MUSEO EBRAICO Via Valdonica 1,5, 40126 Bologna
www.lavitalavediamoamemoria.it Direttore Museo Ebraico: Franco Bonilauri
Testo: Luigi Meneghelli
Curatore Museo Ebraico: Vincenza Maugeri
Presentazione: Paola Barbara Sega
Ufficio stampa Museo Ebraico: Roberta Mosca
Direzione: Gianfranco Matarazzo
Coordinamento Biblioteca e Libreria: Caterina Quareni
Segreteria organizzativa: Valentina Cesari
Progetto:
Crediti Fotografici: Enrico Benedettelli Traduzione testo: Liliana Rota Traduzione comunicato: Benedetta Del Buono
Coordinamento progetto:
Evento:
Si ringrazia: Enrico Benedettelli Achille Capobianco Marcello Coccioli Laura Correale Santa Croce Tommaso De Maria Nicola Frattasi Sara Guidi Antonio Limata Luca Migliori Bruna Orlandi Paola Rocchi
Rudy Cremonini La vita la vediamo a memoria
La vita la vediamo a memoria Luigi Meneghelli Si dice: il monumento si erge. La sua essenza è la verticalità, l'erezione, l'emergenza. Si ergono le pietre tombali infisse nella terra, si ergono i totem e gli obelischi, si erge con sforzo titanico la Colonna infinita di Brancusi. Ebbene, la Stanza della Shoah, collocata in un angolo del Museo Ebraico di Bologna è, anch'essa, a suo modo un monumento: è concepita per far ricordare i nomi, i luoghi di un evento tragico come quello della deportazione e dei campi di sterminio. Ma non si erge, rinuncia alla verticalità e quasi sprofonda in se stessa. Gioca più sull'invisibilità che sulla visibilità, più sul vuoto che sul pieno. La sua porta si apre sul nulla, sulla mancanza, sull'oscurità: sull'assoluta incertezza di confini e di orizzonti dello sguardo. Del resto, non testimonia un sapere del lutto, una conoscenza della perdita? Anzi: non evoca quella “sfera dell'orrore estremo” che, come diceva Hanna Arendt, “non può mai essere interamente percepita dall'immaginazione, perchè rimane al di fuori della vita e della morte”? Essa sembra chiedere quante “notti” vi sono nella notte: quante fuori di noi e dentro di noi, notti fonde e profonde, accidentali, bianche: notti simbolicamente illuminate ancora dai fuochi sinistri dei forni crematori. E' come se il luogo risuonasse dal passato e contenesse la dimensione intima di un tempo aperto, di una ferita irrisolta. Eppure, all'interno, nessuna traccia, nessun reperto memoriale, se non l'elenco dei nomi dei deportati. Ma è proprio un simile spazio vuoto ad eternare ciò che è stato. Ed è in questo luogo fantasmatico, in questa tomba “scavata nell'aria” (P. Celan) che Rudy Cremonini elabora la sua installazione. Un intervento, il suo, che, a prima vista, potrebbe sembrare come il tentativo di dare uno spessore materiale alla mancanza, una visibilità all'ombra. Ma che, in realtà, si offre come un supplemento d'ombra, che invita lo spettatore a pensare a ciò che (non) vede, a riconfigurare il proprio presente attraverso la funzione rammemorante di figure e cose che vengono dal passato più fondo e urgente. Così, l'impiego di valigie va al di là della nozione di puro feticcio o di fonte documentale (fonte d'epoca), per portare nell'esperienza dello sguardo l'idea di confino, di “viaggio al termine della notte”. La valigia era (ed è) il corredo simbolico in cui trovano posto i ricordi più segreti e intimi che seguono l'individuo nel suo spostarsi. Qui, diventando addirittura supporto della rappresentazione, del ritratto pittorico degli ebrei trasferiti nei campi di concentramento, si trasforma in qualcosa che è più di un oggetto e si fa portatrice di forme, di sguardi, di emozioni, segno di anime, di esseri, di mondi. Non è più solo ciò che contiene ma anche ciò che paradossalmente sostiene, fa vedere. E i volti che Cremonini vi dipinge sopra sono soprattutto quelli di uomini senza storia e senza eroismo, accomunati da un identico destino che ci ricorda lo stupore e l'incredulità di fronte all'orrore. La generalità della loro condizione non contraddice la loro particolarità, ma i loro sguardi anonimi “danno la misura di una condizione umana in cui ogni tragedia, anche la più individuale, è sempre carica di rimandi collettivi”: ieri come oggi.
Comunque sia i personaggi rappresentati rimangono sempre estranei a ciò che li circonda (anche, o tanto più, se ripresi da vecchie fotografie): ogni contesto spaziale si dirada, ogni ambientazione si rarefà. Rimane solo la forma del volto a fronteggiarci in tutta la sua compostezza, in tutta la sua austerità: ed è come se essa venisse da un altrove, da una distanza abissale o come se raffigurasse “il ritorno del morto”. Il filosofo Jean-Luc Nancy ci ricorda che “il ritratto è fatto per conservare l'immagine in assenza di persona”: è incaricato di riprodurre dei tratti, ma anche di “rappresentare la presenza in quanto assente”: di evocarla, di esporla, di manifestare il “ri-trarsi” in cui questa presenza si trattiene. Ed è così anche per quel lavorìo di Cremonini, per quel suo tormentato indagare, cercare, inseguire attraverso la materia lo spirito della vita, la verità del soggetto: esso si traduce in una figura sfinita dall'irruzione del gesto, in una fascinazione per ciò che è mutevole, provvisorio, precario, in un desiderio di praticare il tema della “latenza”, di cogliere ciò che c'è ma non si vede. I ritratti allora non possono più essere fissi, ma solo immagini che fuggono e che ci prendono nella loro fuga: essi sono il modello (“lo stesso”) che diventa altro, sono l'affermazione e la negazione, il bianco e il nero, il presente e il passato. “Sono figure contraddittorie – dice lo stesso artista – opposte a loro stesse, duplici (forse addirittura molteplici), costantemente in lotta tra di loro”. Non conoscono una forma definitiva, ma solo una forma possibile, un ritratto interminabile. In questo modo Cremonini non invade quella pura, misteriosa ossessione geometrica che è la Stanza della shoah (della Memoria). I quadri-valigie non riempiono il vuoto, casomai lo accentuano, lo rendono ancora più “disabitato”. Essi non posseggono la violenza del documento, l'evidenza della registrazione: non intendono produrre prove allo scopo di produrre traumi, quanto piuttosto produrre (o far riemergere) traumi attraverso le immagini. Immagini che, affidandosi al segreto dell'interiorità del volto, si consegnano anche letteralmente al secretum, a ciò che la memoria secerne e diffonde come essenza di azioni, vissuti, pensieri. Immagini che vanno oltre ogni scrittura, perché tracciando segni ci possiamo permettere di dimenticare, sicuri che il segno ricorderà per noi. Immagini che richiamano invece l'esortazione di Primo Levi di Se questo è un uomo: “Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole / Scolpitele nel vostro cuore”. Immagini, dunque, come un sistema di risonanze, di echi, di voci indicibili, insostenibili, irrapresentabili. Così l'operazione di Cremonini non va intesa come uno sguardo retorico sul passato: egli sottrae alla vista tutto ciò che s'innalza, si impone, prende possesso dello spazio. Egli sa che “bisogna perdere il mondo per ritrovarlo”. E' per questo forse che si accanisce perfino sui suoi personaggi, ricoprendoli, nascondendoli sotto coltri di pittura: anch'essi devono fare largo, perchè la sensibilità dell'osservatore possa liberamente partecipare (e magari ricostruire) lo spirito della tragedia. Sempre Primo Levi ha scritto “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Cremonini ci porta sull'orlo dell'abisso: da lì anche l'oggi fa conoscenza dell'irreparabile lutto.
We see life off by heart Luigi Meneghelli A memorial monument emerges vertically from very deep down. Tombstones, totems, obelisks rise from the ground; Brancusi’s Endless Column soars into the sky with a titanic effort. On the contrary, the Stanza della Shoah, in Bologna’s Jewish Museum is a horizontal memorial, conceived to keep the memory of the Holocaust alive. Instead of emerging from the ground, it sinks down to the depth of an abyss. It is a door opening on the uncertainty of sight. However, the Stanza della Shoah does not recall that “sphere of extreme horror” which - Hanna Arendt wrote -“imagination cannot fully perceive, because it belongs neither to life or to death.” Rather, the Stanza apparently asks how many nights there are in a single night, and how many of those nights belong to us and how many to others; and furthermore how many nights are still illuminated by the glows of crematoriums. It seems as if the sound of memory echoes from the past, a past that cannot vanish, a wound that will never be healed. Inside the Stanza, the names of the victims are the only tangible object exhibited. In this spectral place, in this tomb “dug in the air” (P. Celan) Rudy Cremonini places his installation. What in this installation might look like an attempt to materialize an absence or a shadow is actually an invitation to the viewer to think about what he can(‘t) see, to reflect on his own present time through the power of the memory contained in shapes and objects of the distant past. In this sense, suitcases are not just fetishes or documentary sources but suggest the idea of internment, of “journey to the end of the night”. A suitcase was (and is) the symbolic burden made up of the most secret and cherished memories which follow each individual in his/her wandering. Here, becoming part of the portraits of the Jews sent to concentration camps, it stops being just an object with a content but it evokes shapes, glances, emotions as well as souls, beings, worlds. On these suitcases Cremonini paints faces without history or heroism, linked by the same fate, which remind us of their owners’ awe and incredulity before horror. Their shared condition doesn’t cancel their own identity, but their anonymous glances suggest that “even the most private tragedy is at the same time always a collective one”: yesterday and today. However the portrayed people are unrelated to their surroundings (especially if taken from old photos): space and setting are rarefied. Only the shapes of faces appear to the viewer in their neatness and austerity, as if coming from somewhere else, or showing “the return of the dead”. The philosopher Jean Luc Nancy suggests that “a portrait preserves the image of an absent person”: it draws the person’s traits, but, it also “shows an absent presence”, it evokes, it displays , it visualizes the “portraying” in which this presence is contained.
This is the way in which Cremonini works too: he investigates and looks into the matter to find the spirit of life, the truth of the subject in an anguished way: the result is an undefined being, a fascination for what is precarious and changeable, and a desire to seize what is there but can’t be seen. As a consequence portraits can’t be fixed, but only moving images that seize the viewer in their escape: they are the model (“the same”) which becomes something else, they are assertion and negation, white and black, the present and the past. “They are contradictory characters- says Cremonini- in opposition to themselves, double or even multiple, always fighting with one another.” The don’t have a definite shape, but only a possible one and they look like endless portraits. Thus Cremonini doesn’t invade that pure, mysterious geometric obsession represented by the Stanza della Shoah. The picture/suitcases do not fill the empty space, on the contrary they underline it and make it look more “uninhabited”. They do not possess the violence of the document: they are not meant to give evidence in order to cause traumas, they are meant to let traumas surface back through pictures. These images rely on the secret of a person’s inner face and give themselves up literally to the secretum, to what memory secretes as essences of deeds and thoughts. They go beyond any kind of writing, because when we draw signs we can allow ourselves to forget, as we trust that the sign will remember in our place. Therefore these images, which recall Primo Levi in Se questo é un uomo : “Never forget that this has happened. Remember these words. Engrave them in your hearts”, echo unsaid, unbearable and unimaginable voices. Cremonini’s work shouldn’t be seen as a rhetoric vision of the past: he hides all that rises, imposes its presence, takes possession of the space. He knows that “ one must lose the world in order to find it again.” This is, perhaps, the reason why he is pitiless with his characters, hiding them under layers of paint: they too must almost disappear, so that the viewer may be free to share in the tragedy. Primo Levi wrote: “If it's impossible to understand, to know it is necessary”. Cremonini takes us to the edge of the abyss: from there, today, we meet again the irreparable loss.
...qui non ho visto nessuna farfalla.
Rudy Cremonini nato a Bologna nel 1981 dove vive e lavora. Was born in Bologna in 1981, he lives and works in Bologna. Mostre personali / Solo exhibitions 2012 "La vita la vediamo a memoria", Giorno della Memoria 2012, progetto GiaMaArt studio, Museo Ebraico di Bologna; 2010 "Lebensraum" per Substance, Biennale Marsica 2010; 2010 "Documenti d’alterità" GiaMaArt studio, Vitulano (BN); 2010 "Documenti d’alterità", progetto GiaMaArt studio arte fiera OFF, Museo delle cere anatomiche Alma Mater Studiorum Università di Bologna; 2008 "Soul Shibari", Whitecube3, Roma; 2007 "Harness", Magazzini Criminali, Sassuolo, Modena. Mostre collettive / Group exhibitions 2012 "Gli elefanti non sanno saltare" Gallerie delle Battaglie, Brescia; 2011 "Janare" C.a.p.a. Casa Arcangelo Progetto d'Arte 2011, San Nazzaro (BN); 2011 "Premio Combat" Bottini dell'olio, Livorno; 2011 "Nomadic Settlers - Settled Nomads". Project in Cooperation with SAVVY Contemporary Berlin, Doutreluingne, Berlin; 2011 "(In)Leiden" Galerie Stephan Stumpf, München; 2011 "AAM" con GiaMaArt studio, Spazio Eventiquattro, Gruppo 24ore, Milano; 2011 "Horse Latitudes", Jacopo Casadei vs Rudy Cremonini, Underdog studio. Modena; 2011 "[Die Verführkraft schöner Kunst] - Themenausstellung", Galerie Stephan Stumpf , München; 2010 "Tratti Tangenti" a cura di Anna Lisa Ghirardi, GiaMaArt studio, Vitulano, (BN); 2009 "Walk of art", Magazzini Criminali, Sassuolo, Modena; 2009 "Imagine" a cura di Carolina Lio, GiaMaArt studio, Vitulano, (BN); 2008 "Cosa ti sei perso", Magazzini Criminali, Sassuolo, Modena; 2007 "Mostra collettiva", Chiesa dei Disciplini, Castel Goffredo, Mantova; 2007 "Mostra collettiva" patrocinata dall'Accademia di Belle Arti di Bologna; 2006 "Rintracciarti", Palazzo della Ragione, Mantova. Premi / Prizes 2011 Finalista Premio Combat; 2010 Selezionato Premio Italian Factory; 2010 Selezionato Premio Razzano; 2009 Selezionato Premio Arte Mondadori.