La verità sul Titanic

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NONFICTION

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LA VERITÃ SUL

TITANIC


Il Titanic, assieme ai suoi due gemelli Olympic e Britannic, fu progettato per offrire un costante collegamento di linea tra l’Europa e l’America, affermando di fatto l’egemonia sulle rotte oceaniche della compagnia britannica White Star Line. Costruito a Belfast, in Irlanda del Nord, nei cantieri Harland and Wolff, con i suoi quasi 270 metri di lunghezza, 28 di larghezza, 53,3 di altezza, il più grande e lussuoso transatlantico del mondo, doveva simboleggiare il massimo splendore della tecnologia navale del tempo. Nel corso del suo viaggio inaugurale (da Southampton, sud est del Regno Unito, a New York, via Cherbourg e Queenstown), entrò in collisione con un iceberg poco prima della mezzanotte di domenica 14 aprile 1912. Poco meno di tre ore dopo si inabissò. Nel naufragio, il più grande disastro marittimo civile fino ad allora, persero la vita 1.518 persone, su un totale di 2.223 tra passeggeri e membri dell’equipaggio (900). Dei 705 superstiti, alcuni morirono subito dopo essere stati portati a bordo del Carpathia, la nave che prestò i soccorsi, e diversi altri perirono per gli effetti fisici e psicologici nei mesi successivi. La tragedia suscitò enorme impressione presso l’opinione pubblica di tutto il mondo.


l’ au to r e Archibald Gracie IV nacque nel 1859 a Mobile, in Alabama. Dopo aver frequantato l’accademia militare entrò nell’esercito degli Stati Uniti raggiungendo il grado di colonnello della Settima Milizia di New York. Suo padre, Archibald Gracie III, ufficiale degli Stati Confederati durante la guerra civile, aveva combattuto nella battaglia di Chickamauga e in quella di Petersburg, dove era stato ucciso. Archibald, da grande appassionato di storia militare, trascorse diversi anni a raccogliere informazioni sulla battaglia di Chickamauga, traendone un libro dal titolo The Truth About Chickamauga. Fu per concedersi una pausa dal lavoro di ricerca che decise di concedersi una breve vacanza in Europa, a bordo dell’Oceanic, altro transatlantico di proprietà della White Star Line. Per ritornare in America prenotò una cabina di prima classe a bordo del Titanic e vi s’imbarcò a Southampton, il 10 aprile 1912. Gracie occupò la cabina C51. Fu uno dei pochi passeggeri ad affondare insieme alla nave e ad uscire vivo dal disastro, trovando salvezza sulla chiglia di una scialuppa che dopo essere stata spazzata via da un’onda sul ponte del Titanic era andata alla derriva capovolta. Tornato a casa, Gracie, dopo aver partecipato in qualità di testimone oculare alle numerose audizioni della commissione d’inchiesta americana, scrisse un resoconto della sua esperienza personale, uno dei più dettagliati. Non si riprese mai dal naufragio. Morì otto mesi dopo, il 4 dicembre 1912. Il libro, The Truth about the Titanic uscì postumo grazie ai suoi familiari.


Le impressionanti eliche del Titanic.


ARCHIBALD

GRACIE

LA VERITà SUL

TITANIC

Traduzione dall’inglese di Francesco Solani Con 60 fotografie

GINGKO

EDIZIONI


Titolo originale dell’opera

THE TRUTH ABoUT THE TITANIC LA VERITà SUL TITANIC © 2017 Gingko edizioni ISBN 978-88-95288-82-6 Traduzione dall’inglese di Francesco Solani

GINGko EDIzIoNI Molinella (Bo) www.gingkoedizioni.it Progetto grafico di copertina: © 2017 ATALANTE


Indice AUTORE 9

1. L’ultimo giorno a bordo della nave

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2. Colpiti da un iceberg

45

3. L’affondamento del Titanic

57

4. La lotta in acqua per la sopravvivenza

75

5. Tutta la notte sulla chiglia di una barca semisommersa

93

6. Lato di babordo: prima donne e bambini

171

7. Lato di dritta: prima le donne, poi gli uomini quando non vi furono più donne

247

8. Nota conclusiva


(Sopra) Passeggeri di prima classe leggono sul ponte del Titanic. (Sotto) Salone da pranzo di prima classe. Foto scattata da Padre Francis Browne.


Capi tol o 1

L’ultimo giorno a bordo della nave

C

e

ome unico superstite tra tutti i passeggeri uomini che si trovavano sul lato di babordo del Titanic mentre le sei o più scialuppe venivano caricate con donne e bambini, trovandomi dapprima sulla Veranda del Ponte A, e più tardi sul Ponte delle Lance che stava di sopra, è mio dovere rendere testimonianza dell’eroismo di tutti i protagonisti. In primo luogo, quello dei miei compagni che, con calma, senza farsi prendere dal panico rimasero al mio fianco finché le scialuppe cariche di donne partirono, e poi quello degli uomini d’equipaggio e di coloro che, quindici-venti minuti più tardi, affondarono con la nave, consapevoli di dare la loro vita per salvare i deboli e gli indifesi. In secondo luogo, è mio dovere testimoniare l’eroismo del secondo ufficiale Lightoller e del suo equipaggio, i quali fecero il loro dovere come se eventi simili fossero routine quotidiana; e in terzo luogo, l’eroismo delle donne, che non mostrarono segni di paura o di panico in condizioni tanto spaventose quali non si erano mai registrate prima nella storia dei disastri in mare. Credo che quei lettori che sono abituati a racconti di avventure emozionanti saranno lieti di apprendere da una fonte diretta il valore che fu mostrato sul Titanic da coloro ai quali è mio privilegio e triste dovere pagare questo tributo. Limiterò i dettagli del mio racconto fondamentalmente a ciò che vidi di persona, a ciò che feci e a ciò che udii durante quel viaggio inaugurale del Titanic, un viaggio che non potrà mai essere dimenticato, conclusosi con il naufragio e l’affondamento della nave all’incirca


Archibald Gracie

alle 2.22 del mattino di lunedi 15 aprile 1912, dopo aver colpito un iceberg ‘‘alla, o vicino alla, latitudine 41 gradi, 46 minuti Nord, longitudine 50 gradi, 14 minuti Ovest, Atlantico del Nord’’, e che costò la perdita di 1.490 vite umane. Domenica mattina, 14 aprile, questa meravigliosa nave, la perfezione di tutte le navi fino ad allora concepite dal cervello dell’uomo, aveva proceduto per tre gorni e mezzo lungo la sua rotta da Southampton a New York su un mare di vetro, tanto appariva piatto e sereno, senza incontrare sulla superficie una sola increspatura di vento o burrasca. Il capitano aveva migliorato giorno per giorno la velocità di navigazione e prevedeva che, se le condizioni meteo si fossero mantenute stabili, saremmo arrivati a destinazione con un anticipo record in questo viaggio inaugurale. Ma i suoi calcoli non avevano affatto considerato quel mostro proteiforme dei mari del Nord che, anche in passato, erano stati tanto fatali ai calcoli dei navigatori e un’arma di distruzione così formidabile. I nostri esploratori si sono fatti strada nell’estremo Nord e Sud tra gli iceberg in ritiro, eppure la conoscenza del loro habitat, utile alle nostre grandi navi da crociera nei loro sforzi per eluderli, è ben lungi dall’indicarci con precisione quando e dove essi si disgregano e ostacolano la navigazione. Alla fine delle ventiquattro ore di viaggio del 14 aprile, secondo il calcolo che venne reso noto, la nave aveva percorso 546 miglia e ci fu detto che nel corso delle successive ventiquattro avremmo stabilito un recordo ancora migliore. Verso sera, venne diffusa la notizia, che io udii, secondo cui i radiotelegrammi ricevuti dai piroscafi di passaggio mettevano in guardia i nostri ufficiali circa la presenza di iceberg e banchi di ghiaccio. Il freddo crescente e la necessità di abiti più caldi se si restava sul ponte erano segni evidenti a conferma di questi avvertimenti. Tuttavia, nonostante ciò, non vi fu alcun cenno di rallentamento e i motori mantennero il loro ritmo costante. Erano almeno cinquant’anni, a detta dei vecchi marinai, che non si vedeva una massa di ghiaccio e degli iceberg così grandi in questo periodo dell’anno così a sud. Il piacere e le comodità che noi tutti apprezzavamo su questo palazzo galleggiante, con le sue straordinarie attrezzature predisposte a tale scopo, sembravano a molti di noi, me com10


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preso, un qualcosa d’inquietante, quasi troppo bello per durare senza che la mano adirata dell’Onnipotente dovesse infliggergli contro qualche terribile punizione. Il tal senso, questo comune sentimento era espresso da uno dei nostri più capaci e distinti compagni di viaggio, il signor Charles M. Hays, presidente della Canadian Grand Trunk Railroad. Impegnato com’era allora nello studio e nella progettazione delle attrezzature alberghiere per le linee delle nuove estensioni del suo grande sistema ferroviario, i materiali e la magnificenza degli alloggi del Titanic rappresentavano per lui una stimolante occasione d’ispirazione e arricchimento professionale. ‘‘La White Star, la Cunard e la Hamburg America Line’’ disse, ‘‘in questo momento stanno concentrando tutte le loro energie in una lotta per la supremazia, per dotare le loro navi degli arredamenti più lussuosi, ma verrà presto il giorno in cui il più grande e spaventoso disastro mai accaduto in mare sarà il risultato’’. Queste, purtroppo, furono le parole profetiche con cui segnò il suo destino poche ore dopo. Nei vari viaggi che ho fatto attraverso l’Atlantico, se il tempo lo permetteva, è stata sempre una mia abitudine fare dell’esercizio fisico quotidiano a bordo delle navi, così da tenermi in forma il più possibile, ma a bordo del Titanic, durante i primi giorni del viaggio, da mercoledì a sabato, tralasciai questo mio autoimposto e solito regime perché durante questo intervallo dedicai il tempo ai piaceri della frequentazione sociale e alla lettura di libri presi dalla biblioteca ben fornita della nave. Mi divertii come fossi in una casa di vacanza in riva al mare, circondato da tutte le comodità — non v’era nulla che indicasse o lasciasse presagire che ci trovassimo sul tempestoso Oceano Atlantico. Il movimento della nave e il rumore dei suoi macchinari erano appena percettibili sul ponte o nei saloni, sia di giorno che di notte. Quando giunse la domenica mattina, però, ritenni giunto il momento di iniziare i miei esercizi di rito e mi proposi per il resto del viaggio di frequentare il campo da squash, la palestra, la piscina, eccetera. Mi alzai presto, prima di colazione, e giocai con l’istruttore di tennis una partita di riscaldamento di una mezz’ora, in preparazione di una nuotata nella piscina d’acqua salata profonda quasi due metri, riscaldata a una piacevole temperatura. In nessuna piscina fino ad allora avevo mai goduto di un così grande piacere. Come a smorzare 11


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questo godimento, mi sovvenne un qualche presentimento che mi diceva che quella nuotata potesse essere l’ultima e che prima dell’alba di un altro giorno avrei nuotato per salvarmi la vita in mezzo all’oceano, sott’acqua e in superficie, ad una temperatura di -3 gradi! Impressi nella mia memoria come fosse ieri, la mia mente dipinge adesso l’aspetto di quei dipendenti della nave e ricorda le conversazioni che ebbi con ciascuno di loro. L’istruttore di tennis, F. Wright, era un tipico giovanotto inglese dai modi garbati, simile a centinaia di altri che ho conosciuto e con cui negli anni passati avevo giocato a cricket, il mio gioco preferito, quello che più di qualsiasi altro sport ha contribuito al mio sviluppo fisico. Siccome non ho visto il suo nome menzionato in nessun resoconto del disastro, colgo l’occasione per parlare di lui, giacché probabilmente sono l’unico sopravvissuto in grado di raccontare qualcosa sui suoi ultimi giorni su questa terra. Sono state scritte centinaia di lettere a noi sopravvissuti, molte di queste contenenti fotografie per identificare le persone amate, che forse possiamo aver visto o con cui abbiamo parlato prima che andassero incontro al loro destino. A queste numerose richieste, solo in rari casi sono stato in grado di rispondere in modo soddisfacente. Quando vidi per l’ultima volta Wright, egli si trovava sulla scalinata del Ponte C, circa 45 minuti dopo la collisione. Stavo andando alla mia cabina quando lo incontrai salendo le scale. ‘‘Non sarebbe meglio cancellare l’appuntamento per domattina?’’ gli dissi piuttosto scherzosamente. ‘‘Sì’’ rispose, ma non si fermò per dirmi quello che poi deve aver saputo circa le condizioni del campo da tennis, sul Ponte G, il quale, secondo altri testimoni, in quel momento doveva essere già allagato. La sua voce era calma, priva d’entusiasmo, e forse il suo volto era un po’ più pallido del solito. Anche all’addetto della piscina avevo promesso di essere lì di buon’ora la mattina seguente, ma non lo rividi più. E pure uno dei personaggi più noti della nave, T.W. McCawley, l’istruttore della palestra, mi aspettava il giorno dopo per il mio primo vero appuntamento di esercizi ma, ahimè, anche lui venne inghiottito dal mare. Quanto bene tutti noi sopravvissuti ricordiamo questo piccolo uomo robusto in flanella bianca e con il suo marcato accento inglese! Con quale instancabile passione ci mo12


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strava i diversi dispositivi meccanici di cui era responsabile, esortandoci a sfruttare l’occasione di adoperarli, dalla cyclette alle macchine da canottaggio, dal sacco da boxe alle selle che simulavano corse a cavallo o a dorso di cammello, eccetera. Tale fu la mia preparazione al mattino, in vista degli sforzi fisici imprevisti che sarei stato costretto a mettere in opera per aver salva la vita a mezzanotte, poche ore dopo. Poteva esserci formazione migliore per la terribile prova che era stata pianificata? L’esercizio e il nuoto mi misero appetito per una ricca colazione. Poi seguì la funzione religiosa nella sala da pranzo, e rammento quanto mi colpì la ‘‘Prayer for those at Sea’’, e anche le parole dell’inno, che cantammo, il numero 418 degli Inni. Circa una quindicina di giorni più tardi, quando lo sentii cantare di nuovo, mi trovavo nella piccola chiesa a Smithtown, Long Island, partecipando alla cerimonia commemorativa in onore del mio vecchio amico e collega, membro dell’Union Club, James Clinch Smith. Feci notare a sua sorella, che mi sedeva accanto, che era stato l’ultimo inno che avevamo cantato la domenica mattina a bordo del Titanic. Lei, molto colpita, mi spiegò che l’aveva scelto per il servizio funebre del fratello perché era il preferito di Jim, essendo il primo pezzo messo in musica che aveva suonato da bambino e per il quale era stato premiato da suo padre. Era una strana coincidenza che nella prima e ultima funzione a bordo del Titanic l’inno che cantammo iniziasse con queste righe impressionanti: O Dio, nostro aiuto in epoche passate, La nostra speranza per gli anni a venire, Il nostro riparo dall’esplosione di tempesta, E la nostra casa eterna.

Poiché ogni giorno fu molto simile agli altri, è difficile adesso distinguere tutti i dettagli degli avvenimenti di quell’ultima giornata a bordo della nave. Il libro che terminai di leggere e che riportai alla biblioteca della nave era Old Dominion di Mary Johnston. Mentre vi leggevo placidamente d’avventure e di fughe straordinarie, quanto ero lontano dall’immaginare che nelle ore successive sarei stato 13


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un testimone e un protagonista di una scena che superava di gran lunga quelle narrate nelle pagine, e che la mia salvezza da una tomba d’acqua avrebbe offerto un notevole esempio di come spesso ‘‘la verità supera la finzione’’. Durante quella giornata trascorsi molto tempo con il signor e la signora Straus. Sin dall’inizio e fino alla fine del nostro viaggio sul Titanic eravamo stati insieme più volte al giorno. Quando lasciammo Southampton mi trovavo in loro compagnia sul ponte e assistemmo insieme all’inquietante incidente con la S.S. New York della American Liner, ormeggiata di fianco al nostro molo, quando lo spostamento d’acqua provocato dal movimento della nostra gigantesca nave causò un risucchio che attirò la nave più piccola e quasi causò una collisione. In quel momento, il signor Straus mi stava dicendo che gli parevano passati solo pochi anni da quando aveva viaggiato su quella stessa nave, la New York, in occasione del suo viaggio inaugurale, allorché si era sostenuto che essa fosse ‘‘l’ultima parola in fatto di costruzione navale’’. Mettendo a confronto le due navi che si trovavano fianco a fianco, egli aveva fatto notare a me e a sua moglie i progressi che nel frattempo erano stati compiuti. Da quell’occasione in poi, durante i nostri colloqui quotidiani a bordo del Titanic, egli parlò molto e con particolare interesse degli incidenti che gli erano occorsi nella sua straordinaria carriera, dai tempi della sua prima maturità in Georgia quando, con i commissari del governo Confederato, in qualità di agente addetto all’acquisto di vettovaglie, aveva aggirato il blocco navale contro l’Europa. La sua amicizia con il presidente Cleveland, e come quest’ultimo lo avesse onorato, erano tra gli argomenti che più mi interessavano. In quella domenica, nostro ultimo giorno a bordo della nave, egli ultimò la lettura di un libro che gli avevo prestato, per il quale espresse un forte interesse. Si trattava di The Truth About Chickamauga, di cui sono l’autore, e dal quale, dopo avervi lavorato per sette anni, prendevo un necessario riposo. Proprio per gettarlo fuori dalla mente mi ero concesso questo viaggio di andata e ritorno attraverso l’oceano. Come revulsivo, la mia esperienza rappresentò senz’altro una dose piuttosto efficace. Ricordo come verso mezzogiorno di quel giorno il signor e la signora Straus fossero particolarmente contenti perché attendevano di comunicare via telegrafo con il loro figlio e sua mo14


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glie, i quali si trovavano in viaggio verso l’Europa a bordo della nave Amerika che sarebbe passata nelle vicinanze del Titanic. Un poco prima delle sei, al colmo della gioia, mi dissero del messaggio di saluto ricevuto in risposta. Quest’ultimo addio ai loro cari deve essere stato poche ore dopo un pensiero confortante, quando la fine arrivò. Quella sera, dopo cena, con i miei compagni di tavola, i signori James Clinch Smith ed Edward A. Kent, ci spostammo secondo il solito costume nella Veranda, con molti altri, per il consueto caffè ai tavolini, ascoltando la deliziosa musica dell’orchestra del Titanic. In occasioni come quelle, l’abito da cerimonia era sempre la regola; ed era oggetto di osservazione e ammirazione il gran numero di belle donne — allora particolarmente in evidenza — a bordo della nave. Nel corso di queste deliziose serate gironzolavo invariabilmente per la sala, chiacchierando con quelli che conoscevo e con coloro con cui avevo familiarizzato durante il viaggio. Potrei indicare nomi e riportare specifici argomenti di conversazione, ma i dettagli, se interessano alle persone coinvolte, potrebbero non essere altrettanto interessanti per tutti i miei lettori. Il ricordo di coloro ai quali fui più strettamente legato nel disastro, compresi quelli che furono vittime della morte da cui io scampai e coloro che sopravvissero con me, sarà per me un lascito prezioso e un vincolo d’unione fino al giorno della mia morte. Dalla Veranda, con i miei compagni di viaggio, passavamo poi alla Sala fumatori, dove quasi ogni sera ci univamo a qualcuno dei signori che conoscevamo, come il Maggiore Archie Butt, il consigliere militare del Presidente Taft, con cui si discuteva di politica; Clarence Moore, di Washington, che raccontava il suo avventuroso viaggio tra i boschi e le montagne della West Virginia, risalente ad alcuni anni prima, quando aveva aiutato un giornalista ad ottenere un colloquio con il fuorilegge, capitano Anse Hatfield; e poi Frank D. Millet, il noto artista, che stava preprando un viaggio verso Ovest; Arthur Ryerson e altri ancora. Durante queste serate chiaccheravo anche con il signor John B. Thayer, secondo vicepresidente della Pennsylvania Railroad, e con il signor George D. Widener, un figlio del magnate dell’industria tranviaria Philadelphia Traction Company, il signor P.A.B. Widener. 15


Archibald Gracie

Quella sera in particolare, per la prima volta, rimasi poco nella sala da fumo, e mi ritirai presto, con la promessa del mio attendente di cabina, Cullen, di svegliarmi per tempo la mattina seguente in modo da essere pronto per gli impegni che avevo preso prima di colazione, ovvero il tennis, gli esercizi in palestra e infine il nuoto. Non riesco a considerarlo solo come una semplice coincidenza il fatto che proprio quella domenica sera mi sentissi così spinto ad andare a letto in anticipo, usufruendo di quasi tre ore di sonno tonificante, visto che se un incidente si fosse verificato a mezzanotte di uno qualsiasi dei quattro giorni precedenti esso mi avrebbe sorpreso mentalmente e fisicamente stanco. Il trovarmi quindi rafforzato per la terribile prova, ancor più dell’esserne stato avvertito, lo considero come il primo dono per la mia salvezza (rispondendo alle costanti preghiere di quelli a casa), offertomi dall’angelo custode alla cui cura io ero affidato durante la serie di miracolose fughe che andrò a raccontare.

Palestra sul lato di dritta del ponte di prima classe.

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Una passeggera di prima classe si esercita a fianco di Lawrence Beesley, l’insegnante di scienze che nove settimane dopo il naufragio raccontò la tragedia nel libro The Loss of the SS Titanic.

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Uno dei giganteschi fumaioli del Titanic.




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