FICTION
il fuoco
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l’au t o r e Henri BarBusse (1873-1935), scrittore e membro del Partito Comunista francese si arruolò nell’esercito a 41 anni e servì il suo paese nella Prima guerra mondiale, per 17 mesi, fino alla fine del 1915, quando venne congedato per una malattia polmonare e dissenteria. Dalla sua esperienza in trincea nacque il suo romanzo più celebre, Le Feu (Il fuoco), che attirò subito aspre critiche per il suo crudo realismo ma vinse il Premio Goncourt, riscuotendo un immediato successo di vendite e l’apprezzamento di alcuni dei più celebri scrittori dell’epoca, tra cui André Gide, Anatole France e Romain Rolland. Primo romanzo a proporre una testimonianza realistica sulla brutalità della guerra, rifiutando qualsiasi retorica nazionalista ed eroica, l’opera si impose nel panorama letterario per la nuda descrizione della vita e delle sofferenze dei ‘‘poilus’’, come venivano chiamati i soldati francesi. Grazie alla sua efficace testimonianza, il romanzo valse a Barbusse il titolo di ‘‘Zola delle trincee’’ e contribuì a suscitare accesi sentimenti d’opposizione contro il conflitto in tutta la società francese.
henri
barbusse
il fuoco Traduzione dal francese di Giannetto Bisi
GINGKO
EDIZIONI
Titolo originale dell’opera
Le Feu (JouRnAL D’une esCouADe) IL FuoCo © 2017 Gingko edizioni IsBn 978-88-95288-76-5 Traduzione dal francese di Giannetto Bisi
GInGko eDIZIonI Molinella (Bo) www.gingkoedizioni.it Progetto grafico di copertina: © 2017 ATALAnTe
il fuoco
Alla cara memoria dei camerati caduti al mio fianco a Crouy e sulla Quota 119
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La v i si one e
Il Dente del Mezzodì, la Guglia Verde e il Monte Bianco fronteggiano i volti esangui emergenti dalle coperte allineate nella galleria del Sanatorio. Al primo piano del palazzo-ospedale, questa loggia dalla balaustrata di legno rustico, protetta da una tettoia, è isolata nello spazio e strapiomba sul mondo. Le coperte di lana fine — rosse, verdi, avana o bianche — donde escono volti smagriti dagli occhi radianti, sono tranquille. Sulle seggiole a sdraio domina il silenzio. Qualcuno ha tossito. Poi, altro non s’ode, di tanto in tanto, che il fruscìo delle pagine di un libro voltate ad intervalli regolari, o il mormorìo discreto d’una domanda e d’una risposta, da vicino a vicino, o, talvolta, sulla balaustrata, lo scroscio di ventaglio d’un’ardita cornacchia scappata dai bianchi che tracciano, nell’immensità trasparente, rosari di perle nere. Il silenzio è la legge. Del resto, tutti coloro che, ricchi ed indipendenti, sono venuti qui da tutti i punti della terra, colpiti dal medesimo male, hanno perduto l’abitudine di parlare. Ripiegati su se stessi, pensano alla loro vita ed alla loro morte. Una domestica compare nella galleria: cammina adagio ed è vestita di bianco. Porta dei giornali. Li distribuisce. « Ci siamo » dice quello che ha spiegato per primo il suo giornale, « hanno dichiarato la guerra ». Per quanto attesa, la notizia produce come uno stordimento, perché gli astanti ne sentono le proporzioni smisurate. Persone intelligenti, istruite, approfondite dalla sofferenza e dalla riflessione, staccate dalle cose e quasi dalla vita; lontane dal genere umano come se già fossero nella posterità, guardano avanti, in lontananza, verso i paesi incomprensibili dei vivi e dei pazzi. « È un delitto che commette l’Austria » dice l’Austriaco. « Bisogna che la Francia riesca vittoriosa » dice l’Inglese. « Io spero che la Germania rimanga vinta » dice il Tedesco.
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Si riassettano sotto le coperte, sul guanciale, di fronte alle cime ed al cielo. Ma il cielo, nonostante la purezza dello spazio, è pieno della rivelazione pur ora pervenuta. « La guerra! ». Taluno di quei giacenti rompe il silenzio ripetendo a mezza voce questa esclamazione; e riflette che è il più grande avvenimento dei tempi moderni, e forse di tutti i tempi. Anche, l’annuncio crea sul limpido paesaggio come un confuso e tenebroso miraggio. Le calme distese della valle ornata di villaggi rosei come rose e di pascoli vellutati, le magnifiche macchie delle montagne, il pizzo nero degli abeti e il pizzo bianco delle nevi eterne, si popolano di trambusto umano. Formicolano moltitudini a masse distinte. Degli assalti, ondata per ondata, si propagano sui campi e si immobilizzano; case sventrate come uomini, e città come case; villaggi che appaiono in bianchezze sbriciolate, come se fossero caduti in terra dal cielo; e carichi spaventosi di morti e di feriti che cambiano la forma delle pianure. Tutte le nazioni, rosicchiate da massacri ai margini, incessantemente si strappano dal cuore nuovi soldati pieni di forza e pieni di sangue: affluenti vivi d’un fiume di morte che si possono seguire con gli occhi. Al Nord, al Sud, all’Ovest, battaglie; da tutte le parti; nell’infinità. Si può girarsi verso qualsiasi punto dello spazio: non ve n’è nemmeno uno in capo al quale non sia la guerra. Uno dei pallidi veggenti, sollevandosi sul gomito, enumera e censisce i belligeranti attuali e futuri: trenta milioni di soldati. Un altro, con occhi pieni di stragi, balbetta: « Due armate alle prese, sono il suicidio d’una grande armata ». « Non avrebbero dovuto farla » dice la voce profonda e cavernosa del primo della fila. Ma un altro dice: « È la Rivoluzione Francese che ricomincia ». « Attenti ai troni! » annunzia il mormorìo di un altro. Aggiunge il terzo: « Forse è la guerra suprema ». Un silenzio. Poi, alcune fronti ancora illividite dalla scipita tragedia della notte sustanziata di insonnia, si scuotono: « Impedire le guerre! È possibile?! Impedire le guerre; l’inguaribile piaga del mondo! ». e
Qualcuno tossisce. Poi, l’immensa calma, nel sole, delle sontuose praterie ove quetamente brillano le mucche inverniciate e i boschi
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neri, e i campi verdi, e le distanze azzurre, sommergono questa visione, spengono il riflesso di fuoco che incendia e rovina il vecchio mondo. Il silenzio infinito cancella il rumor d’odio e di sofferenza del nero brulicame universale. Ad uno ad uno, i parlatori rientrano in se stessi, preoccupati del mistero dei loro polmoni, della salute del loro corpo. Ma quando la sera si appresta a ricolmare la valle, sul massiccio del Monte Bianco scoppia un temporale. È proibito uscire durante queste sere pericolose in cui fin sotto la vasta tettoia — sino al porto del loro rifugio — si sentono giungere le ultime ondate del vento. Quei ‘‘grandi invalidi’’ che una piaga interiore corrode, abbracciano con lo sguardo lo sconvolgimento degli elementi: guardano sulla montagna l’esplosione dei colpi di tuono che sollevano nuvole orizzontali, come un mare, ed ognuno dei quali lancia nel crepuscolo, contemporaneamente, una colonna di fuoco ed una colonna di nembo, e con quei loro volti lividi dalle gote smunte seguono le aquile che tracciano circoli nel cielo e che guardano la terra dall’alto, attraverso le arene di nebbia. « Impedire la guerra! » dicono. « Impedire i temporali! ». Ma i contemplatori posti al limitare dell’essere, mondi di ogni passione di parte, liberi d’ogni nozione acquisita e d’ogni accecamento, d’ogni presa di possesso delle tradizioni, sentono vagamente la semplicità delle cose e le possibilità beatificanti... Il primo della fila esclama: « Si vedono, laggiù, delle cose, che strisciano ». « Sì... sono come cose vive ». « Paiono piante... ». « Paiono uomini ». Ed ecco che nei bagliori sinistri del temporale, al disotto delle nere nuvole scapigliate, spiegate e tese sulla terra come angeli cattivi, par loro di vedere estendersi una grande pianura livida. Forme umane escono nella loro visione dalla pianura, che è tutta fango ed acqua, e si aggrappano alla superficie del suolo, accecate e grondanti di melma, come mostruosi naufraghi. La pianura acquitrinosa, striata da lunghi canali paralleli, forata da buchi d’acqua, è immensa, e quei naufraghi che cercano di disotterrarsene sono una moltitudine... Ma quei trenta milioni di schiavi che il delitto e l’errore hanno scagliati gli uni contro gli altri, nella guerra del fango, levano i loro volti umani ove finalmente germoglia una volontà. L’avvenire è nelle mani degli schiavi, e ben si comprende che il vecchio mondo verrà cambiato dall’alleanza che un giorno si stringerà fra coloro il cui numero è infinito come ne è infinita la miseria.
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Nel l a t erra e
Il vasto cielo pallido si popola di colpi di tuono: ogni esplosione rivela il piombar giù da un lampo rosso di una colonna di fuoco nella rimanenza della notte e contemporaneamente di una colonna di nuvoli in quel po’ che già vi è di giorno. Là in alto, altissimo, lontanissimo, un volo d’uccelli terribili, dal possente respiro irregolare, che si sentono e non si vedono, sale a cerchio per guardare la terra. La terra! Il deserto incomincia a comparire, immenso e pieno d’acqua, sotto la lunga desolazione dell’alba. Pozze e pantani, di cui l’acuta tramontana dell’estremo mattino pizzica e fa rabbrividire l’acqua; peste tracciate dalle truppe e dai convogli notturni in quei campi di sterilità, e striate di carreggiate lucenti come binari d’acciaio nella chiarità squallida; ammassi di fango dai quali sorgono qua e là pochi picchetti rotti, cavalletti ad X, slogati, fasci di fil di ferro arrotolati, attorcigliati, a cespuglio. Con quei banchi di limo e quelle pozzanghere, pare una smisurata tela grigia fluttuante sul mare; sommersa qua e là. Non piove, ma tutto è molle, stillante, slavato, naufragato — e la luce, livida, pare che coli. Si distinguono intersecazioni di lunghi fossati ove s’accumula un residuo di notte. Sono le trincee. Il fondo ne è pavimentato d’uno strato vischioso donde il piede si scolla rumorosamente ad ogni passo, e tutt’attorno ad ogni ricovero è puzzolente, causa le orinate notturne. Anche i buchi, se ci si china sopra passando, tramandano fetore, come bocche. Da quei pozzi laterali vedo emergere, e muoversi, delle ombre; masse enormi e deformi: specie d’orsi che s’impantanano e grugniscono. Siamo noi. Siamo imbacuccati come le popolazioni artiche. Maglioni, coperte, teli da tenda, ci impacchettano; ci sormontano, ci arrotondano stranamente. Alcuni si stirano, vomitando sbadigli. Incominciano a comparire delle facce, rosseggianti o livide,
sfregiate di sporcizie, forate dalle lampadine appannate di occhi cisposi ed appiccicati agli angoli, incespugliate di barbe non tagliate o lorde di peli non rasi. Tac! Tac! Pan! I colpi di fucile, il cannoneggiamento. Crepitano e rullano al disopra di noi, dappertutto, a lunghe raffiche o a colpi staccati — fosco e sfavillante temporale che non cessa mai, mai. Da più di quindici mesi, da cinquecento giorni, in quest’angolo di mondo in cui siamo, la fucileria ed il bombardamento non si sono mai fermati dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. Siamo sotterrati nel fondo di un eterno campo di battaglia; ma non se ne ode il fragore che quando lo si ascolta, come il tic-tac degli orologi di casa nostra, ai tempi d’una volta, nel passato quasi leggendario. Una faccia da bambola, dalle palpebre gonfie, dai pomelli così incarminati che si direbbe vi abbiano attaccato sopra dei pezzetti di carta rossa a màndola, esce dalla terra ed apre prima un occhio o poi l’altro: è Paradis. La pelle delle sue tonde guance è striata dal segno delle pieghe del telo da tenda in cui s’è ravvolta il capo nel sonno. Si guarda attorno, con quei suoi occhietti, mi vede, mi fa segno e mi dice: « Un’altra notte movimentata, caro mio ». « Sì, figliolo; quante ne dovremo passare ancora come questa? ». Paradis alza al cielo le braccia tondeggianti. Si è estratto, con un gran strofinìo, dalla scala del ricovero, ed eccolo accanto a me. Dopo avere incespicato nel mucchio oscuro d’un soldato che si è seduto per terra, nella penombra, e che si gratta energicamente con rochi sospiri, Paradis si allontana, ondeggiando, di mala voglia, come un pinguino nello scenario diluviano. A poco a poco gli uomini si staccano dalle profondità. Si vede dell’ombra densa che prende forma, negli angoli; poi quelle nubi umane si agitano, si frammentano... Ad uno ad uno diventano riconoscibili. Eccone uno che si mostra, con la sua coperta a cappuccio. Pare un selvaggio, o piuttosto la tenda d’un selvaggio, che ciondoli e vada a spasso. Da vicino, in mezzo ad una spessa cornice di maglia di lana, si scopre l’inquadratura d’una faccia, iodata, chiazzata di nerastro, col naso schiacciato, gli occhi cisposi e incorniciati di rosa e dei baffettini ruvidi ed umidi come una spazzola da lustro. « Ecco Volpatte. Come la va, Firmin? ». « Va bene va bene, e andrà anche meglio » dice Volpatte. Parla lento e strascicato, con l’aggravante di una raucedine. Tossisce.
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« Mi son pigliato un accidente, questa volta! Di’ su, l’hai sentito, stanotte, l’attacco? Caro mio, che bombardamento che ci hanno affibbiato! Ah, una cosina preparata bene, come decotto per il raffreddore! ». Tira su, si passa la manica sotto il naso concavo. Si caccia una mano tra cappotto e panciotto, cercandosi la pelle, e si gratta. « Ne ho ammazzati trenta con la candela » borbotta. « Hai da andare a vedere nella casermetta, caro mio, di fianco al passaggio sotterraneo, se ce n’è di questa cavalleria! Bisogna vedere come corrono nella paglia! ». « Chi è stato ad attaccare? I Boches? ». « Loro, e anche noi. È stato dalla parte di Vimy. Un contrattacco. Non hai sentito? ». « No » risponde per me l’enorme Lamuse, l’uomo-bove. « Io russavo. Ma l’altra notte sono stato di servizio... ». « Io sì che ho sentito » dichiara il piccolo Breton Biquet. « Ho dormito male, anzi niente. Io ho un rifugio per me solo. Sicuro, guardate, eccolo là, quel porco ». Indica una cunetta che si stende a fior di terra e dove, su di un sottile strato di letame, c’è giusto il posto per un corpo. « Ma cosa importa avere un letto » osserva Breton Biquet squassando quella sua piccola testa petrosa che pare non ancora finita, « se non ho quasi preso sonno! M’ero avviato bene, ma mi ha svegliato il cambio del 129° che è passato di qui. Non col rumore, ma con l’odore. Oh! tutti quei figlioli coi piedi all’altezza della mia bocca! Una cosa che mi ha fatto svegliare, tanto mi faceva male al naso. So di che si tratta. Anch’io spesso sono stato svegliato, in trincea, dal solco di fetore acre che la truppa in marcia si tira dietro ». « Se bastasse almeno a far morire i pidocchi » dice Tirette. « Invece li eccita » osserva Lamuse. « Più puzzi, più sei fetente, e più ne hai ». « E meno male » continua Biquet, « che soffocandomi mi hanno svegliato. Lo raccontavo or ora a quel bestione là: ho spalancato le lanterne proprio in tempo per abbrancarmi al telo da tenda che chiude il mio buco e che uno di quei merdosi parlava di fottermi ». « C’è certa feccia in quel 129°! ». In fondo, ai nostri piedi, si distingueva una forma umana che la luce del mattino non illuminava, e che, accosciata, si teneva a due mani l’involucro dei vestiti e si dimenava; era papà Blaire. Due occhietti lappolanti in una faccia profusamente terrosa. Un voluminoso involto giallastro di baffi sormontante il buco d’una bocca sdentata. Delle mani oscure, terribilmente: col dorso così lordo da parere velloso e il palmo che era tutt’un’incrostazione cornea. La persona, raggricchiata e vellutata di terra, esalava un tanfo da vecchia casseruola.
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Per quanto affaccendato a grattarsi, chiacchierava lo stesso con l’enorme Barque che, un po’ scostato, si chinava verso di lui. « Da borghese » diceva, « non sono mica sporco a questo modo ». « Bene, sarà un altro bel modo di essere sporco » disse Barque. « Meno male » rincarò Tirette, « altrimenti, in quanto a bambini, le faresti fare dei moretti, a tua moglie! ». Blaire s’arrabbiò. Le sopracciglia gli si aggrottarono sotto la fronte densa di negrezza. « E cos’hai, tu, da rompermi le scatole? Cosa vuoi dire? È la guerra. E tu, faccia da ladro, credi forse che la guerra non ti cambi il muso e il modo di fare? Stai fresco. Guardati, fesso d’un muso di scimmia! Bisogna essere bestie veh, per dire di queste cose! ». Si passò la mano sullo strato tenebroso che gli decorava il volto, realmente indelebile dopo le piogge degli ultimi giorni, ed aggiunse: « E poi, se sono come sono, è perché così mi piace. Prima di tutto, non ho denti. Il maggiore m’ha detto da un pezzo: ‘‘Tu non hai più nemmeno una zappa. È troppo poco. Al primo riposo’’ m’ha detto, ‘‘fa’ un giretto fino alla vettura stomologica’’ ». « La vettura tomologica » corresse Barque. « Stomatologica » rettificò Bertrand. « Se ci posso andare e non ci sono andato è perché mi garba così » continuò Blaire. « Allora perché? ». « Per nulla, per il cambiamento » rispose. « Sei proprio un cuciniere » disse Barque. « Dovresti esserlo ». « È quello che penso anch’io » replicò Blaire, ingenuamente. Risate. L’uomo nero se ne adombrò e si alzò. « Mi fate venire il mal di pancia » disse, sillabando con disprezzo. « Vado a farla ». Quando la sua figura troppo fosca non fu più visibile, gli altri riaffermarono ancora una volta questa verità: che i cucinieri sono le più sporche creature che siano a questo mondo. « Se vedi un soldato imbrattato e macchiato pelle e stracci da non poterlo pigliare che con le molle, puoi dire: sarà un cuciniere! E più è sporco, più è cuciniere ». « È vero e verosimile, contemporaneamente » dice Marthereau. « Toh, ecco Tirloir. Oh! Tirloir! ». Tirloir s’avvicina, affaccendato, fiutando in qua e in là: ha un muso affilato d’un pallore da cloro, ballante in mezzo al cercine del bavero del pastrano troppo grosso e troppo largo. Mento a bietta, denti superiori sporgenti; attorno alla bocca, lorda fin nel profondo, una ruga che pare una musoliera. Come al solito, è furioso; e come sempre brontola: « M’han grattato il tascapane, stanotte ».
« È stato il cambio del 129°. Dove l’avevi messo? ». Indica una baionetta infitta nella parete, vicino all’ingresso d’un rifugio: « Là; attaccato a quello steccadenti che è piantato là ». « Bestia » esclama il coro. « A portata di mano dei soldati che passano! Bisogna esser matti, veh ». « Ad ogni modo è una disgrazia » piagnucola Tirloir. Poi, tutto d’un colpo, lo prende una crisi di rabbia; la faccia gli si raggrinza, furibonda, e quei suoi piccoli pugni si stringono, si stringono, come nodi di spago. Li brandisce. « Ah sì?! Eh! se avessi fra le grinfie quella carogna che me l’ha fatta! Vedresti se gli spaccherei il muso, se gli aprirei la pancia, se... C’era dentro una scatola di carne nemmeno aperta. Vado a cercare ancora ». Si massaggia il ventre col pugno, a colpettini secchi, come un mandolinista, e s’affonda nel grigiore mattinale; dignitoso e smorfioso contemporaneamente, con quella sua sagoma insaccata di malato in veste da camera. Lo si sente vociare fin che scompare. « Che fesso! » dice Pépin. Gli altri ghignano. « È matto e demente » dichiara Marthereau; il quale ha l’abitudine di rafforzare l’espressione del suo pensiero con l’uso simultaneo di due sinonimi.
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« Toh, paparino » dice Tulacque che sopraggiunge, « guarda questo ». Tulacque è magnifico. Veste una casacca giallo limone, fatta con un sacco a pelo di tela oleata. Vi ha fatto un buco in mezzo per passarvi la testa e al disopra di quel guscio s’è agganciato bretelle e cinturino. È grande ed ossuto. Protende in avanti, quando cammina, un volto energico dagli occhi loschi. Ha qualche cosa in mano. « L’ho trovato questa notte, scavando la terra in fondo al Camminamento Nuovo, quando abbiamo cambiato le assi marcie. M’è piaciuto subito, questo girarrosto. È un’ascia antica ». Per antica, lo è davvero: una pietra appuntita innestata in un osso lustro. Ha tutto l’aspetto d’un arnese preistorico. « S’impugna bene » dice Tulacque, maneggiandola. « Ma sì. È tutt’altro che mal combinata. Più equilibrata dell’accetta regolamentare. È meraviglioso, non c’è che dire. To’, prova a vedere... Eh? Da’ qua. La tengo da conto. Mi farà buon gioco, vedrai... ». Brandisce quella sua ascia da uomo quaternario e pare anche lui un pitecantropo sovraccarico di orpelli, imboscato nelle viscere della terra.