WINE PASSION
DOVE VA IL PECORINO
A ROMA SI MANGIA SARDO
Antonella Fadda
MAGIA DELLE TRADIZIONI
Sommario
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Vino sardo e bella gente
Mensile diretto da GIORGIO ARIU giorgioariu@tin.it
28 I RITI DEL CIBO 32 CAGLIARI LA GRASSA 26 DULCHES E MANIGOS IN SA DIE DE FERIAS
Foto di copertina Antonella Fadda
Registrazione presso il Tribunale di Cagliari N. 499 del 16-10-1984
ECCO LE AZIONI PER GOVERNARE IL LATTE
24 SARDINIA INSULAE VINI
Per la fotografia: GIA foto, Antonella Fadda, Andrea Nissardi, Sarah Pinson, Carla Piroddi
Stampa e allestimento GRAFICHE GHIANI
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16 L’ISOLA NEL CUORE DEI NON RESIDENTI
Scritti di: Antonello Angioni, Giorgio Ariu, Simone Ariu, Biagio Arixi, Maria Deiana, Paolo Fadda, Giampaolo Lallai, Andrea Nissardi, Gian Piero Pinna, Mario Sanges
Concessionaria per la pubblicità GIA Comunicazione Via Sardegna 132 - 09124 Cagliari Tel. 070.728356 - Fax 070.728214
VINO SARDO E BELLA GENTE
10 SPECIALE L’ISOLA CHE C’È 2010
In redazione: Simone Ariu, Maurizio Artizzu, Antonella Solinas
Redazione Via Sardegna, 132 - 09124 Cagliari Tel. 070.728356 - Fax 070.728214 giorgioariu@tin.it
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32 LE MINESTRE, SOLO UN RICORDO?
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44 VIAGGIO ATTORNO ALLA CUCINA DEI SARDI
La crisi
DEL COMPARTO LATTIERO CASEARIO
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Ufficio del Garante Presidenza del Consiglio dei Ministri Registro Nazionale della Stampa n. 3165 Anno 25 - N. 4 Ottobre 2010 Sped. in Abb. post. - 45% art. 2 comma 20/b legge 662/96 Filiale di Cagliari
Distribuzione Agenzia Fantini S.P. Elmas-Sestu Km. 2,400 Tel. 070.261535 - 260053 Associata AIPE Associazione Italiana Piccoli Editori GIA Editrice di Giorgio Ariu Premio Europa per l’Editoria Premio Editore dell’Anno per l’impegno sociale e la valorizzazione della cultura sarda
L’ISOLA NEL CUORE DEI NON RESIDENTI
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IL RITO DEL CIBO
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38 Le minestre
SONO ORMAI SOLO UN RICORDO?
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iù buoni a tavola
Giorgio Ariu Direttore di Sardegnatavola
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ià in ginocchio negli ultimi anni, ora agricoltori e pastori lottano strenuamente per salvare lavoro, campagna, dignità e prospettive. Il latte ovino caprino, per le ferree leggi di mercato rischia di sparire dalle nostre tavole. L’estate più rovente per le loro speranze ha bruciato più di un tavolo di concertazione e anche da Roma non sono giunti fatti concreti. “Occorrono risorse, subito, altrimenti la pastorizia morirà”, tuona l’assessore non stop Andrea Prato. Presidi, marce, proteste muscolari, lotte fratricide: di tutto di più nel filo della disperazione. E nel corso dell’evento L’isola che c’è – Sardegna Incontra Roma, nella Arcibasilica di San Giovanni in Laterano la crisi della pastorizia è giunta sino all’altare. E’ che con l’armonia dei canti in gallurese la messa domenicale delle dodici riempiva i cuori e scioglieva le lacrime della moltitudine di emigrati, che con i romani e gli stranieri gremiva la chiesa. Il celebrante non perdeva l’occasione per fissare la “messa sarda” e parlare degli
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A ROMA IL PECORINO PER I POVERI DI SAN GIOVANNI sprechi “alla billionaire” di certe zone dell’isola votate alla vita superpatinata e edonisticamente sfrenata. Quindi invitava sull’altare chi scrive per il saluto ai sardi di Roma. “Padre, l’isola dal volto vero è quella della grande dignità e della cultura dei sacrifici, anche davanti alla precarietà del lavoro, ai tanti disoccupati, ai giovani senza prospettive: è l’isola dell’umiltà e del gusto delle sfide, ma soprattutto della generosità. Così ringraziando la Città Eterna e la comunità di San Giovanni per la calorosa accoglienza, a nome del mondo delle campagne, dei pastori e del Consorzio Pecorino vorremmo donare formaggi definiti cinicamente “eccedenti dal mercato ai più bisognosi di questo Municipio”. Più o meno, queste le mie parole e certo qualche lacrimuccia di emozione inumidì uno,due,chissà quanti visi. Fuori, nella magica piazza, proseguiva il confronto tra le tante lingue e le proposte della cultura, del turismo, dell’enogastronomia, del giornalismo, dei parchi minerari e di quelli boschivi di un’isola delle eccellenze
che strappava consensi straordinari e un “tutto esaurito” che segna ancora una volta il semaforo verde per un format così originale e consolidato che esalta le “isole” coraggiose dei Sardi di buona volontà.
2010 vino sardo E BELLA GENTE
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opo tre giorni di degustazioni e numerosi eventi collaterali, si è concluso il Porto Cervo Wine Festival con numeri - come sempre ormai - incoraggianti: oltre quattromila i visitatori che hanno raggiunto il Cervo Conference Center per degustare le etichette dei sessanta produttori sardi, nazionali ed internazionali presenti alla manifestazione organizzata dagli alberghi Colony Capital gestiti da Starwood. Numeroso anche il pubblico presente alle tavole rotonde moderate dal giornalista Bruno Gambacorta e che ha assistito con grande partecipazione ai dibattiti animati da esperti di livello, giornalisti, produttori, politici e da personaggi dello spettacolo, come la bellissima madrina dell’evento Federica Fontana, il vincitore di Sanremo Valerio Scanu, lo chef televisivo Alessandro Borgehese e il cantante Paolo Meneguzzi che in Sardegna, tra l’altro, ha presentato il suo nuovo album. Il Porto Cervo Wine
di Andrea Nissardi
Festival, anche quest’anno, ha voluto assegnare alcuni significativi riconoscimenti, consegnati da Franco Mulas, Area Manager Starwood. «Per aver scritto alcune tra le pagine più importanti della storia dell’enologia sarda portando nel mondo la qualità dei vini, frutto della combinazione tra uomo e territorio, per la capacità di far diventare una storia di famiglia, la storia di una terra attraverso il vino – spiega Franco Mulas – abbiamo deciso di consegnare il nostro riconoscimento all’azienda Argiolas». Tra le aziende nazionali si è distinta Bellavista, per aver contribuito in maniera determinante alla crescita del territorio Franciacorta. Il premio Porto Cervo Wine Festival - Comunicatore del turismo enogastronomico, è andato invece a Gioacchino Bonsignore, curatore della rubrica Gusto del Tg5 che festeggia i 10 anni. Hanno poi fatto da contorno alle degustazioni anche alcune presentazioni editoriali, molto apprezzate dai visitatori. Tra gli altri abbiamo incontrato Gavino Sanna, in qualità di produttore, che tra gli altri promuoveva il suo Buio Buio e Graziano Mesina, che assaggiava e brindava con molti ospiti incuriositi. Un altro momento significativo del Porto Cervo Wine Festival è stata l’asta di beneficenza a favore dell’AIRC ospitata all’Hotel Pitrizza, durante la quale sono state battute bottiglie pregiate messe a disposizione dai produttori presenti all’evento. Tra i pezzi di particolare valore sono da segnalare una bottiglia di Capichera 2003 e una di Mantenghja 2003 delle Tenute Capichera, una Magnum di “50&50” vendemmia 2005 prodotto da Capannelle ed Avignonesi, una di “SummuS” vendemmia 1997 prodotta da Banfi, una Magnum di Turriga prodotto da Argiolas, una di “Brunello di Montalcino” vendemmia 1995 prodotta da Col d’Orcia e tre bottiglie “Jeroboam” di Spumante prodotte da Astoria Vini. A fine serata sono stati raccolti oltre diecimila euro che andranno totalmente a sostegno della ricerca sul cancro.
Andrea Nissardi
E
R
oma, 29 settembre 2010 - “Per la pastorizia sarda quello di oggi al ministero delle Politiche agricole è stato l’ennesimo incontro interlocutorio: parole molte, promesse poche, atti concreti nessuno. Ecco perché la Regione Sardegna esce dal tavolo e dalla task force istituita dal ministero. Una decisione grave, presa d’intesa con il presidente Cappellacci, ma in questo momento non c’è altra scelta: anche perché è passato un mese e le risposte per i nostri pastori
tardano troppo. La piattaforma di rivendicazioni tra le Regioni e il ministero procede a passo di lumaca mentre la casa della pastorizia ovi-caprina crolla a colpi di contributi dati al latte vaccino e negati alle 70 mila imprese italiane che allevano pecore e capre”. È il commento dell’assessore regionale dell’Agricoltura Andrea Prato al termine del vertice odierno a Roma. “Dal 2005, grazie all’Ocm latte (organizzazione comune di mercato), e dal 2009 per la vergognosa spartizione dei fondi dell’articolo 68 del Regolamento 73/2009 (che ha premiato le multinazionali del tabacco e delle macellazioni, oltreché i 3000 ingrassatori di vitelli francesi) – continua l’assessore - il latte ovi-caprino
cco le azioni per
LA CRISI DEL COMPARTO OVINO: ANDREA PRATO LASCIA IL TAVOLO MINISTERIALE
ha subito torti tali da rischiare, allo stato delle cose, di sparire dal mercato. Detto questo, se dal ministero non arrivano ancora risposte perché fa figli (il settore vaccino) e figliastri (quello ovi-caprino), a oggi le uniche note positive giungono dalla Giunta Cappellacci, che sta attuando una strategia condivisa dal mondo agricolo e dai trasformatori aderenti al Consorzio di tutela del Pecorino romano. Strategia che comprende numerose azioni che hanno l’obiettivo di governare il latte e di modernizzare finalmente
un comparto, oggi ancorato a un modello anacronistico”. L’assessore ricorda misure e relative risorse di competenza della Regione (dal bilancio 2010) contenute nella piattaforma: 5 milioni di euro nel disegno di legge (ddl) all’esame del Consiglio regionale per l’aggregazione dei produttori di latte e dei trasformatori, con l’obiettivo di superare la monocultura del Pecorino romano (che oggi assorbe fino all’80 per cento del latte ovino prodotto); interventi per favorire
disponibilità di Laore); risorse per finanziarie i macelli mobili e centri di raccolta (prossima delibera di giunta); istituzione del progetto sperimentale, assieme alle agenzie Laore e Agris per facilitare il riconoscimento e la valorizzazione dell’Agnello di Sardegna Igp; risorse per l’innovazione e la ricerca con l’obiettivo di creare nuovi formaggi più vicini ai gusti dei consumatori e alle richieste del mercato; risorse per destagionalizzare una parte rilevante di latte ovino e avere latte fresco tutto l’anno (prossimo
l’accesso al credito del mondo agricolo: ricapitalizzazione di aziende sottocapitalizzate (delibera di Giunta), finanziamenti ai Consorzi fidi in agricoltura (delibera già approvata), istituzione del Fondo di garanzia per favorire l’accesso al credito ai trasformatori (238 milioni Sfirs, già operativo); 10 milioni nel ddl agricoltura per la gestione delle scorte e per la razionalizzazione dei caseifici in difficoltà; 2,5 milioni per l’acquisto dei 250 latto-prelevatori e avviare il progetto del latte a qualità (già stanziati e nelle
decreto assessoriale); facilitazione per l’accesso alle energie rinnovabili in agricoltura. “In attesa di risposte concrete del ministero – conclude l’assessore Prato – auspico che il Consiglio regionale, all’indomani di un ordine del giorno già approvato, possa reperire le risorse per l’attuazione del contributo “de minimis” a favore della nostra pastorizia, magari spostandole da settori che oggi non vivono una crisi acuta come quella agricola”.
r governare il latte
Sarah Pinson
LunedĂŹ mattina
Un salto in palestra Riunione
In Sardegna vivi di piĂš.
Mensa di mezzogiorno
Ora di punta
Spettacolo di prima serata
w w w. s a rd e g n a t u r i s m o . i t
L’ISOLA CHE C’È CON LE ECCELLENZE DELLA NOSTRA TERRA Fotoservizio di Simone Ariu
Sono centinaia i ristoranti di successo condotti da sardi nella Capitale. La tenacia, la voglia di sacrificarsi, l’umiltà, la straordinaria capacità di esportare storia, sapienza, sapori dei prodotti della terra sarda. E i romani, così come i milanesi, e i turisti affollano i ristoranti sardi così come nelle loro tavole c’è sempre una bottiglia di Cannonau, il pecorino, piuttosto che i malloreddus. Anche per questo a L’Isola che c’è, la vetrina annuale delle eccellenze della Sardegna, c’è stato l’assalto agli stand enogastronomici. Un suc-
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cesso senza precedenti grazie ad un format originalissimo ed accattivante che ha richiamato a piazza San Giovanni in Laterano folle di romani e di turisti da tutto il mondo. Spettacoli etnici, sfilate di moda, convegni su identità e solidarietà (ancora una volta AVIS Cagliari e AVIS Roma insieme), incontri con testimonial di eccezione (Paola Saluzzi ha incontrato tutti, così come Grazia di Michele e Maria Rosaria Omaggio), poeti e scrittori che si sono raccontati come Biagio Arixi; il Premio L’isola che c’è assegnato e consegnato a Bianca Berlinguer, Pasquale Chessa, Giovanni Floris, Giovanni Maria Bellu, Anna Piras, Jana Gagliardi, Sergio Frau, Tiziana Ribichesu, Mario Sechi
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(una scultura in trachite originalissima dell’artista Roberto Budroni di Castelsardo), tutti acclamati in piazza. Eppoi durante la messa domenicale delle 12,00, nell’amplissima arcicattedrale di San Giovanni i canti in sardo del Coro Gavino Gabriel di Tempio e, dall’altare, in chiusura la dedica del nostro direttore Giorgio Ariu ai pastori sardi e ai più bisognosi del popolarissimo Municipio di San Giovanni.
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QUANDO L’IS I
CNEL CUORE DEI N
n una delle più belle e architettoniche piazze della capitale: San Giovanni in Laterano, sì è svolta una manifestazione che ha portato la Sardegna all’attenzione di un vasto pubblico. “L’isola che c’è “ è una creatura partorita dalla capacità lungimirante di Giorgio Ariu, giornalista ed editore, che da decenni crede e sa che la miglior cartolina per far parlare della sua isola, sia quella di trasportare costumi e tradizioni oltre i confini sardi, circoscritti e delimitati. Così, con intelligenza e impegno costante, ha realizzato un evento che ha reso felici i tantissimi isolani che vivono a Roma, e una moltitudine di turisti che poco sapevano del nostro magnifico territorio, della sua cultura e delle nostre abitudini culinarie. E in questa magica piazza romana, luogo deputato di molte manifestazioni sociali
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organizzate da sindacati e lavoratori per far valere i propri diritti, per tre giorni è stata colorata, animata e rallegrata dai suoni, dai balli, dalle esibizioni di artisti meravigliosi che hanno proposto a un pubblico attento le proprie opere: frutto di un lavoro impegnativo non sempre apprezzato anche se qualificante. Così le sculture di Roberto Budroni hanno preso vista. Altrettanto è successo per lo stilista sassarese Roberto Stella che per la prima volta si presentava davanti a una platea attenta e silenziosa, che si gustava la semplicità e la modernità dei suoi abiti sartoriali costruiti con materiali poveri, ma ricchi di valore e simbologia in quanto frutto di una ricerca non solo stilistica. Il premio importante e significativo a quei giornalisti sardi
ISOLA PULSA NON RESIDENTI che sono impegnati in politica tra stampa e televisione, ma che affondano radici solide in quell’isola che li ha visti crescere e gioire, per poi prestarli ad una platea più vasta che ha già apprezzato le loro qualità intellettive e professionali. Ma l’allegria e la gioia più feconda l’hanno portata i produttori di formaggi, di torrone, di pasta, di vini e dolci squisitamente gustosi che hanno riempito le sacca di clienti avidi di queste prelibatezze, che solo in questa occasione era possibile poter comprare. “ L’Isola che c’è” è stato un successo e una rivelazione. Un incontro che anche “IL Gremio” (L’associazione dei sardi a Roma) ha caldeggiato affinché giungesse a tutti i nuclei di isolani lontani dalla propria terra. E questo omaggio alla Sardegna che Giorgio Ariu ha voluto regalare a tutti noi, è stato un toccasa-
di Biagio Arixi
na che ha guarito le ferite della nostra sofferta lontananza. Così quando alla attesa messa domenicale delle 12,00 i canti in sardo del Coro Gabriel di Tempio hanno sciolto in lacrime la forte tensione partecipativa di emigranti, romani e turisti e quando il celebrante ha invitato Giorgio Ariu a parlare dall’altare abbiamo vissuto momenti indimenticabili. Ariu ha parlato dei problemi della Sardegna e dell’accoglienza dei romani e ai più bisognosi del quartiere ha voluto omaggiare il frutto delle fatiche dei pastori sardi, quel formaggio pecorino ritenuto eccedente dalle dure regole del mercato. E allora la Chiesa gremita come per le grandi occasioni ha tributato un applauso liberatorio. Io stesso, poco avvezzo alle manifestazioni che possano distrarmi delle mie abitudini, ho provato un piacere indescrivibile
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nell’immergermi totalmente tra la folla di curiosi, di sardi in esilio, di sapori e di odori dei piccanti insaccati che deliziano il palato, e che mi hanno prepotentemente trasportato a Villasor, mio paese natio, per rivivere l’emozione e il gusto di prelibatezze che addolciscono anche le incognite della vita. Grazie Giorgio per aver rinverdito i nostri ricordi, che hanno riacceso e intensificato la voglia di tornare in quell’isola vera che tu, come un pacco dono ci hai fatto
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trovare tra i monumenti superbi della capitale, per non dimenticare mai il luogo in cui siamo nati, e da cui siamo volontariamente partiti. Meriti una medaglia, non da appendere al petto ma da lasciare incisa nel tuo cuore, per dar ancora un valore aggiunto a quell’amore che riversi sulla nostra Inimitabile, selvaggia, a volte ingrata terra di Sardegna.
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ivere la campagna La Provincia del Medio Campidano è impegnata a difendere e valorizzare le biodiversità del territorio al fine di tutelare l’identità locale e la salubrità del territorio. Il progetto “Vivere la Campagna”, coinvolge 750 agricoltori per una superficie coltivata di 2000 ettari. L’obbiettivo è quello di valorizzare il “prodotto del territorio”, investendo sulle diverse potenzialità di sviluppo. I piani di valorizzazione prevedono interventi finanziari diretti che ,seppur piccoli, possono mantenere in attivo le microimprese del territorio. I bandi hanno riguardato prodotti come gli asparagi, lo zafferano, il suino a razza sarda e il miele, capaci di potenziare la tradizionale cultura agroalimentare sarda.
Provincia del MEDIOCAMPIDANO
LA VITE E IL VINO IN SARDEGNA: DALLA PREISTORIA ALLA FINE DEL M
F
ino a qualche decennio fa era opinione comune fra tutti gli studiosi del settore che l’arrivo in Sardegna del vino, e di conseguenza della successiva coltivazione della vite, fosse da far risalire alla prima colonizzazione fenicia (IX-VIII sec. a.C.), e che la vitivinicoltura diffusa in scala più ampia datasse alla successiva dominazione car-
taginese (VI sec. a.C.), e romana poi (III sec. a.C.). Fortunate campagne di scavo, condotte con i più moderni sistemi di indagine archeologica, coadiuvate da sofisticate analisi scientifiche, quali esami al C14, pollinici e gascromatografici, nonché comparazioni con altri siti extra-insulari, le cui genti hanno avuto contatti nella preistoria e nella protostoria con le popo-
SARDINIA lazioni dell’Isola, hanno consentito di spostare, almeno a partire dalla fine dell’Età del Bronzo Medio (XV sec. a.C.) fino agli inizi dell’Età del Bronzo Recente (XIV sec. a.C.), la certezza della presenza in Sardegna della vite e del vino. A partire da tale periodo, infatti, si intensificano e si consolidano i rapporti bilaterali, già intrapresi in precedenza, col bacino orientale del Mediterraneo e in particolare col mondo miceneo. Compaiono nuove forme ceramiche più adatte alla conservazione e al trasporto di derrate, con le superfici esterne ed interne particolarmente trattate al fine di contenere sostanze liquide di pregio, quali olio d’oliva e vino, nonché recipienti per la mescita e per il consumo di bevande, come appunto il vino. Sono significative, a questo proposito, le diverse bocchette “da vino”, provenienti da livelli certi del Bronzo Recente, in ceramica “grigia nuragica”, ritrovate in alcune località della Sardegna: dal Nuraghe Antigori di Sarroch, insieme a ceramiche micenee di importazione e di imitazione locale, dal complesso nuragico di Santu Pauli di Villamassargia, dalla grotta santuario di Pirosi Su Benazzu di Santadi, dal Nuraghe Arrubiu di Orroli, e dal probabile scalo commerciale nuragico nel porto di Kommos, nelle coste meridionali dell’isola di Creta. Vale qui la pena ricordare che la tradizione storiografica, sia pure in forma mitistorica, che in questo periodo ha la sua massima diffusione, narra che Aristeo, compagno di viaggio di Dedalo, introdusse in Sardegna la coltivazione della vite, dell’ulivo e l’allevamento delle api: la notizia di un evento realmente accaduto, traslata e ricordata attraverso la narrazione mitica. Una conferma di quanto fosse radicata questa credenza, tramandataci da Pausania e da altre fonti antiche greche e latine, è data dal ritrovamento in territorio di Oliena, in località “Sa ‘idda ‘e su medde” (il paese del miele), di un piccolo bronzo raffigurante Aristeo, col corpo totalmente ricoperto di api. Nell’età del Bronzo Finale (XII-IX sec. a.C.), che vede anche la Civiltà Nuragica al suo mas-
L MONDO ANTICO
A INSULAE VINI simo apogeo, la presenza della vitivinicoltura nell’isola si fa più puntuale ed è suffragata da analisi scientifiche incontrovertibili. La coltivazione della vite è un fatto ormai acquisito da gran tempo, con tutte le operazioni ad essa connesse, compresi anche tutti i processi di addomesticamento della “Vitis vinifera silvestris”, ampiamente diffusa in tutto il territorio dell’Isola. Anche i contenitori “da vino” si modificano e si evolvono in forme tipiche della cultura sarda: “brocche askoidi” e piccoli “askos”, di squisita fattura, in ceramica e in bronzo, caratterizzeranno il repertorio vascolare sardo fino alla prima Età del Ferro ed oltre, e verranno adottate nelle prospicienti coste tirreniche presso le Culture Villanoviane prima, ed Etrusche poi (IX-VII sec. a.C.). Questi recipienti cosi particolari sono diffusi in tutta l’isola in numerosissimi esemplari. Per quelli in ceramica è opportuno qui ricordarne alcuni fra i più significativi: l’askos di Monte Cao (Sorso), finemente decorata con motivi geometrici incisi e cerchielli impressi, dal Nuraghe “Lugherras” (Paulilatino), dal Nuraghe Genna Maria (Villanovaforru), dal Nuraghe S. Antine (Torralba), dal Nuraghe Arrubiu (Orroli) da cui proviene anche una singolarissima askos a ciambella, dal Nuraghe Su Nuraxi (Barumini), dal Villaggio nuragico di Monte Ollàdiri (Monastir), dal Nuraghe Li Pisciona (Arzachena), dai santuari nuragici di S. Anastasia (Sardara) e Sa sedda ‘e sos carros (Oliena), ecc. Per i contenitori in bronzo sono da segnalare l’askos dal Nuraghe Ruiu di Buddusò e la straordinaria brocca askoide a due colli, uno dei quali è costituito da una grande protome bovina, proveniente dalla fonte sacra nuragica di Sa sedda ‘e sos carros di Oliena, che è anche un “unicum” di straordinario interesse, di tutta la bronzistica nuragica. A testimonianza, infine, dei rapporti del mondo nuragico col bacino del Mediterraneo e oltre, sono le brocche askoidi, di produzione sarda presenti in diversi contesti extra-insulari: dalla Sicilia (Isola di Mozia-
Marsala e da Dessueri-Monte Maio); dall’Isola di Creta (Tomba 2 della necropoli di Khaniale Tekke); dalla Tunisia (a Cartagine, forse da attribuire ad un insediamento precedente la fondazione fenicia della città); dalla penisola iberica (una brocca asconde nuragica è stata trovata di recente a Calle Canovas del Castello n. 38 a Cadice nel corso di uno scavo d’urgenza durante i lavori edili, dal Villaggio di Carambolo in Andalusia e dalle coste atlantiche alla foce del fiume Huelva, cioè l’antico insediamento di Tartesso). A questi siti sono ovviamente da aggiungere i numerosissimi esemplari presenti, come si è detto, negli insediamenti etruschi della costa tirrenica della penisola italiana. E proprio da una brocca askoide versa il vino in una ciotola un personaggio seduto rappresentato in un bronzetto rinvenuto nel sacello del santuario di Monte Sirai di Carbonia (VIII-VII sec. a. C.). Sempre più numerose sono, invece, le testimonianze dirette della presenza della vite e del vino in numerosi contesti nuragici isolani. Vinaccioli carbonizzati provengono dal Nuraghe Genna Maria di Villanovaforru e dal Nuraghe Duos Nuraghes di Borre, mentre alcuni acini carbonizzati sono stati di recenti ritrovati nella “Capanna n. 5” presso il Nuraghe Adoni di Villanovatulo, in uno strato datato con certezza alle fasi iniziali dell’Età del Bronzo Finale (XII sec. a.C.) tempo fa nel corso si lavori lungo la strada tra la Madonna del Rimedio alla periferia di Oristano e Torre Grande di Cabras, in località Sa Osa è stato messo in luce un insediamento prenuragico e nuragico. In livelli del Bronzo medio e recente (1600-1200 a.C.) è venuta alla luce una eccezionale quantità di vinaccioli unitamente a semi di fichi in straordinario stato di conservazione, che consentirà, nel prossimo futuro, l’esame del DNA al fine di poter determinare le specie di appartenenza. Altri ritrovamenti similari sono noti ma ancora in corso di pubblicazione. Il più recente di questi risale ad appena alcuni giorni fa. Nel corso di uno scavo archeologico, ancora in atto, in territorio di Santadi, nel Sulcis – Iglesiente. E’
di Mario Sanges
stata rinvenuta una notevole quantità di cereali in livelli certi di Età Nuragica (1300-900 a.C.): orzo, grano, fave, ceci ma anche vinaccioli e noccioli di olive. Nel complesso nuragico di Bau Nuraxi di Triei, il località “Talavè”, ancora oggi a grande vocazione vitivinicola, nel vano n. 7, situato all’interno dell’antemurale, da un livello datato al C14 intorno al 1000 a.C., proviene una grande brocca askoide in frammenti, dalla superficie esterna accuratamente dipinta di rosso. Un attento esame gascromatografico, eseguito sui frammenti ha accertato la presenza di acido tartarico e che quindi il recipiente aveva contenuto del vino. L’esame pollinico dello stesso livello ha accertato la presenza, oltre che di differenti specie arboree, arbustive ed erbacee, anche di pollini di “Vitis vinifera sativa”, quindi domestica. Nei vari ambienti dello stesso complesso, in una fase di riutilizzo in Età Romana imperiale e tardo antica, sono state rinvenute decine di anfore vinarie da trasporto: una sorta di deposito- cantina di una probabile villa rustica che doveva sorgere nelle immediate vicinanze. A riprova della continuità di coltura della vite nella zona per alcuni millenni, è opportuno riportare la voce di un registro delle spese dell’Archivio Vaticano, dei primi anni del ‘600, in cui è registrato l’acquisto di vino bianco di Talavè del villaggio di Triei. Dal nuraghe Funtana di Ittireddu provengono due brocche askoidi, di cui una frammentaria contenente sul fondo una massa violacea di natura imprecisata. L’esame gascromatografico recentemente effettuato in ambedue i recipienti ha evidenziato anche in essi la presenza di acido tartarico e di conseguenza si tratta di contenitori usati per contenere e per la mescita del vino. Allo stato attuale delle conoscenze non si hanno elementi certi riferibili ad attrezzature per la vinificazione in Età Nuragica, se si esclude il controverso torchio del villaggio nuragico di Monte Zara di Monastir, per quanto, i numerosi cosiddetti “pressoi” in pietra, di uso incerto, presenti in tanti siti, possono essere stati utilizzati per la
pigiatura dell’uva. La presenza dell’uva e del vino è invece ben documentata in Età FenicioPunica dalla grandissima quantità di anfore vinarie da trasporto e recipienti di pregio in ceramica fine da mensa, atti al servizio e alla libagione. Allo stesso periodo risale anche una spiana fittile con impresse sulla superficie le impronte di vinaccioli. Nel villaggio nuragico di Sant’Imbenia nella baia di Porto Conte ad Alghero, divenuto col tempo emporio fenicio e greco-euboico, è documentata la produzione di anfore vinarie da trasporto, denominate “ZitA” (Zentralitalische Anphoren), di foggia orientale, ma di argilla locale, la cui presenza è stata
accertata in tutto il Tirreno, nell’Italia Centrale, a Cartagine e nella Penisola Iberica a Toscanos e nel Castello di Dona Blanca di Cadice nella costa atlantica (X-IX sec. a.C.). Questi contenitori dalla capienza tra i 20 e i 25 litri dovettero essere considerati particolarmente adatti alla conservazione e al trasporto del vino, visto il vasto orizzonte di diffusione di questa forma ceramica così particolare. La recente identificazione di anfore di tipo “ZitA” nel rione di “Dorimannu”, nell’abitato di Irgoli, sotto le cui abitazioni è presente un esteso abitato nuragico, e nel territorio di Posada, attesta la presenza di questi recipienti anche nelle
coste orientali dell’Isola e spiega quindi la diffusione di questi contenitori lungo le coste del mar Tirreno. Appare logico supporre che, se la maggior parte delle anfore da trasporto del tipo “ZitA”, presenti nel bacino del Mediterraneo occidentale erano sarde anche il loro contenuto, cioè il vino, prodotto nell’isola, raggiungesse i mercati iberici e nord-africani nella piena Età del Ferro: la più antica testimonianza, quindi, di una grande attività vitivinicola in Sardegna nei primi secoli del primo millennio a.C. e della commercializzazione del vino, quale prodotto di pregio, al di fuori dell’Isola! Le attrezzature per la vinificazione sono, invece ben documen-
tate per quanto concerne il periodo romano. Un ambiente per la vinificazione è presente nella fattoria romana di S’Imbanconadu presso Olbia, recentemente riportata alla luce. Due laboratori enologici in eccezionale stato di conservazione, con vasche per la pigiatura, bacili, basi e contrappesi dei torchi, nonché recipienti di vario uso, in ceramica e vetro, erano presenti nei livelli di riutilizzazione degli spazi in Età Romana (I sec. a.C. – V sec. d.C.), nel grande complesso nuragico di Nuraghe Arrubiu di Orroli. Lo scavo ha permesso, attraverso il clivaggio della terra contenuta nelle vasche, di recuperare una certa quantità di vinaccioli carbonizzati. L’esame di questi ultimi, effettuati in tre diversi laboratori, in Italia e all’estero, sono stati concordi nello stabilire l’appartenenza degli stessi ad un vitigno ancora coltivato nell’isola, denominato a seconda delle diverse località “Bovale sardo, Muristellu”, ecc.
Al fine di poter proseguire l’indagine archeologica nei livelli sottostanti, i due impianti sono stati smontati e accuratamente ricostruiti all’interno della recinzione moderna. Resta ancora da segnalare la presenza nel probabile santuario nuragico-romano in località “Urulu” di Orgosolo, di alcuni piccoli attingiti (simpula) in lamina bronzea, il cui uso non può che essere stato che quello di “taste-vìn” “ante litteram”. Da questo breve excursus appare evidente e scientificamente provata la presenza della vite e del vino in Sardegna, almeno a partire dalla metà del secondo millennio a.C. Nulla è dato sapere per i periodi precedenti, anche se
le culture preistoriche sarde, avendo avuto rapporti con popolazioni che già conoscevano la preziosa bevanda, derivata dal frutto della vite, potrebbero aver appreso la tecnologia relativa all’addomesticamento di specie selvatiche, alla coltivazione e alla vinificazione. E’ utile comunque ricordare che in archeologia, assai spesso, l’assenza di notizie è dovuta principalmente a carenza di ricerche e che d’improvviso, nuove scoperte portano al ribaltamento di teorie o di posizioni preconcette. Spetta ora agli specialisti
del settore stabilire quali rapporti e parentele siano intercorsi tra i vitigni documentati per il passato e le varie “Cultivar” oggi presenti nell’isola, che è ora, più che mai, come fu definita in passato, “Sardinia Insula Vini”
I RITI DEL CIB
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a dove arrivarono gli antichi abitatori della Sardegna? Provenivano dalle coste del Medio Oriente, oppure dalla penisola iberica o, ancora, dall’Africa mediterranea? Difficile dirlo. Ancora oggi non è dato sapere con assoluta certezza come e quando abbia avuto inizio il popolamento della Sardegna. Tuttavia, negli
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ultimi decenni, le indagini condotte attraverso l’esame del dna hanno aperto agli studiosi nuove strade ed oggi l’archeologia e l’antropologia dispongono di indicazioni preziose sulle origini dei sardi. Tra non molto, proprio con l’ausilio della genetica, potremo essere in grado di sfilare il sottile velo che avvolge la nostra preistoria. Recenti studi attestano che in Sardegna l’espan-
sione demografica si sarebbe verificata - con molta probabilità - nel paleolitico, in un periodo compreso all’incirca tra 27 mila e 78 mila anni fa, allorché l’Isola costituiva un unico grande blocco con la Corsica. Era in atto la glaciazione wurmiana e il livello del mare - notevolmente più basso rispetto all’attuale - aveva permesso la formazione di una sorta di ponte tra il blocco
IBO
STORIA DELL’ALIMENTAZIONE IN SARDEGNA DAL GRANO ALLEA FESTE COL VINO
di Antonello Angioni
sardo-corso e le coste della Toscana, circostanza che favorì flussi migratori di popolazioni “continentali” le quali, alla ricerca di un clima relativamente mite, si spingevano verso le aree più meridionali. Per tale ragione gli studiosi ritengono che la parte di territorio corrispondente all’attuale Corsica venne popolata in una fase successiva (tra 15 mila e 42 mila anni fa)
quando si era registrata un’attenuazione della rigidità climatica. Peraltro in Sardegna la cultura materiale si sviluppa in un’epoca assai successiva, vale a dire circa 8 mila anni fa, nel neolitico antico, con la creazione dei primi insediamenti umani stabili e la produzione di rudimentali utensili di pietra lavorata. E’ proprio all’inizio del VI millennio a.C. che la colonizzazione neolitica, partendo dall’Oriente fertile (la Mesopotamia), investe vaste fasce costiere e le isole del Mediterraneo occidentale gettando per mare i germi della nuova civiltà conseguente alla prima grande “rivoluzione agricola” ed alle relative innovazioni socio-economiche. Da allora la Sardegna è attraversata da un’interessante sequenza di manifestazioni culturali. La cultura di Bonu Ighinu è la prima a svilupparsi, intorno al 3.900-3.600 a.C., a Mara in provincia di Sassari, attraverso la produzione di ceramiche e macine da mulino. Quindi, fra il 3.000 e il 2.500 a.C., si afferma - inizialmente nei pressi di Ozieri e dunque sempre nel Nord della Sardegna - la cultura di San Michele. Due grandi opere contraddistinguono questo periodo: la ziqqurat di Monte d’Accoddi, a pochi chilometri da Sassari, e la necropoli di Pranu Mutteddu, nei pressi di Goni, sull’ altipiano del Gerrei. Coeva alla cultura di San Michele é la cultura di Arzachena: a Li Muri, una località a pochi chilometri dalla Costa Smeralda, sorge il più imponente complesso di tombe a circolo della Gallura. Alla fine del III millennio a.C., nei pressi di Cagliari, fa la comparsa la cultura di Monte Claro (detta anche del vaso campaniforme) e, nei pressi di Osilo, la coeva cultura di Abealzu Filigiosa. Intorno al 1.800 a.C., mentre si afferma la cultura di Bonnanaro, ha inizio la civiltà nuragica che rappresenta la manifestazione più originale e compiuta della preistoria sarda. Tale civiltà, che troverà espressione attraverso quindici secoli, ha lasciato i nuraghi: i maestosi monumenti di pietra che ancora oggi contraddistinguono le grandi solitudini della Sardegna. La Sardegna è una terra dove tutto richiama il passato. Un sottile filo lega la cultura prenuragica e nuragica a quella fenicio-punica, romana e cristiana. Il fatto di essere un’isola, infatti, se da un lato ha comportato molti svantaggi, al tempo stesso, ha determinato la ripetizione - nel corso del tempo - dei modelli comportamentali e culturali e quindi ha favorito il mantenimento di un’identità più spiccata, immediatamente avvertibile da parte di chi entra a contatto con questa terra. Il popolo sardo, per l’ isolamento geografico, da sempre è stato costretto alla riproposizione della propria cultura sulla quale hanno operato, secondo una dialettica fatta
talvolta di aspri conflitti e più spesso di graduali integrazioni, le influenze esterne derivate dalle varie dominazioni. Tuttavia l’assorbimento non é mai stato acritico e passivo. I sardi hanno sempre rielaborato i modelli esterni che hanno adattato al loro linguaggio ed alla loro cultura primordiale. Per questo carattere dei sardi - aperto ma, al tempo stesso, “conservativo” e “resistenziale” - la cristianizzazione dell’Isola non fu né semplice e né rapida: circostanza che favorì il permanere, frammisti alla religione che si andava imponendo, di elementi pagani taluni dei quali riscontrabili ancora oggi. In certe preghiere rivolte al Cristo non mancano invocazioni al sole e alla luna. Sa perda de s’ogu, usata contro il malocchio, ad esempio, diventa l’occhio di Santa Lucia. Per sconfiggere le antiche idolatrie il clero, più di una volta, ha dovuto assorbirle cercando di darle un significato cristiano. Del mito di Adone - la divinità che moriva e risorgeva ogni anno simboleggiando la natura fiorente spenta dall’inverno e ridestintesi nella primavera, e dunque il perenne alternarsi della stagioni - ancora permane in tutta la Sardegna una fievole eco nell’usanza di deporre i vasetti contenenti i pallidi steli de “su nenniri”, germogliati nell’oscurità, intorno al sepolcro del Cristo durante la Settimana Santa: così come facevano gli antichi fenici offrendo i germogli del grano a quel loro giovane dio. Reminiscenze bizantine (derivanti dalla chiesa greca) sono tuttora presenti nel rito della benedizione delle case in occasione della Pasqua da parte del prete (il mangiamò). Di questo rituale si tramanda una misteriosa filastrocca che dice: “Mangiamò, Kilissò, Kifané; un’anguli a su piccioccu, tre arrialis a sa craccida”. In fondo, a pensarci bene, anche la Pasqua si ricollega in qualche modo ad una tradizione precedente al cristianesimo. Infatti, come tutti sanno, a differenza del Natale, é una festa “mobile”. Più precisamente viene celebrata nella prima domenica successiva al plenilunio dell’equinozio primaverile. Per tale ragione cade nel periodo compreso tra il 22 marzo e il 25 aprile. La Pasqua si ricollega dunque al calendario lunare biblico: così venne stabilito nel Concilio di Nicea del 325. Dalla data in cui cade la Pasqua dipendono tutte le altre feste mobili dell’anno liturgico. Più in generale - anche in Sardegna - simbologie, ritualità e credenze cristiane si fondono con elementi culturali e materiali del substrato pagano e magico. Spesso rosari, amuleti, reliquari, ex voto e talismani convivono e si confondono facendo emergere significativi elementi di continuità. Qui la gente ha una religiosità antica, carica di echi e suggestioni, una spiritua-
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lità cristiano-pagana che affonda le radici nelle diverse dominazioni: fenici, romani, vandali, bizantini, spagnoli. Ogni popolo che é sbarcato in questa terra ha portato non solo le armi e i desideri di egemonia ma anche la sua religione e le sue credenze. Molti dei luoghi in cui le popolazioni primitive si recavano ad adorare gli idoli di pietra hanno mantenuto nel corso del tempo la loro destinazione sacra. La chiesa di San Giovanni del Sinis, ad esempio, è stata costruita sui resti di un luogo di culto romano che si sovrappose ad un precedente tempio punico il quale, a sua volta, era stato innalzato sui ruderi di un tempio più antico legato al culto delle acque. E ancora, sotto il tempio romano di Antas dedicato al Sardus Pater, la maggiore divinità della Sardegna antica, riaffiorano i resti di un precedente edificio cartaginese che numerose iscrizioni puniche indicano dedicato al dio Sid. E tutto intorno si trovano importanti vestigia della civiltà nuragica, la cultura indigena che precede e poi affianca quelle dei primi dominatori. Evidentemente in questo luogo ci fu una continuità del culto pur nel mutare dei protagonisti. Nel corso dei secoli dunque le divinità cambiano ma il carattere sacro del luogo resta e con esso permane il sentimento religioso del popolo ed il valore che si collega allo spazio fisico in cui il culto si esprime nelle forme esteriori. Nelle città la stratificazione storica è ancora più evidente. L’attuale abitato di Sant’Antioco, ad esempio, presenta una struttura urbanistica piuttosto complessa, retaggio dei vari insediamenti succedutisi, senza soluzione di continuità, nel corso del tempo. La moderna cittadina occupa gran parte del sito dell’antica colonia feniciopunica di Sulci di cui pertanto non sono visibili emergenze monumentali di particolare rilievo. La basilica di Sant’Antioco martire, consacrata dai monaci vittorini nel 1102, costituisce la riedificazione di una chiesa più antica di epoca bizantina, risalente al VI secolo, realizzata in forme architettoniche assai simili al San Saturno di Cagliari. Ma nella stessa area, in precedenza, erano state ricavate le catacombe paleocristiane, parzialmente sovrapposte ad una preesistente necropoli punica. Ed ora la basilica presenta una facciata tardo barocca, del Settecento, forse disegnata dall’ingegnere militare Saverio Belgrano di Famolasco. La Dea Madre, divinità comune a tutte le popolazioni neolitiche del Mediterraneo, era considerata il simbolo della fertilità e della rigenerazione della vita ed esprimeva la spiritualità di un popolo ancorato ad una struttura sociale di tipo matriarcale. Venne scolpita almeno quattromila anni fa, con un’essenzialità plastica davvero impressionante, proprio per simboleggiare la natura feconda e rigeneratrice. Ad essa si ricollega - con molta probabilità - anche la figura di
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Orgia, divinità fecondatrice adorata nelle primitive società sarde. La radice “org” - che significa acqua - la ritroviamo in numerosi toponimi della Sardegna: Orgosolo (che venne edificata in un terreno acquitrinoso), Sorgono (che, non a caso, presenta un territorio ricco di sorgenti), ecc. Secondo i filologi il termine òrgia si ricollega al sànscrito ûrg’âs che, tra i vari significati, ha quello di “succo” e quindi di liquido. L’India antica é dunque un mondo meno lontano rispetto a quanto si possa pensare: la radice culturale é la stessa. Quando si parla di popoli “indoeuropei” si fa riferimento proprio a questa comunanza di origini. Fatto sta che i caratteri culturali del sànscrito vennero in parte assorbiti dalla lingua greca per giungere poi sino a noi attraverso la civiltà latina. Le òrgie erano cerimonie a carattere religioso che si compivano in uno stato di esaltazione e convulsione. Presso le popolazioni elleniche il termine indicava certi sacrifici notturni - che si celebravano in onore di Bacco - ai quali erano ammessi i soli iniziati e dove, sotto l’ influsso del vino, si commettevano cose indicibili. Chissà se analoghe cerimonie si svolgevano anche nell’antica Sardegna. Nelle società tradizionali, attraverso il banchetto, soprattutto se notturno, si univano cibo ed eros, si coniugava il bisogno primario del cibo al bisogno, altrettanto primario e potente, dell’attrazione sessuale. La cultura sarda, all’origine, esprimeva anche una colleganza profonda con i flussi della vita, con le pulsioni primarie dell’uomo sano nella sua pienezza di persona, con ritmi e tempi ancora capaci di gustare eros e cibo immersi nel grande respiro della natura. In epoca punica, nell’Isola la dea più venerata e temuta era Tanìt: simboleggiava l’amore e la morte ed esigeva dai suoi fedeli anche sacrifici umani. In tale periodo doveva essere diffuso anche il culto del dio Bes, di sicura origine egiziana, penetrato tra i fenici in conseguenza della lunga dominazione esercitata dai faraoni nella terra di Canaan. Statue di questa divinità vennero ritrovate a Karalis, Maracalagonis, Bithia e Fordongianus. Inoltre erano praticati i culti di Baal, Melqart, Sid, Ashtart, Iside (di origine egizia con Bes), Demetra (di origine greca) e di altre divinità. Questi culti, sotto il dominio di Roma, non scompaiono ma subiscono processi di graduale adattamento che confermano la continuità delle pratiche religiose e delle credenze tra le popolazioni sarde. Stessa continuità è dato reperire nella vasta produzione artigianale: quei medesimi motivi ornamentali geometrici presenti nelle ceramiche che vanno dal VI millennio a.C. fino alla colonizzazione romana li ritroviamo ancora oggi non solo nei vasi di Assemini e di Oristano ma anche nei tappeti di Mogoro, di Samugheo, di Uras, di Nule, di Isili e di tanti altri centri
dell’Isola. E ancora li ritroviamo negli arazzi e nelle cassapanche lavorate a Desulo, Tonara e Aritzo. L’artigianato sardo, nelle sue espressioni autentiche, riflette l’indole delle popolazioni, l’ambiente naturale e le vicende storico-culturali che si sono svolte in questa terra d’antica civiltà. I sardi, pur accogliendo i nuovi impulsi, sono conservatori. Per tale ragione le produzioni artigianali si sono evolute rimanendo sostanzialmente fedeli alla tradizione e ancora oggi rivelano una straordinaria ricchezza di fantasia che si esprime in manufatti di rara bellezza e originalità. La continuità ha determinato, nel corso dei se-
coli, il formarsi di una forte identità culturale, dai connotati etno-storici, che si coniuga con un territorio in cui la qualità ambientale si mantiene assai elevata nonostante certi interventi urbanistici inadeguati. Spesso, soprattutto nelle zone interne, le attività umane fanno parte esse stesse del paesaggio, insieme di elementi naturalistici e antropici che differenzia la Sardegna da ogni altra terra. Ma la diversità della Sardegna la si avverte immediatamente anche nella straordinaria ricchezza del canto, dei suoni e dei balli popolari. Appartiene al folklore musicale sardo uno dei più antichi strumenti del Mediterraneo, le launeddas, il cui suono misterioso esprime l’anima
di questa terra e delle sue genti. La diffusione di tale strumento fin da epoca anteriore alla colonizzazione punica è documentata attraverso il bronzetto del suonatore, rinvenuto in agro di Ittiri, attualmente custodito nel Museo archeologico nazionale di Cagliari. In questa terra il canto funebre più diffuso è detto attìtidu (dal latino attitiare che significa attizzare, rinfocolare): nome che deriva senza ombra di dubbio dalla sua primitiva funzione che era quella di incitare alla vendetta per un morto ammazzato. In seguito s’attìtidu ha subito un’evoluzione e si è stemperato nella forma di lamento del dolore e di canto delle qualità del defunto.
Molti dei riti e dei canti religiosi tuttora presenti nell’Isola risalgono alla dominazione iberica. Durante i quattro secoli in cui la Sardegna fu prima catalana e poi spagnola, il popolo sardo assimilò gradualmente non solo le istituzioni, le leggi, la lingua, la cultura e le tradizioni, ma anche il costume e il modo di pensare. Ma l’assimilazione, come detto, non fu acritica e passiva. E proprio in tale periodo, attraverso un graduale processo, maturò la consapevolezza dei sardi di essere un popolo “distinto” da suoi dominatori: consapevolezza che costituisce la base fondamentale per l’affermazione della propria identità etno-storica e dei valori della moderna autonomia.
Carla Piroddi
TRA I TESORI DEL CAPOLUOGO I MERCATI CELEBRATI DAI GRANDI SCRITTORI E DAI BUONGUSTAI
CAGLIARI LA GRASSA C’ è qualcuno che sostiene che i cittadini di Cagliari si potrebbero dividere in “quelli che si ricordano del mercato del Largo” e in quelli – assai più numerosi – che sono venuti dopo, per via dell’anagrafe o per via dell’immigrazione. Proprio a significare che di quel grande emporio della golosità se ne è perduto il ricordo, anche se qualche vecchia foto in bianco e nero, scattata dal premiato laboratorio fotografico Ferri o dai fratelli Pes, ne riesce a perpetuare la memoria negli album delle vecchie collezioni di cartoline. Ora, va confessato che chi scrive può essere ricompreso fra quelli “che si ricordano” e che – tra l’altro – ha ancora ben impresso davanti agli occhi il giorno di quell’improvvida demolizione avvenuta nel 1957, allorquando quell’imponente “partenone” veniva giù come un castello di carte. Fra i commenti meravigliati ed anche perplessi dei tanti curiosi, perché se ne andava via – inghiottito da una forte voglia di progresso – una parte importante della storia cittadina. Va detto, per opportuna conoscenza, che quelli erano ancora dei tempi nei quali pochi, e ben fuori dell’opinione generale, potevano dubitare o negare che quella demolizione fosse necessaria perché diretta a rendere più bella la città, arricchendola con due edifici destinati ad ospitare due “ricchi” istituti bancari. Così dal tempio de is caboniscus, de is giarrettus e de is palajas, venerati come delle divinità nella mensa dei buongustai cagliaritani, s’era passati al tempio dove s’adorava un altro dio, peraltro molto più suadente, ma per certi versi indigesto, su dinai appunto. Si sta qui parlando – per far capire a quelli “venuti dopo” – dell’importante mercato dei commestibili edificato negli ultimi decenni dell’Ottocento nel Largo Carlo Felice e poi sostituito per un’improvvida decisione municipale con i palazzi di due importanti banche nazionali. Ora, quell’imponente mercato coperto, grazie al suo celebre colonnato dorico in grigia pietra di Sardegna, aveva conquistato il prestigio e «l’imponenza architettonica di un vero tempio classico». Va detto che in breve tempo era divenuto (annoterà un illustre visitatore, l’inglese David H. Lawrence) il luogo più celebrato della città, ove si poteva trovare ogni bendiddio mangereccio ed era tanto accattivante (per gli occhi e la gola) da far scrivere a quello scrittore inglese di non aver mai conosciuto «un così luccicante mondo di cibi d’ogni forma e colore, in uno splendore simile a quello visto sotto il tetto del mercato di Cagliari, così puro e fastoso». Ora, per ricordare un po’ la storia di quel grande mercato civico che per circa trequarti di secolo ha rappresentato una straordinaria “gloria” cittadina, andrebbe ricordato che venne costruito nel 1884 su quello che era l’antico convento di
Testo di Paolo Fadda Foto, Carla Piroddi
Sant’Agostino. Per progettarlo era stato bandito nel 1873 dal Comune un apposito bando di concorso «ma, purtroppo, tra i progetti presentati nessuno venne considerato idoneo. Si faceva interessante un progetto del capo dell’ufficio tecnico del comune, l’ingegner Enrico Melis, il quale fu invitato ad apportare le necessarie modifiche. Ma qualche anno dopo un altro progetto veniva proposto dall’avvocato Todde-Deplano, che riproponeva una nuova zona. Anche questo progetto fu però respinto e il Comune tornò a quello del Melis che, dopo numerose modifiche, fu realizzato in due corpi separati di edifici [de susu, con 180 box per frutta e verdura, de basciu con 56 box per carne e pesce]» (così hanno scritto Giancarlo Sorgia e Giovanni Todde). Da allora, quel mercato del Largo sarebbe divenuto un luogo privilegiato per gli incontri cittadini. Dove s’andava per far la spesa ma anche per far quattro chiacchiere, scambiarsi pettegolezzi e saluti e far nuove conoscenze o conquiste. A tal proposito, un periodico di quel tempo (“Vita Sarda”) scriverà che, attorno a quei banchi e fra il vociare di tanta gente,«vi s’incrociano parole salaci e motti di spirito fra quanti l’hanno eletto a sede dei loro quotidiani appuntamenti, aggiungendo al piacere della vista per tante appetitose leccornie anche quello per i seni ricolmi e gli occhietti ladri delle tante belle e giovani servotte che vi s’aggirano petulanti e pibirure». In effetti, quel grande “tempio dell’annona” era stato uno dei primi grandi “affaire” edilizi della città borghese, tanto che se ne erano interessati in parecchi, prima ancora che lo avesse progettato e realizzato l’ingegner Melis. I primi disegni erano stati addirittura del “grande” Gaetano Cima che ne aveva suggerito la localizzazione ottimale proprio nell’area del vecchio convento di Sant’Agostino, anche per rimanere in linea con la tradizione che aveva fatto di quegli spiazzi al di là della porta di Stampace, il luogo ideale per i commerci alimentari dei cagliaritani. Si trattava – quello spiazzo polveroso ed informe era chiamato sa prazza ‘e su trigu, dato che vi si svolgeva nella stagione loro il mercato delle granaglie. Più che un vero mercato si trattava di una sorta di grande accampamento all’aperto, dove l’attrezzatura si riduceva a misere paratoie di canne ed a elementari trespoli di legno ove si esponevano cestini e corbule d’ogni forma e grandezza, il tutto nella più completa latitanza d’ogni precauzione igienica. L’amministrazione civica del tempo era giunta quindi nella determinazione di dover dotare la città d’un luogo ove confluissero tutte le derrate di cui aveva bisogno il “ventre” dei sempre più numerosi cagliaritani, non foss’altro per assicurare dei confort di pulizia e d’igiene.
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D’altra parte era giunta notizia, anche in quest’estrema periferia d’Europa qual’era Cagliari in quella prima metà Ottocento, della modernità dei nuovi mercati parigini, le Halles, che erano divenuti, con il bendiddio alimentare che vi si poteva acquistare e con i servizi moderni di cui erano dotate, una vera e propria attrazione mondiale, quasi come la torre Eiffel. Ora, proprio per dare alla memoria di “chi allora c’era” la giusta importanza, andrebbe aggiunto che, anche per la sua demolizione a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, tutto non sarebbe filato via liscio, in quanto sarebbero sorte roventi polemiche e ripetute incertezze. Nell’aula consiliare comunale di allora (si sta parlando della metà degli anni 50 del Novecento) vennero evocate le mene di oscuri di “poteri forti” più o meno underground, oltre a paventare il pericolo rappresentato «da avide mani pronte a carpire i tesori cittadini»… Lo stesso sindaco del tempo, Pietro Leo, ed il suo vice, Filippo Asquer, furono a più riprese fatti cenno ad un tiro incrociato, non solo dalle opposizioni ma anche dalla stessa maggioranza e dalla vérve accusatoria di un accanito Di Pietro del tempo. Purtroppo – varrebbe oggi ricordarlo per la storia – non era stata tanto la conservazione di quel monumento eretto …a gloria della gastronomia cittadina che aveva motivato quegli scontri, e neppure si sollevarono voci in dife-
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sa della storicità di quell’edificio (certamente ragguardevole per il suo pregio architettonico), quanto l’acido di quelle presunte collusioni tra qualche amministratore civico ed un’importante impresa immobiliare continentale. E ciò nel rispetto di quel culto del gossip e dell’invidia che va parte, da sempre, della “costituzione materiale” della città, prima ancora del suo culto per la difesa dei “segni” del passato. In verità, proprio per tornare al tema centrale di questo scritto, andrebbe detto che il mercato, o, meglio, i mercati sono stati da sempre un vanto cittadino, tant’è che l’appeal storico di quello del Largo Carlo Felice, non sarebbe finito con la sua pur improvvida demolizione ma avrebbe trovato un suo continuum nel nuovo complesso di San Benedetto, costruito, purtroppo, con una più marcata spartanità e modestia architettonica. Ma anch’esso capace di raccogliere e di esaltare eguali se non maggiori capacità attrazionali. Avendo accolto nei suoi spazi i tradizionali trionfi di pesci d’ogni qualità, colore e misura e le ricche esposizioni di porcettus ed angioneddus, di cestini di frutta e verdure in technicolor, tutto in nome di quel richiamo alla golosità che è un po’ il brand storico della spesa alimentare dei cagliaritani. Andrebbe ricordato ancora come di quest’emporio gastronomico proprio in questi giorni si sono celebrati i cinquant’anni, un età di mezzo che comincia ad indicare, anche per gli edifici,
le prime rughe ed i primi acciacchi, anche se temperati da un intelligente e provvido restyling che ne ha rinfrescato spazi e servizi. Eppure, se la sua fisicità pur continua a mostrare qualche crepa, i contenuti di quell’emporio di San Benedetto sono sempre rimasti d’alta qualità e di grande attrazione. A conferma, per meglio intendersi, che a Cagliari i mercati alimentari sono da sempre un po’ un’istituzione cittadina, un marchio d’identità, un qualcosa che si va a coniugare con la “cagliaritanità”, e che sono assunti come cosa propria, come simbolo patrio, e questo sia dai cittadini d’ogni età e condizione, siano ricchi o poveri, giovani o vecchi, uomini o donne. La cittadinanza, infatti, ha sempre messo molta della sua urbanità nel frequentare i “suoi” mercati, quasi fossero una parte di se stessa, un luogo quindi da conoscere e da far conoscere, da frequentare e da far ammirare. Dei luoghi – si è letto da qualche parte – in cui la stessa struttura fisica e civile di Cagliari, con tutti i suoi fasti e fastigi, esprime – e vive – il suo momento migliore. Ed infatti ancora oggi parlar di mercati a Cagliari è un qualcosa che riempie i suoi cittadini d’orgoglio, tanto che sono in molti a rimirarsi le parole che l’inglese David H. Lawrence dedicò loro, scrivendo, in quel suo bel libro “Sea and Sardinia”, di non aver mai conosciuto «un così luccicante mondo di cibi d’ogni forma e colore,
in uno splendore simile a quello visto sotto il tetto di quel mercato di Cagliari così fastoso». Verrebbe quasi da consigliare alla municipalità attuale di collocare una bella lapide con queste parole in uno degli ingressi di quel mercato, in modo da rievocare e ricordare i fasti gastronomici di questa tradizione cittadina. Si è infatti dell’idea che anche Cagliari meriti, al pari di Bologna, d’essere detta “la grassa”,
cioè una città che ha fatto del cibo, del buon cibo, uno dei suoi atouts maggiori e migliori. Ed in più della capitale emiliana ha la capacità di offrire, accanto ai frutti impareggiabili d’una fertile agricoltura mediterranea, anche i prodotti straordinari d’un mare pescosissimo d’ogni sorta di pescato. Scrivere quindi dei mercati cagliaritani è un po’ come celebrare le glorie cittadine, dato che
anche le guide più apprezzate non mancano di consigliare a visitatori e turisti di fare una capatina verso San Benedetto dove si può visitare ed ammirare uno dei più fastosi e intriganti mercati alimentari del Mediterraneo. Perché anche questa è – per chi non lo sapesse – una delle grandi attrattive della città.
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ulches e manig in sas dies de fer
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di Maria Deiana
ontornato da imponenti rocce granitiche, pascoli incontaminati ed aria purissima, ad un’altitudine di circa 700 metri sul livello del mare, sorge Buddusò, piccolo centro gallurese conosciuto nel mondo per una delle risorse naturali sulla quale negli ultimi anni si è basata l’economia locale, l’allevamento. Storicamente, infatti, quest’attività ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo di alcune tradizioni gastronomiche. Ed è proprio grazie alle famiglie nelle quali si svolge l’attività di allevamento che col tempo si sono tramandate le tradizioni gastronomiche del fiorente centro del Monte Acuto. I pastori portavano a casa tutti quei prodotti genuini attraverso l’utilizzo dei quali le donne riuscivano ad ottenere delle vere e proprie delizie che successivamente, con il passare del tempo, si sono tramandate come quelle che ora caratterizzano l’aspetto storico-gastronomico delle tradizioni culturali popolari. La stessa attività di produzione e stagionatura del formaggio, originariamente a livello familiare, è divenuta alla fine dell’Ottocento a livello industriale, svolta, non più nelle piccole casette di campagna dei pastori, bensì presso strutture attrezzate come i caseifici. Questa evoluzione ha avuto importanti e positivi riflessi sull’economia dei piccoli paesi dove alcune persone hanno saputo sfruttare con intelligenza
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la ricchezza che la natura, fin dai tempi più antichi, ha riservato all’uomo. Lo stesso caseificio locale ne è la dimostrazione più esauriente. Una struttura nata a seguito di grandi sacrifici da parte di coloro che la lavorazione del latte e la produzione di formaggio l’hanno conosciuta nell’ambiente agro-pastorale familiare. Alla passione per tale attività pertanto si è affiancata la giusta ed indispensabile dose di imprenditorialità che ha consentito lo sviluppo e la crescita del caseificio di tipo industriale,producendo formaggi tipici molli da tavola, che trovano sbocco nei mercati della penisola ed internazionali. Facendo un passo indietro nel passato, e quindi al periodo in cui la stessa attività di allevamento si praticava esclusivamente a livello individuale, possiamo individuare le origini di quelle che adesso sono le ricette tipiche di Buddusò. Ad esempio, dopo aver lavorato il latte per produrre il formaggio, le mani sapienti delle mogli dei pastori, si sbizzarrivano per dar vita a gustosissimi prodotti dolciari. Questo avveniva in occasione di festività particolari. Buddusò, infatti, conserva soprattutto una vasta gamma di dolci tipici che in origine andavano a chiudere un pranzo importante. Oltre Sas Seadas, frittelle di formaggio dolce fuso, conosciute ed oramai prodotte in più parti dell’isola, presenta i caratteri della tipicità e quindi della tradizione gastronomica agro-pastorale, S’Aranzada,
la cui produzione richiede non solo mani esperte ma anche, ed in modo particolare, braccia energiche durante la breve cottura delle mandorle con il miele, lo zucchero e la scorza d’arancia. Proseguendo sempre con i dolci, vanno ricordate anche Sas Casadinas (Formagelle), preparate proprio in occasione della Santa Pasqua. Al termine della breve cottura, dal forno vengono estratti dei deliziosi e profumatissimi panetti di formaggio fuso. Infine, sono di estrema semplicità, considerata la povertà degli ingredienti utilizzati, Sas Cozzulas Frissas. Nate originariamente dall’impasto di sole patate lesse, farina di semola di grano duro ed un pizzico di sale. Dopo aver fatto in modo che le patate abbiano assorbito bene la farina, e che quindi si sia formato un impasto omogeneo, si prendono, a piacimento, delle piccole o medie parti dello stesso da appiattire leggermente per poi passare tutto alla fase della frittura, rigorosamente con olio extravergine di oliva. Oggi i dolci tipici di Buddusò si presentano differenti da quelli originari per il fatto che le antiche e povere ricette di una volta hanno subito delle variazioni consistenti nell’associazione di ulteriori ingredienti. Ma il gusto vero è solamente quello che si ottiene seguendo la tradizione, ed è solo così che si può parlare di prodotti unici e soprattutto tradizionali, meglio conosciuti come dolci della nonna.
Per quanto riguarda altri prodotti,, il paese offre una gamma inferiore di ricette rispetto a quelli di carattere dolciario. Così, relativamente, ad esempio, ai primi piatti, si deve fare riferimento a Sos Macarrones Lados, imitati in molte altri parti. E’ una particolare tipologia di pasta preparata a Ferragosto ed in occasione delle festività dei Santi e dei Morti. Acqua, sale e farina di semola di grano duro si incontrano per dar vita ad un composto tutto da lavora-
la cena preparata in occasione delle festività dei Santi e dei morti, e che con la stessa si andrà ad imbandire la tavola prima di andare a letto di modo che i defunti cari possano degustare il tutto. Per uno spuntino veloce poi si potrebbe ricorrere ad una sana e buona Panada, che nonostante le dimensioni ridotte è ricca di principi nutrizionali nelle dosi richieste per un normale pranzo. La cottura finale delle panadas potrà avvenire al forno,
di settembre, per i festeggiamenti in onore di Santa Reparata. La manifestazione, che si svolge nel santuario sito a circa 4 km dal centro abitato, richiama ormai l’interesse decine di migliaia di pellegrini provenienti da tutte le parti dell’isola, ai quali, dopo la celebrazione della Santa Messa viene offerto il pranzo benedetto. Alle spalle dei festeggiamenti finali di Santa Reparata vi è un grosso lavoro da parte del comitato organizzatore formato da quattro compo-
ma sono ottime anche se vengono fritte in olio extravergine di oliva. Altra ricetta locale, unica per la simbologia e per lo scopo con il quale si prepara, è Su Manigu ‘e Santa Reparada. Un vero e proprio pasto completo che si annovera tra quelli più importanti dal punto di vista della tradizione popolare. Un insieme di carne bovina tagliata a pezzi e di un particolare tipologia di minestra chiamata Succu Maduru (simile alla fregola, ma più corposa rispetto alla stessa), in brodo. Il tutto, alla fine, accompagnato naturalmente da una buona fetta di formaggio, con il quale è tipico chiudere bene ogni pasto.Si prepara ogni anno, il primo lunedì del mese
nenti che ogni anno, come da tradizione, nominano i successori per l’anno successivo. Per il pranzo vengono destinati al macello circa 50 capi bovini da trasformare appunto in prelibate pietanze per tutti. Nella giornata di martedì, subito dopo la festa, stavolta nel centro abitato, si procede alla consegna della carne benedetta, in parti pressoché uguali, a tutti coloro che già prima della festa ne abbiano fatto richiesta.Per gustare tutte le ricette tradizionali di Buddusò, le ricette di un mondo agro-pastorale oggi si può scegliere tra i diversi agriturismo locali che contribuiscono in modo rilevante alla promozione dei prodotti tipici locali.
igos rias
re. Infatti dopo la fase dell’impasto degli ingredienti il tutto sarà ridotto in piccoli “dadini” da modellare singolarmente fino ad avere come risultato una sorta di piccoli dischetti non perfettamente circolari ed in particolar modo dalle superfici che, per trattenere il condimento finale, devono presentare chiaramente i segni dei polpastrelli delle dita che li hanno lavorati. Al termine, la pasta verrà cotta in abbondante acqua salata e condita con un semplice ma abbondante sugo di carne e formaggio pecorino o magari altro formaggio stagionato prodotto in casa. La tradizione più antica insegna che Sos Macarrones Lados rappresentano il piatto che deve costituire
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di Giampaolo Lallai
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nostri tempi sono improntati alla velocità, lo sappiamo bene. Ogni cosa dev’essere fatta il più rapidamente possibile, perché abbiamo sempre da correre da un’altra parte, importanti persone da incontrare, urgenze e scadenze più impellenti. Ormai le nostre giornate sono scandite solo dalla fretta. Le soste e le pause da dedicare magari a noi stessi, sono lussi che, in un rigore che a volte rasenta l’incredibile, non ci possiamo permettere in assoluto. Sembrano, quindi, appartenere ad un’epoca ormai lontanissima, gli appuntamenti fissati non con occhio allo scoccare perfino dei secondi, come molto spesso accade oggi, ma addirittura facendo riferimento ad un momento della giornata molto generico ed impreciso. Eppure molti di noi li ricordano bene. Ad esempio: “Ci vediamo al tramonto”, “Verso l’alba”, “All’ora di cena”. Provate a farlo oggi. Vi guarderanno male, molto male. La frenesia, purtroppo, ha intaccato anche le nostre abitudini alimentari. Non solo si pranza e si cena in pochi minuti, ma si mangiano sempre le stesse pietanze, quelle più facili e più svelte da cucinare. Non potrebbe essere diversamente in quanto nessuno ha più tempo da stare accanto ai fornelli, neppure le donne, entrate di diritto nel mondo del lavoro. Le casalinghe a tempo pieno sono una categoria in via di estinzione. Le conseguenze pratiche sono evidenti e pian piano stanno modificando persino la cucina tradizionale, quella delle nostre mamme e nonne. Pensate alle minestre. Sono quasi completamente sparite dalle mense sarde, proprio perché la loro preparazione richiede impegno e tempo. Eppure sono sempre state una parte molto importante della cucina isolana e non solo di quella povera. Se ne conosceva una varietà davvero notevole. Quasi tutte avevano la caratteristica particolare della tecnica culinaria sarda: erano confezionate allo stato naturale, ossia senza l’uso di spezie o di droghe, non gradite al palato semplice, ma esigente, dei sardi. In compenso, tuttavia, richiedevano specifici espedienti di cottura ed una provetta abilità nel cucinarle, una vera e propria arte, abbinata ad esperienza e pazienza, che veniva tramandata di generazione in generazione. Certo il primo piatto più rinomato della Sardegna sono oggi is malloreddus, i gnocchetti di pasta di semola conditi cun bagna, con salsa di pomodoro, e cun sartitzu, con salsiccia suina fresca. Inoltre, a proposito dei vari tipi di pasta, sarebbe addirittura veritiera la notizia apparsa in Lo cunto delli cunti di Giovanni Battista Basile del 1635, studiato nientemeno che da Benedetto Croce, secondo la quale la patria dei maccheroni è Cagliari e non Napoli. Ma le nostre minestre sono altrettanto degne della più alta considerazione. A cominciare, per restare ancora per un po’ nell’ambito della
LA PATRIA DEI MACCHERONI? PER BENED
LE MINE
SONO ORMAI SOL
UNA TRADIZIONE NULESE LEGATA ALLA FESTA DI SANT’ANTONIO DA PADOVA
EDETTO CROCE È CAGLIARI, NON NAPOLI
NESTRE
OLO UN RICORDO?
pasta, quella di brodo, da sa minestr’ ‘e fregula, la minestra di fregola; molto apprezzata, specie a Cagliari, è quella cun cociula, con arselle, ma è squisita anche con sa cugutzula, i carciofini selvatici. Una lunga cottura e, quindi, parecchio tempo sono necessari per le minestre di legumi secchi, minestronis de lori, con i ceci (cixiri), le lenticchie (gintilla), le cicerchie (piseddu), i fagioli (fasolu), le fave (faa), i piselli (pisurci). I legumi, tra l’altro, vanno tenuti a bagno tutta la notte per favorirne l’ammollo e, perciò, diminuire il tempo della cottura. Se anziché fagioli secchi si usano fagioli freschi, tale tempo viene all’incirca dimezzato. Per insaporire in modo particolare le minestre di legumi si adoperano, durante la cottura, alcune foglie di alloro. Ma a renderle ancora più gradevoli e saporite contribuisce in modo specifico l’aggiunta di alcune strisce di cotenna di maiale o di lardo o di pancetta e la pasta aggiunta nella fase finale. Sulla temperatura al momento della consumazione le opinioni sono varie; c’è, infatti, chi predilige i gradi più elevati (buddendi o crocolendi) e chi, al contrario, attende il raffreddamento pressoché totale. L’ideale, come sempre, è una via di mezzo. Le minestre di legumi sopravvivono tuttora in diverse parti della Sardegna, ma di certo con frequenza di molto ridotta rispetto al passato, soppiantate anch’esse dai gusti nuovi e, come già accennato, soprattutto da quelle pietanze la cui preparazione richiede pochissimo tempo. Di altre tantissime minestre, invece, si è persa ogni traccia. Persistono solo nello sbiadito ricordo di chi le ha assaggiate, magari nella lontanissima infanzia, ossia quando, tra l’altro, i gusti e le preferenze hanno una connotazione non ancora del tutto netta o, comunque, non definitiva. Sappiamo che con la crescita i gusti cambiano. Ognuno di noi ne ha fatto esperienza, in particolare, con il minestrone composto da più ortaggi: fagioli, patate, carote, zucchine, cipolle, melanzane, sedano, etc. Da piccoli tutti, o quasi tutti, l’abbiamo odiato, scartando sistematicamente sull’orlo del piatto ora questo ora quell’ingrediente. Ma poi proprio il minestrone con più ortaggi ha conquistato a poco a poco il nostro gradimento e ci piace assaporarlo persino nelle confezioni surgelate oggi in vendita nei supermercati che, è bene dircelo una volta per tutte, sono ben altra cosa rispetto a quelli fatti in casa. Ma qui dovremmo ripeterci sulla carenza cronica del tempo di cui disponiamo. Le minestre ormai dimenticate sono un’infinità perché molte erano il risultato della fervida fantasia delle cuoche di allora, ossia anche delle nostre mamme e nonne che amavano stare vicino ai fornelli. Chiunque ha vissuto quell’epoca ormai tanto distante dai giorni nostri ne ha senz’altro un elenco del tutto personale di cui sarebbe molto interessante recuperare la memoria. Anche la gastronomia, infatti, fa parte
integrante del nostro patrimonio culturale, ne è una componente essenziale. Di quelle minestre ne ricordiamo almeno qualcuna: la zuppa d’indivia, la minestra di zucche lunghe, la minestra di caccio fresco, la minestra di patate, la minestra di ortiche, la minestra di piselli freschi, la minestra d’orzo, la minestra di cavolo cappuccio, la minestra di ricotta, la minestra di farro, la minestra di frattaglie, la zuppa di carciofi, la minestra di sparlotti, la minestra di porri e patate, la zuppa di cipolle, la minestra di erbe selvatiche, le varie zuppe di pesce, la minestra di castagne, la minestra di porri e patate. Ce n’era per tutti i gusti, insomma, ed era un mangiare più sano e genuino. Poteva esservi,
semmai, solo l’imbarazzo della scelta. “It’heus a fai a prandiri?” è il titolo di una bella poesia di Franca Ferraris Cornaglia. “Cosa faremo a pranzo?” era il rompicapo (su segament’ ‘e conca) quotidiano delle padrone di casa, il loro pensiero fisso per accontentare la famiglia e soddisfarne il palato. E pur di raggiungere lo scopo erano disposte a impegnarsi per delle lunghe ore a preparare ed a cuocere. Con i pranzi succulenti riuscivano addirittura a rendere malleabili (ammoddiai) i mariti più scontrosi (maridus arrevescius), come assicura in “Su mercau ” Teresa Mundula, un’altra nota poetessa cagliaritana. La minestra era il primo piatto e si prestava, quindi, meravigliosamente
a rompere l’eventuale ghiaccio o, quantomeno, a creare tutte le migliori premesse per un proficuo dialogo familiare. Ma ad una condizione essenziale: che fosse una signora minestra, fatta, cioè con grande perizia e passione. In caso contrario i risultati potevano essere di segno esattamente opposto e drammatici. In un sottano del quartiere Marina, a Cagliari, un operaio, certo non di buon umore, prese la pentola e ne rovesciò l’intero contenuto in testa alla moglie. Spiegò, poi, il suo gesto esasperato al giudice dicendo cudda minestra no fiat a dda matziai, non era possibile masticare quella minestra. La padrona di casa, forse, non aveva calcolato bene i tempi di cottura ed aveva portato in
tavola una brodaglia in cui galleggiavano i ceci ancora duri (tostaus). Questi rischi oggi non si corrono affatto. Ma non perché siamo diventati più esperti e capaci. Ma perché al vicino supermercato si trova tutto già pronto o, male che vada, tutto a rapida cottura: pochi minuti e si mangia. Tutto tranne le minestre; quelle possono rivivere solo nei ricordi o in qualche buon testo di cucina sarda che ne tramanda le ricette ma non certo i sapori squisiti. Anche di questi ci siamo dimenticati ormai da un bel pezzo. Non resta che sognare il loro ritorno, tanto sognare non costa nulla, e, se si ha fretta, lo si può fare anche ad occhi aperti.
È TEMPO DI VINI IN MOSTRA
L’ARTE DEI NOVELLI di Gian Piero Pinna
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più giovani tra i vini rossi e i più attesi tra le prelibatezze autunnali, i vini novelli si distinguono per una maggiore leggerezza e snellezza e per la loro maggiore fruttuosità complessiva, una fruttuosità generata dall’esigenza di evitare la creazione di vini troppo simili, per la quale risulta necessaria un’aggiunta del fruttato, del floreale, di un complesso aromatico secondario rispetto al corredo di partenza. Con il loro rosso più brillante che intenso, all’assaggio risultano più vivaci per un leggero gas residuo di fermentazione. Abbinati ad antipasti di terra, a primi piatti e a prodotti di stagione come funghi e caldarroste, sono divenuti parte integrante della nostra tavola, soprattutto a partire dall’Ottocento, sebbene la loro storia affondi le sue radici in Europa nell’età medievale. Una testimonianza della centralità acquisita nella tradizione sarda è offerta dall’enorme fama e dal successo che ogni anno riscuotono le rassegne dei novelli in più parti dell’isola, occasioni ideali per promuovere, tra le altre iniziative, connubi tra l’interesse enologico e le varie arti, dalla pittura al cinema, o per proporre nuovi percorsi “del gusto” volti a favorire un’intensificazione del turismo enogastronomico.
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PREMIATO CON IL “PREMIO LA MARMORA”
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UN AFFASCINANTE VIAGGIO ATT
E PIACE TANTO IL
CCO P
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a centralità mediterranea della Sardegna e l’incrociarsi di popoli e civiltà hanno prodotto usanze alimentari di derivazione spagnola, italiana e nordafricana. Nel complesso la cucina sarda, nata da un’antica matrice autoctona e sviluppatasi attraverso la valorizzazione delle materie prime locali, si è arricchita – nel lungo volgere dei secoli – di interessanti elementi culturali esterni acquisiti negli incontri e negli scontri con gli altri popoli del Mediterraneo. La varietà della cucina è paragonabile alla varietà dei paesaggi. Infatti la gastronomia affianca ai sapori del mare i gusti e i piatti dell’antica tradizione pastorale e contadina. La cucina richiama irresistibilmente la Spagna e ci presenta i piatti tradizionali di legumi: ceci, fagioli, lenticchie, fave secche condite con olio crudo. Ma è possibile mangiare anche il cus-cus, lo zimino, la zuppa di pesce, la bottariga, is malloreddus e le grigliate di pesce, i formaggi, le salsicce, i dolci tipici. E i vini? Solo per fare l’elenco occorrereb-
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bero alcune pagine; meglio assaggiarli. Vogliamo citare solo la vernaccia di Oristano, il vermentino di Gallura, il cannonau di Jerzu e, per chi ama i dolci, la malvasia di Bosa e il moscato di Cagliari. La viticoltura ha trovato nel territorio della Sardegna ambiente e clima assai favorevoli che ne hanno stimolato un’evoluzione verso posizioni che hanno dato al prodotto un giusto posto di rilievo nei mercati. La coltivazione della vite è diffusa in tutta la Sardegna: dalla pianura del Campidano fino alle colline ed alle montagne ove, all’altitudine di 800/1.000 metri, l’uva riesce ancora a maturare. La notevole differenza di condizioni climatiche e la grande varietà della natura geologica dei terreni forniscono una produzione quanto mai differenziata. “Ogni vino – scriveva Marcello Serra – ha un suo linguaggio: esplicito o velato, tenue oppure incisivo, gentile o brusco, sommesso o risoluto, languido oppure aggressivo, oscuro o decifrabile, a seconda della sua stirpe, della zolla che
TTORNO ALLA CUCINA DEI SARDI
PERCHÈ
L CIBO SARDO lo esprime, della benignità del sole che, nell’alveo dei pampini, ne disacerba la matrice, dell’onesta sapienza di coloro che lo fanno maturare all’ombra”. Dunque anche il discorso sui vini si coniuga alle caratteristiche della terra che li genera e li tempra al mutare dei venti, dell’intensità feconda e stimolante del sole e della sua grande luce mediterranea che con generosità dà ai prodotti della terra profumi, colori e sapori. Nel complesso la Sardegna è riuscita a salvare, anche nel campo dell’alimentazione, le antiche usanze perpetuando alcune tipiche vivande che danno alla sua cucina una caratteristica del tutto peculiare che risiede principalmente nel fatto che i cibi più usuali vengono preparati e presentati allo stato naturale, con l’aggiunta di poche spezie, mentre si dà grande importanza ai sistemi di cottura che talvolta costituiscono un’arte antica che si tramanda gelosamente di generazione in generazione. E in effetti sono poche le regioni del mondo che hanno mantenuto le
di Antonello Angioni
vecchie consuetudini alimentari. Questo grande patrimonio oggi può affiancarsi alle incomparabili bellezze paesistiche, alle misteriose emergenze archeologiche ed al grande retaggio delle tradizioni storiche e civili. Oggi l’enogastronomia costituisce un fatto economico notevole, in grado di dare un contributo determinante allo sviluppo turistico, grande attrattiva di questa terra ospitale e segno evidente della sua antica civiltà. Anche attraverso la “cucina” infatti si possono scoprire la cultura, la storia e le tradizioni di un popolo. In Sardegna si ritrova l’antica tradizione alimentare mediterranea basata prevalentemente sul pane e sulle paste di grano duro. Il sistema sardo di coltivazione-allevamento-alimentazione prevede il grano al centro di tutto, poi le leguminose fresche e secche: il che corrisponde all’uso della terra come luogo di coltivazione del grano e, secondariamente, delle leguminose foraggiere (le fave, i ceci, le lenticchie e i piselli). Latte, latticini, carni e grassi animali corrispondono all’uso della
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terra come pascolo del bestiame, soprattutto ovino e suino. Le variazioni del paesaggio suggeriscono ancora oggi visivamente i modi di integrare il sistema alimentare: la vigna, gli uliveti, gli orti. Nei paesi della montagna è possibile ancora gustare il pane casereccio: la sua fragranza è spesso rafforzata dal gradevole tocco aromatico conferito dal cisto o dal lentischio durante la combustione: gusti, sapori e ricordi di una società altrove scomparsa, non consumistica, che utilizza ancora razionalmente le risorse naturali. Il pane viene prodotto in tante qualità: ricordiamo il pane carasau, sottile e croccante; il pistoccu, dall’aspetto più consistente; la spianata, sempre tenera e gustosa; il civraxiu, una grossa e fragrante pagnotta ben lievitata (il “pane di Sanluri”); su coccoi, la pasta dura di semola o farina che, in occasione delle feste, viene lavorata anche in forme artistiche. E ancora, su moddizzosu, is ladixèddas, sa castèdda, sa fresa e tanti altri. I primi piatti
sono le minestre a base di cereali (sa fregala e su farri, rispettivamente di semola di grano e d’orzo) o di verdure,o ancora il pane e brodo condito col pomodoro, il formaggio e le uova. E poi le zuppe: il pane frattau (fatto con pane carasau, uovo, sugo di pomodoro e pecorino) e la zuppa gallurese (pane raffermo, brodo e formaggio fresco). Ma vi sono anche le paste asciutte, condite col sugo di pomodoro talvolta arricchito con pezzetti di salsiccia: is malloreddus (gnocchetti), is maccarrones de busa, is culurgionis (ravioli con ripieno di patata e formaggio, o ricotta e spinaci, o anche carne) e is panadas, squisiti fagottini ripieni di verdure o carne di probabile origine araba. Tra i prodotti tipici indichiamo alcune specialità. Innanzitutto la bottariga: uova di muggine fatte essiccare all’aria dopo averle saltate e leggermente pressate. La migliore è quella prodotta a Cabras. Il sapore è particolare, un tantino aggressivo. Si può gustare al naturale, tagliata a fettine con un po’ d’olio crudo, oppure grattugiata sugli spaghetti condito con l’olio d’oliva bollente e un ricciolo di burro. Esiste anche la bottariga di tonno, più grande e dal gusto più salato: le zone di produzione tipica sono Carloforte e Stintino. Altro piatto tipico è la burrida, specialità cagliaritana a base di gattuccio di mare lessato e condito con olio d’oliva, aceto, aglio, prezzemolo, noci e il fegato tritato del pesce stesso. Anche il cus-cus, di origine sicuramente araba, è diventato una specialità di alcu-
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ne zone di mare (Carloforte, Calasetta, Santa Margherita di Pula): è una minestra di semola grossa cucinata insieme a verdure, legumi e ortaggi. Il tutto poi viene sgocciolato e condito con salsine aromatiche. Tra le specialità di terra ricordiamo sa cordula, una lunga corda intrecciata fatta di budelle di agnello o capretto da latte, che si infilza nello spiedo e si cucina lentamente arrosto. In alternativa la corda può essere tagliata a piccoli pezzi di 8-10 cm. Circa e cucinata al tegame con piselli o cardi. Nelle stesse zone interne dove si prepara sa cordula si può gustare sa faà e lardu, antico piatto dei contadini, semplice e molto sostanzioso. Le fave secche (dopo essere state tenute a bagno almeno una notte) vengono lessate insieme alla cotenna di maiale (oppure con un po’ di pancetta o le zampe del maiale). A metà cottura il brodo può essere sgrassato e si aggiungono gli aromi: prezzemolo, pomodoro secco, finocchietti selvatici o altre erbe, aglio, olio crudo. È questa la “favata”, versione più raffinata del piatto. Ancora si segnalano le lumache, molto apprezzate e ben cucinate in tutta l’Isola anche se i veri maestri nel preparare le lumache sono i sassaresi. E poi la pecora bollita, su pisci a scabecciu (pesce fritto e condito con una salsa molto aromatica), is pillonis de taccula (tordi o merli, detti anche grive, lessati in acqua molto salata e profumati con le foglie del mirto), sa trattalia (lo spiedino della coratella – a base di pezzetti di polmone, fegato e cuore dell’agnello e del capretto da latte intervallati da fettine di lardo – da cucinare arrosto come sa cordula). Infine su ghisau, piatto di origine spagnola a base di carne bovina o di agnello tagliata a tocchetti e fatta soffriggere in padella con lardo e aglio; quindi si procede alla cottura lenta con l’aggiunta di vino aromatico e farina per amalgamare il sughetto. La Sardegna è anche l’Isola dei formaggi e non poteva essere diversamente considerata l’economia pastorale: squisiti i formaggi di pecora e di capra. I formaggi caprini vengono prodotti con la tecnica della coagulazione lenta, a bassa temperatura, con l’utilizzo di una limitata quantità di caglio: il tanto sufficiente a dare struttura al prodotto che può essere consumato stagionato, a pasta semicotta o a pasta molle. Lo stagionato viene utilizzato anche grattugiato. Dal latte caprino si produce la “crema piccante”, una vera delizia che ha sostituito il casu marzu la cui commercializzazione è vietata. Tra i formaggi pecorini ricordiamo il fiore sardo (prodotto con latte fresco, coagulato a crudo col caglio talvolta asciugato al fumo, è il “formaggio sardo” per eccellenza), il pecorino romano (laziale di nascita ma sardo di adozione è, per riconoscimento unanime, il re dei formaggi ovini: presenza struttura compatta, aroma deciso e sapore gradevolmente piccante), il pecorino sardo (prodotto molto versatile: fresco si presta ad essere arrostito o consumato a tavola mentre a stagionatura compiuta, pur rimanendo prodotto da tavola, si adatta bene alla grattugia), i formaggi molli di pecora e le squisite ricotte. Tra i for-
maggi vaccini si segnalano la peretta, a base di pasta filata, e la fresa, prodotto di pregio assai delicato. Infine i dolci: l’aranzada, dolce tipico del Nuorese e delle Baronie preparato con la scorza d’arancia, il miele e le mandorle; gli amaretti, dolci a base di mandorla, morbidi e dal gusto particolarmente delicato (ottimi se accompagnati con un moscato, una malvasia o un nasco); is pardulas, soffici dischi di pasta ripieni di ricotta aromatizzata con zafferano, vaniglia e scorza di agrumi; sas caschettas, il “dolce della sposa” costituito da una sottilissima sfoglia di pasta e da un ripieno a base di miele, cannella, buccia d’arancia e nocciole tritate; is candelaus, a base di finissime mandorle lavorate con lo zucchero e l’acqua di fior d’aranci: a cottura avvenuta il dolce viene ricoperto di glassa e decorato con sottili lamine dorate e con palline argentate. E ancora, i bianchetti (l’equivalente della meringa) preparati con bianchi d’uovo, zucchero e mandorle tostate; i sospiri, tipico dolce di Ozieri che si produce anche in altre aree dell’Isola col nome di gueffus: si tratta di piccole palline a base di mandorle tritate, zucchero, limone e acqua di fior d’aranci, avvolte in coloratissime carte veline; le sebadas, tipico dolce pastorale a base di pasta lavorata con lo strutto e formaggio fresco: vengono fritte in olio d’oliva e quindi ricoperte di miele; le tiliccas, dolce tipico della Gallura e del Logudoro. E poi la pompia, dolce preparato con un cedro svuotato della polpa, immerso nel miele e cucinato a fuoco lento; il torrone, elemento caratterizzante tutte le sagre paesane, prodotto con miele, bianchi d’uovo e mandorle (o noci e nocciole), soprattutto nei paesi della Barbagia di Belvì; il gattò, croccantino a base di mandorle a
pezzetti fatte cuocere nello zucchero o nel miele e poi aromatizzate con succo di limone e d’arancia; is mastazzolus, il dolce di Oristano a forma romboidale (forse di origine araba) base di farina, mosto concentrato, zucchero, lievito e cannella; is pirichittus, tipico dolce del Campidano fatto con farina, uova e olio d’oliva e ricoperto da una bianca glassa aromatizzata con limone. Ricordiamo infine sos pabassinos e il pan’è saba: dolci, a base di sapa o mosto concentrato e farina, arricchiti con noci, mandorle e uva passa; a cottura avvenuta i dolci vengono decorati con piccole palline colorate (dette trazzea o traggera). Sono i “dolci dei morti” in quanto vengono generalmente preparati e serviti per Ognissanti e in occasione della commemorazione dei defunti. Infine i delicati pistoccos (o pistoccus), soffici biscotti a base d’uovo simili ai savoiardi che vengono offerti col caffè durante le cerimonie e le feste. Questo sistema alimentare richiama ancora il peso di quei settori – la “trinità dei campi” (il grano, il molino, la farina), la “trinità dei pascoli” (il latte, il caseificio, il formaggio) e la “trinità delle vigne” (l’uva, la cantina, il vino) – che per primi favorirono il sorgere, in Sardegna, di industrie di trasformazione e di collegamento con i mercati esterni. Furono i ceti imprenditoriali borghesi che, con coraggio e intraprendenza, diedero avvio alla graduale evoluzione dell’economia isolana in senso capitalistico. Furono gli intraprendenti formaggiai di Macomer, i vinai del Campidano di Cagliari ed i mugnai delle diverse contrade dell’Isola che, agli inizi del Novecento, posero le basi di una moderna struttura produttiva basata su un corretto utilizzo delle risorse locali.
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