modello di lettura dei disagi “normali” del vivere contemporaneo ci permette una comprensione più ampia sia della psicopatologia che dei modelli di cura e di intervento. La Gestalt Therapy come descrive la patologia borderline, o, diremmo meglio a questo punto, la modalità di relazione borderline?

Le relazioni affettive che instaurano sono di fatto complicate: oscillano dall’estrema dipendenza all’ostentata indipendenza e per chi gli sta accanto è difficile capire come trovare la giusta distanza emotiva da loro. Sicuramente la paura di essere abbandonati, insieme alla forte paura di essere fagocitati, sono gli estremi che dominano i rapporti che creano

Nella relazione il borderline ha delle specifiche caratteristiche: relazioni confuse, clima di totale ambiguità, atteggiamenti ambivalenti. Ricordo che una giovane paziente riferiva di trovarsi frequentemente in questo tipo di esperienza: “mi confondo... ogni volta che parlo con i miei, papà fa tante cose per me... gli sono grata: mi mantiene gli studi, mi paga le spese, ma non mi chiede mai come sto7, anzi al mio accenno di difficoltà alle sue richieste (spesso illogiche e comunque che non riguardano né me né lui) mi accusa di essere ingrata e mi fa sentire enormemente in colpa, mi confondo e non so cosa provo veramente io…. Mia madre mi chiede sempre come sto e si preoccupa molto per me anche eccessivamente, ma non so se mi vede veramente….. la sua ansia mi invade e devo tenerla lontano per continuare a farcela da sola, come sempre… sola ….sola con il mio vuoto”. Da questo sfondo relazionale nascono molti problemi dei borderlines Le relazioni affettive che instaurano sono di fatto complicate: oscillano dall’estrema dipendenza all’ostentata indipendenza e per chi gli sta accanto è difficile capire come trovare la giusta distanza emotiva da loro. Sicuramente la paura di essere abbandonati insieme alla forte paura di essere fagocitati, sono gli estremi che dominano i rapporti che creano. Una mia paziente, coinvolta in una relazione extraconiugale,

7 È questo un tipo di vissuto che viene definito ‘emotivamente distante’.

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esprimeva tutta la sua angoscia di essere abbandonata con attacchi verbali violenti e aggressivi verso il compagno ogni volta che lui gli parlava della sua vita di coppia con la moglie nel fine settimana. Di fatto, la sua enorme paura di essere fagocitata in un legame le faceva instaurare relazioni nelle quali viveva sempre il vissuto di un tradimento subìto, per cui paradossalmente percepiva la moglie come … terzo incomodo che si aggiungeva alla sua relazione. Non si era mai permessa una relazione con un uomo “libero affettivamente” per la paura dell’abbandono e del tradimento. Quando le chiesi di riflettere sul significato delle sue relazioni affettive, spesso con uomini già impegnati emotivamente, lei oscillava tra risposte irrazionali e risposte ideali, con nessun riscontro nel dato di realtà (la sua capacità di autocritica e la sua logica non la aiutarono). Le faceva figura solamente la paura del possibile tradimento subìto (che equivale alla paura di essere abbandonata). Dentro di lei il dolore e la rabbia si alternavano in una sofferenza distruttiva. L’instabilità e l’ambivalenza dei comportamenti che frequentemente sono presenti nella modalità relazionale borderline hanno una loro logica interna: placare il senso di confusione nell’avere insieme due esperienze opposte. Di fatto per loro è impossibile conciliare sentimenti opposti, che percepiscono come un attacco alla propria identità. A livello clinico è importante tenere presente che nei borderlines l’uso e a volte l’abuso di sostanze, che rappresenta una sorta di acting out, non va diagnosticato e trattato semplicemente come mera dipendenza. Il DSM IV-TR parla di “disturbo di personalità”, mentre la Gestalt Therapy preferisce parlare di “disturbo relazionale borderline”. È possibile per un terapeuta della Gestalt far dialogare questi due mondi della psicopatologia, descrittivo e fenomenologico, spesso inconciliabili tra loro? E in che modo? La mia esperienza lavorativa, divisa tra due mondi (la psichiatria da una parte e la psicoterapia dall’altra), mi ha permesso di integrare aspetti che, a mio avviso, è possibile conciliare soprattutto nella pratica clinica. Lavorare fianco a fianco con

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L’instabilità e l’ambivalenza dei comportamenti che frequentemente sono presenti nella modalità relazionale borderline hanno una loro logica interna: placare il senso di confusione nell’avere insieme due esperienze opposte.


realtà formative e professionali molto diverse è stata una sfida complessa, ma certamente arricchente. Oggi in ambito psichiatrico viene abbastanza utilizzato il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali – il DSM IV-TR – che colloca la patologia borderline sull’asse II, all’interno del “gruppo b” dei disturbi di personalità. L’epistemologia descrittiva che sta alla base della ideazione di un manuale, se usato nei limiti diagnostici, ha il grande vantaggio di fare dialogare i diversi modelli epistemologici. La prassi clinica sicuramente si arricchisce con la conoscenza della complessità e variabilità della patologia che, proprio nel caso del borderline, è particolarmente sfuggente. Non a caso, una volta la diagnosi di borderline era una diagnosi “cestino”, dove si ritrovavano tutte le confusioni diagnostiche. Per i disturbi di personalità borderline tra gli specifici comportamenti descritti troviamo: sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono; un quadro di relazioni interpersonali instabili e intense...; impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto, quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate; ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari, o comportamenti automutilanti; intensa difficoltà a controllare la rabbia…8. Viceversa, la GT, muovendo da un approccio fenomenologico, focalizza i vissuti corporei relazionali che sono all’origine dei comportamenti (Giovanni Salonia parla al riguardo di ‘intercorporeità’9) e legge le varie sofferenze psichiche come interruzioni di contatto10.

8 American Psychiatric Association (1994), Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM IV), American Psychiatric Press, Washington D.C., tr. it. (1996), DSM IV. Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Masson, Milano. 9 G. Salonia, Edipo dopo Freud. Gestal Therapy e teorie

evolutive, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, prossima pubblicazione.

10 Cfr., ad esempio, G. Salonia (2010), L’anxiety come interruzione nella Gestalt Therapy, in L. D. Regazzo (a cura di), Ansia, che fare? Prevenzione, farmacoterapia e psicoterapia, CLEUP, Padova; V. Conte (2001), Il lavoro con un paziente seriamente disturbato in psicoterapia della Gestalt. L’evoluzione di una relazione

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In questa prospettiva, i sopraindicati comportamenti autodistruttivi e impulsivi (guida spericolata, abbuffate, incontri sessuali incauti, condotte antisociali, tentativi di suicidio) sono acting out che esprimono l’insostenibilità della tensione interna e il bisogno di placarsi. Anche l’intensa difficoltà a controllare la rabbia del borderline è una “furia” che non si placa e che va compresa come ricerca di chiarezza, bisogno di placare il vissuto di confusione nella percezione della sua esperienza interna. Quindi i due mondi, quello descrittivo e quello fenomenologico, possono dialogare quando nel rispetto e nella stima reciproca le differenze si integrano e si incontrano nella prassi clinica in una intenzionalità comune: aiutare il paziente a stare bene. Hai detto che nella modalità relazionale del borderline vediamo la confusione e l’ambivalenza, che esprimono vissuti corporei relazionali. Puoi precisare meglio qual è la lettura clinica che la GT dà del corpo? Per un terapeuta della Gestalt quando si parla di “corpo” si intende la “funzione-es”11 del sè�. Nei borderlines, di fatto, è l’esperienza corporea ad essere particolarmente compromessa. Paradossalmente risultano delle persone abbastanza individuate, a volte appaiono rigide, definite, ma non consapevoli dei loro

terapeutica, in M. Spagnuolo Lobb (a cura di), Psicoterapia della Gestalt. Ermeneutica e Clinica, Franco Angeli, Milano; G. Giordano (2001), La casa, l’ambiente non umano e i pazienti gravi. Un contributo teorico-clinico nell’ottica della psicoterapia della Gestalt, Quaderni di Gestalt, 32/33, 70-79. 11 “Il sé è in funzione-es quando focalizza le sensazioni corporee che provengono dal “dentro la pelle”, dalla storia dei contatti e dalle reazioni agli stimoli dell’Ambiente; il “cosa senti?” segnala ‘dove’ e ‘come’ l’Organismo si trova in relazione con l’ambiente (le intenzionalità organismiche)”, in G. Salonia (2009), Letter to a young Gestalt therapist for a Gestalt therapy approach to family therapy, The British Gestalt Journal, vol.18,2. Cfr. anche G. Salonia (2008), La psicoterapia della Gestalt e il lavoro sul corpo. Per una rilettura del fitness, in S. Vero, Il corpo disabitato. Semiologia, fenomenologia e psicopatologia del fitness, Franco Angeli, Milano.

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La capacità di sentire emozioni, percepire l’emergere dei bisogni, dare il giusto nome a ciò che sente, richiede una fluidità dell’esperienza corporea di base che nel soggetto borderline è compromessa

Nel lungo percorso psicoterapico, il lavoro fatto insieme è stato il cominciare a discriminare il suo sentire da un magma indifferenziato, “masticare” e analizzare le sensazioni corporee, dare il giusto nome al suo sentire, permettere al suo corpo di iniziare a sentire e riconoscere i suoi bisogni e vissuti.

vissuti più profondi e intimi: “Io sono diversa da mia madre, molto diversa, ma certe volte mi ritrovo con dentro le sue paure, le sue paranoie, ma non so se non sono le mie, adesso… lo capisco e questo mi confonde, non so che sento veramente io…”. La capacità di sentire emozioni, percepire l’emergere dei bisogni, dare il giusto nome a ciò che sente, richiede una fluidità dell’esperienza corporea di base che nel soggetto borderline è compromessa. I confini corporei del borderline permettono una permeabilità dei vissuti esterni erroneamente assimilati come propri e nello stesso tempo una difficoltà a contenere e assimilare il proprio sentire che spesso appare impulsivo e incontrollabile. È presente frequentemente una confusione nei vissuti che disturba i livelli di consapevolezza, ma sono presenti anche forme di desensibilizzazione (mancanza di percezione del proprio corpo), che a volte spingono a comportamenti autolesivi che esprimono in modo parossistico il bisogno di sentirsi. È in questi casi che in GT parliamo di disturbo della “funzione-es” del sé. Ricordo il travaglio emotivo e la sofferenza di Maria. Da sei anni lottava contro attacchi di panico devastanti e invalidanti, non usciva di casa se non per lavorare o per brevi tragitti. Come diceva lei, non si riconosceva più: fino a 32 anni tutto era andato bene, si era dedicata al lavoro e alla brillante carriera professionale, era una giovane donna indipendente, autonoma e attiva. All’improvviso, un’estate al mare si verifica il primo attacco di panico. Da allora la paura e l’ansia di stare al mare la bloccano al punto tale da non riuscire più ad andarci. Contemporaneamente, però, il suo corpo inizia a farsi sentire, anche se in questa prima fase è solo attraverso il sintomo che esprime la sua sofferenza devastante. Il suo corpo, infatti, era molto rigido e controllato, perché teneva dentro un grande drammatico segreto. Inizia così la cura psicoterapica e farmacologica. Nel lungo percorso psicoterapico, il lavoro fatto insieme è stato il cominciare a discriminare il suo sentire da un magma indifferenziato, “masticare” e analizzare le sensazioni corporee, dare il giusto nome al suo sentire, permettere al suo corpo di iniziare a sentire e riconoscere i suoi bisogni e vissuti. Un’estate successiva, il suo corpo si apre alla possibilità di sentire altro, comincia ad emergere il desiderio: dopo tanti anni poter finalmente fare una passeggiata al mare con un’amica. Sta meglio, si fida di più del suo corpo, sente le

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sensazioni piacevoli e tanta energia. La vicinanza dell’amica la incoraggia e la sostiene. “…Vicinanza che mi dà conforto, sicurezza, affetto. Mentre siamo al mare, sdraiate al tiepido sole pomeridiano, la mia amica dopo un po’ …mi abbraccia… la lascio fare, ma ad un certo punto diventa troppo, per me tutto questo è troppo, mi spavento. Che significa? Cosa sento? Perché sento eccitazione? ...Forse sono attratta da lei? Ho paura, non voglio sentire questo… e sento l’ansia che cresce. I miei “no” per fermarla non sortiscono effetto! Sento una strana eccitazione e non capisco... Questo fa aumentare la mia ansia, mi terrorizza, entro nel panico vero e proprio. Arrivano delle persone e lei si ferma. Io mi vergogno, mi sento arrabbiata... era una bella esperienza quella del mare... ma si è inquinata, sporcata, non verrò più al mare e non andrò da nessun’altra parte!”. In terapia Maria ha raccontato di quel pomeriggio, immersa in sentimenti contrastanti, lacrime, paura, dolore, rabbia. “Hai visto... non mi posso fidare di me!! Io pensavo di farcela e vedi che succede?”. Sembrava una bambina impaurita e arrabbiata, che finalmente - “tornando a casa” - può raccontare il suo dramma e la sua confusione. È nuova l’esperienza che qualcuno l’ascolti senza fretta, senza paura e senza attribuire subito significati ed etichette. Mi spiega cosa è successo sin nei minimi particolari, mi chiede se è colpa sua e cosa deve fare. È stato importante spiegare a Maria che il suo corpo, ancora impaurito per affrontare il piacere e la novità (del mare), aveva bisogno di un sostegno fisico a cui appoggiarsi (l’amica) e che, come spesso accade al borderline, è stata confusa e invasa da vissuti non suoi. Ritornare a discriminare, masticare, capire le sue sensazioni e sostenere, anche attraverso i nessi logici da lei stessa forniti, la valutazione della sua esperienza, le ha permesso – a poco a poco – di dare il giusto nome al suo sentire. Così finalmente può ricordare e risanare le ferite e i ricordi che il segreto ha custodito nel corpo per lunghi anni. Ricorda le prime uscite nel cortile di casa - a soli sei anni “mi sentivo grande e veloce... potevo stare dietro a tutti i giochi dei maschi”. Un mondo di giochi… ma che divenne – sfortunatamente! – mondo di abusi ripetuti e di paure inconfessabili, di prevaricazioni e di ricatti. Inizia a negare per anni, troppi anni, il suo corpo, a dimenticare, scotomizzare esperienze confuse e dolorose, subite e non raccontate. L’eccitazione e l’energia

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di sentirsi grande diventano dolore e rabbia. Solo “grazie” al primo attacco di panico, il suo corpo ha raccontato, svelato il suo segreto, ed è esplosa la rabbia, tanta rabbia, e dopo tanto dolore e tante lacrime. Se ripenso alla mia paziente, mi colpisce il suo corpo esile, adolescenziale anche nell’abbigliamento. Le acquisizioni di nuove competenze tecniche e i successi professionali non hanno modificato negli anni il suo vissuto di piccola e fragile, come se non “masticasse” il nuovo e non riuscisse ad integrarlo in modo unitario. Spesso, infatti, questi pazienti non lasciano mai la casa d’origine né la famiglia, e mantengono un ruolo filiale mai del tutto appagato. Di fatto il soggetto borderline è incapace di aggiornare il proprio sé riguardo a ciò che è diventato, chi è nella vita, i ruoli che svolge (disturbo della “funzione-personalità” del sé)12. Secondo la GT cosa succede nei primi anni di vita del bambino che struttura una personalità borderline? Possiamo ritrovare delle caratteristiche comuni nelle dinamiche familiari dei borderlines? In che tipo di relazioni familiari nasce il borderline? Come è stato detto, essere borderline può essere considerato un’invenzione artistica per sottrarsi alle angosce psicotiche della madre. Intorno al sesto mese, il bambino, assimilata la confluenza, attraverso la percezione dei confini dell’altro percepisce in modo più chiaro il proprio confine: inizia ad orientarsi, ad introiettare, si trova impegnato a dare il giusto nome al suo sentire (piacevole o spiacevole, buono o cattivo, freddo o caldo). La madre sufficientemente “sana” o “buona”, direbbe Winnicott, si sintonizza con il vissuto del bambino, intuisce i bisogni del figlio e li discrimina dai suoi: inizia una danza, un ritmo, tra il dare e il ricevere. Invece la madre intrusiva e confusa (in GT parliamo di “confluenza nevrotica”) non permette ai vissuti del

12 “La personalità è il sistema degli atteggiamenti assunti nei rapporti interpersonali, è l’assunzione di ciò che l’individuo è... è la struttura responsabile del sé” in F. S. Perls, R. F. Hefferline, P. Goodman (1997), Teoria e Pratica della Terapia della Gestalt. Vitalità e accrescimento nella personalità umana, cit, 188.

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Solo “grazie” al primo attacco di panico, il suo corpo ha raccontato, svelato il suo segreto, ed è esplosa la rabbia, tanta rabbia, e dopo tanto dolore e tante lacrime.

il soggetto borderline è incapace di aggiornare il proprio sé riguardo a ciò che è diventato, chi è nella vita, i ruoli che svolge (disturbo della “funzione-personalità” del sé).

Come è stato detto, essere borderline può essere considerato un’invenzione artistica per sottrarsi alle angosce psicotiche della madre


Possiamo definire la genesi della patologia borderline come l’essere stato ripetutamente e sistematicamente definito dall’altro, senza essere stato visto e/o prima ancora di avere compreso e completato la propria esperienza

bambino di emergere, confonde i vissuti del bambino con i suoi e glieli rimanda in maniera confusa e ambivalente. Nella GT colui che per primo ha teorizzato, a livello diagnostico e clinico, sui borderline è stato Isadore From. Egli afferma che l’intrusività della madre ha interrotto nel bambino il processo di sperimentazione e valutazione della propria esperienza interna: invece del riconoscimento del sentire del bambino, la figura materna interpreta e valuta l’esperienza del bambino in modo errato, confondendola con il suo bisogno. Il bambino è stato quindi precocemente iperdefinito (hai sonno, sei triste, ecc…) con una falsa ed ingannevole sorta di empatia che non gli permette di apprendere il giusto nome del suo sentire. L’esperienza del bambino è stata interrotta determinando una difficoltà nel processo di simbolizzazione e di significazione dell’esperienza. Possiamo ipotizzare queste parole: “Sono seduto a terra nella stanza il sole arriva sul mio corpo... sul pavimento, è una sensazione piacevole, è caldo, luminoso…bello!...e adesso… che succede? sono in braccio alla mamma, mi prende all’ improvviso… è spiacevole, è freddo, buio… e …mi addormento! Possiamo definire la genesi della patologia borderline come l’essere stato ripetutamente e sistematicamente definito dall’altro, senza essere stato visto e/o prima ancora di avere compreso e completato la propria esperienza (“certamente hai sonno, vai a dormire”; “sicuramente sei triste, fatti consolare”; e così via). Questa ingannevole anticipazione dell’esperienza offerta dal genitore al posto di un sostegno rispettoso delle differenze e delle istanze di autonomia del bambino diventa un imbroglio. Di conseguenza il bambino cresce nella confusione sui propri vissuti: la confusione rimane uno dei cardini dell’esperienza borderline Come diciamo con Giovanni Salonia, finché il bambino è dentro la relazione con la madre è “protetto” dalla confusione. Solo quando andrà nel mondo la confusione (dare nome sbagliati ai suoi vissuti) emergerà come ricorrente difficoltà del suo collocarsi nel mondo e nelle relazioni. Su questo specifico aspetto dell’esperienza borderline si struttura l’intervento clinico, che necessita di dovuti approfondimenti cui stiamo lavorando13.

13 G. Salonia, V. Conte, Gestalt Therapy e modalità relazionali borderline, prossima pubblicazione.

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Quanto dura, in media, il trattamento psicoterapico con un borderline e cosa è importante per il terapeuta sapere dell’intervento clinico di tipo gestaltico? Per quanto riguarda la durata del trattamento, non si può pensare ad una terapia breve; con il borderline parliamo di psicoterapie che durano a lungo. In genere gli inizi sono difficili, contraddittori, le richieste sono ambivalenti (“Sto male… ma non cambia niente, in fondo so qual è il mio problema”, “non penso che mi può servire la terapia”). Un atteggiamento questo che si evidenzia in momenti critici ma che appartiene allo sfondo relazionale durante tutto il tempo della terapia. Questi pazienti sono portati ad interrompere il trattamento psicoterapico, ad agire in modo autodistruttivo, a rivolgere richieste insolite, a varcare il limite del rapporto professionale. “Stabilmente instabili” sintetizza bene la sensazione che si ha di fronte ai pazienti borderlines. I pazienti borderlines presentano spesso una variegata sintomatologia: dal disagio esistenziale – non facilmente definibile ma sicuramente percepibile – alla depressione, all’ansia, ai disturbi nelle condotte alimentari, agli attacchi di panico, alle fobie, alle dipendenze, ecc... Nello sfondo della loro storia si intuisce un malessere che risale all’adolescenza: la sensazione che si ha ascoltandoli è che stanno male da sempre. Anche la presa in carico non è facile, mai chiara e definita (sia nella richiesta di terapia, che nella costanza). Il tempo della richiesta spesso coincide con un abbandono affettivo, un momento temporaneo di peggioramento dell’angoscia e del vuoto di sempre. La relazione che il paziente borderline instaura con il terapeuta è contrassegnata – come ci insegna Otto Rank – da due grandi paure relazionali: paura del legame e paura dell’autonomia, che si intrecciano con sfumature diverse in tutti i rapporti, ma che nel borderline coesistono e diventano paura di dipendere – dalla terapia e dal terapeuta – e paura di essere abbandonati. Il borderline, infatti, teme la dipendenza ma ne ha bisogno, per cui abbandona… per la paura di essere abbandonato, tradisce… per paura di essere tradito. La presenza di tali vissuti contraddittori sperimentati e appresi dentro le

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I pazienti borderlines presentano spesso una variegata sintomatologia: dal disagio esistenziale – non facilmente definibile ma sicuramente percepibile – alla depressione, all’ansia, ai disturbi nelle condotte alimentari, agli attacchi di panico, alle fobie, alle dipendenze, ecc...

Nello sfondo della loro storia si intuisce un malessere che risale all’adolescenza: la sensazione che si ha ascoltandoli è che stanno male da sempre


È importante facilitare nel borderline la chiarezza che permette di sciogliere l’imbroglio relazionale. Non si tratta solo di sostenere l’esprimersi (spesso, anzi, dovrà imparare a trattenersi), ma di fare in modo che il suo sentire lo metta in contatto con la sua esperienza più profonda e vera. Così imparerà a dare il giusto nome alle emozioni, a distinguere a chi appartengono e ad esprimerle secondo i suoi ritmi.

relazioni affettive significative, limita la possibilità della presa in carico, ma nello stesso tempo è la più grande risorsa che ha il terapeuta per riparare e curare ferite antiche e Gestalt incompiute (riparare nel presente il passato, rifacendo l’esperienza in senso inverso). Riprendiamo, ad esempio, il caso di Maria: al suo corpo, per anni desensibilizzato, oggi serve il sostegno (terapeutico) per potersi fidare del suo sentire, per riprovare eccitazione ed energia, per poter osare di ri-attraversare quel “cortile” (che oggi è divenuto il mondo) senza il terrore di invasioni e abusi, per riaprirsi al desiderio dell’altro, maschile o femminile che sia, senza scappare, imparando a confrontarsi con un maschile prevaricante ma attraente e con un femminile che non protegge e non rassicura. Bisogna lavorare sulla funzione-es del sé nel peculiare modo in cui si lavora con il borderline: senza toccare/invadere, senza amplificare i vissuti e il sentire, tenendo sempre presente che la sua difficoltà principale non è la consapevolezza ma la chiarezza (a chi appartiene ciò che sento). È importante facilitare nel borderline la chiarezza che permette di sciogliere l’imbroglio relazionale. Non si tratta solo di sostenere l’esprimersi (spesso, anzi, dovrà imparare a trattenersi), ma di fare in modo che il suo sentire lo metta in contatto con la sua esperienza più profonda e vera. Così imparerà a dare il giusto nome alle emozioni, a distinguere a chi appartengono e ad esprimerle secondo i suoi ritmi. In questo percorso il terapeuta dovrà, in modo puntuale, contenere la rabbia, un sentimento che spesso affiora e che non sempre corrisponde al reale vissuto, ma è “al posto di” altri vissuti quali la paura, il dolore, ecc.. In questo senso è un grave errore clinico incoraggiare l’espressione di un vissuto, che senza averne prima compreso il nome e l’appartenenza, produrrebbe solamente una amplificazione dell’intensità emotiva. Dopo aver appreso il nome dei vissuti, il borderline sarà pronto ad apprendere i nessi logici esistenti tra l’agire e il sentire (importante momento terapeutico), che permette al paziente borderline di dare una cornice, anche cognitiva, al suo sentire. La fiducia nella relazione e la chiarificazione dei vissuti lo aiuteranno a tollerare eventuali errori del terapeuta: sarà questo

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un grande traguardo, in quanto il borderline – proprio per la scissione in buoni/cattivi, bianco/nero, che ha operato per comprendere il mondo – non può tollerare la coesistenza nella stessa persona di percezioni opposte. Anche in terapia, come in tutte le relazioni importanti, i borderlines sembrano sempre in attesa/paura di un “passo falso”, poiché – come abbiamo detto – nei rapporti passano facilmente dalla idealizzazione alla svalutazione: un comportamento sbagliato della persona che idealizzano de-struttura il loro mondo. Quindi, fidarsi e affidarsi in una relazione importante, mettere insieme due aspetti della stessa persona richiede un lungo e intenso lavoro terapeutico che li riapre al mondo ed alle relazioni sane.

Abstract La storia delle psicoterapie e la nascita di nuovi modelli epistemologici ci dice molto sulla influenza che i cambiamenti sociali determinano sull’emergere di nuove patologie. Oggi è in aumento la patologia borderline e, come sappiamo, i pazienti cambiano e cambiano i modelli di cura. Nell’intervista, in un linguaggio sintetico e nello stesso tempo ricco di esempi e di esperienza clinica, vedremo come la Gestalt Therapy descrive la patologia borderline e cosa caratterizza il disagio specifico del vissuto borderline. Una prima sistematizzazione, che anticipa un prossimo contributo, su nuove modalità di comprensione e di intervento clinico per la cura del disturbo borderline in terapia della Gestalt. For the English abstract click here

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BIBLIOGRAFIA

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L’appeso (autoritratto)


ARTE E PSCICOTERAPIA

RICORDO DI ALDA MERINI Paola Argentino

Il titolo di questa poesia – “Strapotere” – è un concentrato di sensazioni cocenti, che racchiudono un mondo di gravose sofferenze, se si pensa che Alda Merini l’ha dedicata a me… in quanto psichiatra!

In omaggio ai lettori della neo-nata rivista online “Gestalt Therapy Kairòs”, pubblichiamo una poesia inedita della poetessa Alda Merini, nel primo anniversario della sua dipartita: un modo affettuoso, vivo e vibrante per ricordarla con le emozioni intense suscitate dai suoi stessi versi. Già il titolo di questa poesia – “Strapotere” – è un concentrato di sensazioni cocenti, che racchiudono un mondo di gravose sofferenze, se si pensa che Alda Merini l’ha dedicata a me… in quanto psichiatra! Volle donarmela come suggello della nostra amicizia, nata in modo schietto e irruente, dopo scontri vivaci ed emozioni condivise, senza false ipocrisie, come solo lei sapeva mirabilmente fare. Fui io per prima a contattarla, innamorata delle sue poesie, in occasione del convegno internazionale “Disagio psichico e risorse relazionali”, organizzato dall’Istituto di Gestalt a Siracusa nel maggio del 2001, con l’intento di invitarla a partecipare come relatrice. Ricordo, ancora commossa, quella prima telefonata: “Buongiorno, desidero parlare con la poetessa Alda Merini, quando posso chiamare senza disturbare?”. Con voce rauca ed in tono burbero, mi arrivò dall’altro capo del telefono una domanda per risposta: “Cosa vuole?”. “Sono la dott.ssa Paola Argentino…” iniziai a rispondere, ma venni subito bruscamente tacitata da un fiume in piena di parole le cui sillabe suonavano come soldatini allineati in posizione di attacco: “Mi sta già antipatica, non sopporto le persone che si presentano con i titoli, chi le ha dato il mio numero di telefono? E poi dott.ssa ….dott.ssa ….di che cosa?”. Vista la reazione furibonda alla mia incauta presentazione, in tono timoroso, intuendo il bombardamento a cui sarei andata incontro nel rispondere alla sua seconda domanda, rivelando così la mia identità professionale, cercai di mitigare l’effetto ‘boomerang’ con una premessa conciliante: “Volevo invitarla ad un convegno internazionale sulle comunità terapeutiche… sono dott.ssa in medicina e specialista in psichiatria”. Immediata la risposta negativa con brusca chiusura del contatto telefonico. Era giornata ‘no’, molto probabilmente…come

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capita a tutti! Con tenacia la richiamai telefonicamente e, per paura che chiudesse di nuovo il contatto, non aspettai neanche che dicesse pronto, sommergendola del mio dire: “Lei non mi conosce e già mi giudica, perché sono psichiatra prova antipatia. Ma non sta forse facendo la stessa cosa che è stata fatta ai pazienti nei manicomi? Venivano etichettati “pazzi” ed emarginati, lei mi etichetta “psichiatra” e mi rifiuta… Non si dovrebbe mai perdere il desiderio di conoscere l’altro nella sua essenza. E le dirò di più: io credo che anche gli psichiatri che lavoravano, ante-Basaglia, nei manicomi, erano in buona fede, usavano gli strumenti di contenzione perché quello era il contesto culturale di cura in cui vivevano… Io la sto semplicemente invitando come ospite d’onore ad un convegno perché l’ammiro e lei scarica su di me il suo passato. Allora, se preferisce tolgo il ‘titolo’, e mi ripresento: sono Paola e basta, sono siciliana, abito a Siracusa ed è in questa città che a maggio faremo il convegno a cui la sto invitando”. Così, in tono più accogliente, la poetessa riprese il dialogo con me: “Conosco la Sicilia, bella terra…Pirandello, tutto il meridione d’Italia è terra di grande cultura ed è nel mio cuore. Ho vissuto a Taranto anni intensi, amavo Perri, il distacco non è stato sereno…qui a Milano si respira un’aria diversa, più pratica, concreta che poetica”. Cominciò in quel momento la nostra amicizia, sintetizzata da Alda Merini in questa poesia:

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Non si dovrebbe mai perdere il desiderio di conoscere l’altro nella sua essenza.


STRAPOTERE La natura del volto di un poeta non ha radici. Adagio cigola la sua porta al nuovo amico e non si sa chi sia.

In effetti il passato è prodigioso… Si aspetta sempre che qualcuno venga senza chiamarlo e perda le tue tracce.

Cos’è il monumento del potere? Qualcosa che vuol essere e non è… una bianca bugiarda eutanasia.

O Meridione, che io tanto rimpiango, fosse stata serena la tua morte… invece di questi fradici unguenti di malsana cultura. Alda Merini

E adesso, sull’onda lunga di questi versi poetici, il ricordo di Alda Merini si fa più prezioso ed intenso, immerso in un assordante silenzio, per consegnare al cielo un ‘grazie’ riconoscente ed un saluto affettuoso e ‘antico’, quello tribale degli indios Navajo: “Ciao grande poetessa, che tu possa camminare nella Bellezza!”.

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Trasfigurazioni (particolare installazione SITE#1)


ARTE E PSICOTERAPIA

Prendimi l’anima Giuliana Gambuzza Seduta sulla poltrona di velluto rosso, guardo quella vuota davanti a me: ti sto aspettando. Lo sguardo vaga alla ricerca di qualcosa che attragga irresistibile la sua attenzione. Si posa come farfalla svolazzante sul parquet, sulla tela di garza bianca, sul tavolino di vetro con le tue lenti sopra, sulla scrivania sparsa di libri e corrispondenza - parole dall’altrove sul quadro alle mie spalle - una sottile donna, una madre, tiene tra le braccia con amorevole cura il frutto della sua carne, il frutto del suo sangue. La stanza della terapia è tutta qui: solo io e te a fare vivo l’ambiente. Si chiude allora attorno a noi come un cerchio magico la cui soglia è ai più vietato violare; la sua esclusività, che odio e che amo, ci chiude alle spalle le porte del mondo e siamo nel nostro piccolo mondo: scambievoli emozioni, parole dal cuore, abissi che riemergono. Viviamo la realtà di noi in un così minimo spazio, eppure il nostro parlare

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rompe gli argini dell’oggi, si divincola dalla morsa della quotidianità, è aspirazione a qualcosa di umano ma durevole. Cura dei miei mali, e ripariamo ferite e ricuciamo lembi di carne e gli strazianti tagli inferti dalla vita diventano vita. Gli incontri s’incatenano come granelli lungo un’unica distesa sabbiosa, compatta e continua; il cammino è fecondo, anche nei tratti percorsi a fatica. Nell’incessante lavorio interiore, nello scavare gli strati del profondo, nello scalfirne la roccia, sento un dolore antico chiamarmi per nome - che già mi conosca? Sento forte il senso di condivisione - complici di un’unica storia e il turbine della solitudine placarsi e la sofferenza riuscire a dirsi. Noi due come la forza della parola che sconfigge il male del taciuto; noi due come una musica intensa che segue il ritmo dolce del dire e del non dire, un silenzio carico di suoni e fluire di emozioni. Noi due proseguiamo con incedere deciso lungo la strada della guarigione che è liberazione dal dolore, che è desiderio di respiro. La fusione dei pensieri,

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la perfetta aderenza degli spiriti… Ma spettro dell’indicibile, regole immaginate che mi ancorano a terra e non posso librare nell’aria la me stessa di oggi e non riesco ad abbandonarmi fiduciosa tra le tue braccia. Riaffacciarsi alla vita e terrore agghiacciante di morire ancora. Aiutami a custodire la mia nuova forza, a reinventare intera la mia esistenza. Conducimi lungo il tortuoso cammino a lungo interrotto. Poi, una volta rimasta sola con me, conserverò per sempre il calore della tua mano, quel calore con cui mi hai riscaldato nei giorni di pioggia. E dei giorni di luce ricorderò l’affetto delicato e la stima e il sostegno. Ora cerco il contatto temuto; ora mi affido a te completamente e ti dico: <<Giovanni, prendimi l’anima>>. Acireale, 05 febbraio 2006

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NUOVE APPLICAZIONI CLINICHE

Gestalt Therapy e Onoterapia Nuove applicazioni della pet therapy Silvia Zuddas e Francesco Padoan L’asino dà a noi il tempo di ascoltare l’altro che vive e all’altro la possibilità di scoprirsi, di spiegarsi, di dipanare le pieghe che lo aggrovigliano e lo rendono inintelligibile, nascosto, inaccessibile. La mediazione dell’asino consente la relazione con l’alterità e rende attuale la possibilità dell’essere in divenire, in una circolarità che non ha senso pensare interrotta. […] nel lento percorso che, attraverso la consapevolezza e l’accettazione, porta al cambiamento1.

Il presente lavoro nasce dall’integrazione delle tesi degli autori e si fonda sull’esperienza clinica maturata nel lavoro con gli utenti del centro ANFFAS2 di Trieste, con quelli di un centro diurno nella provincia di Udine e con bambini affetti da sindrome ADHD3. L’intento è quello di gettare un primo sguardo verso l’orizzonte del lavoro con gli animali in Gestalt Therapy, aprendo un interrogativo cui si cercherà di dare in parte risposta: quale forza può assumere la terapia con l’asino se operata secondo l’ottica della Gestalt Therapy ed accompagnata da parole in grado di centrare il paziente sulla relazione e sul cambiamento che esso sta vivendo?

1 P. Reinger Cantiello (a cura di) (2009), L’asino che cura, Carocci Faber, Roma. 2 Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale. 3 Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder, in American Psychiatric Association (1994), Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM IV), American Psychiatric Press, Washington D.C., tr. it. (1996), DSM IV, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, Masson, Milano.

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Pet therapy e onoterapia Ad oggi il termine pet-therapy comprende in sé due grandi categorie di attività con gli animali: le Animal Assisted Activities (A.A.A.) e le Animal Assisted Therapy (A.A.T.)4. Le Animal Assisted Therapy sono le “terapie assistite dagli animali” che hanno finalità terapeutica e sono volte a migliorare le condizioni di salute di un paziente attraverso il conseguimento di specifici obiettivi. La scelta dell’asino per il lavoro terapeutico incontra la Gestalt Teraphy nel riconoscimento della centralità della relazione: esso, da strumento storicamente utilizzato per la cura (oltre che per il lavoro), diventa elemento del campo, quasi un co-terapeuta la cui relazione con il paziente e con lo specialista si colloca su un piano che li trascende. Il primo filtro per la scelta di questo animale è dunque la sua socialità, che origina dalla presenza nel suo Sistema Nervoso Centrale di strutture deputate ad elaborare il dolore psichico della separazione5. Il secondo è l’empatia, che ha un valore altissimo per la socializzazione e la sopravvivenza della specie, poiché permette ad un individuo che non è in grado di provvedere a se stesso di sopravvivere perché altri si prendono cura di lui6: questo sentire, che comporta una traità 7, è presente anche tra asino e uomo8 . Rispetto alla conformazione fisica sono presenti tratti neotenici, ovvero i tratti somatici del cucciolo permangano nell’adulto: l’assenza di spigolosità del muso, la posizione degli occhi, la loro dimensione e proporzione rispetto al complesso della testa, unitamente alle orecchie grandi e mobili, rende

4 Cfr. www.ministerosalute.it 5 Cfr. G. Giovagnoli (2009), EmotiOnos: le ragioni profonde della scelta, in Reinger Cantiello P. (a cura di), L’asino che cura, Carocci Faber, Roma, 43-59. 6 Cfr. F. B. M. de Waal (2008), L’empatia negli animali, Mente e Cervello, 44, 94-100. 7 Cfr. M. Spagnuolo Lobb, G. Salonia (2003), Presentazione, in Cavaleri P. A., La profondità della superficie, Franco Angeli, Milano, 9-13. 8 Cfr. G. Giovagnoli (2009), EmotiOnos: le ragioni profonde della scelta , cit.

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L’asino diventa elemento del campo, quasi un coterapeuta la cui relazione con il paziente e con lo specialista si colloca su un piano che li trascende.

La scelta di questo animale è la sua socialità, che origina dalla presenza nel suo Sistema Nervoso Centrale di strutture deputate ad elaborare il dolore psichico della separazione.


l’approccio all’asino spontaneo e molto vicino a quello che è geneticamente determinato con i cuccioli, favorendo così la relazione attraverso comportamenti di caregiving9. Inoltre, se confrontato con il cavallo, l’asino presenta delle dimensioni che consentono anche a bambini ed utenti con disabilità fisiche di approcciarsi ad esso senza l’aiuto di terze persone. Infine, mentre la maggior parte degli altri animali normalmente richiede di essere accolta10, l’asino è sufficientemente grande da accogliere, rispondendo così ad uno dei bisogni fondamentali del paziente in psicoterapia. La Gestalt Therapy ricerca attivamente nel lavoro terapeutico un esser-ci di paziente e terapeuta con la mente e con il corpo, andando oltre una dicotomia che non è in grado di dare sostegno.

Quando è a contatto con l’animale, lo stile relazionale del paziente emerge chiaramente.

Il lavoro corporeo in onoterapia La Gestalt Therapy ricerca attivamente nel lavoro terapeutico un esser-ci di paziente e terapeuta con la mente e con il corpo, andando oltre una dicotomia che non è in grado di dare sostegno11. Infatti, seppure i diversi autori che hanno trattato questo tema in Gestalt Therapy possano assegnare al lavoro corporeo maggiore o minore importanza nella pratica terapeutica, è possibile affermare che esso è parte fondamentale del processo, tanto da portare Bloomberg ad affermare che “difficilmente una cura è molte chiacchiere”12. Quando è a contatto con l’animale, lo stile relazionale del paziente emerge chiaramente e permette di osservare se egli prediliga la modalità di contatto verbale o quella corporea. Se inoltre è vero che ci possono essere blocchi o resistenze, scotomizzazioni o rigidità nel corpo, è altresì vero che l’attività con un animale porta naturalmente l’interazione a un livello comunicativo che, seppur in grado di conservare aspetti

9 Cfr. P. H. Morris, V. Reddy, R.C. Bunting (1995), The

survival of the cutest: who’s responsible for the evolution of the Teddy Bear?, Animal Behaviour, vol.50, 6, 16971700.

10 Cfr. G. Giovagnoli (2009), EmotiOnos: le ragioni profonde della scelta, cit 11 Cfr. I. Bloomberg (1988), Lavoro corporeo nella terapia della Gestalt, Quaderni di Gestalt, 6/7, 93-122. 12 Ivi, 93.

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linguistici, si caratterizza per l’essere non verbale: dopo un tempo variabile di conoscenza e pre-contatto13, l’aspetto corporeo diviene figura centrale, mentre quello verbale scivola sullo sfondo. È così possibile lavorare primariamente sulla riorganizzazione della relazione che la persona ha con il proprio corpo14 e indirettamente su temi inconsci e su sentimenti ad essi collegati. In questa ottica, nel lavoro con gli asini si presenta al terapeuta la possibilità di osservare gli schemi motori e relazionali del bambino e dell’adulto, ma anche di riproporre quegli schemi che non sono stati appresi o che hanno perso di flessibilità perché consolidati nell’interruzione del contatto15. La possibilità di aggrapparsi alla schiena dell’asino consente al paziente di assumere una posizione ancestrale, in cui la pelle ed il pelo, confini tra il sé e l’alterità�, entrano profondamente in contatto. Il paziente sdraiato prono sul dorso dell’animale ha la possibilità di sentirne il calore e il respiro in una sorta di grooming (cura reciproca del corpo) totale che richiama alle cure parentali. Questa posizione permette di aumentare la consapevolezza del proprio addome, dando il senso del contenimento, così come avviene durante l’allattamento, in cui il bambino può perdersi tra le braccia della madre in una totale fusione con lei. Il movimento complementare, in cui il paziente appoggia la schiena sul dorso dell’asino, dà invece la possibilità di esperire quella separazione che porta ad aprirsi al mondo. Il terapeuta, quindi, può lavorare con i pazienti alternando queste esperienze corporee, permettendo ai pazienti di riappropriasi della capacità di fondersi e separarsi dall’altro in modo flessibile e gettando le fondamenta per un dialogo che si possa definire sano.

13 Cfr. F. Perls, R. F. Hefferline, P. Goodman (1997), Teoria e pratica della terapia della Gestalt, Astrolabio, Roma, ed. or 1951; G. Salonia (1989), Tempi e modi di contatto, Quaderni di Gestalt, 8/9, 55-64; P. A. Cavaleri (2003), La profondità della superficie. Percorsi introduttivi alla psicoterapia della Gestalt, Franco Angeli, Milano. 14 Cfr. M. Spagnuolo Lobb (a cura di) (1990), Quale approccio corporeo per un terapeuta della Gestalt? Conversazione con George Downing, Quaderni di Gestalt, 10/11, 25-34. 15 Cfr. R. Frank (2005), Il corpo consapevole. Un approccio somatico ed evolutivo alla psicoterapia, Franco Angeli, Milano.

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Il lavoro del terapeuta è quello di consentire al paziente una mobilitazione fluida di quelle emozioni e di quelle percezioni che vengono accuratamente represse o evitate.

L’approccio lento e rispettoso all’asino favorisce inoltre l’appropriarsi degli schemi in maniera graduale, secondo l’attenta modulazione delle attività da parte del terapeuta, che deve usare una particolare delicatezza nel proporre al proprio paziente esperienze che siano in linea con il punto in cui questi si trova all’interno del percorso terapeutico. Il lavoro del terapeuta è dunque quello di consentire al paziente, laddove riproponga una cronicità negli schemi di movimento interrotti, una mobilitazione fluida di quelle emozioni e di quelle percezioni che vengono accuratamente represse o evitate.

Cenni metodologici: un’esperienza clinica Il progetto, articolato in cicli di sei incontri di un’ora ciascuno, vedeva coinvolti gli otto gruppi dell’ANFFAS di Trieste, ognuno composto da sei-sette pazienti adulti affetti da ritardo mentale o da disturbo psichiatrico associato a grave disabilità fisica. L’equipe, che era formata da due psicoterapeuti, due operatori esperti in doma dolce e cinque asini, ha lavorato cercando di andare oltre il classico approccio comportamentale16, focalizzandosi sulla relazione e l’affettività. La progettualità, concordata e studiata con gli educatori dell’ANFFAS, prevedeva sia un adattamento dell’intervento al singolo, sia una risposta alle esigenze ed alle dinamiche gruppali. Si è lavorato simultaneamente su due versanti: quello cognitivo (linguaggio, schema corporeo e attenzione focale) e quello relazionale/affettivo, permettendo ai pazienti di incrementare la propria consapevolezza al confine di contatto. Nel corso del tempo terapeutico17, è stato possibile intervenire sulle diverse interruzioni del ciclo di contatto. Di seguito si descrive, a titolo esemplificativo, l’esperienza proiettiva in cui

16 Cfr. M. Zanobini (2005), Disabilità mentale, in M. Zanobini et alii, Psicologia della disabilità e della riabilitazione, Franco Angeli, Milano, 104-132. 17 Cfr. G. Salonia (1989), Tempi e modi di contatto, cit.; G. Iaculo (1996), Tempo e relazione nel processo terapeutico con la struttura esperienziale narcisistica, Quaderni di Gestalt, 22/23, 49-70.

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il bisogno provato, seppur chiaro, non può essere espresso, con conseguente proiezione sull’animale dell’aggressività necessaria a tale espressione18. Il paziente pertanto, in questa situazione, tira violentemente l’asino con toni severi e verbalizzazioni del tipo “Non essere testardo, comando io!”, oppure arretra impaurito a seguito di piccoli movimenti dell’animale in risposta al tentativo di condurlo od accarezzarlo. L’interruzione agisce nel momento in cui l’ansia, derivante ad esempio dalla paura di essere respinto o di fallire, rende insostenibile il fluire del contatto. In questa specifica modalità di interruzione è disponibile molta energia, ma il paziente avverte anche l’impossibilità dei propri confini di contenerla19, il lavoro con l’asino sembra quindi avere in sé alcuni tratti caratteristici in grado di rappresentare un sostegno naturalmente adeguato. Se infatti il terapeuta, consapevole e professionale nel suo ruolo, si deve porre come contenitore dell’energia del paziente, permettendogli di sperimentare una relazione che offre sostegno, l’asino per sua indole contiene ed accoglie, offrendo una risposta moderata, paziente e non giudicante, in grado di infondere fiducia nell’ambiente.

Conclusioni Nell’esperienza di lavoro con l’asino si è potuto sperimentare che spesso, laddove si innesca la difficoltà dell’uomo a creare la relazione – in particolar modo con i pazienti gravi20 – l’asino funge da ponte e da catalizzatore, consentendo di superare barriere o almeno creando degli spiragli che lascino intravedere la possibilità di una traità21 con il paziente.

18 Cfr. F. Perls, R. F. Hefferline, P. Goodman (1997), Teoria e pratica della terapia della Gestalt, cit. 19 Cfr. G. Salonia (1989), Tempi e modi di contatto, cit.; M. Spagnuolo Lobb (1990), Il sostegno specifico nelle interruzioni di contatto, Quaderni di Gestalt, 10/11, 13-24. 20 Cfr. G. Rondinella, A. Rizza (2001), La relazione terapeutica con lo psicotico: descrizione di due casi clinici, Quaderni di Gestalt, 32/33, 140-145. 21 Cfr. M. Spagnuolo Lobb, G. Salonia (2003), Presentazione, cit.

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Laddove si innesca la difficoltà dell’uomo a creare la relazione, l’asino funge da ponte e da catalizzatore, creando degli spiragli che lascino intravedere la possibilità di una traità con il paziente.


Abstract I tratti neotenici, la socialità, l’empatia e l’innata capacità di essere accogliente, rendono l’asino un ottimo co-terapeuta in grado di favorire il percorso che, attraverso la consapevolezza e l’accettazione, porta il paziente al cambiamento. In particolare dopo il pre-contatto il lavoro corporeo emerge in maniera naturale, consentendo di osservare gli schemi motori e relazionali del paziente e permettendo al terapeuta di riproporre ciò che non è stato appreso o ha perso di flessibilità. Quale forza può assumere la terapia con l’asino se operata secondo l’ottica della Gestalt Therapy? Nel presente articolo si cerca di dare una prima risposta, alla luce di un progetto che ha visto coinvolti circa cinquanta pazienti in due anni. For the English abstract click here

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BIBLIOGRAFIA

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Trasfigurazioni (particolare installazione SITE#1)




LETTURE

Perché siamo infelici? P. Crepet (2010), Einaudi, Torino.

«Della felicità si parla sempre con imbarazzo. (…) Eppure, di qualunque cosa parliamo, in fondo, non parliamo d’altro che di lei: di come l’abbiamo persa, di come la stiamo cercando, di come la sentiamo vicina o lontana, di dove l’abbiamo intravista, di quando l’abbiamo assaggiata. Anche solo una goccia rimane indimenticabile nonostante (o proprio per questo!) un torrente di amaro»1. Come ricorda Giovanni Salonia in un suo bellissimo saggio, il tema della felicità non cessa di intrigarci ed ora cinque tra i maggiori psichiatri italiani, insieme a un grande genetista, ci aiutano a capire il senso del suo opposto: l’infelicità. Ci si può liberare dell’infelicità o è invece insita nel cuore umano? È l’infelicità una malattia o una condizione normale dell’uomo? In ogni caso, da cosa dipende? È giusto contrastarla affannosamente o riconoscerle umana dignità? Questi alcuni degli interrogativi lancinanti affrontati dagli autori lungo le pagine del libro, con grande competenza professionale e serietà esistenziale. Nonostante un diverso modo di guardare alla razionalità umana (personalmente sono convinto che può condurci a scoprire il senso del vivere e la verità, e questo è per me il rimedio all’infelicità piuttosto che l’immergersi in mille occupazioni), un senso di profonda simpatia esistenziale mi ha preso nel leggere il contributo del genetista Boncinelli, apprezzandone la capacità di guardare con senso critico ad un facile ottimismo biologistico, secondo cui il ritorno al corpo e alla natura sarebbero la panacea di tutti i mali. Per il nostro autore, l’infelicità è destino umano, nel senso che tutti gli uomini sono infelici e non c’è verso di liberarli da tale condizione: «forse se ne riparlerà tra centinaia di migliaia di anni!» (p. 7). Vi sono nell’uomo due tipi di infe-

1 G. Salonia (2010), Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, parola e tempo, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 5.

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licità: quella legata di volta in volta ad un motivo concreto (che ci accomuna agli animali) ed una di fondo, tipicamente umana, legata al nostro essere razionali, perché la ragione ci aiuta ma non ci motiva a vivere: «noi inneggiamo alla natura, diciamo che è bella, giusta, da seguire. Ma non è vero!» (p.13). L’infelicità, quindi, dovuta alla inadeguatezza essenziale tra obiettivi e raggiungimenti, in quanto l’uomo si pone sempre nuovi obiettivi e sempre più alti. L’unico rimedio? «Le droghe sociali», perché «come diceva Ortega y Gasset: nessuno, se totalmente assorbito in un’occupazione, può sentirsi infelice» (p.7). In sintesi: non esiste un gene dell’infelicità, ma ne esistono mille o diecimila (troppi insomma per tentare di vincerli), ma non bisogna demonizzare l’infelicità perché serve per andare avanti, alla ricerca sempre di nuovi ostacoli da superare. La felicità? Quando siamo di umore basso o nero, il cervello si ribella e produce endorfine ed encefaline che innalzano l’umore: insomma «il piacer figlio dell’affanno», di leopardiana memoria, senza cercare alcun valore educativo nel dolore. Le riflessioni di Borgna, ricche di un meditato confronto con tanti autori e di tante significative citazioni (Baumann, Galimberti, Natoli, Bollnow, nonché Rilke, Weil, Hillesum, solo per citarne alcuni) percorrono diverse strade: anzitutto, in accordo con Galimberti, si evidenzia come la felicità sia figlia della realizzazione di sè nel senso del nietzschiano “diventa ciò che sei”. In quest’ ottica, si deduce necessaria la pratica filosofica, per insegnare alle nuove generazioni le condizioni che permettano l’accadere della felicità: la cura dell’anima e il governo di sé come vie alla felicità. In più, quest’ultima come dovere etico, perché trasmette positività alle persone che ci circondano e presuppone realistica conoscenza di sé e della misura concessa agli umani. Veniamo aiutati, poi, ad operare diverse distinzioni. Anzitutto, quelle tra i vari gradi della felicità: la piccola felicità che si accontenta di poco, la felicità calma e tranquilla frutto di un’esistenza piena e conforme alla natura, quella connessa all’esperienza estetica e la felicità/beatitudine, dovuta all’esperienza religiosa. Inoltre, la distinzione tra felicità, godimento immediato e gioia; mentre la prima è più di superficie, quest’ultima può coesistere col dolore, è

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figlia di un cuore che si apre nella saggezza ad entrambi come doni preziosi e si esprime nel sorriso e nella luce degli occhi; il godimento, invece, se confuso con la felicità, porta all’ossessività della ripetizione deludente. Non poteva certo mancare un riferimento all’esperienza psicotica (dove la felicità patologica ha il senso della fuga nel maniacale per liberarsi da ogni dolore e sofferenza) e alla felicità artificiale, frutto di prodotti farmaceutici, per concludere che «non c’è felicità vera, e psicologicamente dotata di senso, che possa essere ricondotta alla influenza di farmaci o di sostanze stupefacenti» (p. 52). Durante la lettura mi raggiunge un senso di pacata, sofferta, compassionevole fatica; inizio ad essere convinto: com’è difficile la felicità! L’appassionato discorrere di Crepet ci aiuta a cogliere «il tossico seme della infelicità odierna», generato da una bugia («il benessere interiore sarebbe stato immediata conseguenza del benessere economico», p. 70), alimentato dall’educazione di «bambini consumisti», culminante nella tendenza giovanile a sottoporsi a terrificanti ritualità pur di reprimere i bisogni emotivi. È, in altri termini, la neoinfelicità (un business per le case farmaceutiche) dovuta ad una cultura del presentismo, giovanilista, che non educa i giovani ad avere retrospettiva (radici) e nemmeno prospettiva (ideali alti). Così, il nostro autore ci avvisa che non vi può essere felicità senza coltivare «il magnifico anelito della ricerca» e senza collaborare alla felicità comune: l’apprendimento dell’arte del ben vivere, la ricerca di senso e la cura della comunità come necessarie tappe verso la felicità. Considerando le interessanti riflessioni, immaginavo nell’autore un senso di amarezza, come di battaglie sociali definitivamente perse. Felicità oggi: sul ponte sventola bandiera bianca? Andreoli, in una sua anatomia dell’infelicità, ci invita a distinguere tra cause biologiche, cause relazionali (qui contrappone l’amore che costruisce i rapporti all’invidia che li avvelena ed uccide, secondo il presupposto per cui fare il bene, essere buoni, vivere bene dà felicità) e cause comunitarie, essendoci società che predispongono alla felicità ed altre all’infelicità: «se da una società della felicità si passa ad una società del denaro (…), è chiaro che si assiste ad una vera mutazione di civiltà (…). Si mortifica il sapere, la creatività, l’etica, per

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ridurre tutto a quantità di denaro» (p.113). Il monachesimo sembra ad Andreoli una possibilità di contestazione di una società di tal genere e suo è il sogno di un monachesimo laico, di un monastero dei non credenti. Sempre interessante l’analisi delle vie di fuga da un’infelicità percepita come insanabile: la depressione, la maniacalità («il maniacale dimentica l’infelicità e sposa la felicità», p. 133), la scissione schizofrenica, il minimalismo «che è un ridurre l’esistenza a gesti che vengono ripetuti» (p.120). In sintesi, nella visione di Andreoli l’uomo è necessariamente infelice, a causa dell’insoddisfazione che lo divora e del destino mortale che lo attende; l’autore non è esente dal dramma e lo confessa con spietata, umana, professionale, sofferta lucidità: «sono un uomo infelice, vivo in un mondo infelice e pratico una professione, la psichiatria, che è una scienza infelice. Mi propongo in ogni momento di aiutare gli infelici a essere almeno sereni» (pag.133). Sì, sul ponte sventola bandiera bianca! Tra la lucidità e la profondità dello scritto, oltre alla gratitudine per quanto ricevo, inizio a sentire sempre più il bisogno di una gioiosa luce medievale. Una luce, ma tutta contemporanea, mi arriva dalle pagine di Andolfi – a suo tempo mio indimenticabile maestro – dedicate alla felicità e alla infelicità del bambino, perché è possibile la gioia di dare ai bambini una serenità di fondo e alcune esperienze felici. Infatti «un bambino può vivere una condizione di felicità quando vengano soddisfatti i suoi bisogni emozionali primari (…): modalità di accadimento basate sulla sensibilità ai bisogni del piccolo – ovvero sulla capacità del genitore di riconoscere i bisogni di conforto e di aiuto – e sulla prontezza della risposta, danno luogo a uno sviluppo ottimale» (p. 137). Andolfi ci segnala i bisogni emozionali primari che fanno da linee guida al suo lavoro: l’amore incondizionato da parte dei genitori e dei familiari più stretti, indipendentemente dagli eventi della vita e dai comportamenti del bambino; il rispetto e l’apprezzamento per le sue competenze relazionali (il riconoscimento del bambino, potremmo dire, come mente relazionale pensante); la stabilità affettiva intesa come continuità degli affetti nel tempo; il riconoscimento e la chiarezza nelle gerarchie generazionali; l’aiuto e

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la guida per imparare a comportarsi bene e ad attingere nuovi valori ed esperienze nella società. «Se tali bisogni primari vengono disattesi è probabile che subentrino nel bambino uno stato di insicurezza e di tristezza esistenziale che possono diventare una seria minaccia al suo sviluppo armonico» (p.138). Il nostro autore si diffonde, poi, nel segnalare come particolarmente grave sia la mancanza del rispetto della linea generazionale, parlando dei bambini che perdono un genitore e di quelli “contesi” nei conflitti o nelle separazioni genitoriali: impedire ad un bambino di esprimere il suo dolore (perché minaccioso per il mio equilibrio di “adulto”) o triangolarlo nelle magagne dei grandi crea scompenso psichico: «togliere la felicità a un bambino è un danno evolutivo irreparabile» (p.162). Callieri connette felicità ed infelicità alle evoluzioni del desiderio e ci offre anch’egli un’interessante tipologia delle modalità di viverlo: «dell’isterico, che si crea perennemente un desiderio insoddisfatto, un’insaziabile bramosia di novità; dell’ossessivo, che si carica di un desiderio impossibile, incollato ai ritmi ripetitivi, in cerca di rassicurazione; del libertino, che cerca invano di far coincidere la libertà col desiderio; del melanconico, per il quale si può propriamente parlare di atopia del desiderio» (p. 171). Veniamo poi condotti ad analizzare le dinamiche della speranza e della disperazione: «aspirando alla felicità, molti di noi sono destinati a vagare spaesati, tra sicurezza e desiderio. È in questo inquieto borderland che il nostro animo si apre alla speranza (p.173)». Da riprendere senz’altro e da approfondire gli interessanti accenni dedicati dall’illustre professore alla psicologia di Giobbe e alla speranza cristiana: di Giobbe, visto come «paziente, sicuro, che attende con fiducia» (p.179), l’esegesi evidenzia il contendere con Dio, reciprocamente trasformante, come via alla gioia; e della speranza cristiana sarebbe interessante capire come è possibile che sia, oltre che «dovere morale», anche esperienza psico-corporea dovuta alla lotta con Dio: infatti proprio la resistenza di Dio può alimentare la speranza in quanto forma, comunque, di contenimento e di rivelazione. Mi permetto di segnalare al lettore interessato a questi

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argomenti che le belle parole di Teresa d’Avila «tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto» (p.183) sono ascrivibili ancor prima a San Francesco o almeno agli scritti francescani2. Al termine della lettura, con gratitudine porto con me più “chiarezza” riguardo ai diversi stili esistenziali che ci permettono di affrontare/fuggire l’infelicità e riguardo alla distinzione tra il livello patologico e quello esistenziale: c’è un’infelicità patologica che affonda le sue radici nei drammi o nelle tragedie evolutive e c’è un’infelicità adulta, che risente certamente del bambino o dell’adolescente che vive dentro di noi, ma che ne è autonoma: essa è ineliminabile, connessa alla nostra condizione di umani, cioè limitati e mortali, destinati, normalmente, ad attraversare il travaglio di divenire adulti, anziani e ad affrontare la morte. Considerare l’infelicità maledizione (incomprensibile peso di chi è gettato nel mondo) o benedizione (motore verso la ricerca di senso e di verità) è scelta cui siamo chiamati a confrontarci ogni giorno e soprattutto nei periodi di crisi. Senz’altro vivere nell’amore o nell’invidia, nell’egoismo o nella cura delle relazioni e della comunità, nello stordimento o nella pratica filosofica e terapeutica, voler fuggire l’agonia e l’estasi o decidere di viverle fino in fondo, lasciar maturare l’adulta capacità di cura e la saggezza o rimanere giovanilmente immaturi, tutto questo incide pesantemente sull’evoluzione di ciascuno e della società. In questo senso, si può e si deve parlare della necessità di un’educazione alla ricerca della felicità; nella nostra società, liquida e dell’incertezza, in cui secondo Baumann abbiamo infiniti motivi in più rispetto al passato per sentirci insicuri e in cui, contemporaneamente, vige il comandamento ad essere giovani e felici, vi è veramente il rischio di assumere come via di risoluzione del paradosso lo stordimento e l’anestesia esistenziale, che fanno dell’attuale l’epoca delle passioni tristi3. Torna prepotente il bisogno di luce ed essa

2 Fonti Francescane (1990), a cura di E. Caroli, EMP, Padova, 1897. 3 Cfr. M. Benasayag, G. Schmit (2003), L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano.

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mi raggiunge con le parole di Tommaso d’Aquino custodite fin dai tempi degli studi giovanili: «subiectum moralis philosophiae est operatio humana ordinata in finem». Mi dà gioia, nella pratica terapeutica e “filosofica”, vivere la vita come una «casa di studio», in cui cercare ogni giorno la cura adulta dell’uomo, il fine della sua esistenza, la verità ed “immaginarne” il volto materno. Nello Dell’Agli

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J.P McHale (2010), Raffaello Cortina Editore, Milano, ed.or. 2007

Il volume di James McHale esorta ricercatori e professionisti interessati ai contesti relazionali, alla vita familiare e ai percorsi evolutivi, nonché genitori e figli, a non perdere di vista la strada verso la cura dei legami affettivi. Attraverso un attento e ben articolato studio longitudinale sulla gestione congiunta dell’accudimento dei figli nei primi tre anni di vita (Families through time project), l’autore ci consente di tracciare un percorso di osservazione sulla transizione alla co-genitorialità: un passaggio critico nella vita di coppia in cui entrambi i partners genitoriali si con-frontano, esprimendo stili o alleanze diverse rispetto alla cura e all’educazione dei propri figli. Tra i numerosi filoni di ricerca mirati all’osservazione delle relazioni genitori-figli, alle variabili critiche, protettive e di rischio, dei processi di sviluppo (emotivo, sociale) e alle dinamiche familiari, che certamente guidano alla comprensione della genesi dei legami primari, lo studio sulle famiglie di McHale apre ad una prospettiva che va oltre l’unità d’osservazione e le formulazioni diadiche (madre-figlio; padre-figlio): la triade primaria madre-padre-bambino, già micro-analizzata da altri gruppi di ricerca1, viene specificatamente concepita come matrice interattiva parallela all’esperienza diadica; viene altresì utilizzata come terreno privilegiato, anche nei servizi di salute mentale, per l’individuazione (precoce) di procedure di accoglienza, valutazione e sostegno da rivolgere alle coppie

1 Cfr. E. Fivaz-Depeursing, A. Corboz-Warnery (2000), Il triangolo primario, Raffaello Cortina, Milano. Tra le tante ricerche ed applicazioni del modello LTP, cfr. M. Malagoli Togliatti, S. Mazzoni (a cura di) (2006), Osservare, valutare e sostenere la relazione genitori-figli –Il Lausanne Trilogie Play clinico, Raffaello Cortina, Milano; Simonelli et al. (2009), Il Lausanne Trilogue Play: potenzialità diagnostiche e prospettive di intervento nella valutazione delle competenze interattive familiari, Infanzia e Adolescenza, 8, 1, 1-12.

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La sfida della cogenitorialità


genitoriali e ai gruppi familiari; nonché estesa per favorire una efficace connessione tra ricerca e clinica, mediante sistemi di codifica attendibili delle modalità interattive direttamente osservate tra genitori e figli, senza ridurne la complessità del sistema famiglia e il divenire dei corpi familiari nel loro organizzarsi insieme. Il volume sembra non temere le sfide connesse alla transizione al co-parenting, metaforicamente rappresentata da una strada accidentata (the bumpty road of coparenthood); innanzitutto descrivendone le caratteristiche e la sua importanza sia in ambito teorico che clinico; riportando inoltre uno studio focalizzato sui tempi dell’attesa di alcune coppie di neo-genitori, vissuti dai primi mesi della gravidanza fino all’età dei primi passi, nonché sulle speranze ed aspettative dagli stessi nutrite, immaginando la vita familiare durante gli ultimi mesi della gestazione e poi dopo la nascita del figlio. L’accurata attenzione alla descrizione delle procedure di osservazione e valutazione della co-gestione dell’accudimento consente, anche in ambito clinico, di cogliere già a 3 mesi dalla nascita del figlio, la qualità dell’alleanza co-genitoriale, intesa come la capacità di sostenersi reciprocamente e di lavorare insieme al mestiere di genitori. Tale alleanza familiare diventa altresì una variabile indicativa sia del livello di adattamento precoce della coppia già a tre mesi dal parto (risultato il momento di maggiore insoddisfazione coniugale), sia del collegamento tra funzionamento coniugale e cogenitoriale, analizzato in gruppi di genitori con bambini di un anno, attraverso visite domiciliari da parte del gruppo di ricerca e l’utilizzo della Coparenting Scale2 e del Coparenting and Family Rating System3, quali sistemi di valutazione della triade familiare. L’intreccio tra le dinamiche cogenitoriali e la capacità di adattamento del bambino, osservata anche in presen-

2 Cfr. J. McHale (1997), Overt and covert coparenting processes in the family, Family Process, 36, 183-201 3 Cfr. J. McHale, R. Kuersten-Hogan, A. Lauretti (2000), Evaluating coparenting and family-level dynamics during infancy and early childhood: The Coparenting and Family Rating System, in P. Kerig, K. Lindahl, (a cura di), Family observational coding systems: resources for systemic research, Erlbaum, Hillsdale, NJ, 151-170

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za di un nuovo membro familiare nel sottosistema dei fratelli, viene infatti enfatizzato attraverso il resoconto di una serie di studi, condotti dall’autore già dagli anni Ottanta, su gruppi di genitori con bambini lattanti. L’ipotesi iniziale riguardava la correlazione tra un buon livello di solidarietà nella partnership genitoriale e la presenza di alti indici di collaborazione e sostegno cogenitoriale, ovvero di un numero minore di indici di conflitto e disimpegno. Il volume, curato evitando tecnicismi, è altresì guidato da una serie di domande-stimolo (relative al grado di continuità nel tempo dell’adattamento cogenitoriale e del figlio), che trovano spazio in un’ampia rassegna sulle esigenze delle famiglie e sui temi co-genitoriali, caratterizzata da un atteggiamento di scoperta su ciò che tali famiglie nel tempo ci consentono di apprendere: che cosa abbiamo imparato e cosa le famiglie dovrebbero sapere? Su tali considerazioni teoriche e cliniche, si scorgono peraltro le riflessioni epistemologiche della Gestalt Therapy sulle teorie evolutive e altresì sull’Infant research, elaborate dall’osservazione del bambino in contatto con il proprio caregiving enviroment, che guarda alle interazioni come ad una danza relazionale o ad uno schema of being-us-with 4. In altri termini, l’osservazione dei bambini attraverso le interazioni con la coppia co-genitoriale sembra far emergere, in modo fluido, il senso sotteso di una visione della crescita intesa come progressiva modificazione di unità “dell’essere-cicon”, tracciando le tappe di un cambiamento di paradigma che si apre al triangolo relazionale (coppia co-genitoriale e figlio) e in cui la diade tra i due partner genitoriali regola ogni singola diade genitore-figlio. La relazione di un genitore verso il proprio figlio si evolve, allora, se deriva da un valido sostegno con e per il co-genitore, che ne accetta la funzione e il compito evolutivo. La prospettiva della GT evidenzia infatti un processo d’integrazione relazionale organismo-ambiente, inteso come atto creativo in cui l’organismo approccia l’ambiente per prendere

4 Cfr. G. Salonia (2005), Prefazione, in P. L. Righetti, Ogni bambino merita un romanzo, Carocci, Roma, 7-19.

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ciò che è utile alla propria crescita mediante un processo autoregolativo (autoregolazione organismica) che si nutre di un’istanza interna (e non esterna) nei termini di vissuti relazionali. Tuttavia, l’autoregolazione è intesa come processo meramente relazionale quando non riguarda i comportamenti ma i vissuti relazionali, tra i partecipanti alla relazione, e consente pertanto di guardare al rapporto del genitore con il figlio (e viceversa), tenendo presenti sia il vissuto relazionale tra i genitori tra di loro in quanto genitori, sia il vissuto di ogni genitore rispetto alla relazione dell’altro partner con il figlio 5. In conclusione, il lavoro di James McHale ci pone di fronte alla sfida di partire dal riconoscimento dei limiti delle ricerche e delle osservazioni che guardano esclusivamente alle diadi madre-figlio o padre-figlio: oltrepassare unità di studio e di ricerca clinica pre-costituite per assumere come campo d’analisi unità triadiche. Ci offre inoltre uno sguardo sui vissuti di un bambino davanti a due volti entrambi significativi, verso un nuovo orizzonte epistemologico aperto alla comprensione dei modelli evolutivi e “alla profondità del sacrificio di sé” da parte dei genitori per il proprio partner e la propria famiglia. Aluette Merenda

5 Cfr. G. Salonia (2009), Letter to a young Gestalt therapist

for a Gestalt therapy approach to family therapy, British Gestalt Journal, 18, 2, 38-47.

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Mindfulness e cervello D.J. Siegel (2009), Raffaello Cortina Editore, Milano

Da molti anni l’impegno di Daniel Siegel è rivolto alla ricerca di collegamenti tra domini diversi del sapere (come ad esempio scienza e spiritualità), al fine di raggiungere una comprensione più piena dell’esperienza umana interiore ed interpersonale. In particolare, la sua passione scientifica è rivolta a “comprendere come le relazioni ci aiutano a plasmare le nostre vite e il nostro cervello”. Fin dai primi anni novanta, attraverso la prospettiva della Neurobiologia Interpersonale, l’Autore ha tentato di promuovere una visione interdisciplinare della mente, integrando metodi di indagine radicalmente diversi quali la neuroimaging e la meditazione. Percorrendo lo stesso doppio binario dell’esperienza meditativa da una parte e della ricerca empirica dall’altra, Siegel ci accompagna in questo interessante viaggio nel campo della mindfulness e delle sue applicazioni pratiche. Il termine inglese, per lo più tradotto come “presenza mentale” o “piena consapevolezza”, indica la capacità di vivere in maniera piena l’esperienza del ‘qui ed ora’, attraverso l’esercizio di una deliberata e non giudicante attenzione al momento presente. Un tipo di “pratica” analogo si ritrova nelle tradizioni contemplative di tutto il mondo: nella centering prayer cristiana come nello yoga, nel tai chi chuan come nella meditazione buddhista. Al di là delle sue derivazioni spirituali, la mindfulness può rappresentare un valido antidoto ad uno stile di vita automatico ed inconsapevole, capace di indurre quei vissuti di torpore e di vuoto esistenziale che ritroviamo anche nei nostri pazienti. La frammentarietà e la complessità degli stimoli a cui ci espone la società contemporanea crea il presupposto per una progressiva alienazione degli individui. Secondo l’Autore, infatti, siamo sempre meno disponibili a stabilire quelle interazioni umane che risultano fondamentali anche per plasmare le connessioni tra i nostri neuroni. In un tale contesto, diventa difficile non soltanto sintonizzarci gli uni con gli altri, ma anche sintonizzarci con noi stessi semplicemente per respirare e per “stare”.

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Siegel ci illustra con ricchezza e coerenza scientifica le applicazioni della mindfulness ai campi dell’educazione, della clinica, della psicoterapia e, più in generale, per la comprensione e la promozione del benessere. Non soltanto la mindfulness può essere appresa come una sorta di training all’interno della terapia, ma è anche l’atteggiamento “mindful” del terapeuta verso il paziente a risultare di per sé terapeutico. Tale disposizione di apertura empatica nei confronti del paziente, infatti, attiva e promuove una reciproca focalizzazione dell’attenzione su ciò che emerge nell’incontro delle menti. Lo sviluppo di questo processo per cui i protagonisti iniziano a risuonare reciprocamente con i propri stati mentali (sintonizzazione), costituisce per Siegel il fulcro del cambiamento terapeutico. Un unico rischio: molti dei concetti che incontriamo in queste pagine (ad esempio l’attenzione al dispiegarsi dell’esperienza nel ‘qui ed ora’, il fare esperienza dal basso verso l’alto liberandosi dal vincolo delle categorie mentali, la definizione del Sé non come risultato dei processi integrativi tra organismo e ambiente ma come il processo stesso di tale integrazione) potrebbero indurre nel terapeuta della Gestalt un certo senso di dejà entendu. È forse più gratificante pensare che le intuizioni avute da Perls e Goodman, ormai più di sessant’anni fa, ricevano oggi sempre maggiori conferme. Fabio Presti

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L.D. Regazzo (2010), CLEUP, Padova

Il libro, il cui taglio è quello di un manuale per la ricchezza e la mole dei contributi e degli studi scientifici presentati, raccoglie gli scritti nel campo della prevenzione, diagnosi e trattamento dell’ansia di diversi e autorevoli autori italiani e stranieri. Nella prima parte del testo, dopo una trattazione introduttiva dei Disturbi d’Ansia secondo il DSM IV-TR e la successiva focalizzazione sull’Ansia come possibile manifestazione sintomatologica all’interno del quadro dei Disturbi di Personalità, vengono presentati un certo numero di studi empirici a cui ispirarsi per progettare interventi specifici di promozione della salute mentale, e quindi di prevenzione dell’Ansia, rivolti in particolare all’età evolutiva. Nei contributi successivi vengono prese in considerazione le moderne linee guida nell’ambito del trattamento farmacologico dei Disturbi d’ansia e viene data una panoramica generale della complessa Psicobiologia dell’ansia. La seconda sezione, che rappresenta il “cuore” del testo, ospita diverse scuole di pensiero e dunque differenti modelli psicoterapeutici per la diagnosi e cura dell’ansia. I contributi sulla psicoterapia, nella pubblicazione, vengono sistematizzati per aree specifiche: nell’area psicodinamica vengono collocati gli articoli di Marilla Malugani (Psicoterapia dinamica breve) e di Luigi D’Elia (Gruppoanalisi). Rientrano invece nell’area Cognitivo-comportamentale i contributi di Spiridione Masaraki e di Giovanni Cavadi. Maria Armezzani e Matteo Paduanello descrivono, per l’aerea Costruttivista, i postulati e corollari della teoria di Kelly, mentre Diego Romaioli, nella sezione dedicata all’area Costruzionista, delinea la terapia interazionista per i disturbi d’ansia. Nell’area Umanistico-esistenziale rientrano gli scritti di Alfried Lägle e Silvia Muller Lägle (Teoria Esistenziale), di Giovanni Salonia (Gestalt Therapy) e di Gianni Francesetti e Michela Gecele (Gestalt Therapy). Tra i modelli psicoterapeutici, Luciano Rispoli presenta il NeoFunzionalismo, Lucio Demetrio Regazzo introduce il Modello

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Ansia che fare? Prevenzione, farmacoterapia e psicoterapia


Esistenziale Integrato e Giuseppe Pecere presenta la Terapia Strategica Breve. Infine, il volume termina con un articolo, preceduto da un’introduzione critica del curatore, di Fulvia Gabrieli e Selene Calloni Williams, che presentano un’area non convenzionale, volta all’apertura di possibili nuovi oggetti di studio. Dalla lettura del testo emerge chiaramente lo sforzo di raccogliere e sistematizzare in un’unica opera i contributi più attuali nel campo della prevenzione, diagnosi e trattamento dell’ansia; ciò consente di operare un confronto individuando le ovvie differenze ma anche le sorprendenti connessioni tra i vari orientamenti presentati. Ad un’analisi più attenta, tuttavia, si rileva che l’area della prevenzione dei disturbi d’ansia poteva essere ulteriormente sviluppata, dando maggiore spazio ai contributi e ai programmi di promozione della salute mentale attualmente esistenti. Un “divario tra impegno e investimenti per la cura e quelli per la prevenzione dell’ansia, siano essi economici o espressi in termini di risorse umane”. Rispetto a quest’ultimo punto, si può concordare con il curatore del volume nel sostenere che vi è un “divario tra impegno e investimenti per la cura e quelli per la prevenzione dell’ansia, siano essi economici o espressi in termini di risorse umane” (p. 20). Alcuni contributi, tra i modelli psicoterapeutici, presentano casi clinici e dialoghi terapeutici che arricchiscono la descrizione dello sfondo teorico con la prassi clinica. Ampia e aggiornata, alla fine di ogni articolo, risulta la rassegna bibliografica che può guidare il lettore verso ulteriori interessanti approfondimenti. Interessante anche lo sguardo volto verso discipline come la Psiconeuroendocrinologia, che può aprire nuovi orizzonti nel confronto sia con la farmacoterapia che con i modelli psicoterapeutici. Assunta Tolentino

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Trasfigurazioni (particolare installazione SITE#1)




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