NONFICTION
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Di Zeno Ferigo Gingko ha pubblicato:
► Pantani: l’ultimo trascinatore di folle ► Macchie nere sul pallone
I volumi sono disponibili anche in versione eBook
l’au t o r e
Zeno Ferigo è nato a rovigo e vive a Verona. Ha pubblicato per gingko Pantani: l’ultimo trascinatore di folle (2016) e Macchie nere sul pallone (2016). Tra i suoi lavori, 4 gennaio: la maledizione, in cui cerca di far luce sul mistero della scomparsa di un bimotore islander YV 2615, il 4 gennaio 2013, al largo dell’arcipelago di Los roques, in Venezuela, con a bordo quattro italiani. ne Il fumo di Satana tra le mura vaticane entra nei giochi di potere della Chiesa, svelandone una quotidiana precarietà, tra affari assai poco trasparenti e congiure di palazzo. Sul Vaticano, ha anche scritto Serpenti, in cui diventa un cronista malizioso e attentissimo su quanto è ruotato attorno al recente Sinodo dei Vescovi, analizzando gli interventi e le risultanze attraverso i contrasti e le divisioni dottrinali che minacciavano un nuovo scisma, e le trappole che sono state tese al Papa nel corso di quel periodo. il libro analizza le difficoltà che Papa Francesco incontra nella riforma della Curia e la trafugazione dei documenti riservati da parte di manovali, probabilmente diretti da una mente occulta all’interno delle mura vaticane.
ZENO FERIGO
GINGKO
EDIZIONI
Viaggio neLLa SaniTà maLaTa © 2017 Zeno Ferigo © 2017 gingko edizioni iSBn 978-88-95288-81-9 gingko ediZioni molinella (Bo) www.gingkoedizioni.it Progetto grafico di copertina: © 2017 aTaLanTe
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1. da ippocrate ai giorni nostri 2. dagli enti mutualistici al Servizio Sanitario nazionale 3. il diritto alla salute 4. La malasanità 5. Sprechi 6. Quando lo Stato paga più del privato 7. Scandali ambulanze 8. Sesso in ospedale 9. il farmaco 10. il controllore europeo è indipendente? 11. responsabilità 12. inventare le malattie 13. Farmaci o veleni? 14. Farmaci dannosi 15. equivalenza terapeutica 16. Furti di medicinali 17. Trasparenza 18. i vaccini 19. il decreto legge n. 73 del 7 giugno 2017 20. Vaccini sì, vaccini no? 21. Problema meningite 22. internet e bufale 23. Papilloma virus 24. Le infezioni ospedaliere 25. errori medici 26. orrori 27. alleggerita la responsabilità del medico 28. Sanità privata 29. Sanità religiosa 30. Caso di Bella 31. metodo Stamina 32. Corruzione e truffe 33. Subbuglio alle molinette 34. Fondazione maugeri 35. Lombardia nella bufera 36. Loreto mare di napoli 37. obiezione di coscienza 38. La mafia nella sanità 39. il ticket 40. Vergogna ‘parlamentare’ 41. La banalità della disonestà 42. ritorno all’etica
Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames! * Virgilio, Eneide - iii Libro
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* a cosa non forzi i cuori degli uomini, maledetta fame dell’oro!
I
Da Ippocrate ai giorni nostri La salute non è tutto, ma senza salute tutto è niente. arthur Schopenhauer
l sistema “Salute” appare sempre più come un mercato e, in quanto tale, è alla ricerca di una continua espansione. Ormai non bastano più i soli ammalati, occorre controllare anche coloro che si ritengono sani e, poiché qualche malattia può sempre essere riscontrata, nell’ottica della prevenzione e ammantati della presunta buona intenzione di migliorare la salute vengono attivati alcuni meccanismi ormai classici:
● si suscita nella popolazione la paura di malattie probabili, con estensione artificiosa del concetto di malattia a condizioni che malattie ancora non sono, con il fine ultimo di espandere il mercato dei farmaci; ● si presentano solo i risultati parziali di ricerche — magari travisando dei dati scientifici — occultando verità scomode e rendendo pubblici soltanto i risultati positivi e favorevoli all’impiego dei prodotti farmaceutici; ● si prescrivono medicine per valori e livelli di malattie che non le richiederebbero affatto, estendendo artificiosamente delle indicazioni terapeutiche di prodotti che mostrano flessioni nelle vendite; ● si induce a credere che normali acciacchi, magari derivanti dalla vecchiaia, siano vere e proprie malattie da curare; ● si prescrivono farmaci approvati per la cura di una malattia a pazienti che hanno sintomi differenti, adattandosi alle ambigue regole delle case farmaceutiche che speculano sulle precarie condizioni della gente e fanno dei loro primari interessi un business a cui tutto si piega; ● si indice qualche giornata dedicata a una certa affezione, per in-
durre anche le persone sane a preoccuparsi e sottoporsi a esami e a visite, invocando spesso la prevenzione. La prevenzione, una parola che, a iniziare dai politici, forse è solo un paravento che riempie la bocca, per il semplice fatto che un’umanità sana e senza malattie non giova agli affari delle industrie farmaceutiche.
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Certo, bisogna riconoscere che i medici si trovano spesso a prendere decisioni in condizioni di incertezza. Come diceva Sir William Osler, medico canadese, definito il padre della medicina moderna: “La medicina è scienza dell’incertezza e arte della probabilità”. In un campo come quello sanitario è difficile stabilire se per quel singolo paziente un trattamento sia necessario, opportuno o solo consigliabile. Ci sono le analisi che aiutano, le statistiche in circostanze e condizioni analoghe, ma non esiste certezza su cosa potrebbe succedere nel caso singolo, anche perché la visita medica è sempre più breve. Forse le amministrazioni delle aziende ospedaliere si ispirano più al modello della catena di montaggio che non all’idea che la cura sia il risultato e la conseguenza della creazione di un rapporto fiduciario tra esseri umani. L’atto medico si limita sempre di più alla prescrizione di esami diagnostici e l’arte della semeiotica, ossia la diagnosi basata sui segni e sui sintomi, è ormai caduta in disuso, in modo tale che la professionalità del medico perde valore e ciò che veramente conta è il numero di esami diagnostici e di trattamenti che egli prescrive. Paradossalmente, più il medico è incapace di effettuare diagnosi o terapie, maggiore è il numero di esami diagnostici e terapie che prescriverà, con grande soddisfazione delle amministrazioni che vedono in tal modo aumentare entrate e profitti. Come in tutti gli altri settori della società moderna, anche in campo sanitario si è aperta una discussione, al limite della polemica, sul fatto che la macchina, la tecnologia, continui a essere essenzialmente uno strumento che ‘‘aiuta il medico’’ e non rischi di diventare, magari con l’acritica accettazione dei medici stessi, il suo sostituto.
Altro paradosso può verificarsi quando la diagnosi viene affidata a macchine o tecnologie sempre più sofisticate: mentre le macchine sono in grado di esplorare i più segreti e minuscoli recessi dell’organismo umano, fino al livello molecolare (riduzionismo), le capacità del cervello umano di immagazzinare ed elaborare una tale quantità di informazione sono sempre meno adeguate e, di conseguenza, possono essere interpretati in maniera non corretta i dati e quindi sbagliare nella diagnosi e nella cura. Sul piano dei comportamenti, è fuor di dubbio che il compito del medico deve mirare principalmente al primum non nocere, vale a dire fornire la cura e prodigarsi esclusivamente per il be-
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nessere psico-fisico del paziente, adoperandosi al meglio possibile in scienza e coscienza nell’esclusivo interesse del malato, tenendo conto dei principi di rispetto, dignità e riservatezza per la persona. Purtroppo, spesso, la carta stampata ci fa ricredere, portando agli ‘onori’ della cronaca casi di malasanità, di corruzione, di ricerca scientifica priva di qualsiasi fondamento morale, e raccontando di medici che si prestano per puro lucro a pratiche illecite o clandestine. Ecco alcuni dei titoli estrapolati dalle pagine dei quotidiani degli ultimi anni: “Prescrizioni corrotte, nove medici sospesi” (La Repubblica, 7 luglio 2000); “Ricette false: mega truffa ai danni dell’Asl, 12 professionisti, anche medici, denunciati” (News La Spezia, 10 maggio 2002); “Regione Lazio scopre Ricettopoli” (Ansa, 17 giugno 2002); “Viaggi in cambio di ricette, denuncia della Gdf” (Il Nuovo, 4 luglio 2002); “Viaggi e regali, sotto inchiesta tremila medici” (Il Messaggero, 12 febbraio 2003); “Prescrivevano antibiotici ai morti” (Il Messaggero, 5 aprile 2003); “Malasanità, gas al posto dell’ossigeno per un neonato” (LiberoQuotidiano.it, 30 ottobre 2010); “Lasciano morire una neonata e falsificano la cartella clinica” (LiberoQuotidiano.it, 17 luglio 2012); “Il business del traffico di farmaci. Così lucrano su chi sta male” (l’Espresso, 24 gennaio 2014); “Sanità, il soccorso diventa business: L’obiettivo non è salvare, ma incassare” (l’Espresso, 17 marzo 2014); “Nadia Francalacci, ecco come uccide l’angelo della morte” (Panorama, 31 marzo 2016); ‘‘Napoli choc: paziente a letto in ospedale tra le formiche’’ (Il Messaggero, 12 giugno 2017). Forse, il male del ventesimo secolo, il denaro prima di tutto, ha contagiato anche gli eredi di Ippocrate. La pretesa scientificità accampata dalla medicina moderna diventa funzionale a interessi che nulla hanno a che fare con la salute della gente. Proprio chi ha giurato di proteggere e curare non può permettersi decisioni che vadano nella direzione opposta. E a coloro che seguono questa strada bisognerebbe ricordare il Giuramento di Ippocrate, sperando di risvegliar loro la coscienza. In questo excursus cercherò di condurre il lettore in un viaggio, spesso dal sapore amaro come certe medicine, nei meandri della sanità malata, consapevole che l’esposizione dei fatti potrà provocare un crescente senso di malessere, se non una vera e propria cinetosi, pur senza essere saliti su un mezzo di trasporto.
Dagli enti mutualistici al Servizio Sanitario Nazionale Una volta il medico era come un cecchino: al massimo ne faceva fuori uno alla volta. Poi è arrivata la Mutua ed è come se gli avessero messo in mano una mitragliatrice. Una strage. oreste Lionello
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rima di partire per un lungo viaggio... citava una nota canzone, è buona norma conoscere ciò che andremo a visitare, le sue principali caratteristiche, ciò che di quel luogo ci sarà necessario e utile per carpirne la natura e le dinamiche non in un modo superficiale, bensì più profondo. Poiché il luogo che ci prefiggiamo di esplorare nel corso di questo viaggio è la sanità, è bene innanzitutto ripercorrerne, sia pur brevemente, la storia nel nostro Paese, l’evoluzione istituzionale e organizzativa, i vari cambiamenti politici e sociali che hanno trasformato la tutela della salute dal carattere squisitamente individuale a un’organizzazione a tutela di tutti i cittadini. Così come il cambiamento è intrinseco nei sistemi sociali che sono sistemi di relazioni delle persone con altre persone e con il mondo fisico in cui esse vivono, anche i sistemi sanitari cambiano, ma ciò che oggi è diverso dal passato, anche recente, sono la rapidità e la complessità del cambiamento. Un tempo il sistema assistenziale-sanitario era basato su numerosi ‘‘enti mutualistici’’ o “casse mutue” (pensionati dello stato, coltivatori diretti, artigiani, commercianti, ai quali era da aggiungere una miriade di enti minori e realtà mutualistiche aziendali). Il più importante era l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie (INAM). Ampi spazi della popolazione erano tuttavia sco-
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perti, soprattutto i soggetti più deboli e non ricompresi nel bacino della contrattazione collettiva; convivevano, inoltre, forme sanitarie tra loro profondamente diverse, sia per qualità e tipologia di prestazioni erogate, sia per quantità di spesa. Ciascuna cassa mutua era rigorosamente all’oscuro delle attività dell’altra (prova ne è che un’indagine del ministero della Sanità rivelò che le persone assistite ammontavano a 68.427.112, ovvero sedici milioni in più di quanto contava l’intera popolazione italiana).1 Ciascun ente era competente per una determinata categoria di lavoratori che, con i familiari a carico, erano obbligatoriamente iscritti allo stesso e, in questo modo, fruivano dell’assicurazione sanitaria per provvedere alle cure mediche e ospedaliere, finanziata con i contributi versati dagli stessi lavoratori e dai loro datori di lavoro. Il diritto alla tutela della salute era quindi correlato non all’essere cittadino ma all’essere lavoratore. Per come era strutturato, era inevitabile che sussistessero delle sperequazioni tra gli stessi assistiti, vista la disomogeneità delle prestazioni assicurate dalle varie casse mutue. Questo sistema era chiamato “mutua”, termine che in Italia è stato utilizzato per tantissimo tempo anche dopo il suo superamento, tanto che talvolta è tuttora impiegato come sinonimo dell’attuale SSN (Servizio Sanitario Nazionale). Le carenze strutturali del sistema furono oggetto dei lavori della Commissione D’Aragona (dal nome del suo presidente, il deputato socialista Ludovico D’Aragona), il quale nel 1948 propose, senza trovare il consenso a causa di forti divergenze d’interessi, la fusione delle varie gestioni in un unico ente, volto a garantire la tutela contro la malattia a tutti i lavoratori, con l’esclusione dei soggetti disoccupati, sottoccupati e dei cittadini definiti “poveri”, questi ultimi in parte ricompresi nell’assistenza sociale, di livello comunale.2 La legge 296 del 13 marzo 1958 — emanata durante il Governo Fanfani II — istituì per la prima volta in Italia il ministero della Sanità, scorporandolo dal ministero dell’Interno.3 A livello centrale, il nuovo dicastero era coadiuvato nelle proprie funzioni dal Consiglio Superiore di Sanità (organo a carattere consultivo) e dall’Istituto Superiore di Sanità (organo a carattere tecnico-scientifico), mentre a livello periferico operavano gli uffici dei medici e veterinari provinciali, gli uffici sanitari dei Comuni. Una data importante per il riconoscimento dei diritti umani e sociali dei cittadini fu poi il 1968. Con la legge 132 del 12 febbraio 1968 (nota come legge Mariotti, dal nome del ministro Luigi Mariotti), fu riformato il sistema degli ospedali, fino ad allora per lo più gestiti da enti di assistenza e beneficenza, trasformandoli in enti pubblici (enti ospedalieri) e disciplinandone l’organizzazione, la classificazione in
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categorie, le funzioni nell’ambito della programmazione nazionale e regionale, nonché il finanziamento. La legge 386 del 17 agosto 1974 estinse i debiti accumulati dagli enti mutualistici nei confronti degli enti ospedalieri, sciolse i consigli d’amministrazione dei primi e avviò il commissariamento dell’intero sistema mutualistico. Istituì, inoltre, un Fondo Nazionale per l’Assistenza ospedaliera, con decorrenza dall’1 gennaio 1975, individuando i parametri per il riparto alle Regioni di questo Fondo e trasferendo alle Regioni i compiti in materia di assistenza ospedaliera. Due anni più tardi, nel 1977, vennero soppressi gli enti mutualistici e alle Regioni furono conferiti i compiti dell’assistenza sanitaria e ospedaliera (in carico agli enti previdenziali e alle casse mutue). Il D.P.R. 616/77, in attuazione della legge 382/75, completò il trasferimento alle Regioni delle materie indicate nell’articolo 117 della Costituzione. Vennero precisate le attribuzioni specifiche riconducibili al concetto di assistenza sanitaria e ospedaliera. Vennero altresì individuate le residue competenze statali, le attribuzioni dei Comuni e delle Province. Ma la prima vera e grande riforma sanitaria fu quella avviata con la legge 833 del 23 dicembre 1978, che soppresse il sistema mutualistico e istituì, con decorrenza dall’1 luglio 1980, il ‘‘Servizio Sanitario Nazionale”, definito come complesso delle funzioni, dei servizi e delle attività destinate alla promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione, senza distinzione alcuna. Al momento dell’approvazione, ministro della Sanità era la democristiana Tina Anselmi che tanto si era battuta affinché si arrivasse al varo del provvedimento. Ad esso si giunse dopo un lungo e travagliato dibattito politico e giuridico che impegnò il Governo, il Parlamento e le forze sociali più rappresentative del Paese. Fu un cammino lungo e tortuoso, contrassegnato dall’esigenza di concludere la lunga stagione delle mutue che, nel tempo, avevano mostrato la loro disomogeneità. I principi fondamentali su cui si basava il SSN erano: ● Universalità: estensione delle prestazioni sanitarie a tutta la popolazione. La salute intesa non soltanto come bene individuale, ma come risorsa della comunità. ● Uguaglianza: i cittadini potevano accedere alle prestazioni del SSN senza nessuna distinzione di condizioni individuali, sociali ed economiche. ● Equità: a tutti i cittadini doveva essere garantita parità d’accesso in rapporto a uguali bisogni di salute. Alla gestione unitaria della tutela della salute, come previsto dal-
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l’articolo 10 della legge n. 833/78, si provvide in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, mediante una rete completa di Unità Sanitarie Locali (USL), qualificate come il complesso dei presidi, dei servizi dei comuni, singoli o associati, e delle comunità montane. Il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale avvenne tramite il Fondo Sanitario Nazionale, determinato annualmente con la legge di approvazione del bilancio dello Stato. Venne adottato il metodo della programmazione dei servizi, articolato su un Piano Sanitario Nazionale, da attuarsi attraverso piani sanitari regionali con i quali periodicamente si stabilivano le priorità, gli indirizzi e le modalità di svolgimento delle attività istituzionali rivolte alla tutela della salute. Considerati i tempi, l’opera di decentramento dello Stato appariva imponente, anche se le Regioni videro riconosciuto solo parzialmente il ruolo che la Costituzione assegnava loro. L’articolo 10, infatti, nella prima parte riprese il dettato dell’articolo 117 della Costituzione, ma nei successivi paragrafi delimitò in modo certosino le competenze regionali. Alle USL venne assegnato un largo ventaglio di oneri e competenze, probabilmente anche eccessive: educazione sanitaria, prevenzione, diagnosi e cura, sicurezza sul lavoro. Come era da aspettarsi, la legge 833 trovò immediati ostacoli alla sua concreta applicazione. Questi ostacoli furono determinati da alcune carenze insite nello stesso impianto legislativo, il quale lasciava molto spazio a una concezione assembleare dei poteri (la gestione delle USL fu attribuita a organi elettivi, cioè a funzionari politici, ritenuti più idonei a tutelare i diritti dei cittadini perché eletti direttamente dai cittadini stessi, favorendo così la confusione tra la funzione della parte politica e di quella tecnica), dall’opposizione di una grossa fetta della classe medica e dalla scelta di considerare veramente universale solo il servizio a totale gratuità. Oltre a ciò, nel 1981 emersero pesantissimi buchi di carattere finanziario ereditati dagli enti soppressi e s’avviò una campagna contro la spesa considerata eccessiva. La campagna tendeva ad avvalorare la tesi secondo cui la spesa sanitaria era improduttiva e, in molti casi, costituiva fonte di spreco e di sperpero, e, come tale, rappresentava un costo intollerabile per i cittadini. Questa tesi però non teneva conto che la spesa sanitaria, o almeno parte di essa, deve essere considerata come un investimento per il Paese, e non solo un consumo, consentendo di soddisfare nuovi bisogni, di conservare il ‘capitale umano’ creato dalla società con enormi investimenti (prolungamento della vita produttiva e sociale delle persone), e di sviluppare la ricerca. L’impianto della prima riforma sanitaria entrò ben presto in collisione con il sistema economico-finanziario, soprattutto a causa dei crescenti costi del SSN, divenuti incontrollabili anche per la separazione dei poteri tra chi effettuava la spesa e chi la finanziava, ossia tra Re-
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gioni e Stato. Inoltre, in mancanza di indici standard dei presìdi e dei servizi sanitari, alcune Regioni esagerarono nella loro creazione, provocando un ulteriore aumento del disavanzo. Ancora più importante fu il fatto che non si riuscì a diminuire il disagio rappresentato dalle liste d’attesa che accumularono in generale tutti i servizi, creando fenomeni di clientelismo che favorirono la protesta dei cittadini. Il problema dei ‘‘tempi d’attesa’’, in genere, fa giudicare negativamente un servizio, un ospedale o una ASL, e viene considerato uno dei principali problemi da risolvere nel sistema sanitario. Un’indagine condotta da alcuni giornalisti con il metodo empirico di presentarsi alle strutture sanitarie come pazienti ha evidenziato che spesso le prestazioni chieste in regime d’assistenza pubblica comportano tempi d’attesa di alcuni mesi, mentre le stesse prestazioni richieste ‘a pagamento’ in regime di libera professione vengono garantite ed erogate in pochi giorni. Le carenze mostrate dalla legge di riforma sanitaria resero necessari, nel corso di poco più di un quindicennio, una serie di interventi normativi che in parte alterarono il complesso assetto della materia previsto dalla legge 833/78. Nel 1981 il D.L. 249 del 28 maggio stabilì norme per l’assistenza sanitaria indiretta, determinando l’abbandono di quello che era stato proclamato il principio cardine della legge istitutiva del SSN, cioè la gratuità dell’assistenza sanitaria; nel 1982 il D.L. 40 del 22 luglio aumentò l’entità della partecipazione degli assistiti all’attività e alle prestazioni sanitarie; nel 1983 il D.M. 25 maggio introdusse per la prima volta il criterio del reddito del fruitore delle prestazioni sanitarie per stabilire quando la prestazione doveva essere gratuita e quando, invece, era necessaria la partecipazione (criterio questo che non verrà più abbandonato); sempre nello stesso anno il D.L. 463 del 12 settembre (poi legge 638 del 11 novembre 1983), riallacciandosi al precedente provvedimento in materia di prestazioni sanitarie, previde che le esenzioni dalle spese per prestazioni di carattere diagnostico e per le spese di assistenza farmaceutica fossero commensurate al reddito; nel 1984 il D.L. 528 del 29 agosto (convertito nella legge 733 del 31 ottobre 1984) stabilì una nuova disciplina del bilancio e delle spese delle USL, rafforzando il controllo statale sulla gestione operata da queste ultime; nel 1987 il D.L. 382 del 19 settembre (convertito nella legge 456 del 29 ottobre 1987) introdusse la regola del ripiano statale dei bilanci delle USL. Di fronte all’emergenza finanziaria che aveva colpito soprattutto il sistema sanitario, coinvolto come altri settori della vita pubblica in alcuni scandali non soltanto per la sua gestione molto disinvolta, ma anche per il suo cattivo funzionamento, l’operato del legislatore si svolse spesso senza un organico programma.
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Nell’ambito dei provvedimenti presi per eliminare gli sprechi e cercare di ridurre la spesa pubblica per la sanità, a parte il sistema fondato sui ‘‘bollini’’ e sull’autocertificazione, ovvero il contestato pagamento di 85.000 lire, una tantum, per l’assistenza medica di base, richiesto nel 1993 a chi superava un certo reddito, (D.L. 384, del 19 settembre 1992, convertito nella legge 438 del 14 novembre 1992), ma successivamente abolito (dal 1994, infatti, il medico di base era nuovamente gratuito per tutti), vanno segnalate le nuove norme in materia farmaceutica introdotte dalla legge 537 del 24 dicembre 1993, la quale dispose la riclassificazione dei medicinali, a cui devono aggiungersi quelle contenute nei provvedimenti emessi dalla Commissione Unica del Farmaco (CUF). In base a tali disposizioni, che rivoluzionarono il prontuario farmaceutico, i medicinali furono divisi in tre fasce: la fascia A, che includeva i farmaci essenziali e quelli per le malattie croniche; la fascia B, che conteneva, invece, i medicinali di rilevante interesse terapeutico e utili per la cura di malattie meno gravi; la fascia C, che raggruppava, infine, tutti gli altri preparati, in particolare i cosiddetti ‘‘farmaci di conforto’’. Per la maggior parte dei medicinali, inoltre, fu introdotto l’obbligo della ‘ricetta’, a esclusione soltanto dei farmaci da banco e dei cosiddetti ‘‘sp’’, cioè di quelli senza prescrizione. Di fronte alle numerose proteste avanzate dai cittadini fu istituita la cosiddetta ‘‘ricetta d’emergenza’’ per i malati cronici e, più in generale, per chi aveva bisogno di farmaci la cui assunzione non poteva essere rimandata per più di ventiquattr’ore, la quale rendeva possibile l’acquisto del medicinale quando il proprio medico non era reperibile. La ricetta d’emergenza veniva compilata dal medico di base e aveva una validità di sei mesi. Nel 1992 una profonda crisi economica mondiale, che in Italia fu anche accompagnata dallo scoppio di Tangentopoli e dallo scandalo del ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, portò l’allora Governo Amato a decidere, verso la fine dell’anno, sotto l’incalzare delle pressioni più disparate e talvolta interessate, un’imponente manovra economica che si sostanziò nell’approvazione della legge delega 421 del 23 ottobre, la quale all’articolo 1 prevedeva il riordino della disciplina in materia di sanità. Fu adottato quindi il decreto legislativo 502 del 30 dicembre che apportò una revisione della legge 833 talmente profonda da essere definita la “riforma della riforma”. Poiché tale decreto venne adottato dal Governo senza il parere obbligatorio della Conferenza Stato-Regioni, queste ultime presentarono ricorso alla Corte Costituzionale per illegittimità contro molti articoli del decreto, i quali negavano formalmente e sostanzialmente alle Regioni i poteri di programmazione e organizzazione, che invece venivano riconosciuti
loro dalla Costituzione. La Corte Costituzionale, nella sentenza emessa, riconobbe molte delle fondamentali ragioni del ricorso. Il Governo, avvalendosi delle facoltà previste dalla legge delega, apportò al suddetto decreto disposizioni correttive e integrative con il decreto legislativo 517 del 7 dicembre 1993, portando così a compimento il processo di riforma nel termine previsto dalla legge delega. Le modifiche introdotte furono le seguenti:
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● attribuzione allo Stato di compiti di pianificazione in materia sanitaria, da attuarsi mediante l’approvazione del Piano Sanitario Nazionale triennale; ● individuazione, da parte dello Stato, dei ‘‘livelli uniformi di assistenza’’ sanitaria che dovevano essere obbligatoriamente garantiti dal SSN ai cittadini aventi diritto, con definizione annuale, nel contesto delle leggi finanziarie, dell’ammontare complessivo delle risorse attribuibili al finanziamento delle attività sanitarie; altre prestazioni sanitarie non previste dai livelli uniformi di assistenza, e comunque di costi eccedenti i finanziamenti previsti, potevano essere eventualmente finanziati con risorse delle Regioni; ● attribuzione alle Regioni di rilevanti funzioni in materia di programmazione sanitaria, finanziamento e controllo delle attività sanitarie gestite dalle USL, governo delle attività di igiene pubblica, anche in raccordo con la neocostituita ARPA (Azienda Regionale per la Protezione Ambientale); ● trasformazione delle USL, da semplici strumenti operativi dei Comuni, in ASL, aziende regionali con propria personalità giuridica e dotate di autonomia organizzativa, amministrativa e patrimoniale;4 ● creazione di un nuovo sistema di finanziamento dell’assistenza sanitaria basato sulla remunerazione delle prestazioni effettuate, con tariffe predeterminate dalle Regioni; ● previsione della separazione, ai fini contabili e finanziari, degli interventi sanitari da quelli socio-assistenziali: i primi a carico delle aziende sanitarie, i secondi di competenza degli enti locali.
La seconda riforma sanitaria innescò un vero e proprio processo di aziendalizzazione sia in virtù dei modelli di gestione che vennero introdotti, tipici delle aziende private, sia per l’inserimento dei fattori di mercato nel rapporto domanda/offerta, sia per l’attribuzione di autonomia organizzativa, amministrativa e patrimoniale alle aziende sanitarie. Con la trasformazione delle USL in Aziende Sanitarie Locali (ASL) si aprì anche la tormentata vicenda della successione tra questi due soggetti e la Regione a fronte dei rapporti economici e giuridici pendenti sorti durante la vigenza delle vecchie USL, che trascinò con
sé un notevole contenzioso circa l’individuazione del soggetto responsabile, sia dal punto di vista sostanziale ed economico, sia da quello processuale. E infatti il legislatore del 1992 non si preoccupò dei rapporti giuridici intercorrenti o intercorsi e, in particolare, delle centinaia di miliardi di debiti progressivamente accumulati dalle USL, disponendo al contempo, per mezzo della legge 724 del 1994, che in nessun modo era consentito alle Regioni far gravare sulle nuove aziende i debiti e i crediti facenti capo alle gestioni pregresse. Sul punto ebbe a pronunciarsi anche il Consiglio di Stato,5 dichiarando: “A seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e delle leggi 23 dicembre 1994, n. 724 e 28 dicembre 1995, n. 549, le nuove aziende (ASL) non sono subentrate nei rapporti obbligatori dei quali erano titolari le unità sanitarie, in quanto i debiti sono stati trasferiti alle regioni”. In presenza di una normativa piuttosto oscura e lacunosa, furono necessari quasi dieci anni di giurisprudenza per affermare definitivamente che non si era verificata una successione universale tra le USL e le ASL, bensì un subentro in via particolare delle Regioni, che a tal fine infatti costituirono apposite gestioni liquidatorie nei confronti delle vecchie amministrazioni sanitarie.
Asl
Le Regioni ebbero competenza esclusiva nella regolamentazione e organizzazione di servizi e di attività destinate alla tutela della salute,
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Abbiamo detto che le USL vennero trasformate in ASL (Aziende Sanitarie Locali), dotate di autonomia e svincolate da un’organizzazione centrale a livello nazionale, poiché dipendenti dalle Regioni italiane. La gestione e l’organizzazione sanitaria secondo principi aziendali e strumenti privatistici (atto aziendale) rispondeva a criteri di: ● efficacia (l’efficacia a priori è quella relativa all’utilizzo di tecnologie efficaci; l’efficacia a posteriori è quella della valutazione dei risultati del sistema di cure in termini di salute); ● efficienza (è il rapporto tra costi — i servizi erogati — e benefici — diminuzione della mortalità. Ha due componenti: efficienza clinica ed efficienza di produttività, che si ottengono dalla capacità tecnicoprofessionale, dalla qualità delle strutture, e dalla disponibilità delle risorse); ● economicità, rispettando i vincoli di bilancio mediante l’equilibrio costi e ricavi.
dei criteri di finanziamento delle Aziende Sanitarie Locali e delle aziende ospedaliere, anche in relazione al controllo di gestione e alla valutazione della qualità delle prestazioni sanitarie nel rispetto dei principi generali fissati dalle leggi dello Stato.6 Della dirigenza sanitaria delle ASL si occupò l’articolo 4 del D.L. 158 del 13 settembre 2012, (decreto Balduzzi), convertito nella legge 189/2012, secondo il quale la nomina dei direttori generali avveniva ad opera della Regione che attingeva obbligatoriamente dall’elenco regionale degli idonei. Gli elenchi dovevano essere aggiornati almeno ogni due anni. Il percorso innovativo dell’intero comparto fu poi completato con una terza riforma sanitaria, sancita dal decreto legislativo 229 del 19 giugno 1999 (recante Norme per la razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 419 del 30 novembre 1998), meglio conosciuto come ‘‘decreto Bindi’’ (dal nome dell’allora ministro della Sanità, Rosy Bindi), col quale si provvedeva a: ● rafforzare la natura aziendale delle aziende sanitarie; ● introdurre il concetto di autonomia imprenditoriale delle Unità Sanitarie Locali e degli ospedali, che ebbero modo di costituirsi in aziende con personalità giuridica pubblica, attraverso un atto aziendale di diritto privato che ne disciplinava l’organizzazione e il funzionamento; ● rafforzare l’introduzione di sistemi di responsabilizzazione sui risultati.
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Il decreto introdusse anche una disciplina, motivata dal potenziale conflitto d’interesse, per i medici dipendenti in servizio presso le ASL, con il divieto di svolgere attività privata all’interno delle strutture pubbliche (intra-moenia) o esternamente, e l’obbligo di scelta fra una delle due tipologie di attività.7 Il decreto venne aspramente criticato da alcuni sindacati dei medici che minacciarono scioperi e agitazioni permanenti, dall’opposizione che nelle aule parlamentari, con i metodi dell’ostruzionismo, cercò di non far passare il decreto entro la data del 21 giugno prevista dalla legge delega. Perplessità furono espresse anche da alcune forze di maggioranza e dallo stesso ministro della Funzione Pubblica, i quali vedevano nella riforma-ter un impianto centrista che sottraeva competenze costituzionali alle Regioni e un ruolo ambiguo e pervasivo del ministero della Sanità. Alcune Regioni, tra cui la Lombardia, il Veneto, la provincia autonoma di Bolzano, impugnarono il decreto legislativo del ministro Bindi davanti alla Corte Costituzionale, ritenendolo lesivo dell’autonomia costituzionale delle Regioni. Un parallelo iter parlamentare portò all’approvazione della legge
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133 del 13 maggio 1999, “Disposizioni in materia di perequazione, razionalizzazione e federalismo fiscale”, a cui seguì il decreto legislativo 56 del 18 febbraio 2000, che determinò la soppressione nell’arco di tre anni del Fondo Sanitario Nazionale, lasciando alle Regioni il compito di finanziare direttamente il proprio servizio sanitario. Oggettivamente, era difficile pensare che il Servizio Sanitario Nazionale potesse rimanere tale, senza il corrispondente Fondo. L’organizzazione e il finanziamento delle prestazioni sanitarie pubbliche subirono una nuova sferzata nel 2000, con il decreto legislativo 56 sul federalismo fiscale, il quale stabilì, tra l’altro, per incentivare le amministrazioni locali a perseguire comportamenti virtuosi, il potenziamento dei fondi sanitari regionali che si avvalsero di nuove fonti fiscali a carico dei cittadini.8 La capacità contributiva delle Regioni era diversificata e per assicurare uniformità alle prestazioni minime garantite nel territorio nazionale fu istituito un Fondo di perequazione, finalizzato a ridurre fino al novanta per cento le differenze di finanziamento tra le Regioni; ciò, in ossequio al principio solidaristico per cui le Regioni più ricche versavano risorse per garantire a quelle più povere lo svolgimento dei propri compiti. Fu, inoltre, previsto un autofinanziamento regionale, finalizzato a garantire livelli assistenziali ulteriori a quelli minimi, composto da tributi sulla quota fissa dei ticket farmaceutici, o attraverso l’introduzione di ulteriori ticket.9 La programmazione venne definita a livello centrale con il Piano Sanitario Nazionale, che precisò i livelli di assistenza da assicurare su tutto il territorio italiano e ne stabilì i finanziamenti. L’esigenza che il Governo voleva realizzare era duplice: da un lato, garantire a tutti i cittadini un trattamento assistenziale uniforme; dall’altro, sensibilizzare (responsabilizzare) le Regioni sulla propria capacità di spesa sanitaria.10 La novità delle riforme legislative degli anni novanta sembrò essere non tanto il risanamento dei conti pubblici sanitari, in buona parte non ripianati, quanto il nuovo ruolo assunto dalle Regioni: iniziò a delinearsi una nuova modalità decisionale, all’interno dei rapporti Stato-Regioni, che si rafforzò forse proprio in campo sanitario. Il Governo centrale programmava la politica sanitaria con il Piano Sanitario Nazionale; fissava gli obiettivi fondamentali di prevenzione, cura e riabilitazione; definiva le linee di indirizzo del SSN; stabiliva i LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e i finanziamenti in parte corrente e conto capitale. Tutte le decisioni rappresentate e i contenuti dei provvedimenti intervenuti in materia venivano definiti in seno alla Conferenza Stato-Regioni, attraverso pareri, intese, accordi, deliberazioni tra i due livelli di governo, centrale e periferico. I più recenti provvedimenti legislativi, intervenuti nel quadro della
pesante crisi economico-finanziaria e del gravante debito pubblico, furono introdotti da due successivi Governi (Berlusconi e Monti), che tagliarono drasticamente il finanziamento pubblico degli interventi sanitari e assistenziali, seguiti dalla legge costituzionale 1/2012, che introdusse l’obbligo del pareggio di bilancio per tutti i settori della spesa pubblica, compreso quello socio-sanitario.
A conclusione, due considerazioni possono farsi: ● con la trasformazione delle strutture pubbliche da Unità Sanitarie Locali (USL) in Aziende Sanitarie Locali (ASL), in concorrenza tra loro, entravano nel settore sanitario logiche proprie delle aziende private, quali l’attenzione al costo, al risultato e alla qualità del servizio erogato. Dunque, l’attività e i modelli organizzativi delle aziende sanitarie, ASO (Aziende Sanitarie Ospedaliere) e AOU (Aziende Ospedaliere Universitarie) dovevano uniformarsi in modo sempre più compiuto ai principi dell’aziendalizzazione. ● Il riordino del SSN riconfermava i principi universalistici e solidaristici del nostro sistema sanitario e riaffermava il diritto alla salute non solo come un bene comune, come un diritto umano di interesse collettivo, ma come un vero e proprio diritto soggettivo tutelato individualmente dall’ordinamento.11
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Ma per quale ragione le istituzioni reputarono necessario affermare, addirittura per legge, che gli ospedali fossero aziende? Costringendo la pratica della medicina entro un insieme di regole economiche si altera in modo radicale non solo la natura del rapporto medico-paziente (che diventa un rapporto fornitore-consumatore di cure sanitarie), ma della scienza medica nel suo complesso, aprendo la strada a storture di ogni tipo. Ci sono parecchie ragioni per cui curare le malattie non può essere considerato alla stregua puramente commerciale: il cliente (cioè il paziente) non è in grado di stabilire autonomamente quale sia il suo bisogno (di quale malattia soffra) e nemmeno di quali beni e prestazioni (cioè di quali terapie) necessiti per raggiungere la sua soddisfazione economica (ovvero la sua guarigione). E infatti, “nel discutere i modelli economici del comportamento degli ospedali la teoria dell’impresa non è molto utile, a causa del grado di discrezione che il decisore può esercitare”.12 L’unica considerazione possibile in termini logici è la seguente: se l’ospedale diventa un’azienda, la salute diventa un business, e che business! Il Sistema Sanitario Nazionale vale in Italia l’8,5 per cento del PIL e la spesa sanitaria assorbe la quasi totalità della disponibilità finanziaria delle Regioni. Si capisce allora come trasformare gli ospedali pubblici in aziende pubbliche, consentire che queste ultime
assumano la veste giuridica di società per azioni e fondazioni di diritto privato, permettere la fusione o l’accorpamento delle une con le altre qualora il mercato lo richieda o addirittura la chiusura se non raggiungono il pareggio di bilancio, rappresenti una strategia deliberata per mettere il lauto giro d’affari del SSN nelle mani dei capitali privati che operano secondo le più moderne teorie del profitto.13 Tutte le motivazioni dichiarate (contenimento della spesa sanitaria e miglioramento della qualità delle cure) sono crollati di fronte all’evidenza: nonostante la riforma, i costi del SSN sono continuati ad aumentare a un tasso di crescita invariato.
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Note
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1. Roberto Buttura, Appunti per una storia della Sanità italiana, societasalutediritti.com. 2. Aleandro Munno, Il Servizio Sanitario Nazionale. Dalle Casse Mutue al federalismo fiscale, ‘‘Salute e Sanità’’, 2007. 3. L’articolo 32 della Costituzione caratterizza in senso sociale il nostro ordinamento e demanda alla Repubblica il compito di tutelare la salute, prefigurando un’azione dei pubblici poteri volta a rendere possibili e operative le condizioni finalizzate a garantire un’effettiva assistenza sanitaria. Tuttavia, tale norma costituzionale è rimasta per lungo tempo quasi inosservata. Ciò è avvenuto in quanto la salute veniva inizialmente considerata alla stregua di un problema di ordine pubblico, ovvero come necessità di lotta alle malattie e a fenomeni morbosi e infettivi pericolosi per l’incolumità pubblica, che ancora nel dopoguerra si verificavano diffusamente. La regolamentazione degli interventi di tutela della salute era allora rimessa al testo unico delle leggi sanitarie del 1934 e le relative competenze affidate infatti al ministero dell’Interno, in coerenza con una siffatta concezione delle problematiche sanitarie. 4. Le USL vennero trasformate in ASL (Aziende Sanitarie Locali), dotate di autonomia e svincolate da un’organizzazione centrale a livello nazionale, poiché dipendenti dalle Regioni italiane. Ciascuna regione indicò una propria denominazione. In Abruzzo, Campania, Lazio, Liguria, Piemonte, Puglia e Sardegna furono denominate ‘‘Azienda Sanitaria Locale’’. Diverse denominazioni presero nelle seguenti altre regioni: ● in Valle d’Aosta, Azienda USL della Valle d’Aosta (AUSL VDA), ● in Lombardia, Azienda Socio Sanitaria Territoriale (ASST), ● in Trentino, Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari (APSS), ● in Alto Adige, Azienda Sanitaria dell’Alto Adige (ASDAA), ● in Veneto, Unità Locale Socio Sanitaria (ULSS), ● in Friuli-Venezia Giulia, Azienda per l’Assistenza Sanitaria (ASS), ● in Emilia-Romagna, Toscana e Umbria, Azienda Unità Sanitaria Locale (AUSL), ● nelle Marche, Azienda Sanitaria Unica Regionale (ASUR), ● nel Molise, Azienda Sanitaria Regionale del Molise (ASREM), ● in Basilicata, Calabria e Sicilia, Azienda Sanitaria Provinciale (ASP).
5. Consiglio di Stato, sez. VI, 22 gennaio 2001, n. 184. 6. Margherita De Bac, ‘‘Sanità, nella classifica mondiale, Italia battuta solo dalla Francia’’, Corriere della Sera, 20 giugno 2000. 7. Successivamente fu reintrodotta la possibilità di svolgere attività pubblica e privata intra-moenia. 8. Il 25,7 per cento del gettito IVA, addizionale IRPEF da 0,9 a 1,4 per cento, destinazione di una quota delle accise sulla benzina di 250 lire al litro. 9. Il Patto per la Salute avrebbe dovuto rivoluzionare il sistema entro il dicembre 2015. (Luciano Fassari, “‘Caos ticket’. Ogni Regione fa per sé’’, Quotidianosanità.it, 7 giugno 2015). 10. ‘‘Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 347 del 18 settembre 2001, recante interventi urgenti in materia di spesa sanitaria’’. 11. Franco Gaboardi, ‘‘Riflessioni critiche sull’evoluzione giuridica del sistema sanitario italiano: il diritto della prestazione e il diritto alla prestazione’’, Sanitario, 19 maggio 2011. 12. Rosella Levaggi, Stefano Capri, Economia sanitaria, Franco Angeli, Milano, 2013. 13. Giovanna Baer, ‘‘Dentro la sanità pubblica e privata’’, Paginauno, 10 dicembre 2008.
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