Storia vera di Carlo Orlandi. "El Negher" di Porta Romana

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STORIA VERA Di

CARLO ORLANDI eL NEGHER DI PORTA ROMANA

NONFICTION

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i l per so nag g i o

Considerato uno dei più grandi pugili italiani di ogni tempo, Carlo Orlandi nacque nel 1910 a Milano. Avvicinatosi alla boxe appena quindicenne, dopo che un grave trauma psicologico lo aveva reso sordo e muto, nel 1928 vinse i campionati italiani dei pesi leggeri e lo stesso anno partecipò alle Olimpiadi di Amsterdam, conquistando la prima medaglia d’oro olimpica per il pugilato italiano. Passato professionista nel 1929, diventò campione italiano e più tardi d’Europa. Con centoventisette combattimenti e sole diciannove sconfitte in quindici anni di carriera professionistica, la sua parabola sportiva conobbe due sfortunate battute d’arresto: la prima, dopo un incontro brevissimo con un famoso campione argentino. Un ko tecnico apparentemente inspiegabile e dai risvolti umilianti per lui, perché la Federazione pugilistica italiana lo squalificò con l’infamante accusa di codardia. La seconda, invece, dopo un terribile e sfortunato ko subìto da un fortissimo pugile portoricano. Un fuori combattimento, i cui nefasti effetti lo costrinsero a quasi due anni di forzata inattività. Nel 1937 Orlandi tornò sul ring ed era ormai un peso welter, categoria nella quale conquistò due titoli italiani, nel 1941 e nel 1942, battendo, in entrambe le occasioni, il casertano Michele Palermo. Il 1942 fu anche l’anno della sua ultima presenza a un campionato. Le folgori di Egisto Peyre gli strapparono la cintura italiana e Orlandi avviò mestamente la sua carriera sul viale del tramonto. Carriera che si concluse a Milano, il 25 giugno 1944.

► 1928 Vittoria ai campionati italiani dei pesi leggeri e Medaglia d’oro alle Olimpiadi di Amsterdam ► 1930-31-33 Conquista di tre titoli italiani pesi leggeri

► 1934 Conquista di due titoli europei pesi leggeri

► 1941-42 Conquista di due titoli italiani pesi welter



l’ au to r e

ALEssANdrO BIsOzzI è nato a Uster, in svizzera, nel 1961. Vive e lavora a Civitavecchia. Grande appassionato di lettura, di ricerca d’archivio e di pugilato, ha pubblicato Vittorio Tamagnini. L’Uragano di Amsterdam e I Campioni. Le origini del pugilato civitavecchiese. Cura sul quotidiano La voce del popolo la rubrica sportiva “Boxe Arena”e “Echi dal passato” per la rivista telematica Sport & Note.

► L’autore cura una pagina Facebook dedicata interamente a Carlo Orlandi: facebook.com/ Carlo-OrlandiEl-Negher-di-PortaRomana1728225844064905

► Il profilo Facebook dell’autore: facebook.com/ alessandro.bisozzi



Pref a zione

S

di Nino Benvenuti

arebbe stato sempre e comunque il primo, in ogni tempo e in ogni spazio. Un uomo incredibile, dagli effetti speciali: considerandolo affetto da sordità e mutismo. Non è un romanzo, ma una avventurosa cavalcata, che questo figlio della Milano primi ’900 doma in sella ad un’esistenza leggendaria firmando, con il proprio nome ben scandito, un profondo e nitido selciato. segno — a quei tempi — di un rispetto che... ti eri saputo conquistare! Cosa non facile, in un’epoca in cui bisognava sgomitare di prima mattina per accaparrarsi un angolo di terra sotto il cielo. O — se preferite — il barlume fioco di un posto al sole. raggiunte le cime più alte in vetta dello sport, ‘‘el Negher di Porta romana’’, in queste pagine, ci cattura, ci avvinghia e ci trascina, da protagonisti, in un racconto che ci stende al tappeto, non avversari ma complici. Questo libro, probabilmente, era già scritto e memorizzato in fondo al suo cuore, fra le pieghe (e le piaghe) del suo intimo sofferto. Ed è da quella opera interiore, sfogliata attimo dopo attimo, che Carlo... deve aver imparato tutto; ma proprio tutto.


Carlo Orlandi


ALESSANDRO

BISOZZI

STORIA VERA DI

CARLO ORLANDI

eL NEGHER DI PORTA ROMANA Prefazione di Nino Benvenuti

Con 36 fotografie

GINGKO

EDIZIONI


StOriA VerA di CArlO OrlAndi EL NEGHER di POrtA rOMAnA © 2017 Alessandro Bisozzi © 2017 Gingko edizioni iSBn 978-88-95288-71-0 Prefazione © 2017 nino Benvenuti

GinGkO ediziOni Molinella (BO) www.gingkoedizioni.it Progetto grafico di copertina: © 2017 AtAlAnte


Indice IL PERSONAGGIO AUTORE PREFAZIONE 21

1. introduzione

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2. i pionieri

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3. la maglia azzurra

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4. le Olimpiadi

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5. il torneo olimpico di boxe

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6. la gloria

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7. il professionismo

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8. il titolo italiano

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9. il secondo titolo italiano

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10. la trasferta argentina

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11. il ritorno

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12. Parigi

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13. il campionato d’europa

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14. il secondo titolo d’europa

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15. Pedro Montanez, ‘‘el diablo’’

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16. la rinascita

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17. l’ultima sfida con turiello

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18. Verso il titolo italiano dei pesi welter

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19. l’ultimo campionato. le folgori di Peyre

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20. il viale del tramonto

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21. Conclusione RINGRAZIAMENTI FONTI D’ARCHIVIO RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI LINK UTILI



Storia vera di

Carlo Orlandi


Carlo Orlandi


« Sai cos’è la boxe? » disse il maestro. « È uno sport » rispose l’allievo. « ti sbagli, è una disciplina ». « e qual è la differenza? » chiese il giovane atleta. « lo sport ti forma nel corpo, una disciplina nel carattere. il corpo però invecchia col tempo, ma il carattere ti accompagna per tutta la vita. e sarà il ricordo più grande che lascerai a chi ti ha amato, odiato o semplicemente conosciuto ».



Tutto ei provò: la gloria maggior dopo il periglio, la fuga e la vittoria, la reggia e il tristo esiglio: due volte nella polvere, due volte sull’altar. AleSSAndrO MAnzOni, “il cinque maggio”



C’è rimasta così poca bellezza nella boxe. Oggi è tutta una questione di utilità. lui, invece, era la Bellezza.


leone Jacovacci


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I nt ro duzi o ne

S

ul perché il giovane Carlo Orlandi venne chiamato “il piccolo Jacovacci” non ci sono dubbi: bastava osservare lui e conoscere Leone Jacovacci. Jacovacci — alias Jack Walker — era un pugile già famoso negli anni in cui Carletto cominciò a frequentare il cortile di via Vitruvio a Milano, ritrovo della gloriosa “Associazione sportiva Lombarda”. Il papà di Leone, Umberto, era un ingegnere agronomo di roma, il quale, alla fine del diciannovesimo secolo, decise di trasferirsi in Congo, sudditanza della crudele monarchia colonialista di Leopoldo II del Belgio. Lì, Umberto Jacovacci conobbe zibu Mabeta, statuaria principessa di una delle tante tribù indigene, con la quale intraprese una relazione che fruttò tre figli, riconosciuti da lui senza alcuna indecisione: Leone, il primo; poi Aristide e infine Vittoria. Jacovacci rimase in Africa ma decise di far crescere i figli in Italia, dove spedì prima Leone, nel 1905, poi Aristide, quattro anni dopo. Vittoria morì qualche tempo più tardi, senza mai lasciare la terra natia, così come sua madre, colpite entrambe dalla terribile malattia del sonno. Nell’Italia di quell’epoca Leone non ebbe vita facile. Cresciuto insieme ai nonni paterni, prima a Viterbo e in seguito a roma, il piccolo meticcio fece fatica a integrarsi. Il ritorno del


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padre dall’Africa, dopo la morte della nonna, regalò al giovane un periodo di relativa serenità, durante il quale egli riuscì a conseguire la licenza elementare nel collegio da dove aveva, per tante volte, tentato di fuggire con l’idea di tornare nella madre terra. Anni dopo, Leone s’imbarcò su un mercantile inglese e raggiunse Londra, dove assunse una nuova identità. si arruolò nell’esercito e il suo avvicinamento alla boxe avvenne in modo del tutto casuale. Mentre assisteva da semplice spettatore a un incontro di boxe, venne ingaggiato all’ultimo minuto da un manager alla disperata ricerca di un pugile nero che potesse prendere il posto di quello appena dileguatosi con l’incasso. Leone accettò e inaspettatamente batté l’avversario. Quello fu l’inizio della carriera di Jack Walker che, dopo alcune vicissitudini tra l’Inghilterra e la Francia, dove si affermò come forte pugile professionista, decise di rivelare la sua vera identità e fare ritorno in Italia. In quello stesso anno, il 1925, Carlo Orlandi si presentò alla corte di Giuseppe zanati, maestro di boxe, il quale, dopo aver osservato quel ragazzino piuttosto robusto, con le orecchie a sventola, le labbra carnose e l’incarnato olivastro, gli affibbiò subito il soprannome che lo accompagnerà per il resto della sua vita: “el Negher” di Porta romana, anche detto “il piccolo Jacovacci”.

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I p i o ni eri

C

arlo Orlandi nacque a Milano il 23 aprile 1910, nell’epoca dei pionieri della boxe, l’avanguardia di un esercito di neofiti che di lì a poco si sarebbe gettato all’assalto delle palestre. Milano ebbe il privilegio di assistere alle loro prime evoluzioni. Pressappoco in quegli anni, tra le attrazioni di un circo itinerante che scorrazzava per l’Italia cominciarono ad apparire anche i primi spettacoli di pugilato, offerti da alcuni atleti professionisti francesi e inglesi pagati dal quotidiano sportivo La Gazzetta dello Sport per promuovere quella che Il Corriere della Sera definì come: ‘‘una competizione dura e spietata, ma fatta in punta di piedi’’. Quegli incontri riscossero ovunque un successo pieno. Il ring veniva montato nelle grandi piazze cittadine, sotto lo sguardo ammirato e incuriosito del pubblico che per la prima volta vedeva due uomini darsele di santa ragione nell’assoluto rispetto di precise regole; cosa davvero balzana, così come l’usanza di quegli atleti di abbracciarsi al termine delle furiose scazzottate. Nel 1908, su iniziativa del marchese Luigi Monticelli Obizzi, aitante sportivo, già distintosi in varie attività quali nuoto, ginnastica, scherma e canottaggio, venne inaugurata nella capitale lombarda una sezione pugilistica che verrà poi affiliata al “Club Atletico Milanese”, la rinomata società sportiva fondata dallo


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stesso Obizzi, al quale si deve l’organizzazione della prima vera e propria riunione di boxe, svoltasi lo stesso anno al teatro Eden di Milano. Il 1910 fu l’anno del primo titolo italiano, o meglio dell’Alta Italia, conquistato dal peso massimo ligure Pietro Boine. Un titolo che gli verrà attribuito solo sei anni dopo dalla neonata Federazione pugilistica italiana, istituita in pieno periodo bellico a Milano. Il primo titolo pienamente riconosciuto su tutto il territorio nazionale — validato anch’esso con retroattività dalla Federazione — fu conquistato sempre da Boine, il 15 giugno 1912, a Milano. Organizzato dal “Club Pugilistico Nazionale”, il torneo vide il pugile di Imperia imporsi su Alessandro Valli con un secco ko alla sesta ripresa. Peccato che lo stesso vincitore non seppe mai di essere diventato campione italiano, poiché morì di tifo nel 1914, ovvero due anni prima di quell’investitura. Milano dunque era il centro pulsante delle molteplici attività di uno sport già popolarissimo. Le associazioni sportive e le palestre fiorivano dappertutto, anche nei posti più improbabili, come i cortili interni dei palazzi. Fu in uno di questi cortili, per la verità non proprio vicino casa sua, che il giovane Carlo Orlandi cominciò ad intrufolarsi incuriosito dalle sberle che si appioppavano quegli uomini in mutandoni sopra il ring. Ma il ragazzino non era capitato lì per caso, perché qualche tempo prima aveva assistito, in uno dei cinematografi rionali del suo quartiere, alla proiezione di un vecchio film del match mondiale tra due grandi boxers, il francese Georges Carpentier e l’americano Jack dempsey, conclusosi alla quarta ripresa con la vittoria di quest’ultimo per ko. Era stato un vero e proprio colpo di fulmine per la brillante immaginazione del giovane Orlandi. Carletto era un ragazzo come un altro, sveglio e dall’aria intelligente, ma un piccolo particolare, da qualche tempo, aveva modificato il suo modo di essere. I tratti espressivi del suo viso apparivano sempre tesi, nervosi, come assorti da un’insolita e acuta concentrazione, e i suoi grandi occhi scuri e indagatori sembravano scrutare il mondo con ansiosa curiosità. Aveva passato una brutta disavventura qualche anno prima, dalla quale ne era uscito vivo per miracolo. Un grosso cane lo aveva aggredito per strada, azzannandolo a una spalla e al collo. se le ferite del 24


luigi Monticelli Obizzi


Storia vera di Carlo Orlandi

corpo erano guarite con dei punti di sutura, ben altra cosa era stato l’effetto collaterale provocato da quel terribile shock: un trauma psicologico talmente grave da fargli perdere l’uso della voce e in parte dell’udito. Carletto non parlava, o meglio, parlava male. La sua voce si era spezzata. Le parole gli uscivano di bocca a fatica, smozzicate, e inoltre percepiva i suoni soffocati e confusi, come quando da piccolo, prima dell’incidente, tratteneva il fiato per gioco e si immergeva nell’acqua della vasca mentre faceva il bagno. L’handicap, inevitabilmente, lo aveva reso un ragazzino chiuso, timido, introverso, forse un po’ selvaggio, ma mai scontroso o musone. Quella sua aria viva ed espressiva e la simpatica, quasi maliziosa curiosità che si leggeva nel suo sguardo lo agevolavano sempre nei rapporti umani. Il trauma, comunque, se da una parte gli aveva danneggiato e ridotto la capacità di comunicare, guastando per sempre il suo delicato equilibrio emotivo, dall’altra gli aveva fortemente accentuato il già acutissimo spirito d’osservazione. Fu questa qualità che colpì maggiormente zanati, il quale notò subito la straordinaria vivacità dei riflessi del ragazzino e la sua prontezza di spirito. Ma c’era un’altra caratteristica sorprendente in Carletto, una sorta di spiccata attitudine assimilativa per le tecniche del manuale pugilistico, una dote che gli permetteva di acquisire le istruzioni del suo maestro molto più in fretta degli altri allievi. spesso, zanati aveva l’impressione di insegnare la boxe a un pugile esperto, piuttosto che a un novizio, e in breve si convinse di avere per le mani un autentico talento. Carletto scoprì così la sua vocazione e un nuovo modo di esprimersi e comunicare. sul ring ritrovò il gusto di gridare a squarciagola, scatenando la sua voglia di correre, saltare, menare le mani e socializzare. Insomma, la gioia di vivere di un ragazzo della sua età. scoprì, inoltre, aspetti nuovi di sé: uno spiccato spirito combattivo, il gusto per la competizione, la sicurezza nel confronto, il coraggio della sfida, e sviluppò tratti apprezzabili per uno sportivo, come un marcato senso dell’onore, un sano orgoglio e un profondo rispetto delle regole e della disciplina. Ma le cose più sorprendenti, gli impulsi che delinearono in modo incisivo le scelte future arrivarono col tempo 26


I pionieri

e con i primi successi. Carletto avrebbe capito che entusiasmo, impegno e passione non bastavano per ottenere risultati importanti in uno sport cosÏ duro e spietato. Accanto a queste spinte stavano maturando in lui i segnali evidenti dell’atleta completo, i caratteri fondamentali e indispensabili per primeggiare: una smisurata ambizione e un’irrefrenabile voglia di affermazione.

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Pietro Boine


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La m a g l i a a zzurra

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u a via Vitruvio che Orlandi conobbe Carlo Cavagnoli e Piero Toscani, più vecchi di lui e già buone promesse del ring. Il primo era un leggerissimo peso mosca, piccolo e tutto nervi; il secondo, invece, che aveva già vent’anni compiuti, era un peso medio, robusto e dal fisico muscoloso. Nessuno di loro sapeva ancora che da quel momento avrebbero passato insieme buona parte della gioventù e condiviso esperienze uniche e memorabili. “El Negher” fece progressi velocissimi nella cosiddetta schiera “Team dei pulcini” e in pochissimo tempo fu in grado di incrociare i guantoni con i più anziani del mestiere. Circa sei mesi dopo il suo ingresso in palestra, zanati lo fece debuttare in un torneo rionale dove batté tutti gli avversari. Fu un tripudio per lui, il più giovane atleta in gara, che si guadagnò sul campo il rispetto e l’ammirazione dei compagni di scuderia. I miglioramenti del ragazzo avevano del miracoloso. Era come se una parte di lui volesse riscattare quel piccolo svantaggio fisico a suon di pugni. Orlandi non conosceva sconfitte e le sue eccezionali prestazioni furono presto oggetto di segnalazione presso la Federazione che cominciò a interessarsi di lui. Ad appena diciassette anni fu portato in tournée in scandinavia per affrontare i migliori dilettanti di quei paesi che del purismo facevano bandiera. Carletto divenne popolarissimo a


Storia vera di Carlo Orlandi

Copenaghen come a stoccolma, dove si mise in luce per le sue innate qualità di raffinato stilista e accanito combattente. si era alla vigilia di un appuntamento cruciale per lo sport, uno di quegli avvenimenti in grado di cambiare radicalmente la vita di un atleta, un traguardo per alcuni o un trampolino di lancio per altri: le Olimpiadi. In Italia cominciarono i vari tornei preolimpici di boxe, i quali sarebbero culminati, in aprile, con i campionati italiani di Milano. Carlo si qualificò senza eccessivi sforzi, combattendo contro avversari anche più esperti e titolati di lui. Quando si iscrisse al torneo nazionale non aveva ancora compiuto i diciotto anni, cosa che invece aveva appena fatto Vittorio Tamagnini, il focoso peso gallo civitavecchiese, campione laziale di categoria, il quale arrivò a Milano accompagnato dal padre, Benedetto. Molte le regioni presenti alla contesa, anche se non tutte. Tra le squadre con il più alto numero di atleti c’era la Lombardia e il Lazio, le rappresentative più titolate per complessità di valori e risultati ottenuti. Carletto era raggiante e in grandissima forma. Le gare si svolsero presso la sala Carpegna di via rovello, a pochi minuti di strada da casa sua. rappresentava un indubbio vantaggio combattere circondato dall’affetto dei suoi cari e degli amici che lo sostenevano. Il “piccolo Jacovacci” arrivò in finale battendo avversari fin troppo facili per lui, tanto che non poté nemmeno dare spettacolo sfoggiando l’intero repertorio delle sue qualità. Per l’incontro che valeva il nastro tricolore lo aspettava una vecchia conoscenza, il romagnolo Werther Arcelli, da tempo federato presso una sezione lombarda. Buon tecnico e tenace combattente, Arcelli non stava passando in quel periodo uno dei suoi momenti migliori. debilitato da non perfette condizioni fisiche, dovette cedere le armi a Carletto, il quale, al termine delle tre riprese previste, conquistò il titolo italiano. Era il via libera al romitaggio del segrino, l’amena località sulle rive dell’omonimo laghetto tra i boschi dell’Alta Brianza, dove la Federazione aveva impiantato il campo d’allenamento preolimpico. Con Orlandi partirono gli amici Carlo Cavagnoli e Piero Toscani, che avevano conquistato il trofeo nelle rispettive categorie di peso, ai quali si unì Vittorio Tamagnini, vincitore della finale dei gallo. 30


La maglia azzurra

In due mesi di dure selezioni, seguito dalle cure di Giuseppe zanati, Edoardo Garzena e sotto la supervisione del tecnico federale Carlo Czerny, Orlandi si cucì addosso la maglia azzurra con tanto zelo che nessuno osò contrastare la sua supremazia tra i pesi leggeri. Nemmeno l’arrivo di un picchiatore temutissimo come Luciano zoia, del gruppo sportivo “Cesare Battisti” di Milano, riuscì a metterlo in crisi. Padrone di una classe chiaramente superiore e di uno stile del tutto personale, Orlandi uscì da quelle prove molto migliorato, soprattutto sul piano caratteriale. sul ring ora dimostrava grande autorità e una sicurezza da navigato professionista, qualità eccelse che esibiva con assoluta naturalezza e che a soli due anni dal suo primo combattimento non facevano che confermare le convinzioni di zanati. dentro il quadrato Carletto cominciò a sentirsi più sicuro che fuori. Lì era a suo agio perché non serviva parlare e non importava se non poteva udire l’urlo della folla. Il “piccolo Jacovacci” si faceva capire con i pugni, e quell’urlo, poi, lo portava dentro di sé, più potente del tuono, più forte del rombo di un uragano. Non era la prima volta che Orlandi si recava all’estero per combattere, ma adesso l’impegno era diverso. Avrebbe dovuto difendere il prestigio sportivo del proprio Paese che tante speranze aveva riposto in lui e in quella formidabile squadra di atleti. Nonostante la giovanissima età, sentiva su di sé tutto il peso di un compito il cui significato recondito andava ben al di là della semplice impresa sportiva. Un’importanza che aveva subito compreso, fin dal suo ingresso allo chalet del segrino, frequentato a più riprese dalle alte cariche della Federazione e del Comitato olimpico. Correva il sesto anno della cosiddetta “era fascista”. Il regime considerava lo sport un mezzo di propaganda potentissimo per diffondere all’estero il prestigio del Paese. ‘‘Le prodezze sportive’’ dichiarava Mussolini, ‘‘accrescono il prestigio della nazione e abituano gli uomini alla lotta in campo aperto, attraverso la quale si misura non soltanto la prestanza fisica, ma il vigore morale dei popoli’’. A queste mere ragioni promozionali politiche si aggiungeva la voglia di riscatto che la Federazione pugilistica italiana teneva sopita da quattro lunghissimi anni, ovvero dal luglio del 1924, quando durante il torneo di boxe alle Olimpiadi di Parigi, due verdetti — che definire ingiusti sarebbe 31


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un eufemismo — preclusero la possibilità di accedere alla finale al peso mosca rinaldo Castellenghi e al medio-massimo Carlo saraudi. Era stata una palese ingiustizia per entrambi gli atleti, e una farsa ridicola sia per il pubblico, giunto numerosissimo al Velodromo d’Inverno, sia per la Federazione italiana, la quale, dopo essersi vista rigettare i ricorsi presentati contro i due verdetti, decise in segno di protesta di ritirare dalle competizioni olimpiche la squadra pugilistica. Castellenghi e saraudi erano gli unici boxers azzurri rimasti in gara e per loro c’era ancora la possibilità di giocarsi il terzo posto, che valeva la medaglia di bronzo. La grave risoluzione presa dalla Federazione, invece, chiuse definitivamente la partita. La decisione aveva sdegnato i due atleti, i quali non digerirono affatto di aver subito oltre al danno anche la beffa. La “ragion di stato” da una parte e un “conto” da regolare dall’altra, dunque, pesavano sulla squadra olimpica di pugilato e sul giovane Orlandi il giorno della partenza dalla stazione centrale di Milano, tra un tripudio di bandiere e gagliardetti. La divisa olimpica era di foggia militaresca — espressione spartana dei tempi — tanto che un giornalista, giunto in stazione trafelato e all’ultimo momento, confuse il gruppo tra la folla con dei soldati in partenza e tirò dritto. Quando il treno partì in direzione di Amsterdam, e le musiche e i canti furono zittiti, un lungo, pesante silenzio avvolse tutti. Ogni cuore si rese conto all’improvviso della propria solitudine e della dimensione spropositata dell’impresa a cui era destinato. Quei tredici campioncini, spediti a difendere l’onore della Patria in terra straniera, si guardarono in faccia a lungo, senza dire una parola, ognuno assorto nei propri pensieri. Armando Alleori, Carlo Cavagnoli, Vittorio Tamagnini, Fausto Montefiore, Luigi Cabri, Carlo Orlandi, Werther Arcelli, Oddone Piazza, romano Caneva, Piero Toscani, rodolfo redaelli, domenico Ceccarelli e Clemente Meroni. Giovani, belli, forti, come gli antichi eroi greci di Omero. L’avventura olimpica cominciava. Il convoglio uscì dalla stazione tra lo stridio metallico e prese velocità. Un’ultima bandiera tricolore, ancora appesa a un finestrino, venne ritirata frettolosamente dal capotreno che la piegò con cura e la consegnò a uno dei dirigenti della Federazione. La sera di quell’estate calda e serena portò un po’ di refrigerio a 32


La maglia azzurra

tutta la compagnia, quietando gli animi agitati e irrequieti dei ragazzi. Quasi vinto dal sonno, Carlo osservava il lento scorrere delle campagne intorno e il cielo tingersi di un azzurro sempre piÚ intenso. si addormentò proprio nel momento in cui il treno abbordava una curva e scopriva la luna, insolitamente grande e luminosa: uno splendente disco dorato.

la partenza della squadra pugilistica da Milano. da sinistra, secondo inginocchiato, Carlo Orlandi.

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Carlo Orlandi


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Le Ol i m p i a di

L

’intera comitiva arrivò ad Amsterdam il giorno dopo e si sistemò sul Solunto, un piroscafo italiano normalmente impiegato sulle linee transatlantiche. Ormeggiato in un canale nei pressi di Coenhaven, a pochi chilometri dal centro della città, il Solunto ospitava sia la squadra italiana che quella finlandese. sull’altro lato della banchina, le navi President Roosevelt e Oihonna accoglievano invece la rappresentativa più numerosa presente ai Giochi: quella americana. Ovunque in città campeggiava in bella mostra la scritta ‘‘Coca Cola’’, perfino sulla locandina ufficiale delle Olimpiadi. Un generoso finanziamento aveva permesso al marchio americano di accaparrarsi la sponsorizzazione unica dell’evento. Era una novità assoluta. Pierre de Coubertin non era più il padre padrone del Comitato Olimpico Internazionale e, per la prima volta, era stata introdotta l’atletica femminile, esclusa, fino ad allora, proprio per suo espresso volere. della squadra olimpica azzurra facevano parte anche dodici giovanissime atlete della “società Ginnastica Pavese”. si allenavano al mattino direttamente su un’area della banchina d’ormeggio, sotto la guida del professor Gino Grevi. Non era poi un brutto posto quel canale, infilato, placido e silenzioso, tra il verde dei campi olandesi. Alle piccole atlete pa-



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