ViaMare - Speciale storia (e storie) di mare

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Mensile di portualità, spiagge, sport, trasporti, viaggi e cultura mediterranea

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SPECIALE

SHARDANA CUORE RIBELLE

LE TRUPPE FRANCESI IN SARDEGNA C’ERA GIÀ UNA VOLTA LA FLOTTA SARDA LE TORRI NEL GOLFO



Giornale di bordo Sul mare sventola Bandiera Sarda

Giorgio Ariu, direttore di ViaMare

Noi che veniamo dai popoli delle acque Per conoscere le invasioni dei “popoli del mare” e per risalire alla prima volontà di accorciare le distanze, tra colonizzatori, filistei fenici e shardana, “quelle genti di mare dal cuore ribelle”, Antonello Angioni è andato a frugare tra mille carte ingiallite: ferma la volontà del ricercatore di avvicinarsi ai percorsi (anche a quelli del pensiero) del popolo sardo verso i “popoli delle acque” proiettati alla cultura dello sviluppo.

SPECIALE

SHARDANA CUORE RIBELLE

C’ERA GIÀ UNA VOLTA LA FLOTTA SARDA LE TORRI NEL GOLFO

utopica e perigliosa dell’orizzonte - costruirono le premesse per un rapporto più ricco tra le terre. Il mare creò la nostalgia forte della patria “lontana” ed arricchì lo spirito distaccando l’uomo dalla fissità della materia per gettarlo nell’agone della storia, luogo senza rive, aperto ad uno sviluppo illimitato e discontinuo. Il mare, aprendo l’uomo all’esperienza dell’infedeltà e del distacco, ha reso incerta - ma forse anche più grande e complessa - la fedeltà e l’idea del ritorno. Nel corso dei secoli il mare ha determinato il rapporto dei sardi con l’esterno, dando vita ad una

dialettica complessa fatta di aperture e di chiusure: a seconda delle epoche storiche è stato fattore di isolamento o finestra sul mondo. Intorno al Mille avanti Cristo il Mediterraneo doveva essere un mare grande e terribile, sicuramente più insicuro e pericoloso dei nostri oceani, attraversato da pochi intrepidi naviganti dediti al commercio ed alla guerra. Non é semplice cogliere il significato del Mediterraneo di allora se non lo si restituisce alla sua dimensione autentica, quella che poteva essere percepita dall’uomo del passato: non una via di comunicazione ma “un limite, una barriera che si estende fino all’orizzonte, come un’immensità ossessiva, onnipresente, meravigliosa, enigmatica” (così Braudel). Il mare era sconfinato e, soprattutto, rappresentava un ostacolo. Poi, con la rivoluzione dei trasporti, si è come “accorciato”, sempre di più, sino al punto di apparire come un grande lago. Ma ben diversa doveva essere la percezione di questo mare agli albori della civiltà classica, quando la Sardegna si apriva al mondo mediterraneo attraverso la saldatura, non certo indolore, della civiltà autoctona (nuragica) con quella dei primi colonizzatori che vi giunsero alla ricerca dei metalli di cui l’Isola era ricca. Comunemente venivano definiti “fenici” (termine a noi pervenuto attraverso i testi greci); ma tale locuzione, al pari della sua deformazione romana “punici”, non venne mai utilizzata dai “fenici” che si chiamavano “cananei”. Nè è mai esistita la Fenicia, come stato o nazione: esistevano in quell’area geografica - corrispondente all’incirca all’attuale Libano - delle “città-stato” arroccate su alture rocciose in prossimità della costa. In quel tempo era convinzione comune che la Sardegna avesse la forma di un piede, un’orma, ichnos in greco, da cui Ichnusa o Ichnussa (che fu l’antico nome della Sardegna), altrimenti chiamata Sandàlion termine che fa riferimento all’impronta di un sandalo. In quell’epoca, inabissata nelle profondità della storia - quando l’età del bronzo si concludeva per lasciare il passo, senza soluzione di continuità, all’età del ferro - le acque del Mediterraneo occidentale erano già state solcate dai micenei e, dopo il loro annientamento, dai “popoli del mare”, tra cui i filistei, che approdarono nelle rive della Sardegna ancor prima dei fenici. Ma non si trattava di “colonizzatori”. Infatti le invasioni dei “popoli del mare” - che si collocano all’incirca tra il XIII e l’XI secolo avanti Cristo non modificarono i caratteri culturali ed etnici delle popolazioni e non diedero neppure vita alla creazione di scali costieri permanenti o di insediamenti urbani. Costituisce un dato che i “popoli del mare” - nella loro travagliata esistenza - si addentrarono anche nella Sardegna, terra mitica, popolata in prevalenza da pastori erranti, immaginata anche da Omero, il cantore cieco che, proprio tra il X e l’XI secolo avanti Cristo, narrando le storie e i miti sedimentati dalla tradizione orale, compose l’Odissea. Forse la Sardegna era stata descritta attraverso la vicenda dei lestrigoni, i cannibali che vivevano di fronte all’Isola delle capre. Qualcuno ha di recente anche az-

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LE TRUPPE FRANCESI IN SARDEGNA

oli del mare re ribelle

suoi molteplici problemi, le il suo destino - occorre comofonda: occorre sgombrare il ngenerato dal tempo, e renluogo dove la vita scompare riviera è una linea di confine e le acque - dove inizia la via a che unisce i diversi dando co alla relazione. Non più le he ci rendono ostaggi di una

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ANNO VII, NUMERO 33

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molteplici problemi, destino: popoli stato elaborazione nità culturale

RDANA

Di quel brutto pasticciaccio dell’affare Tirrenia, Bruxelles e Roma indicano una via di uscita che porterebbe la Regione ad entrare nella cordata Cin, subentrando al Patron di Snav e Grandi Navi Veloci, Gianluigi Aponte, con una quota così pesante da portarla a gestire il tanto conclamato bene dei sardi. A quel punto mollerebbe la piccola flotta calmieratrice Saremar e gestirebbe tariffe, rotte e qualità dei servizi di bordo della grande Compagnia. Insomma, Bandiera Sarda si profila all’orizzonte. Oggi come nell’anno 1864 quando la “Società del Tirreno” per seguire il sogno di Enrico Serpieri intravedeva nelle “vie del mare” la congiunzione tra economia dell’isola e quella delle regioni di terraferma della nuova nazione italiana, con un processo di modernizzazione proiettato all’Europa. Già dal 1851 il Governo piemontese, tramite l’armatore genovese concessionario, tale Rubattino, aveva assicurato i collegamenti con l’Isola. Ma battere Bandiera Sarda era ben altra cosa e il sogno di Serpieri intrigò un imprenditore cagliaritano, Amsicora Capra. La sua Vinalcool nel 1912 acquista un primo vapore e accarezza il Sogno della Flotta Sarda. Una storia di straordinario impegno la sua, il cui percorso è stato recuperato per noi dallo storico economista Paolo Fadda. Per sapere come andò a finire basta sfogliare queste pagine tutte ricche di storie di straordinari attraversamenti via mare.

DIRETTORE RESPONSABILE Giorgio Ariu IN REDAZIONE Simone Ariu, Maurizio Artizzu, Lorelyse Pinna, Antonella Solinas REDAZIONE GRAFICA E IMPAGINAZIONE Ufficio Grafico GIA SCRITTI Antonello Angioni, Francesco Carboni, Lucio Deriu, Francesco Floris, Paolo Fadda FOTO Archivio GIA, Coop. Ghivine, Andrea Mura, Andrea Nissardi CONCESSIONARIA PER LA PUBBLICITÀ GIA Comunicazione Tel. 070 728214 - marketing@giacomunicazione.it

continuità arcaica, ma un’inquietudine profonda che segna la discontinuità e impedisce la chiusura del cerchio. Per i popoli del Mediterraneo il mare è stato, storicamente, il primo luogo di elaborazione del pensiero e di unità culturale. Qui, nel corso dei secoli, si è gradualmente formata l’esperienza filosofica ed è emersa la coscienza delle antiche civiltà e del valore di quei “popoli delle acque” che - seguendo la linea

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PREMIO EUROPA PER L’EDITORIA Premio Editore dell’Anno per l’impegno sociale e la valorizzazione della cultura sarda

REDAZIONE E CENTRO DI PRODUZIONE via Sardegna, 132 - 09124 Cagliari (Italy) Tel. 070 728356 - info@giacomunicazione.it www.giacomunicazione.it - facebook.com/giacomunicazione STAMPA E ALLESTIMENTO Grafiche Ghiani DISTRIBUZIONE Agenzia Fantini Registrazione Tribunale di Cagliari n. 18/05 del 14 giugno 2005 / Marchio depositato numero CA2005C000191 Vietata la riproduzione, anche parziale, di foto, testi e soluzioni creative presenti nella rivista.

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1637: gli eserciti francesi sbarcano ad Oristano

Quando la Sartiglia non arrise agli oristanesi

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di Lucio Deriu a sabbia delle tante edizioni della Sartiglia è ancora nella ruga Mercatorum della capitale del Giudicato d’Arborea (o, se preferite, nell’attuale via Vittorio Emanuele) mischiata agli echi delle tante manifestazioni di tripudio per i cavalieri. Le due giostre - organizzate dai gremi di San Giovanni (la domenica) e di San Giuseppe (il martedì) - hanno regalato decine di stelle che, nella tradizione agraria, si traducono in prosperi raccolti grazie alla metamorfosi dell’uomo - diventato dio e re per un giorno - ed alla sua policroma armata di cavalieri. Non sapremo mai se il 22 febbraio del 1637 la Sortilla si sia mai svolta; non sapremo mai quanti anelli sarebbero stati colti per sognare una florida mietitura. Ma di una cosa gli oristanesi furono certi: vivere uno sbarco nemico in piena regola!!! Il Camos aveva messo in guardia gli allora governanti spagnoli presenti nell’Isola sul fatto che il sistema di torri costiere d’avvistamento poteva ritenersi valido solo se la città di Oristano fosse stata munita di una valida fortificazione, al pari di Caller, Alghero e Castel Aragonese. Esito diverso si sarebbe avuto se il progetto dell’architetto Rocco Capellino del 1577 avesse avuto seguito; di tale ambizioso progetto rimane traccia nel Codice manoscritto cartaceo custodito presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Ma torniamo a quel triste giorno di Carnevale del 1637. Come det-

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to, le cronache coeve all’avvenimento non ci dicono se si svolsero le due corse ma sappiamo per certo che in città il divertimento impazzava già da diversi giorni. Oristano e i villaggi prossimi si sentivano al sicuro all’ombra della Gran Torre d’Oristano, la più grande e poderosa dell’Isola - che troneggiava sul litorale con una guarnigione formata da un alcaide, un artigliere e quattro soldati - capace di controllare tutto il golfo per difendere la foce del Tirso (allora navigabile fino alle porte del centro abitato), assicurare un protetto riparo alle navi e garantire proficui scambi commerciali alla città che fu di Eleonora. Questa sicurezza, garantita da tanta monumentalità, venne sopravalutata dallo stesso alcaide che proprio quel 22 febbraio decise di lasciare di guardia due soli uomini (…tanto non è successo mai niente, si sarà detto) per potersi recare, col resto della piccola guarnigione, a festeggiare la Sortilla con zippole e vernaccia. I due uomini di guardia poco avrebbero potu-


to fare quando nelle tranquille acque del golfo si materializzarono ben 45 galere (da 68 mila tonnellate di stazza ciascuna) armate a vela provenzale e olandese, eccetto tre armate a vela latina, con un esercito al seguito di oltre 4.000 soldati ed un notevole numero di cavalli. Questi dati sono esposti con precisione - insieme ad una vivace descrizione dell’avvenimento - nella Historia Cronologica del padre Giorgio Aleo. Comandava l’armata Enrico di Lorena, conte d’Harcourt, accompagnato dall’arcivescovo di Bordeaux Antonio Sourdis d’Escombleau che fungeva da consigliere militare e da gran cappellano. Ma cosa ci faceva siffatta flotta nel Mare di Sardegna nei freddi giorni di febbraio? Siamo nel pieno della fase francese della Guerra dei Trent’anni (1635-1648) la quale, macchiandosi di tante nefandezze, incominciò come guerra per la libertà di religione e terminò come conflitto che diede all’Europa un nuovo equilibrio politico. Una delle teorie di tale sbarco fu quella di fare di Oristano una testa di ponte per una probabile invasione e conquista dell’intera Isola oppure - come invece sostengono altri storici - si volevano saggiare le effettive forze dei sardi e scoprire quali località fossero ricche di approvvigionamenti alimentari per il rifornimento delle truppe che la fame spingeva ad atti di vera pirateria, ben lontano dalle città meglio protette di Cagliari e Alghero. Tali guarnigioni erano presenti da circa un anno nei mari della Sardegna, provenienti dal vicino Atlantico, dopo aver recato aiuto al duca di Parma alleato del re di Francia. Del resto la valenza dei ridossi occidentali del golfo garantiva fondali capaci di accogliere qualsiasi flotta armata, al riparo dalle violente libecciate, con un entroterra ricco di acqua dolce e legname. Ma torniamo alla cruenta invasione del 1637. Nella memoria degli storici, che narrarono lo sbarco, tale evento è ricordato come l’invasione de is sordaus grogus, ovvero dei francesi dai gialli calzoni (dal colore dominante della loro divisa), che dal 22 al 26 febbraio imperversarono per villaggi e campagne abbandonandosi a azioni di puro saccheggio. Non fu possibile impedirne l’ingresso, tanto avven-

ne rapidamente, e ci accorse di essi quando ormai le navi erano in porto. Nella sola Oristano il 25 febbraio vennero depredate case e chiese; la cattedrale subì l’onta della spoliazione di quadri, statue, paramenti sacri, preziosi e gioielli valutati oltre 20 mila scudi e solo la pietà dell’arcivescovo di Bordeaux riuscì a convincere il conte di Lorena a non dar fuoco all’intera città. Il vicino borgo di Santa Giusta e altre località limitrofe ospitarono i fuggiaschi oristanesi scampati alla morte, compresi l’arcivescovo oristanese Gavino Magliano e tutto il clero, in attesa dell’arrivo via terra dei liberatori; il povero prelato pensò pure di mandare un accorato messaggio in latino al suo confratello sperando in un ripensamento. Con abili stratagemmi essi riuscirono a far credere agli invasori di possedere una cavalleria superiore alla loro (le cronache riportate dallo storico Giuseppe Manno narrano di una truppa formata da 80 cavalieri che girò per due interi giorni intorno alla cattedrale di Santa Giusta creando un gran polverone con delle frasche che venivano da loro trascinate, facendo credere ai francesi dell’arrivo di migliaia di soldati).

Per l’occasione pure tradizionali nemici come don Diego de Aragall, comandante delle milizie di Cagliari, e don Girolamo Comprat, comandante delle milizie che provenivano dal Montiferru, rinunciarono alle proprie contese per unirsi contro lo straniero che - anche a causa di tali rivalità interne - aveva avuto facile accesso nel golfo di Oristano. I francesi, a seguito di una strenua difesa, vennero ricacciati sulle loro navi ma dovettero lasciare sul terreno, insieme ai morti e ai prigionieri, due pezzi di artiglieria, undici battelli e i loro otto preziosi stendardi in panno rosso con applicazioni decorative di tela policroma ricamata riportanti le effigi delle nere aquile, simboleggianti la contea di Lorena, opera di arazzieri francesi del XVII secolo. Ancora oggi, dopo laboriosi lavori di restauro, è possibile ammirarne quattro presso la Cattedrale della città mentre i restanti quattro fanno degna presenza nella Cattedrale di Saragozza, quale ringraziamento per l’aiuto offerto dagli spagnoli nella cacciata degli ugonotti.

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Andrea Nissardi

La torre dei segnali da quattro secoli

vigila sul golfo di Cagliari

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di Francesco Floris

a Torre dei segnali - detta anche Torre di Calamosca - si trova in una splendida posizione panoramica sul promontorio di Sant’Elia, in prossimità del faro. L’edificio domina buona parte del braccio occidentale del golfo di Cagliari ed offre al visitatore la possibilità di godere di un magnifico panorama. L’importanza strategica del sito fu intuita fin dal Medioevo. Gian Francesco Fara, nel 1584, scrisse che vi sorgeva una torre. La costruzione dell’attuale edificio peraltro risale al 1638 e le sue fondazioni poggiano su una struttura circolare che probabilmente ha inglobato i resti della vecchia torre. L’edificazione si rese necessaria perché nel 1637 la Sardegna aveva vissuto una grande paura in occasione dello sbarco dei francesi ad Oristano ed al conseguente saccheggio della città. La probabilità che un nuovo tentativo francese venisse posto in essere, considerato che era in corso l’ultima fase della Guerra dei Trent’anni, indusse l’Amministra-

zione delle Torri ad accelerarne l’edificazione. L’opportunità dell’opera fu sostenuta da Giovanni Melzi D’Erill, un cavaliere di Malta esperto dei problemi della difesa militare, che si era trasferito in Sardegna dalla Lombardia. La costruzione fu affidata ad un importante ingegnere militare spagnolo, Alfonso De Arcayne, che operò con grande velocità utilizzando anche alcune strutture costruite nel 1622. L’edificio, oltre ad assolvere al compito di avvistare le navi, costituì anche teatro di alcune imprese guerresche come, ad esempio, nel 1643 allorchè con i suoi cannoni respinse l’attacco di una nave francese e soprattutto quando, nel 1793, svolse un ruolo importante durante il tentativo di sbarco della flotta francese. Alla fine del 1792 la torre era stata dotata di nuovi cannoni e quando nel 1793 la flotta francese - minacciosamente sostenuta dai suoi cannoni - mise in atto il bombardamento ed il tentativo di sbarco, la Torre dei segnali, in collegamento visivo col Forte di Sant’Ignazio e con le altre torri del golfo di Cagliari, contribuì

a rendere più efficace l’azione da difesa della città. Nel corso dei secoli fu ripetutamente restaurata e dopo il 1780 venne dotata di un congegno meccanico per “fare i segnali”, di grande utilità per la comunicazione dell’arrivo in rada delle navi. Venuta meno la sua importanza come edificio difensivo, continuò a rimanere nell’ambito del demanio militare e nel corso del XIX secolo subì numerosi interventi che ne modificarono la fisionomia. La recente dismissione da parte dell’Autorità militare pone notevoli problemi sul futuro della sua conservazione e della sua destinazione.

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Il mare e la storia di Sardegna

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ORR

NURAGICHE con vista sul mare di Lucio Deriu

e gli attuali vincoli paesaggistici in materia di distanze delle costruzioni dal mare avessero trovato applicazione nei secoli passati, i nostri antenati probabilmente sarebbero andati incontro a non pochi guai ed a serie difficoltà nel costruire le loro svettanti torri. Infatti occorre considerare che un numero non trascurabile degli oltre settemila nuraghi che ancora oggi punteggiano la Sardegna, se non proprio sulla linea di costa (come le torri costruite dagli spagnoli a partire dai primi decenni del Cinquecento), sono posti nell’immediato entroterra e spesso in posizione dominante rispetto a un’alta costa. A rinverdire il ricordo del gran numero dei nuraghi “marittimi” ci aveva già pensato diversi anni fa un grande della subacquea sarda, Nicola Porcu, rivisitando le carte dell’Istituto Geografico Militare che - tra una ristampa e l’altra - omettevano, di volta in volta, la presenza di non pochi monumenti. Mettendo insieme le tavolette “al 25000” dei territori costieri, ne ha tratto una fitta rete di torri unite da un insieme di collegamenti, non tutti attualmente evincibili, ma certamente vincolati da ferree logiche di distribuzione e controllo del territorio. Recentemente questo aspetto è stato affrontato da Sergio Frau nell’ambito di un’opera di oltre 600 pagine: Le Colonne d’Ercole. La chiave di lettura è quella che vede un’isola “blindata”, bisognosa di una possente struttura megalitica a difesa e salvaguardia dei suoi abitanti e dei loro insediamenti. Nella stessa opera ci si domanda: “come i fenici abbiano potuto bucare questa rete di protezione resta mistero”. La mia personale opinione - alla quale si associa il citato Nicola Porcu (autore tra l’altro di non poche scoperte sottomarine, come i primi ritrovamenti ceramici presso la laguna di Santa Gilla e l’individuazione del Portus Herculis di Tolomeo nelle acque di Capo Malfatano, che gli hanno valso il titolo di Ispettore onorario della Soprintendenza, all’epoca del grande archeologo Ferruccio Barreca) - non è esattamente la stessa dell’autore del voluminoso tomo anche perché all’avvento dei fenici la costruzione dei nuraghi era terminata da un pezzo e, probabilmente, molti di essi erano già stati abbandonati insieme ai viciniori insediamenti. Si era invece affermato in Sardegna - già a partire dal neolitico e dalla successiva epoca che vedeva le aristocrazie indigene impegnate in quel “circuito dei metalli” con gli etruschi in prima

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fila e i fenici a seguire - un popolo aperto ai commerci delle sue materie prime attraverso la propria marineria. Equazione logica diventa quella traffici = approdi; ma questa è tutta un’altra storia che ci vedrà, probabilmente, impegnati in una prossima occasione. Il discorso che ora si vuole tentare è quello di osservare ed esaminare il territorio occupato dai sardi nella fascia litoranea. E, poichè sarebbe troppo ampio prendere in considerazione l’intera regione, si ritiene sufficiente esaminare l’Oristanese e il Sinis come territorio campione. In pratica un ambito che ha inizio con l’omonima penisola che si estende per circa 220 Kq. verso nord fino alle pendici del Montiferru includendo, in una sorta di “Grande Sinis”, la lussureggiante e immensa pineta di Is Arenas e le candide falesie calcarenitiche che si sviluppano fino a Santa Caterina di Pittinuri, nonché la vasta pianura e la porzione costiera che caratterizza la città di Oristano. Il Sinis, in rapporto alla sua estensione, presenta una delle più alte densità di nuraghi dell’Isola. Tale assunto trova conferma negli studi di Salvatore Sebis e di Anna Depalmas, due archeologi che - in anni di studi e sistematica investigazione - hanno analizzato a fondo tutti gli aspetti di questa zona e censito ben 106 nuraghi (con un rapporto di un nuraghe complesso ogni tre semplici) a riprova dell’importanza economica che tali territori rivestivano. Tutto ciò consente di individuare i diversi momenti di vita sociale, da quelli religiosi e spirituali - legati alle celebrazioni rituali collettive in onore alle proprie divinità che ci vengono ricordate da toponimi come Maimone (una delle candide spiagge dalla sabbia di granito) e Funtana Meiga - a quelli civili legati alle attività quotidiane attraverso i ritrovamenti di macine e macinelli, di pesi da telaio ed altri oggetti tipici della cultura materiale dei suoi abitatori. Sempre con riferimento al numero di monumenti censiti è bene ricordare dei tanti nuraghi che, nel corso dei secoli, sono stati “smontati”. Le intense attività cerealicole alle quali furono sottoposti i terreni - e di cui rimangono le memorie nei nomi di aree come Monti Trigu, Monti Palla, Monti Prama e Kùkkuru Mannu - a partire dal periodo punico e romano e sino ai nostri giorni, hanno determinato nella maggioranza dei casi la rimozione dei cumuli artificiali e lo smantellamento delle strutture architettoniche presenti, ai fini del riutilizzo del materiale litico per scopi di tipo abitativo o per altri ancora, in attività comunque spesso legate (direttamente o indirettamente) all’agricoltura e alla pastorizia: attività che, insieme alla pesca, costituivano la struttura economica di questi territori. L’età contemporanea ha conosciuto inoltre l’attuazione della legge sulla chiusura dei

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terreni, conosciuta come l’Editto delle Chiudende, dove - per recuperare il materiale utile ad innalzare i muretti a secco - non ci si poneva scrupolo a radere al suolo il nuraghe più vicino, al pari di frantumare i massi dei monumenti per ottenere la ghiaia necessaria alla realizzazione delle massicciate della nascente ferrovia reale. Iniziamo il nostro viaggio costiero partendo da sud verso nord. Il primo nuraghe “vista mare” è quel che resta del Baboi Cabitza. Lo troviamo dominante nel Capo San Marco a 56 metri sul livello del mare e, a meno di una trasformazione geomorfologica naturale, inserito in una zona priva di alcuna sorgente d’acqua dolce e battuta dall’incessante vento di maestrale: il nuraghe è come una sentinella che, in silenzio, osserva gli avvicinamenti al golfo di Oristano. Proseguendo l’esplorazione del Sinis risaliamo un pianoro alto poco meno di cento metri, denominato Su Pranu. Le carte mostrano un’area punteggiata di monumenti. Il nuraghe S’Argara domina dall’alto dei 93 metri di quota; alcuni ruderi (come il Suergiu, Sa Carroccia, il Piscina Rubia, il Muras, S’Uraccheddu Piudu) godono di una splendida vista sul mare di Sardegna, mentre molti altri devono accontentarsi di un orizzonte caratterizzato dall’imponente presenza della grande e pescosissima laguna di Cabras. A tale proposito gli abitanti di questo vivace centro di pescatori sogliono dire che sono possessori di ben tre mari: Su Mari Biu, Su Mari Mottu e Su Mar’e

Crabas (cioè il mare vivo; il mare morto e il mare di Cabras, per far intendere l’estensione del loro stagno). Ma chi più di tutti esalta la vocazione del nuraghe “marittimo” è quanto resta di quello costruito sull’isola di Malu Entu: si vuole qui riproporre il corretto toponimo dell’isola prima della storpiatura lessicale dovuta ai cartografi ottocenteschi che l’hanno ribattezzata Maldiventre. Quest’isola, posta al largo della costa centro-occidentale di fronte al maestoso Capo Mannu, presenta una forma allungata in direzione all’incirca nord/ est-sud/ovest. E’ praticamente piana se si esclude un debole rilievo di 18 metri sul livello del mare. Malgrado la formazione quasi totalmente granitica, nella parte centro orientale della sua costa, ospitava un nuraghe di semplici dimensioni diventato poi un ottimo dispensatore di materiale da costruzione per quanti nei secoli a venire trovarono nell’isoletta il luogo ideale per brevi soggiorni, dai fenici della metà dell’VIII secolo a.C., ai romani che vi costruirono una modesta villa maritima, agli arabi che, nel 1580, guidati dal Pascià di Algeri, la utilizzarono come luogo di temporanea prigionia per circa settecento sardi (rapiti dai vicini villaggi durante un’incursione nell’entroterra e poi rivenduti al libero mercato dopo la mancata negoziazione per il loro rilascio), e infine ai pastori che, per decenni, utilizzarono le scarse piante erbacee come pascoli delle greggi di ovini trasportate su barconi da pesca nei periodi freschi. Anche l’area del golfo di Oristano reca i segni della presenza delle torri. La ricerca archeologica ci rimanda ad un insediamento nell’attuale Torre Grande. Lo stesso possente baluardo spagnolo grava su un antico pozzo d’acqua dolce, a poche decine di metri dalla battigia, che ben si presterebbe ad essere collocato all’interno di un nuraghe, come è nuragico quanto resta di un altro pozzo ubicato a breve distanza dall’attuale pineta. Restando all’interno del golfo ed addentrandoci nel dedalo di stagni e canali che caratterizzano la parte interna del Capo della Frasca, troviamo, a breve distanza l’uno dall’altro, tre monumenti: il Priogosu, Is Cabis e S’Ungroni di Santadi (che tanto interesse ha suscitato all’autore di Le Colonne d’Ercole). In questo nostro breve viaggio non abbiamo affrontato le questioni che riguardano le modificazioni geomorfologiche della linea di costa nel corso di questi ultimi millenni ma, al fine di giustificare l’attuale stato di semisommersione del nuraghe richiamato e adottato dal famoso cronista-scrittore per la sua teoria sulla fine della civiltà sarda, dobbiamo invece far riferimento all’evidente e meno spettacolare fenomeno dell’arretramento della linea di costa dovuto sia all’inesorabile erosione (quello stesso arretramento e interramento che, a suo tempo, aveva decretato la fine dell’emporio delle vicine città di Neapolis e di Othoca) e sia al lento innalzamento del livello medio del mare in tutto il bacino del Mediterraneo: di quel tanto che basta per coprire d’acqua molte delle antiche strutture fatte dall’uomo. Le nostre esplorazioni potrebbero continuare fino a percorrere l’intero periplo della Sardegna, scoprendo i nuraghi come perle di una collana a cui si è rotto il filo. E, come le perle, essi sono preziosi per tutti coloro i quali sanno porsi le giuste domande sul loro utilizzo, tenendosi ben lontani da fuorvianti teorie “atlantidee” e trovando in essi nuove chiavi di lettura tendenti a restituire al popolo dei nostri antenati - costruttori e navigatori - la giusta collocazione all’interno del panorama storico e culturale di ampio respiro mediterraneo.

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Andrea Mura

L’isola con i suoi molteplici problemi, le risorse e il suo destino: come per gli altri popoli il Mediterraneo è stato il primo luogo di elaborazione del pensiero di unità culturale

SHARDANA I SHARDANA

quei popoli del mare dal cuore ribelle di Antonello Angioni

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er capire la Sardegna - i suoi molteplici problemi, le potenzialità di sviluppo e il suo destino - occorre compiere una mutazione profonda: occorre sgombrare il campo da ogni luogo comune, ingenerato dal tempo, e rendersi conto che la riviera non è il luogo dove la vita scompare restando assorbita dal nulla. La riviera è una linea di confine geografico - tra la terra emersa e le acque - dove inizia la via della comunicazione vera, quella che unisce i diversi dando un senso più profondo e autentico alla relazione. Non più le certezze minime del villaggio, che ci rendono ostaggi di una

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continuità arcaica, ma un’inquietudine profonda che segna la discontinuità e impedisce la chiusura del cerchio. Per i popoli del Mediterraneo il mare è stato, storicamente, il primo luogo di elaborazione del pensiero e di unità culturale. Qui, nel corso dei secoli, si è gradualmente formata l’esperienza filosofica ed è emersa la coscienza delle antiche civiltà e del valore di quei “popoli delle acque” che - seguendo la linea


utopica e perigliosa dell’orizzonte - costruirono le premesse per un rapporto più ricco tra le terre. Il mare creò la nostalgia forte della patria “lontana” ed arricchì lo spirito distaccando l’uomo dalla fissità della materia per gettarlo nell’agone della storia, luogo senza rive, aperto ad uno sviluppo illimitato e discontinuo. Il mare, aprendo l’uomo all’esperienza dell’infedeltà e del distacco, ha reso incerta - ma forse anche più grande e complessa - la fedeltà e l’idea del ritorno. Nel corso dei secoli il mare ha determinato il rapporto dei sardi con l’esterno, dando vita ad una

dialettica complessa fatta di aperture e di chiusure: a seconda delle epoche storiche è stato fattore di isolamento o finestra sul mondo. Intorno al Mille avanti Cristo il Mediterraneo doveva essere un mare grande e terribile, sicuramente più insicuro e pericoloso dei nostri oceani, attraversato da pochi intrepidi naviganti dediti al commercio ed alla guerra. Non é semplice cogliere il significato del Mediterraneo di allora se non lo si restituisce alla sua dimensione autentica, quella che poteva essere percepita dall’uomo del passato: non una via di comunicazione ma “un limite, una barriera che si estende fino all’orizzonte, come un’immensità ossessiva, onnipresente, meravigliosa, enigmatica” (così Braudel). Il mare era sconfinato e, soprattutto, rappresentava un ostacolo. Poi, con la rivoluzione dei trasporti, si è come “accorciato”, sempre di più, sino al punto di apparire come un grande lago. Ma ben diversa doveva essere la percezione di questo mare agli albori della civiltà classica, quando la Sardegna si apriva al mondo mediterraneo attraverso la saldatura, non certo indolore, della civiltà autoctona (nuragica) con quella dei primi colonizzatori che vi giunsero alla ricerca dei metalli di cui l’Isola era ricca. Comunemente venivano definiti “fenici” (termine a noi pervenuto attraverso i testi greci); ma tale locuzione, al pari della sua deformazione romana “punici”, non venne mai utilizzata dai “fenici” che si chiamavano “cananei”. Nè è mai esistita la Fenicia, come stato o nazione: esistevano in quell’area geografica - corrispondente all’incirca all’attuale Libano - delle “città-stato” arroccate su alture rocciose in prossimità della costa. In quel tempo era convinzione comune che la Sardegna avesse la forma di un piede, un’orma, ichnos in greco, da cui Ichnusa o Ichnussa (che fu l’antico nome della Sardegna), altrimenti chiamata Sandàlion termine che fa riferimento all’impronta di un sandalo. In quell’epoca, inabissata nelle profondità della storia - quando l’età del bronzo si concludeva per lasciare il passo, senza soluzione di continuità, all’età del ferro - le acque del Mediterraneo occidentale erano già state solcate dai micenei e, dopo il loro annientamento, dai “popoli del mare”, tra cui i filistei, che approdarono nelle rive della Sardegna ancor prima dei fenici. Ma non si trattava di “colonizzatori”. Infatti le invasioni dei “popoli del mare” - che si collocano all’incirca tra il XIII e l’XI secolo avanti Cristo non modificarono i caratteri culturali ed etnici delle popolazioni e non diedero neppure vita alla creazione di scali costieri permanenti o di insediamenti urbani. Costituisce un dato che i “popoli del mare” - nella loro travagliata esistenza - si addentrarono anche nella Sardegna, terra mitica, popolata in prevalenza da pastori erranti, immaginata anche da Omero, il cantore cieco che, proprio tra il X e l’XI secolo avanti Cristo, narrando le storie e i miti sedimentati dalla tradizione orale, compose l’Odissea. Forse la Sardegna era stata descritta attraverso la vicenda dei lestrigoni, i cannibali che vivevano di fronte all’Isola delle capre. Qualcuno ha di recente anche az-

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Faucher -Gudin

Riproduzione di un disegno ritrovato nelle mura di Medinat Abu raffigurante i Shardana come guardie dell’Imperatore Ramses II. Il complesso archeologico di Medinat Abu

zardato un’ipotesi: potrebbe trattarsi dell’insenatura sotto Capo d’Orso (l’attuale golfo delle saline) confinante con la fitta macchia mediterranea ed i dirupi rocciosi che sovrastano Palau. Forse, Chissà! E’ certo che i filistei (gli antichi Keftiu dei testi egizi), costretti ad abbandonare l’isola di Creta, dovettero stanziarsi in una terra (la Palestina) che porta ancora il loro nome: in arabo Filastin significa appunto “terra dei filistei”. Essi emergono sulla scena della storia - che è poi la storia dell’umanità - in un momento di estrema drammaticità, quando “nel Mediterraneo orientale si stava chiudendo tragicamente, con immani distruzioni, l’età del bronzo, che cedeva il passo a quella, ancora più dura dell’età del ferro. Essi appaiono tra i protagonisti di una grande battaglia combattuta per terra e per mare, nella quale, secondo il racconto del vincitore, sarebbero stati annientati” (Garbini, I filistei). Questo popolo - che aveva assimilato la lingua dei fenici adottandone l’alfabeto - raggiunse le coste sarde, ancor

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prima dei fenici, alla ricerca del ferro. Fu presente in Sardegna per quasi due secoli e mezzo, all’incirca dal 1000 al 750 avanti Cristo, allorchè l’egemonia fenicia finì per imporsi sulle rotte del Mediterraneo: lo evidenzia l’accademico dei lincei Giovanni Garbini, ordinario di filologia semita presso l’Università di Roma, nel libro I filistei. A questo ardito popolo del mare, appartenente al ceppo egeo-anatolico, potrebbe ricollegarsi l’influsso orientale che caratterizza taluni esemplari di bronzetti nuragici. I filistei sono citati nella documentazione egiziana, a fianco degli altri “popoli del mare” tra cui i shardana che compaiono, già nel 1300 avanti Cristo, come truppe mercenarie al soldo dei faraoni d’Egitto e dei re siriani. In quell’epoca il faraone Ramsete II li affrontò in una battaglia navale per far cessare le loro incursioni piratesche. Non sappiamo se i shardana vivessero davvero stabilmente nella nostra terra o, come è più probabile, sulle coste dell’Anatolia occidentale o in qualche isola prospiciente. Di loro ci è giunta la documentazione iconografica che li ritrae col gonnellino corto, la corazza di cuoio e metallo, lo scudo rotondo, la lunga spada di bronzo ad elsa lunata e l’elmo a calotta munito di due lunghe corna. Nell’antichità classica tutto il Mediterraneo era solcato da imbarcazioni condotte da coraggiosi marinai, dediti alle attività mercantili ed alla guerra, che costruivano città e diffondevano usi e culture di popoli lontani. A questo vasto movimento non era estranea la Sardegna. Le navicelle votive lo confermano ed il ritrovamento (avvenuto dieci anni fa) a El Ahwat, un’altura tra Haifa e Tel Aviv, di una “cittadella” - fortificata intorno al 1150 avanti Cristo - con caratteristiche molto simili ad un villaggio nuragico, ha riacceso l’interesse degli storici e degli archeologi sui complessi rapporti instauratisi, soprattutto alla fine dell’età del bronzo, tra i sardi e i popoli che abitarono il Medio Oriente e l’Africa Mediterranea. Infatti la “cittadella” di El Ahwat, con molta probabilità, è opera di shardana, o comunque di popoli che assimilarono la loro cultura, posto che le emergenze architettoniche (i vani circolari collegati a corridoi e la struttura della volta) fanno pensare ad un forte influsso della civiltà nuragica. Ma chi erano i shardana? Da dove venivano? La ricerca storica non consente di superare l’enigma e racconta la tormentata vicenda di popoli che registrarono a loro favore invasioni e conquiste, per poi scomparire nel volgere di un periodo relativamente breve, incapaci di resistere agli incendi, alle carneficine, al crollo delle fortificazioni, all’indiscriminato sconvolgimento delle città,


all’aggressione ed al saccheggio dei centri urbani (come ipotizza Braudel, Il Mediterraneo). Gli archeologi sono da tempo al lavoro per cercare di dare adeguate risposte sul piano scientifico. In attesa del “responso” percorriamo il tragitto attraverso le fonti letterarie classiche: un viaggio che ci spinge inevitabilmente verso il mito e la mitologia, alla periferia della “storia”, forse oltre i confini della verità. Viaggio non per questo inutile se è vero che il mito molto spesso ha radici storiche e, soprattutto, avendo avuto la forza di giungere sino a noi, deve pur poggiare su un nucleo reale. L’espressione shardana compare per la prima volta in una serie di documenti egizi - formati tra il XIV e il IX secolo avanti Cristo - che comprendono anche una lettera, in lingua babilonese, inviata dal principe di Byblos Rib-Adi al faraone Amenhopte III. In particolare il termine si trova in una narrazione dello scriba egiziano Pentaur, vissuto intorno al XIV secolo avanti Cristo, che, celebrando la vittoria riportata dal faraone Ramsete II sui popoli dell’Asia Minore (i khetas) nella cruenta battaglia di Kadesh, annovera - tra i prigionieri di guerra - gli “shardana del mare” o “shardana dal cuore ribelle”. Questi vengono menzionati anche ai tempi di Seti I e compaiono nei geroglifici del tempio di Karnak tra i popoli che assalirono l’Egitto da Occidente e che vennero sconfitti dal faraone Memphtat I, figlio di Ramsete II. Successivamente i shardana figurarono nei rilievi e nelle iscrizioni del tempio di Medinet Habu, che narrano le vittorie di Ramsete III, e nella relazione delle imprese di questo faraone contenuta nel papiro Harris e nelle iscrizioni risalenti all’epoca di Ramsete IX e di Osorquon II. Nel complesso, attraverso l’esame delle fonti letterarie più antiche, i shardana appaiono talvolta come nemici e talvolta come mercenari degli egiziani. In particolare, arruolati al servizio dei faraoni (furono inclusi persino nei corpi di guardia di Ramsete II), i shardana costituirono un corpo scelto di mercenari coraggiosi che partecipa alle guerre dell’Egitto contro i popoli dell’Asia Minore e che, in tempo di pace, risiede stabilmente con le proprie famiglie in accampamenti dislocati sulle rive del Nilo: tra il XII e l’XI secolo i shardana hanno la loro massima consistenza numerica. Come nemici, invece, i shardana vengono annoverati tra i popoli nordici (rispetto all’Egitto s’intende) delle isole, irrequieti, che infestavano le vie marittime e le imboccature dei porti: dunque tra quei popoli che, come si è detto, tentarono di invadere l’Egitto da Occidente ai tempi di Amenhopte e da Settentrione sotto il regno di Ramsete III. Ma da quali terre venivano questi misteriosi aggressori dell’Egitto? Gli studiosi di scuola francese, che nell’Ottocento si occuparono del tema (il Lieblein, lo Chabas, il Visconte de Rougè), hanno identificato i shardana con i sardi. E ciò anche sulla base di affinità iconografiche tra le rappresentazioni egiziane e i guerrieri nuragici raffigurati nei bronzet-

ti. Altri studiosi hanno evidenziato similitudini etniche, biologiche e persino caratteriali. Ma si tratta di ipotesi che dovranno essere sottoposte al vaglio scientifico della critica storica. Nelle fonti letterarie abbiamo cercato un tenue spiraglio di luce che consenta di percorrere le tenebre che avvolgono la più risalente antichità. Sono bagliori fiochi perchè parlano di un popolo che non ebbe la possibilità di trasmettere la propria storia con la parola scritta e che non lasciò un’eco durevole neppure nel mondo antico forse anche perchè - come accaduto del resto per altri popoli - apparve troppo presto alla ribalta, esaurendo le proprie energie e la propria spinta creativa proprio quando per altri popoli d’Europa iniziava il risveglio dalla barbarie. I shardana - relegati nella loro terra e perduta anche l’antica libertà - furono presto travolti da popoli più forti, più omogenei e più risoluti. Tagliati fuori dal ruolo di protagonisti, divennero - sulla scena del Mediterraneo - semplici comparse per poi, dopo secoli di declino, scomparire del tutto. Si veniva così a perdere anche l’estrema memoria su questa antica ed originale civiltà fiorita attraverso un complesso rapporto col mare, fatto di discontinuità e di conflitti, e che resta testimoniata dalle piccole navicelle votive ma anche dalle grandi costruzioni megalitiche, dai monumenti di pietra e dalle opere in bronzo. Agli storici e agli archeologi il compito - arduo, appassionante e al tempo stesso ineludibile - di dare dignità scientifica all’oscuro passato della nostra Isola e di fornire adeguate risposte ai molteplici problemi tuttora aperti. In tale prospettiva occorre procedere - attraverso un paziente lavoro di studio e di ricerca - alla ricomposizione, su basi critiche, di ogni pagina della nostra storia di popolo, partendo proprio da quella più antica, quale premessa per un vero riscatto.

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l 21 giugno del 1864 usciva a Cagliari, per iniziativa di Enrico Serpieri appena eletto presidente della locale Camera di commercio e arti, il periodico politico-economico “Il Tirreno” con redazione «nella via degli Argentari sopra la Farmacia Maramaldo». Il giornale era l’organo ufficiale della neo-costituita “Società del Tirreno” con l’obiettivo d’essere un’organizzazione volta a meglio radicare sentimenti di convinta italianità fra la gente di Sardegna (circolavano voci, allora, d’un interesse francese verso quest’isola e di alcune favorevoli sponde esistenti in ambienti isolani), ma soprattutto di porre fine all’isolamento facendo proprie quelle che proprio Serpieri chiamava le “vie del mare”. Essere diventati parte del nuovo Regno d’Italia doveva e poteva assicurare un nuovo destino a quest’isola rimasta per troppo tempo prigioniera o suddita di poteri esterni:«passò lacera e guasta dalle mani del vandalo e del mussulmano, nelle mani dell’Aragonese e del pirata fin che unita al Piemonte corse con esso tutte le vicende or tristi or liete», recitava un editoriale del periodico. Era quindi necessario svegliarsi dall’antica condizione di sudditi per costruire con le proprie mani e la propria volontà l’auspicato riscatto. Navigando – suggeriva Serpieri – su una flotta messa su da armatori sardi ed al servizio dell’economia dell’isola. E di questo risveglio proprio Cagliari doveva essere l’avanguardia, perché le competeva per il ruolo di guida dell’isola sempre esercitato con prestigio e, soprattutto, per essersi dimostrata la più aperta e disponibile a stabilire rapporti commerciali e culturali con l’altra sponda del Tirreno. Ed era proprio quel mare, parte importante del Mediterraneo occidentale, che stava a cuore all’iniziativa del Serpieri. Perché in esso riteneva si potesse compiere quel risveglio economico dell’isola che lo aveva accolto così generosamente da esule, dopo

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essere sfuggito avventurosamente alla giustizia papalina. Non si è riusciti ad appurare quanto avrebbe inciso quell’iniziativa sull’ambiente politico ed economico cagliaritano (e soprattutto quanto tempo di vita ebbe), ma è certo che da allora in avanti l’establishment locale avrebbe cominciato a porre i collegamenti ed i traffici con le terre d’oltretirreno come l’obiettivo principale della politica e dell’iniziativa economica locale. Si è voluto ricordare quest’iniziativa per sottolineare come i problemi di Cagliari (del suo sviluppo economico e della sua crescita d’importanza) già da allora erano stati visti in un’ottica “marittima”, con ciò intendendo che vi era necessità – per assicurare sviluppo e progresso alla sua economia – di stabilire un legame stretto con le vie che solcavano il mar Tirreno. Questo complesso di strade – come avrebbe scritto lo stesso Serpieri – che quel mare metteva a disposizione, era tale da rappresentare l’anello ideale di congiunzione fra l’economia dell’isola e quelle delle regioni di terra ferma della nuova nazione italiana. Destinata finalmente, come tanti proclamavano, ad un processo modernizzante e ad


L’antica ambizione di navigare su navi battenti bandiera sarda di Paolo Fadda

una crescita economica finalmente in linea con l’Europa. Su quelle strade d’acqua doveva e poteva transitare quel progresso da troppo tempo atteso dalle popolazioni isolane rimaste vittime e prigioniere di un infinito Medio Evo. Per seguire quest’intendimento s’era suggerito di dare vita ad una compagnia marittima isolana, seguendo l’esempio che i Florio avevano fatto, e con grande successo, per la Sicilia. I soci della “Società del Tirreno” avevano posto quell’iniziativa ai primi posti del loro agire, sensibilizzando parlamentari ed imprenditori perché il problema venisse affrontato senza ulteriori ritardi. Il momento sembrava particolarmente favorevole in quanto, dopo l’unificazione, il governo nazionale si era accinto a mettere ordine alla navigazione commerciale attraverso la sollecitazione dell’iniziativa degli armatori privati. Infatti fino al 1851 il governo piemontese aveva provveduto con le sue navi ad assicurare i collegamenti con l’isola, affidandone poi la gestione, in regime di convenzione sussidiata, all’armatore genovese Raffaele Rubattino. Ma riuscire a far navigare

dei vapori con le insegne dell’isola era il grande sogno di quel gruppo di cagliaritani seguaci di Enrico Serpieri. Come tutte le idee utopiche (e perciò affascinanti e coinvolgenti), anche questa della compagnia di navigazione sarda avrebbe continuato a “vivere” all’interno della comunità economica locale. E da qui il ricordo di due imprese che sarebbero riuscite a tramutare quel sogno in realtà. La prima, di cui vorremmo fare memoria, è legata alla straordinaria intraprendenza di un imprenditore abile e coraggioso come Amsicora Capra. Sarà infatti la sua “Vinalcool” ad armare la prima flotta di vapori per collegare Cagliari con gli altri porti del Tirreno. Gli anni erano quelli del secondo decennio del Novecento. Infatti, nella seduta consiliare del 28 aprile 1912, la società decideva di «addivenire all’acquisto (1) del vapore “Spes” dal sig. Angelo Parodi di Genova per la somma di lire 100 mila; (2) del vapore “Angelo”, sempre di proprietà del sig. Parodi, unitamente ai magazzini di Gioia Tauro di quest’ultimo, per l’importo complessivo di lire 255 mila; (3) dei residui 2/3 del vapore “Oreto” appartenenti rispettivamente ai signori Paolo Camarda di Gallipoli e Giuseppe Messina di Genova al prezzo che il Consigliere delegato riterrà più conveniente per gli interessi della società». Per potenziare ulteriormente la flotta veniva ancora acquistato (1913) dai cantieri Orlando di Livorno il vapore “Campidano” e, da un armatore inglese, il “Zanzibar” poi ribattezzato “Ogliastra”. Era quindi giustificato l’entusiasmo del presidente Sebastiano Boi annunciando un’iniziativa che aveva consentito di «sciogliere al vento la bandiera della sarda iniziativa». L’intendimento societario non era solo quello di poter assicurare convenienti trasporti alle proprie produzioni vinicole, quanto quello di poter concorrere alla gara pubblica per l’assegnazione delle linee sovvenzionate di

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una delle aree indicate dal governo del tempo: Tirreno superiore, Tirreno inferiore e Adriatico. Non vi è traccia alcuna, nei verbali societari, di come fosse andata quell’aspirazione, ma il fatto che quelle linee furono assegnate dal governo Giolitti alla “Società nazionale dei servizi marittimi” di Genova confermerebbe la fine dell’ambiziosa aspirazione della società di Amsicora Capra. I vapori furono prima affittati e poi venduti: il “Campidano” alla stessa società aggiudicataria delle concessioni per 250 mila lire, ed a seguire l’ “Ogliastra” per 200 mila lire e poi via via tutti gli altri; ultimo il “Risveglio” di cu l’11 marzo del 1919 si decise la cessione «al miglior prezzo che sarà possibile ottenere sul mercato di Genova, in quanto con la guerra è venuta a mancare qualsiasi utilità data la diminuzione di lavoro conseguente alla crisi dell’economia nazionale». Una seconda fiammata – cioè un risveglio di quel sogno per costituire una società di navigazione battente bandiera sarda – la si avrà nel secondo dopoguerra del Novecento, al termine di quel drammatico conflitto mondiale iniziato il 10 giugno del 1940 e terminato, per noi sardi, con l’armistizio richiesto dal nostro Paese sconfitto alle Potenze alleate l’8 settembre del 1943. Sarà infatti proprio nell’inverno del 1943 che «un cospicuo gruppo di industriali e commercianti della provincia» si riunirà a Cagliari per promuovere un comitato per costituire, in unione con i colleRitratto di Enrico Serpieri Un traghetto delle Linee Canguro

Enrico Locci

ghi di Sassari e Nuoro, una società sarda di navigazione a cui affidare, non appena ricostituito l’ambiente di pace, i trasporti passeggeri e merci da e per la Sardegna. Del comitato promotore facevano parte l’avvocato Enrico Carboni, il ragioniere Marino Cao, gli industriali Enrico Faggioli ed Emilio Fantola, il dottor Antonino Zedda e l’ing. Goffredo Giunti, ai quali si unirono i sassaresi dottor Gavino Alivia, cav. Mario Azzera e l’avvocato Bartolomeo Sotgiu-Pesce ed i nuoresi cav. Enrico Devoto, don Pietrino Guiso-Gallisai e l’avvocato Salvatore Satta-Marchi. Alla compagnia viene trovato anche un nome augurale – Sardamare – ed un azionariato diffuso (alla maniera delle public companies americane), perché – si scriveva nell’invito alla sottoscrizione – «deve essere di proprietà di tutti i sardi». In pochi mesi si riuscirono a collocare azioni per 50 milioni di lire, tanto da far scrivere ai giornali che «per la prima volta nella storia economica dell’isola s’era riusciti a mettere insieme un così gran numero di risparmiatori (saranno oltre 3 mila al termine della sottoscrizione) per un progetto comune». Non si ritiene di dover ripercorrere qui l’intera storia della “Sardamare”, dei suoi ottimi proponimenti, dei suoi errori e delle sue inopinate sconfitte, ma si vuol solo ricordare come fosse ben presente a quei promotori la necessità di realiz-

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zare un’iniziativa «che avesse le leve di comando in mano alle competenze ed all’amore dei sardi, perché quello dei collegamenti marittimi riguarda il soddisfacimento della primordiale insopprimibile necessità di una popolazione come la nostra che vive in un’isola». Così come il proponimento della Vinalcool, anche per la Sardamare gli ostacoli sarebbero giunti dalle autorità romane e, soprattutto, dagli interessi coalizzati degli armatori nazionali. Infatti, nonostante mille promesse, le linee marittime sovvenzionate da e per l’isola finirono nuovamente alla “Tirrenia”, la potente società pubblica in mano all’IRI. Purtroppo, a sostegno delle aspirazioni della compagnia sarda, non ci sarebbe stato neppure un vasto consenso locale. Nel governo, l’iglesiente Angelo Corsi – sottosegretario di Stato alla Marina mercantile – sosterrà che le linee di preminente interesse nazionale come quelle con la Sardegna dovevano spettare ad una società pubblica, mentre dall’estrema sinistra si lanciavano fulmini e saette contro quei «piccoli ed incolti speculatori che intendono arricchirsi sulle spalle del proletariato sardo». Così, di fronte all’ostilità governativa che premierà la “Tirrenia”, le quattro navi messe in mare dalla società sarda – “Azuni”, “Sardegna”, “Angioy” e “Caprera” – verranno dedicate ad una navigazione di cabotaggio fra i diversi porti dell’isola, creando peraltro dei modesti profitti, incapaci di equilibrare i conti gestionali della


società. Per poco più di sette anni la Sardamare riuscirà comunque a far navigare la sua flotta, ma le difficoltà economiche – diventate insormontabili – l’avrebbero costretta ad ammainare definitivamente la bandiera di navigazione con la croce rossa ed i quattro mori. Lasciando attorno a sé – fra i risparmiatori isolani – niente altro che lacrime. Un altro tentativo – pur sostenuto da capitali esterni all’isola – sarebbe avvenuto negli anni “della Rinascita” con le navi traghetto – i Canguri – del gruppo ex elettrico Bastogi, la società dei “Traghetti sardi”. Iniziati nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, avrebbero innovato il trasporto via mare potendo trasportare ventiquattro autotreni, duecento auto e circa ottocento passeggeri con imbarco diretto dalla banchina. Non sarà un’iniziativa di grande successo, anche se porterà all’ammodernamento ed all’adeguamento della flotta della compagnia pubblica sovvenzionata (la Tirrenia). Dieci anni dopo anche i “Traghetti Sardi” sarebbero scomparsi dalle rotte isolane, anche per un’impossibile concorrenza con un competitor protetto e aiutato dal denaro pubblico (le tariffe della società privata, per assicurare parità nei conti, dovevano essere superiori del 18-23 per cento di quelle “Tirrenia”). Nonostante tutto, varrebbe pensare che ci sia ancora una partita aperta tra la comunità economica sarda ed i collegamenti marittimi sul Tirreno. Perché crediamo che in un’economia sempre più libera e in un ordinamento statuale sempre meno centralista (ed ormai avviato verso una inarrestabile privatizzazione dei vari servizi) si possano aprire spazi ed occasioni per dare vita ad una “sarda navigazione”. Le storie che abbiamo rievocato hanno comunque una comune chiave di lettura che aiuta a comprendere, se non a giustificare, il loro triste epilogo. Le diverse società isolane si sarebbero trovate a dover fare i conti proprio con i laccioli – e gli steccati – di una miope struttura di potere centralistico, chiuso ed autocratico, soprattutto difensore di interessi chiaramente extraisolani o manifestamente “particolari”. Proprio quel potere che ormai sembrerebbe avviato al tramonto Gli interessi della “Navigazione nazionale” prima (Florio e Rubattino) e della “Tirrenia” dopo (Ciano e Finmare)

Nave da crociera all’attracco nel Molo Ichnusa

avrebbero sconfitto le iniziative che gruppi coraggiosi (ma politicamente deboli) di imprenditori sardi avevano messo in campo per far sì che il mare (e quel che il mare rappresenta in economia) fosse una fertile risorsa per emancipare l’autonomia economica ed imprenditoriale dell’isola. Ma il discorso che si è iniziato ricordando l’iniziativa di Enrico Serpieri perché i sardi cominciassero a navigare con navi proprie, dovrebbe trovare in conclusione una sua morale. O, meglio, una sua spiegazione storica che aiuti a comprendere del perché le attività di marineria mercantile non abbiano mai avuto un posto di rilievo nell’isola, e del perché non si sia affermato, per quel che è dato sapere, un armatore sardo di livello “mediterraneo”. Certo, ha influito a questo il fatto che il movimento portuale della Sardegna per lungo tempo sia stato molto modesto, sia in entrata che in uscita, e che abbia trovato il suo limite nei parchi consumi interni ed in un ancor più modesto apparato produttivo export oriented. A questo andrebbe aggiunto che, nei confronti dell’economia nazionale, la Sardegna sia sempre rimasta una regione di confine e, come tale, ne avrebbe condiviso, e ne continua a condividere, alcune caratteristiche sostanzialmente negative. Una prima è certamente quella d’essere una regione di transito piuttosto che di insediamento di attività produttive

e, conseguentemente, assume le caratteristiche di rimanere un’area di consumo, tributaria e dipendente del sistema economico nazionale, piuttosto che un’area di produzione. Questa condizione di dipendenza “subita e sofferta”, avrebbe portato, di certo, a reprimere od a contenere le iniziative volte ad un’emancipazione nei confronti dei sistemi economici più forti, proprio perché la leggenda del Davide che abbatte il Golia è assai poco verificabile in economia. Va però aggiunto che il movimento turistico è oggi divenuto un plus importante per il traffico marittimo isolano, e l’affollamento di vettori soprattutto nei porti settentrionali dell’isola appare come un segnale significativo per comprendere come il sistema dei collegamenti marittimi con l’isola attraversi un momento assai importante. Perché ormai ci sono numeri tali da sostenere importanti iniziative. Si è consapevoli, scrivendo questo, che ormai esistono armatori navali che hanno la Sardegna come loro interessante “core business” (si pensi ad Onorato e a Grimaldi, ad es.), ma il discorso che qui si è aperto, partendo dalla storia passata, è volto a capire se vi sarà la possibilità di veder – domani o dopo – nascere e prosperare una compagnia di navigazione che abbia il cuore, il portafoglio ed il cervello in Sardegna.

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orreva l’anno 1535 quando l’imperatore di Spagna Carlo V decise di organizzare una spedizione militare contro i barbareschi che rendevano infide le acque del Mediterraneo. I barbareschi, corsari musulmani sostenuti dai turchi, a partire dagli inizi del XVI secolo, si erano insediati lungo le coste dell’Africa settentrionale ove avevano posto le basi delle loro flotte. Nel giro di pochi anni si erano impadroniti di Algeri, Tunisi e Tripoli, avevano rovesciato le antiche dinastie regnanti e dato vita a vere e proprie città-stato formalmente dipendenti dall’Impero Ottomano ma in realtà organizzate in modo del tutto autonomo e dedite esclusivamente alla guerra da corsa. L’attività principale dei barbareschi infatti consisteva nell’assalto alle navi cristiane e nelle spedizioni lungo le

Le case vennero saccheggiate e i campi arsi. I corsari torturarono un prete e violentarono molte donne (tra cui la bellissima Sofia Bonorcili). Quindi si prepararono a correre su Mogoro, Pabillonis e San Gavino ma un violento temporale salvò quei villaggi dalla sventura. Va anche detto che in questo periodo non furono pochi i sardi che, rinnegata la fede cattolica, abbracciarono la religione musulmana conseguendo importanti cariche e onori. Tra essi Alì Amet, che si mise al servizio del celebre corsaro Dragut, e Hazan-Haga che, catturato in Sardegna e educato dal Barbarossa, divenne suo luogotenente e favorito e, più tardi, supremo comandante di tutte le forze e diretto rappresentante del sultano. E’ in siffatto contesto, caratterizzato da continui assalti e saccheggi, che Carlo V ritenne necessaria un’azioLo stemma della Famiglia Aymerich

dalla rada di cagliari alla conquista di tunisi coste degli stati europei al fine di catturare schiavi da vendere nei mercati delle loro città o da liberare a fronte del pagamento di cospicui riscatti. La loro aggressività era aumentata col passare degli anni, soprattutto da quando sui mari si era imposta l’egemonia del corsaro Khair el Din, detto Barbarossa. Abile guerriero e spregiudicato politico, era subentrato nel dominio di Algeri al fratello Horuk che vi si era insediato nel 1515. Operava nel Mediterraneo occidentale al servizio del sultano turco Solimano il Magnifico e, dalla sua roccaforte, minacciava la presenza spagnola in Nord Africa. Anche in Sardegna, per quanto il territorio fosse povero di risorse e di popolazione, le incursioni avevano assunto ritmi e dimensioni sempre più preoccupanti. Nel 1509 i barbareschi avevano saccheggiato Cabras e fatto prigionieri molti abitanti. Nella notte

di Ognissanti del 1514 avevano attaccato il villaggio di Siniscola: più di cento persone erano state ridotte in schiavitù e quanti avevano cercato di ribellarsi erano stati uccisi. Stessa sorte era stata riservata nel 1520 ai centri costieri di Sant’Antioco, Pula e Carbonara; quindi alla Marina di Oristano ed al villaggio di Caresi, in Gallura, che fu devastato. A Sant’Antioco i corsari fecero ritorno nel 1525, in occasione dei festeggiamenti in onore del santo patrono, ma furono cacciati dalla popolazione. Due anni dopo attaccarono Castellaragonese e occuparono l’Isola Piana presso l’Asinara. Sempre nel 1527, un altro gruppo di barbareschi, guidati dal rinnegato Scacciadiavolo, sbarcò nel porto di Terralba e devastò alcuni villaggi vicini. Molti abitanti fuggirono; alcuni, presi alla sprovvista, furono catturati.

ne esemplare contro i barbareschi e, com’era nel suo stile, decise di fare qualcosa di grandioso: l’impresa militare, per carattere e dimensioni, doveva restare nella mente e nel cuore degli uomini del tempo. La spedizione ebbe la caratteristica di una vera e propria crociata contro gli infedeli. L’imperatore, appoggiato dal papa Clemente VI, ottenne l’aiuto dei principi italiani ed il concorso delle galee dell’Ordine di Gerusalemme. Sotto l’esperto comando del genovese Andrea Doria, il solo uomo in grado tener testa al Barbarossa, si formò quindi un imponente e disciplinato esercito che - portato dalla più grande flotta che avesse solcato il Mediterraneo - aveva il compito di assestare un duro colpo all’espansionismo turco. La potente flotta, radunata per la conquista di Tunisi, si concentrò nell’ampio e sicuro golfo di Cagliari,

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scelto come punto di raccolta prima dell’azione decisiva. Nella tarda serata dell’11 giugno 1535, al tramonto, arrivò la quadrireme dell’imperatore, ornata di drappi di porpora e d’oro e circondata dalle navi di Andrea Doria sul quale gravava la responsabilità di condurre in Africa il suo signore attraverso una striscia di mare solcata dalle snelle ma insidiose flottiglie del Barbarossa. Al momento del solenne ingresso erano già all’ancora le flotte di Napoli e della Sicilia agli ordini di Federico di Toledo, i trasporti del marchese di Vasto, le navi del pontefice al comando del conte dell’Anguillara e quelle gerosolimitane col priore Amelio Buticello. Poi convennero le squadre allestite in Belgio e in Germania. In tutto vi erano seicento navi: lo ricorda la lunga iscrizione incisa sulla lapide murata sopra il portale dell’antico Palazzo di Città. La lapide precisa: “convocata eodem duce Caralis ingenti classi triremium et navium ferme sexcentorum confluentibus ex universa Europa strenuissimis heroibus direpta mox Tuni....”. Peraltro in tale imponente numero, oltre la flotta da guerra, devono essere ricomprese numerose navi appartenenti a persone che si unirono alla spedizione per vendere mercanzie o vettovaglie o per meno confessabili ragioni. Costoro speravano di ritrarre lauti guadagni dall’imponente adunata di soldati e marinai. E, benché l’imperatore avesse disposto in modo chiaro che nessuna donna potesse seguire la spedizione, oltre quattromila donne, mujeres enamoradas, s’imbarcarono a Barcellona al seguito della flotta. Sabato 12 giugno, all’alba, mentre sulle navi s’inalberavano i vessilli e i pennoni con le reali insegne, l’imperatore scese a terra. Dai baluardi e dalle cortine murarie, la città esprimeva i suoi sentimenti di giubilo con spari d’artiglieria ai quali le navi all’ancora rispondevano con uguale ritmo. Alla porta del molo, acclamato dalla popolazione, ricevette l’omaggio dei consiglieri civici che gli consegnarono le chiavi della città. L’imperatore - accompagnato dal viceré di Sardegna, don Antonio Folch di Cardona, al quale era legato da vincoli di parentela - prima del solenne ingresso, acceptis clavibus, giurò di

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rispettare i privilegi e le prerogative concesse alla città dai suoi predecessori. Al suo fianco vi era l’ammiraglio Andrea Doria, passato al servizio della Spagna dopo l’ingeneroso trattamento avuto da Francesco I, e con lui i rappresentanti delle più autorevoli famiglie spagnole e italiane. Vi erano l’infante don Luigi di Portogallo, don Ferdinando d’Aragona, il principe di Macedonia, il principe di Salerno, il principe di Sulmona, il principe di Molfetta, il marchese di Monteclaros, il marchese del Vasto, il marchese di Cambay, il conte di Castro, don Francesco di Borgia e tanti

Ritratti del Barbarossa

altri esponenti della prima nobiltà. Nelle strade della Marina si udì uno scalpiccio di zoccoli sul selciato e, poco dopo, apparvero i trombettieri a cavallo per annunciare alla popolazione, che già all’alba aveva affollato le strade, l’arrivo del corteo imperiale. Tra i sardi che parteciparono alla spedizione si segnalano don Salvatore Aymerich, don Blasco d’Alagòn, don Gerardo Zatrillas, don Filippo di Cervellòn ed il figlio don Gerolamo. Don Salvatore Aymerich, al seguito di Carlo V, aveva valorosamente combattuto nelle Fiandre. Don Blasco d’Alagòn aveva preso parte alle guerre d’Italia, di Germania, delle Fiandre e d’Ungheria: Carlo V onorò il suo genitore col titolo comitale di Villasor. Don Filippo di Cervellòn si era distinto nella guerra di Lombardia. Anche don

Gerolamo di Cervellòn e don Gerardo Zatrillas avevano precedenti esperienze belliche. Nella stessa mattina del 12 giugno, Carlo V, in sella ad un cavallo bianco, si recò presso la chiesa di San Francesco, ubicata fuori le mura del quartiere di Stampace. Qui ascoltò la messa dal bel pulpito in marmo, realizzato secondo moduli tardogotici d’influsso rinascimentale, attualmente sistemato nel portico d’accesso alla chiesa barocca di San Michele, all’incrocio tra la via Azuni e la via Ospedale. L’antico pulpito ricorda l’avvenimento con un’iscrizione: “MDXXXV XI Junii Carolo V Philippica cruce munito ab Hispania classe ingenti Karalim ingressa citoque victa tuneto hunc hoc sculptum Bartho. Vidoti Fris Minoris theologiaque probi doctoris cur”. Quando sbarcò a Cagliari, l’imperatore non poté fare a meno di osservare i lavori di costruzione di un bastione e di una muraglia prospicienti il mare. Si trattava della piccola fortificazione verso la chiesa di Sant’Agostino, nel lato sud-ovest della Marina, e della muraglia che si sviluppava lungo il fronte sud dello stesso quartiere. I lavori erano diretti dall’ingegnere barcellonese Pietro Pons, come risulta dalla lista degli onorari che gli venivano corrisposti dalle finanze regie e cittadine. Durante la breve permanenza della flotta imperiale nella rada di Cagliari, si verificò un ammutinamento, presto represso con condanna al remo e a morte. Un hidalgo, colpevole di ribellione, venne decapitato nella Plazuela del Castello (l’attuale piazza Carlo Alberto). Tra i soldati spagnoli della spedizione in Tunisia, secondo la tradizione (peraltro priva di precisi riscontri storici), vi era anche Miguel de Cervantes, il celebre scrittore spagnolo autore del Don Chisciòtte. Ce lo ricorda la lapide incassata a Cagliari nell’edificio che funge da diaframma tra la piazza Arsenale ed il viale Buoncammino. L’epigrafe precisa che lo scrittore, in tale guerra, perdette una mano in cambio di un’effimera gloria. Prima che la flotta ripartisse alla volta di Tunisi, furono effettuati i consueti rifornimenti di acqua, viveri e vettovaglie. Per approvvigionare l’armata dell’imperatore si fecero importanti acquisiti non solo a Cagliari ma anche all’interno dell’isola.


La Sardegna contribuì alla spedizione mettendo a disposizione anche mille zappatori destinati presumibilmente ai lavori di scavo previsti per l’assedio di quella città. Quindi l’ammiraglio, nella tarda serata di sabato 12 giugno, scrutato l’orizzonte, ordinò di sciogliere le gomene. Il cielo era limpido e il mare calmo. Dopo una giornata di navigazione, il chiarore della notte estiva lasciava intravedere in lontananza il profilo della Goletta, l’avamposto militare costruito a difesa della città. Gradualmente, davanti all’equipaggio delle navi, i candidi edifici della casbah di Tunisi assumevano forme e contorni più precisi. Le case si stagliavano nitide nell’aria tersa del mattino. Erano case piccole e bianche che si annidavano tra le rocce gialle e i resti delle antiche costruzioni di epoca romana. Alle prime luci dell’alba - quando i raggi del sole rimbalzavano sull’argento del mare - l’ammiraglio, ritto in piedi sulla tolda, ordinò lo sbarco. Poco dopo iniziò a sentirsi un tramestio confuso di calzari, di elmi, corazze e scudi. Tra gli squilli della trombe ed il rullare dei tamburi, l’esercito cristiano diede il via alla marcia di avvicinamento. Allorché la moltitudine informe di soldati iniziò ad avanzare, i barbareschi rimasero asserragliati nella loro fortezza. Col passare delle ore percepirono lo scintillio delle armi e cominciarono a sentire le voci: erano guerrieri cristiani. Poi la calura afosa trasportò il loro odore acre. Era l’odore della violenza, l’odore della battaglia che stava per iniziare, l’odore del Sigismondo Arquer, Sardina Insula (dalla Cosmographia Universalis Lib. VI ViaMare 21 di Sebastiano Münster, Basilea, 1550, ed. tedesca).


Maurizio Artizzu

CAGLIARI, PALAZZO DI CITTÀ

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nemico. Una terrificante marea di cavalieri si lanciò alla carica senza esitazione. Come la schiuma del mare in tempesta s’infrange sulla sabbia senza trovare ostacoli, l’ira di quei soldati dilagò nella piana polverosa e assolata. Un’immensa orda di guerrieri parve sbucare dal nulla e si riversò sugli avamposti. Nessuna salvezza era possibile. Una parte dei soldati musulmani, che aveva cercato di fuggire, venne accerchiata e trovò la morte: fu un massacro. Nel corpo a corpo, violento e sanguinoso, ben presto emerse l’addestramento e la superiorità tecnica dei soldati cristiani. Ad un certo punto il sole, stanco di tanto sangue, cominciò a declinare sull’orizzonte sino a quando le ombre delle notte nascosero i segni di ogni violenza. Poi un silenzio irreale dilagò intorno alla città. Nell’accampamento militare si percepiva il pigro sciabordio delle onde e l’odore intenso del sale, delle alghe e del mirto selvatico. Era un profumo denso e piacevole che, sospinto dalla leggera brezza del mare, penetrava nelle tende. Alla fine la notte scese portando una quiete apparente. Anche il comandante dormiva, ma aveva il sonno leggero: il sonno del soldato abituato a percepire ogni minimo rumore. La luce della luna tremolava dall’orizzonte fino alla riva e si perdeva nella schiuma delle onde che s’infrangevano sulla spiaggia. La mattina seguente si sentirono solo urla di guerra e di dolore, tramestio di armi e voci concitate. In ogni angolo trasudava l’aria calda del deserto, la sete, la fatica e il sangue di uomini impegnati in una lotta senza esclusione di colpi contro un nemico scaltro e sfuggente. La sabbia rossiccia si infilava sotto le corazze e dentro i calzari, penetrava nelle narici e nelle orecchie, si incollava nelle palpebre e agli angoli della bocca. Il calore cocente del sole estivo aveva sbiancato il cielo. Dopo un assedio durato oltre un

mese, sotto un sole feroce che arroventava le corazze, il 25 luglio 1535 gli eserciti cristiani conquistarono la fortezza della Goletta, avamposto di Tunisi. Carlo V scrisse subito al viceré di Cardona perché, a sua volta, informasse i suoi sudditi. Il viceré rese noto il contenuto della lettera ricevuta dall’imperatore mediante grida pubblicate per le strade del Castello di Cagliari e nelle sue appendici esortando nel contempo la popolazione a festeggiare l’importante vittoria. Ordinò inoltre la celebrazione di funzioni sacre nella

Cattedrale e di solenni processioni per le vie della città, ammonendo che nessuno poteva esimersi dal parteciparvi. Appena entrati nella città di Tunisi, gli eserciti cristiani, pur di placare la loro sete di sangue, trucidarono uomini e donne di ogni età e condizione. Le abitazioni furono invase e depredate di ogni avere. L’ira di quei soldati dilagò come un fiume in piena senza trovare ostacoli. Un gruppo di essi entrò nell’harem e, dal vestibolo, raggiunse la grande sala di marmo cipollino verde della piscina sulla quale si affacciavano le finestre a grate. Le ragazze si erano rifugiate nelle stanze dei piani nobili. Furono presto

raggiunte e violentate con inaudita ferocia. Dopo le urla, un doloroso silenzio s’incanalò in ogni angolo dell’harem lasciando che l’angoscia e il terrore s’impadronisse delle sventurate. Epica fu la battaglia finale: ventimila cristiani si liberarono e insorsero dentro le mura della città che venne messa a sacco. Fu una vera carneficina. Le strade pullulavano di uomini, donne e bambini stremati, sanguinanti, segnati da ogni tipo di violenza e di paura. I loro volti cotti dal sole esprimevano il dolore e la rassegnazione. Avevano perso ogni loro avere e sapevano che avrebbero perso anche la libertà. Il destino degli sconfitti era la schiavitù, una condizione dalla quale non si sarebbero mai potuti affrancare. Intanto il vento dell’Oriente stava portando nuvole gonfie di sabbia rossa del deserto che annunciavano la pioggia. L’abbondante precipitazione, del tutto inusuale avuto riguardo alla stagione, sembrava destinata a purificare la città dopo tante nefandezze compiute in nome di Nostro Signore. La flotta cristiana ripartì da Tunisi coi vessilli inalberati in segno di vittoria. Ripreso il mare, Carlo V lasciò alla Goletta una nutrita guarnigione, tutta spagnola, e affidò la fortezza a don Salvatore Aymerich y Boter, 3° signore di Mara, il quale - essendosi particolarmente distinto nell’azione militare - venne nominato governatore. Durante la fastosa cerimonia di ringraziamento don Salvatore poté indossare l’abito dei cavalieri dell’Ordine di Sant’Jago della Spada. Fu il primo sardo ad essere stato insignito di tale prestigiosa onorificenza. A don Salvatore parve la trama di un sogno dipanarsi nella realtà.

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N

ella Sardegna del XVII secolo il diritto di naufragio e la presa di schiavi costituiva un cespite non trascurabile del Reale Patrimonio. Lo storico Bruno Anatra osserva che i genovesi si impongono in Sardegna nel traffico portuale associati tra loro e con esponenti dell’amministrazione e talvolta dell’aristocrazia locale. Il traffico da e per la Sardegna dapprima vede protagonista il naviglio francese, essenzialmente provenzale. Dopo l’embargo subentrano gli olandesi ed i liguri che, nella metà del XVII secolo, trasportano il grano in Catalogna. Negli anni 1660-1665 torna in massa la flottiglia francese che monopolizza circa il 50% del traffico di Cagliari marginalizzando gli olandesi. In naviglio sardo é l’espressione del piccolo cabotaggio costiero.

Ferdinando II d’Aragona

Nel 1670 vi é il tracollo della produzione di grano: la crisi si somma con la scelta, di liguri e francesi, di disertare la Sardegna per andare a caricare in Barberia. A fine secolo il commercio sardo e mediterraneo si riorganizza per circuiti a più breve raggio col protagonismo degli scali minori e dei piccoli operatori locali. E’ da tener presente che la Francia intraprende lo stato di belligeranza dal 1635, entrando nella Guerra dei trent’anni. Vittorio Angius (v. Dizionario Casalis) ha studiato gli sbarchi dei barbareschi a Terranova avvenuti nel 1418: essi erano diretti a Telti per saccheggiare e fare prigionieri gli abitanti. l re

La società sarda in età spagnola: come si finanziava il Patrimonio regio

Diritto di

naufragio

e vendita degli schiavi

di Francesco Carboni

Ferdinando II d’Aragona il 30 maggio 1515, da Medina del Campo, spedisce precise le istruzioni a don Angelo di Villanova affinché si accordi la franchigia per tre anni ai villaggi di Siniscola, Torpé e Solay, saccheggiati dai turchi. Pietro Martini parla delle invasioni dei barbareschi a Siniscola nel 1514 quando vennero fatti schiavi un centinaio di abitanti. Nel 1520 avvenne uno sbarco in Gallura ove fu devastato il villaggio di Caresi. Nel 1549 ci fu l’invasione e il saccheggio di Orosei: venne catturato un cristiano rinnegato; il suo denaro ed il suo anello furono sequestrati dal Capitano di giustizia che li consegnò all’ordinario della Diocesi: gli Offiziali dell’inquisizione peraltro ne disposero la confisca come cose appartenenti ad un apostata. Il Procuratore reale chiese inutilmente che fossero trasmessi al Patrimonio Regio. Ancora il Martini scrive che nel 1553 la flotta di Dragut, dopo aver invaso la Corsica, assalì Terranova mettendola a ferro e fuoco prima che Gerardo

Zatrillas, governatore del Logudoro, ostacolasse con la cavalleria ulteriori saccheggi. Nel 1555 Porto S. Paolo subì lo sbarco di un centinaio di turchi: Francesco Casalabria, che capitanava la cavalleria della Gallura, li attaccò uccidendone una quarantina e facendone prigionieri quattro (poi riscattati per 600 scudi) mentre gli altri fuggirono. Nel 1562 un legno turco naufragò a Tavolara: l’equipaggio fu decimato dai sardi che ne fecero prigionieri alcuni e liberarono 30 schiavi cristiani ridotti in catene sul naviglio. Nel 1570 una galera turca fu attaccata a Posada da alcune piccole barche: la nave si incagliò e venne predata. Nel febbraio dello stesso anno Siniscola fu invasa un’altra volta: Bernardino Puliga attaccò i turchi mentre si ritiravano con i prigionieri. Venne così recuperato il bottino, furono liberati i prigionieri e prese tre bandiere. Per tale impresa il Puliga ebbe da Filippo II il titolo di cavaliere. Nel 1587 Francesco e Giorgio Casalabria difesero la Gallura: que-

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st’ultimo era capitano delle marine di Gallura e di Terranova e custode delle torri. Mentre i turchi stavano attaccando la torre in costruzione a Longonsardo, Casalabria la difese perdendo anche la vita. Il primo gennaio 1588 il viceré Moncada conferì l’ufficio di capitano a Gavino Casalabria, figlio di Francesco, durante la minore età del figlio dell’ucciso Giorgio. Sul ‘600 il Martini non fornisce molte notizie: si limita a citare l’Angius,

l’Aleo e il Manno. Nel 1615, poiché si preparava una forte spedizione turca, il viceré fece acquistare armi a Milano pagando coi denari della Santa Crociata. Nel 1623 le galere di Tunisi e di Algeri assalirono Posada sguarnita delle opere di difesa per l’imprudenza del barone Portugues. Ma come si comportava l’apparato delle Procurazione reale in tale difficile contesto? Il 24 febbraio 1643 il viceré don Fabrizio Doria fa riunire il Consiglio di Patrimonio ove fa presente che, data l’abbondanza del grano nell’anno in corso, é aumentato il contrabbando nelle Incontrade di Gallura, Sorso e Terranova. Le diligenze straordinarie e quelle usuali non hanno potuto porre rimedio al danno a causa delle cautele usate dai contrabbandieri e degli intrighi di taluni ecclesiastici che non hanno timore della giustizia secolare. Giacomo Doria “gentiluomo” genovese, residente a Sassari si propone di reprimere queste frodi. Egli desidera continuare ad operare al servizio di Sua Maestà per ostacolare le numerose frodi, che si commettono con imbarchi segreti di grano e di altri generi proibiti senza licenza, con cui si reca grande danno al Reale Patrimonio: danno particolarmente rilevante nell’anno passato in cui il raccolto di grano é stato abbondante in tutto il Regno. Per questo motivo presenta un documento di venti punti. In particolare si

offre di tenere tre vascelli (ed anche un numero maggiore se sarà necessario), e tra questi una feluca armata, per sorvegliare i porti e le cale di tutto il Capo di Logudoro da Terranova a Bosa. I vascelli fungeranno da guardie reali, come è d’uso nei Regni di Napoli e Sicilia, per evitare qualsiasi frode di imbarchi e regalie che si commettono a danno del Reale Patrimonio. Inoltre a questo fine garantirà la presenza, per terra e per mare, di guardie nei porti e nelle cale perché possano fare le diligenze necessarie contro qualsiasi persona. Giacomo Doria però chiede l’attribuzione, in detti luoghi, del potere e dell’autorità di delegato di Procuratore reale sopra tutte le frodi che nel futuro verranno perpetrate e per quelle verificatesi in passato (qualora non avessero provveduto all’instaurazione della causa il Procuratore Reale od alcuno dei suoi ministri). Il 27 febbraio 1643 viene approvata una risoluzione con la quale si accetta il progetto, formulato da Giacomo Doria, di sorvegliare le acque di Gallura con tre suoi vascelli per evitare i frequenti imbarchi di contrabbando.

Nel corso del ‘600 vediamo alcuni casi naufragio e di presa. Le navi naufragate sono vendute all’incanto, una volta recuperate in presenza di una persona nominata dal Maestro razionale e dallo scrivano della Procurazione Reale della Incontrada. L’inventario dei beni deve essere spedito alla Procurazione Reale specificando le robe, le mercanzie, i denari e le persone (mori e turchi) oggetto di apprensione. L’organizzatore del recupero della nave naufragata gode della metà del valore della nave, mentre l’altra metà deve essere versata al Reale Patrimonio. In genere la procedura seguita dal commissario viene indicata dal Procuratore reale: il commissario deve trasferirsi in loco con i ministri ed uno scrivano

della Procurazione Reale (in genere un notaio) e, qualora sia necessario, un esperto del settore; quindi vengono spediti gli atti alla Procurazione Reale con un corriere di fiducia; i colpevoli di frode devono essere tradotti a Cagliari sotto una scorta sicura. La presa degli schiavi mori ricorre spesso negli atti di naufragio. Gli schiavi devono essere trasferiti a Cagliari, pagando le spese per il vitto, per i cavalli ed una diaria agli uomini che li accompagnano: per un uomo a piedi si corrispondono 4 soldi al giorno, per un uomo a cavallo 8 soldi, per il mantenimento di un moro ci vuole mezzo reale. Una volta a Cagliari gli schiavi sono venduti all’asta. Coloro che fanno schiavi dalla presa di navi turche e che non li denunciano al Regio Patrimonio incorrono nelle pene previste dalle Regie Prammatiche. Il trasportatore di mori a Cagliari deve obbligarsi - prestando fidanza (una garanzia fideiussoria) - a portarli al Consiglio del Patrimonio. La nave che non può essere assoggettata a restauro viene smantellata sul posto recuperando i chiodi ed il legname; gli alberi delle navi sono spesso donati agli ordini religiosi che ne fanno richiesta e che li riutilizzano nelle costruzioni delle chiese e dei conventi. Il cordame e le sartie (xarxas), gli strumenti di bordo e l’attrezzatura (arreos), le ancore, diventano proprietà del Regio Patrimonio. Una presa del 1677 può servire da esempio indicativo. In data 19 settembre 1677 il procuratore fiscale patrimoniale - su ordine del procuratore reale - in compagnia del notaio, dell’alguazile del mare e dei testimoni si trasferisce nel molo della città di Cagliari per fare l’inventario della nave presa e dell’attrezzatura: alberi, sartie, vele che sono usate e maltrattate dalle intemperie, due pezzi d’artiglieria rotti, tre ancore di due marras ognuna,

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tre gumaras ed un pezzo, tutte usate, cinque remi della nave, tre cubas vuote per acqua, una cuba di vino, una barchetta con tre paia di remi. Un altro giorno i ministri - col patrone, il pesatore reale ed alcuni facchini (bastaxes) del peso - salgono sul-

Kair el din detto “ il Barbarossa”

la nave per pesare il formaggio che si fa sistemare nella chima cubierta. In seguito i ministri, col patrone Alessandro Acame ed Agostino Leony, provvedono ad effettuare l’estimo e la valutazione dell’olio che si trova in recipienti (chiamati cubas, media cubas e condiotas) a bordo della nave. Il procuratore fiscale fa deferire il giuramento agli estimatori, quindi iniziano le operazioni di ispezione ed estimo. Un altro giorno ancora il procuratore fiscale patrimoniale ordina all’alguazile del mare di convocare sulla nave due patroni di nave che si trovano a Cagliari: sono due genovesi che prestano il giuramento e provvedono ad effettuare un’ispezione e valutazione della nave presa. L’olio, pari a 7.050 quartanas, é venduto a 6 reali la quartana. Il formaggio, 23 quintales, viene venduto a 6 lire al quintale. Alla Regia Corte spetta il 4% della preda: sono 600 scudi. Il prospetto dei naufragi nel XVII secolo si articola con la precisazione di data, luogo, tipo d’imbarcazione, nazionalità, merci trasportate, patrone addetto al recupero ed al ripescaggio, vendita del prodotto del naufragio e

relativo ricavo. Il lavoro di recupero delle navi naufragate talvolta incappa anche nelle tempeste del contenzioso giudiziario. Il 13 ottobre 1711 nel Tribunale del Reale Patrimonio si discute se ammettere a “composizione” il capitano Ladraña a fronte del pagamento, alla Reale Cassa, di 550 scudi compresi in essi il quinto spettante ai Ministri del Reale Patrimonio. Si propone di non perseguire più il Ladraña né altri per ragione di una frode, salvo però il diritto del terzo per la Reale Cassa. Il Ladraña e i suoi marinai però non devono chiedere alcuna remunerazione per il lavoro di “sacar” le robe dell’acqua e condurle nel porto di Cagliari. Il capitano Ladraña si difende davanti al Tribunale affermando che qualche persona istigata lo ha accusato di frode nel recupero della nave naufragata a Tavolara nel periodo di dicembre-gennaio passati. Peraltro é falso che egli abbia introdotto a Cagliari qualcosa della nave: egli ha liberato dal mare tutta la roba con l’ausilio di 100 uomini. Il “disguido” ora gli impedisce di navigare mentre i noli e la roba per cui é accusato sono di poco valore soprattutto se confrontati con quello che ha recuperato e portato all’asta (almoneda) a beneficio del Reale Patrimonio. Egli pertanto supplica si ammetta la transazione per evitargli ulteriori molestie. Nella risoluzione si ammette la transazione per essere notoria la emulazione dei suoi marinai che lavorarono anche con la burrasca invernale, mentre la roba era rammollita e mezzo persa ed in considerazione del fatto che quanto recuperato si vendette a 400 pesos. In

Il corsaroTorghoud Dragut bracciodestro del Barbarossa

tal modo il capitano evitò di esporsi al pericolo della prova. E’ indubbio il profitto che dai naufragi e delle prese derivava per le casse reali. Abbiamo anche notizia di veri e propri atti di “pirateria” da parte dei sardi. Così ad esempio nel 1708-1710 il conte di Sietefuentes, che fu viceré Governatore generale delle galere sarde, operò alcune scorrerie sulle spiagge africane prendendo bottino e schiavi. E tutto ciò spesso avveniva per la grandezza di Dio e ......... per le casse dello Stato.

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