Corsa nella Notte

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GIOVANNA ESSE

Corsa nella notte


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UUID: 81230fce-b3aa-11e6-ae10-0f7870795abd Q u e s t o l i b r o è s t a t o r e a l i z z a t o c o n S t r e e t L i b Wr i t e ( h t t p : // w r i t e . s t r e e t l i b . c o m ) .


Le Tappe

FRAN​CE​SCA DEVE PAR​TI​RE

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UN SE​GRE​TO

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VIAG​GIO... AV​VEN​TU​RA

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SEN​ZA META

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UN PAS​SO DA CASA

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VAL D'A​GRI

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COR​SA NEL​LA NOT​TE

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ED È SU​BI​TO AU​TUN​NO

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FRANCESCA DEVE PARTIRE

Bus Blu

- Una stra​na? Che co​s'è una stra​na? - No, nonna, una frana, ho detto: una frana! La pioggia forte di ieri ha provocato una frana, non so, pare dalle parti di Cava. Finalmente sembrava che la nonna avesse capito; non che fosse de​cre​pi​ta ma, quan​to a com​pren​do​nio, ave​va sem​pre la te​sta fra le nuvole. Francesca, invece, era a un passo dalla disperazione: da Salerno a Napoli, era uno ‘sputo’ma all'improvviso, per la ra‐ gazza, era divenuta una distanza insormontabile. Sicura di fare tutto col treno, aveva lasciato che sua madre si organizzasse la giornata con l’unica auto di famiglia. E la donna, giustamente, ne aveva approfittato per portare la vettura dal suo amico car‐ rozziere… ma giusto non fu era, perché il maledetto treno, pro‐ prio quel giorno, non poteva passare. Proprio il giorno del suo penultimo esame; se non fosse arrivata a Napoli entro le 14 pro‐ babilmente avrebbe perso altri sei mesi per poter presentare la sua tesi, alla Fe​de​ri​co II. 2


- In​som​ma, apri​mi, for​se mi ri​ma​ne un’ul​ti​ma spe​ran​za… - Nella stanza? - la voce gracchiava dal vecchio citofono - vab‐ bè, sali, ‘a non​na, che tut​to si ag​giu​sta. Francesca sbuffò e salì le scale in tutta fretta; infilò la porta senza neanche salutare e si precipitò nel vecchio studio: cercava il portatile, abbandonato dai tempi del liceo. Per fortuna era a portata di mano, la nonna “sbariava” ogni tanto su You Tube, alla ri​cer​ca di vec​chie can​zo​ni. La rete del​la loro vi​ci​na era ac​ce​‐ sa, Fran​ce​sca ne ave​va sal​va​to la pas​sword. - France’, che devi fare, è successo qualcosa? Ti faccio una cioc​co​la​ta, o vuoi il caf​fè? - Zit​ta non​na, zit​ta, che è que​stio​ne di vita o di mor​te! - Mam​ma mia, non dire così che mi fai ve​ni​re l’an​sia… Ma la nipote non l’ascoltava già più. “Come era quel servizio? Che nome ave​va il sito?” L’aveva scoperto solo pochi giorni prima, le era piaciuta l’idea ma ave​va an​che pen​sa​to: “Chis​sà se la gen​te è pron​ta per un’i​dea del genere. Oggi, pare che i Social allontanino le persone invece che av​vi​ci​nar​le.” iGoOn ecco, do​ve​va es​se​re così. Ci volle un attimo per iscriversi e, con un incredibile colpo di “mazzo” incrociò un tizio che saliva da Cosenza e accettava di recuperarla sul lungomare di Salerno, a pochi metri da casa di sua nonna. Il signore diceva di essere un capo area aziendale e sul sito aveva uno Skill abbastanza neutro. Erano le 10, verso mez​zo​gior​no si sa​reb​be​ro in​con​tra​ti. Fran​ce​sca, ora, non po​te​va che sperare che tutto andasse per il meglio. Per come si erano messe le cose, forse, avrebbe accettato un passaggio anche da par​te del dot​tor Je​kill. Alla fine optò per un tè. Per prima cosa era corsa in bagno, poi si era messa a suo agio, 3


infine si dedicò alla cara nonna: quella svampita ma saggia vec‐ china, che amava come una mamma. Così, visto che c’era tem‐ po, le fece un riassunto verosimile delle sue vicissitudini mattu‐ tine. Poi le parlò di iGoOn e del fatto che di li a poco avrebbe potuto raggiungere Napoli in macchina, insieme a un perfetto sco​no​sciu​to. La nonna rabbrividì, non voleva esercitare pressioni sulla ni‐ pote ma, naturalmente, iniziò a trepidare per lei. Francesca, per darle coraggio (ma anche per infondersene) accampò mille ra‐ gioni per giustificare quella scelta; ripassò con la nonna tutti i punti positivi e tutte le sicurezze che il sito aveva creato per gli uten​ti. Insomma: tutti apertissimi allo scambio di favori e di espe‐ rienze ma senza mai perdere di vista la sicurezza. Comunque Francesca si era convinta di poter viaggiare con una certa tran‐ quillità e, perché no, magari conoscere anche una persona pia‐ ce​vo​le. Pec​ca​to che sua non​na non avreb​be ca​pi​to e avreb​be pas​sa​to il re​sto del​la gior​na​ta a pre​ga​re e ad ac​cen​de​re ceri pro​pi​zia​to​ri. La signora Velia sedette, finalmente; ora la ragazza era siste‐ ma​ta e non ri​ma​ne​va che aspet​ta​re un paio d’o​re. - Al​lo​ra, non​ni​na, ti sei tran​quil​liz​za​ta? La vecchia signora la fissò da dietro le lenti, aveva uno strano sorriso sulle labbra e gli occhi, ancora azzurri, nascondevano un piz​zi​co di emo​zio​ne. - Tu pen​si che io sia sta​ta sem​pre vec​chie​rel​la? – Dis​se Ve​lia, e sua nipote le sorrise ma non certo per scusarsi: aveva troppa con​fi​den​za con la non​na per te​me​re di of​fen​der​la. - Se mi prometti di saper tenere un segreto, la nonna ti rac‐ conta qualcosa che nessuno sa… - E senza attendere alcuna con‐ ferma partì per un inaspettato viaggio nel passato. Francesca tese le orecchie, sorpresa dall'atteggiamento tanto complice 4


del​la non​na.

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UN SEGRETO

Ri​sto​ran​ti​no ti​pi​co

Negli anni ‘80 anche tua nonna è stata giovane, che ti credi? E gli anni ‘80 sono sta​ti anni di fuo​co, lo sai ra​gaz​zi​na? Certo, non c’erano ancora queste vostre diavolerie, questi ag‐ geggi che catturano tutta la vostra attenzione: telefoni, compu‐ ter, ma anche allora noi vivevamo, anzi forse, a quei tempi, la vita era pure più av​ven​tu​ro​sa. E poi la sicurezza! Voi parlate sempre di sicurezza: ma quale? Quando una ragazza lasciava il suo paesello, come feci io allora, i suoi ne perdevano completamente le tracce, o quasi. Spesso i genitori credevano di poter esercitare un certo controllo ma si sbagliavano. Lo sai che nelle grandi città c’erano persone che af‐ fit​ta​va​no la stes​sa stan​za a 10 stu​den​tes​se? E sì. Ma​ga​ri un paio ci dor​mi​va​no dav​ve​ro, ma le al​tre vi​ve​va​‐ 6


no dove gli pareva; pagavano alla “signora” una piccola retta e si fa​ce​va​no “co​pri​re”, in​tan​to loro fa​ce​va​no il loro co​mo​do. Io venivo dalla Val d’Agri, lo sai no? Dove abitavo non c’era ancora neanche un paese vero e proprio, solo le prime case che si ap​pog​gia​va​no al ter​mi​nal de​gli Au​to​bus e al Mi​ni​mar​ket. Il primo anno di università, a Napoli, lo avevo vissuto pratica‐ mente da reclusa, un po’ spaventata dalla grande città, un po’ per​ché ero una ra​gaz​za mol​to ri​ser​va​ta e ab​ba​stan​za ti​mi​da. Quella mattina, eravamo alla fine della primavera, faceva già caldo. Insieme a un’altra ragazza stavamo organizzando il rien‐ tro estivo. La mia compagna aveva un uomo, dico così perché ricordo che era grande; e lui si presentò con un amico, e che amico! Era un giovane spavaldo, sicuro di sé ma gentile, mi col‐ pì immediatamente. Ciò che mi fece più impressione, lo ricor‐ do ancora, fu la distanza enorme che ci separava: lui sembrava uno che non aveva paura di nulla, io di tutto; lui rideva in faccia al mon​do, io cer​ca​vo di fug​gi​re a casa. Quando mai.. quando mai più avrei potuto incontrare un ra‐ gazzo così? Era bello, tra l’altro, di quella bellezza estremamen‐ te maschile e aveva degli occhi neri vivi e penetranti… me ne ac‐ corsi perchè per un attimo ci fissammo e lui mi studiò, almeno così pen​sai. Presentandoci, Mario, l’uomo della mia amica, fece una battu‐ ta in​fe​li​ce, era un tipo al​le​gro, scher​za​va sem​pre: - Ecco, questo è il mio amico che lavora nella radio… - e già così, ci fece ri​de​re, - Si chia​ma Pao​lo… Pao​lo uc​cel​lo! Qualcosa da dentro si impadronì della mia bocca, in quell'i‐ stante non ero io, e quel qualcosa disse, per me, la battuta più in​fe​li​ce che aves​si mai po​tu​to esco​gi​ta​re: - Ah bene… e al​lo​ra io sono Ve​lia… Ve​lia gab​biet​ta. Ancora risate. Paolo non raccolse ne sembrò voler approfitta‐ re di quella mia uscita tanto infelice; però, quel mattino non fa‐ 7


cemmo più i biglietti per l’autobus, eppure saremmo dovute partire il giorno dopo. La mia amica inventò una scusa per ri‐ manere ancora in città, mentre io, in qualche modo, avrei risol‐ to l’indomani, ma quella sera non avrei mai rinunciato all’invito a cena del mio nuo​vo ami​co, Pao​lo. Era la prima volta che ricevevo un vero invito, come quelli delle donne “grandi”; avevo partecipato a qualche piz​zia​ta, con gli amici del paese, certo, ma niente di impegnativo e poi, non ero mica tonta, capii subito che Paolo, nonostante la giovane età, era quel che si dice… un uomo di mon​do! Passai la giornata ad arrovellarmi e infine fui presa dal pani‐ co: cosa indossare? Come comportarmi… se non fosse stato per l’argomento scabroso delle mie perplessità, sarei stata capace di te​le​fo​na​re a mia mam​ma, per chie​der​le con​si​glio. Le ra​gaz​ze più sga​ma​te, che vivevano in città da qualche anno, cercarono di minimizzare le mie paure: “Tranquilla, dicevano ridendo, vedi che al tuo amico interessa molto poco della cena… se fossi in te mi preoccuperei più del dopocena!” Io, in realtà ero pre​oc​cu​pa​ta per tut​to: il pri​ma, il du​ran​te e pure il dopo. Alla fine decisi di presentarmi per come ero, tanto per Paolo non potevo significare proprio niente, anzi, più ci pensavo e più mi chiedevo come mai mi avesse invitata… probabilmente era proprio come dicevano le mie colleghe: lui era un cacciato‐ re di avventure e io, con la storia della gabbietta, avevo sortito due terribili effetti: per prima cosa avevo fatto una pessima fi‐ gura e, poi, mi ero presentata come una facile conquista. Il gio‐ va​ne “cac​cia​to​re” ne vo​le​va ap​pro​fit​ta​re, cer​ta​men​te. A sera cominciai a pensare di non andare ma mi vergognavo di essere giudicata una stupida ragazzina… e scesi, per orgoglio, ma sce​si. Devo dire che la “Cenerentola” che si nascondeva in me rima‐ 8


se subito delusa e venne liquidata già al primo impatto. Paolo non si era ti​ra​to a lu​ci​do per la cena e, al con​tra​rio, era ve​sti​to in maniera molto comoda e informale, così non sfigurai vicino a lui, io che, per fare la snob, mi ero presentata in Le​vis e magliet‐ ta attillata. Le mie angosce erano infondate. Andammo a man‐ giare in un posticino affollatissimo, dove lui era conosciuto e passammo una bella serata, accompagnati da quelle musiche per le qua​li voi mi pren​de​te sem​pre in giro.

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VIAGGIO... AVVENTURA

Na​po​li da san​t'An​to​nio a Pos​ il​li​po

Erano passate le 22. Paolo mi aveva portato in un posto pano‐ ramico. Nello spiazzo solitario c’erano solo poche auto, sicura‐ mente occupate da coppiette, ma io non avevo tempo per pre‐ occuparmi, ero troppo incantata dallo spettacolo che mi si pre‐ sen​ta​va da​van​ti agli oc​chi. La serata era tiepida e piacevole, alle nostre spalle una bella chiesa, tutta illuminata, dedicata a sant'Antonio; davanti a me c’era tutta Napoli, costellata di milioni di luci. Si affacciava sul Golfo blu scurissimo del mare tranquillo, qualche lampara di pescatori avanzava lentamente, attraversando i flutti vicino a Mergellina. Più lontano, il Vesuvio, che dominava la città, e si ve​de​va an​che ol​tre… - Quelle laggiù sono le luci del porto di Sorrento e, se guardi 10


più avan​ti, nel nero, quel​le alte e tre​mo​lan​ti sono di Ca​pri. Paolo mi spiegava questa cose appoggiato alla ringhiera, vici‐ nis​si​mo a me. Non ero mai stata fuori di notte e, soprattutto, non avevo mai visto la città da quella terrazza. Ero inebriata dal tepore di giu‐ gno e dal profumo di Gelsomino, incantata dalle note lontane di una canzone intonata da un posteggiatore. Non aspettavo al‐ tro che l’im​man​ca​bi​le ba​cio, ero cer​ta che il mio ac​com​pa​gna​to​‐ re si sarebbe fatto avanti di lì a poco, sapevo che sarebbe andata così! E, sin​ce​ra​men​te, non mi sa​reb​be di​spia​ciu​to af​fat​to… Invece, non successe niente. Paolo, come me, sembrava avere oc​chi solo per quel​la sua splen​di​da cit​tà. Risalimmo in macchina e iniziammo a parlare confidenzial‐ mente, come vecchi amici, come persone, perfettamente affia‐ ta​te, che si con​fes​sa​no sen​za re​mo​re, in una not​te sen​za luna. Mi sorprese per la sua semplicità ed io acquistai fiducia in lui e pure in me stessa, aprendogli l’animo e confessandogli tante piccole, semplici cose della mia vita di ragazza. E, dulcis in fun‐ do, gli confessai pure che quella mattina, nel casino generale e dopo l’imperdonabile gaffe, mi ero completamente dimentica‐ ta di comprare il biglietto per il Bus. Quindi, il giorno dopo, avrei do​vu​to spe​ra​re in qual​che pic​co​lo mi​ra​co​lo… - Beh, non mi sembra un problema insormontabile… ti ci por‐ to io al pae​se! - Sì… pro​prio, mio pa​dre esul​te​reb​be! – e ri​dem​mo in​sie​me di quel​la bat​tu​ta. Intanto si faceva sempre più tardi… per me insorgeva un nuo‐ vo problema: la signora dove dormivo era andata a letto da un pezzo, il “coprifuoco” era alle 10. Chi mai mi avrebbe aperto la porta di casa? Rabbrividii ma tacei, sperando con incoscienza in quella misteriosa buona sorte che, a volte, aiuta i giovani e, altre 11


vol​te, li per​de. - Ah, non mi credi capace? – riprese, tenendo vivo lo scherzo. – Ok, sali in mac​chi​na che ti fac​cio ve​de​re… Era notte. Passata l’euforia della cena e la parentesi “panora‐ mica”, iniziai a domandarmi seriamente cosa ne sarebbe stato di me, in quel​la paz​za not​te. Io, a quell'ora, normalmente già dormivo, ora invece ero in macchina con Paolo… Uccello. In fondo, in fondo, un perfetto sco​no​sciu​to. Ga​lan​te, af​fa​sci​nan​te, ma pur sem​pre sco​no​sciu​to. Ave​va una gros​sa ber​li​na chia​ra, cre​do fos​se un’Al​fa: il mo​to​re rombava potente, i sedili accoglienti invitavano al torpore, e, in‐ tanto, il suo stereo suonava qualcosa dei Pink Floyd… sì, non hai sentito male: tua nonna ascoltava pure i Pink Floyd e i Santana, va bene!? Paolo dovette accorgersi che avevo un po’ di abbiocco, infatti mi lasciò in pace, mentre correva nella notte, decidendo del mio de​sti​no di ra​gaz​zi​na ir​re​spon​sa​bi​le.

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SENZA META

La stra​da di not​te

Una lunga serie di fanali scorrevano alla mia destra, oltre: il nero assoluto. A sinistra, invece, una infinita serie di palazzi si‐ gnorili. Aprii gli occhi a più riprese e, pian piano ripresi cono‐ scen​za. Il son​nel​li​no mi ave​va fat​to bene… Poco dopo, i palazzi lasciarono il posto a costruzioni più ano‐ nime: lunghi muri spezzati solo dal vuoto di grandi cancelli; la via non era meno rettilinea e Paolo affrontava le larghe curve con si​cu​rez​za. A de​stra, an​co​ra e sem​pre, il nero del mare. - Ma… ma... scusa, siamo a Salerno? – dissi, tornando improv‐ vi​sa​men​te lu​ci​da. - Di​cia​mo di sì, o me​glio, ab​bia​mo pas​sa​to Sa​ler​no, que​sta è la 13


zona In​du​stria​le, quin​di sia​mo tra Pon​te​ca​gna​no e Bat​ti​pa​glia! - Tu sei matto… - ero sconcertata e non sapevo se ridere o piangere. Lui non diede molta importanza alle mie lamentele; tranquillo accostò, fermandosi, ma non certo per appartarsi, al con​tra​rio, era​va​mo in mez​zo alla gen​te… ed era l’u​na di not​te! C’eravamo piazzati in una stazione di servizio affollatissima: c’erano camion, autobus, auto e furgoni che andavano e veniva‐ no. Capii presto che si trattava di un punto di riferimento per molti lavoratori della notte, soprattutto per i commercianti e pe​sca​to​ri. - Lo pren​di un caf​fè? Accettai volentieri, la nottata diventava sempre più impegna‐ tiva. Ero quasi preoccupata: dovevo fare del mio meglio per re‐ sta​re sve​glia. - Vuoi pro​se​gui​re o no? Que​sta è la gran​de do​man​da. - Ma è assurdo. – risposi – per quale motivo, poi? Pure se an‐ diamo fino al mio paese, e ce ne vuole, io mica posso entrare in casa e dire “buongiorno!”, alle 4 di mattina. Ai miei gli piglia un col​po. Lui aveva fatto il pieno. Avevamo superato Battipaglia, ma non correva; il motore ronzava sornione, trascinandoci avanti, a fil di gas, ver​so quel​la not​te in​fi​ni​ta. - Ca​pi​sci, Pao​lo… che ci an​dia​mo a fare? - Per viag​gia​re! “Per… viag​gia​re!” Quelle poche sillabe fecero scattare qualcosa. Non so spiega‐ re. Qualcosa cambiò in me e la mia visione, di quella follia, pre‐ se tutt'altro significato. Nella mia testolina di ragazza (e non cer‐ to “gabbietta”), al contrario: piuttosto ero proprio io l’uccellino: sperduto in un firmamento, in una galassia, di pericoli… oppure di op​por​tu​ni​tà? di mi​ste​ri… op​pu​re di con​qui​ste? Mi si aprì davanti un orizzonte nuovo: erano quasi le due, 14


quando mi resi conto che stavo vivendo un’Avventura… E tutto cam​biò; e io stes​sa cam​biai! - Sì, andiamo: mi piace! – finalmente partecipavo; mi adagiai nelle mani di quel ragazzo già tanto uomo, e gli affidai volentie‐ ri la mia vita, sen​za fare do​man​de.

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UN PASSO DA CASA

Lio

He toi Dis-moi que tu m'ai​mes Meme si see'e​st un men​son​ge Et qu'on n'a pas une chanc​ e. Io non so se fu una mossa strategica oppure capitò per caso, però lui inserì una nuova cassetta e la prima canzone non pote‐ va essere più appropriata, per il mio stato d’animo. Il ritmo e la musicalità più adatte a far da colonna sonora della mia prima Av​ven​tu​ra. La cantante era Lio, una francese comparsa all'improvviso sul mer​ca​to ita​lia​no, al​lo​ra ebbe un suc​ces​so mon​dia​le. Riprese l’Autostrada, dalle parti di un paesino che si chiama Sicignano; costeggiammo, ad alta quota, il massiccio degli Al‐ bur​ni. 16


- Sai, questi posti li conosco come le mie tasche. – e mi prese la mano, io non la ri​ti​rai. Fuori, l’aria era fredda ma l’abitacolo era confortevole, come un salotto affacciato sul lungo nastro dell’autostrada, intorno solo il buio. Mi venne da pensare ai lupi, in quelle zone solitarie ce n’erano, eccome. Ma non per averne paura: pensai ai lupi come creature della notte, libere di attraversare boschi segreti che io non avrei co​no​sciu​to mai, li in​vi​diai. - Vengo spesso qui nel weekend, per salire in montagna o per esplorare grotte… sono iscritto al Club Alpino; strano per un na‐ po​le​ta​no “ve​ra​ce”, no? Sor​ri​si. - Lo sai che stanotte non sapevo dove dormire? – confessai, forse lo dissi per fargli capire che donna avventurosa stavo di‐ ven​tan​do pure io! Chiacchierammo, ridemmo e infine mi aprii. Gli parlai della mia vita, della famiglia, dei sogni nel cassetto… e mentre parla‐ vo, senza oppormi, lasciai che mi attirasse a sé, adagiandomi sul suo petto, forte e accogliente. Intendiamoci, niente di sconcio, era un abbraccio paterno, affettuoso! Mi ci tuffai come in un mare calmo e tiepido, godendone sorniona, come una gatta. Era da troppo tempo che non ricevevo più le coccole! Mi man‐ ca​va tan​to un ab​brac​cio così. La not​te cor​re​va, fuo​ri dal​la gros​sa ber​li​na; era​va​mo soli, tran​‐ ne qualche solitario e sonnacchioso camion, che arrancava nel buio. Riconobbi le luci di Sala Consilina! Quel matto di Paolo era sta​to di pa​ro​la: era​va​mo ve​ra​men​te a po​chi mi​nu​ti da casa! - Ma vuoi arrivarci sul serio? – adesso che eravamo così vicini ero a disagio; era giusto dare a quell'uomo tutte quelle notizie su di me? E io, cosa sapevo di lui? Ma la curiosità era troppa e poi, me​ri​ta​va un pre​mio per quel​la paz​zia. 17


Poco dopo, lentamente costeggiammo la stazione degli auto‐ bus, ce n’erano un paio, aspettavano pazienti di effettuare la loro cor​sa, pri​ma del​l’al​ba. Gli in​di​cai il mio via​let​to. Len​tis​si​mi pas​sam​mo da​van​ti a casa mia, la villetta era immersa nel buio, tranne che per la luce sul cancello e il lume sulla porta, dimenticato acceso, come al soli‐ to. Nessuna finestra era illuminata ma, in giardino, sparsi senza al​cun cri​te​rio, vidi al​cu​ni gio​cat​to​li dei miei fra​tel​li​ni; la pom​pa, adagiata sul prato, e poi: le biciclette. Quella di papà poggiava, tutta storta, sulla mia: dritta sulle ruote, ricoverata sotto il gaze‐ bo, sem​bra​va l’a​ves​si la​scia​ta li la sera pri​ma. - Guarda, - dissi – quella è la mia bici… - Intanto il cuore mi si strin​ge​va per la no​stal​gia e gli oc​chi si inu​mi​di​ro​no. Paolo non disse niente, però spense i fari e ci fermammo, po‐ chi metri più avanti. Avrei voluto saltare fuori e correre dentro: svegliare tutti, abbracciare tutti, ma ero troppo giovane per averne il coraggio… in seguito, la raccontai quell'avventura a mamma; in seguito, ripensandoci, mi sono sempre pentita di non es​se​re sce​sa da quel​l'au​to. - An​dia​mo? – dis​se lui, ap​pe​na mi fui ri​pre​sa.

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VAL D'AGRI

Il San​tua​rio sul mon​te

Mancava ancora un poco all'alba, mi venne un’idea: decisi di di​ven​ta​re par​te at​ti​va di quel​la gita in​cre​di​bi​le. - Vai di qua, ti voglio far vedere una cosa! – Strinsi i pugni e chiusi gli occhi, come una bambina che esprime un desiderio al suo com​plean​no. Fui pre​mia​ta e av​ven​ne un pic​co​lo mi​ra​co​lo. Viggiano dormiva, tranne che per i radi lampioni e per la fac‐ cia​ta del​la gran​de chie​sa, po​sta sul pun​to più alto del pae​se. E il gran​de por​ta​le di San​ta Ma​ria alle Mura era aper​to! Sa​pe​vo che quel fine set​ti​ma​na ci sa​reb​be sta​ta la pro​ces​sio​ne, avrebbe accompagnato la Madonna Nera al Santuario sulla montagna, me l’aveva ricordato mamma, al telefono. Come avevo sperato, la Chiesa non era chiusa. Da quando il Papa l’a‐ veva consacrata come Basilica era divenuta ancora più impor‐ 19


tan​te. La vista era magica; sperai con tutto il cuore di sorprendere Paolo e di mostrargli che non ero solo una piccola “cafoncella”; avevo un cuore, avevo una cultura e avevo i miei “luoghi”, ma‐ ga​ri non fan​ta​sma​go​ri​ci come la sua cit​tà, ma… come dire: me​ri​‐ te​vo​li. Io cre​do di es​ser​ci riu​sci​ta. Nel silenzio della notte, la chiesa si ergeva nel buio, più gran‐ de di quan​to ci si po​tes​se aspet​ta​re. La fac​cia​ta di mar​mo, im​po​‐ nen​te e se​ve​ra, ri​flet​te​va con so​brie​tà le luci dei lam​pio​ni del sa​‐ grato. La notte sopra di essa era ancora piena di stelle; ancora per poco il buio cercava di resistere alla luce. Dal portale ricco e decorato, si vedeva l’interno: una luce vivida, tutta d’oro, che ri‐ splen​de​va ver​so fuo​ri, sem​bra​va la por​ta del Pa​ra​di​so. - Vieni! – sorrisi e lo presi per mano. Salimmo in fretta la bel‐ la sca​lea ed en​tram​mo, la​scian​do​ci in​ghiot​ti​re dal​lo splen​do​re. Vicino all'altare, pronta nel suo tabernacolo enorme, la Ma‐ donna di Viggiano, ci guardava, con la sua espressione eterna‐ men​te se​re​na. Paolo la osservò a lungo, poi mi fece segno di aspettare. Uscì per rientrare poco dopo, aveva tra le mani un’ingombrante mac​chi​na fo​to​gra​fi​ca. - È bellissima, - disse – non credo di aver mai visto una ma‐ donna così bella… lei… è, ha qualcosa di magico. Un’espressione in​cre​di​bi​le… ma… come c’è fi​ni​ta quag​giù? Risi di cuore, vedendogli scattare mezzo rullino di fotografie. Paolo sembrava un pescatore che ha trovato una perla… in una “von​go​la”. A bassa voce, per non svegliare il giovane Sacrestano che dor‐ miva su una panca, gli narrai la storia o meglio, la leggenda del‐ la Statua miracolosa e della Festa, per cui arrivavano pellegrini da tut​to il mon​do. 20


Era​va​mo alti. Guardando attentamente verso est si intravvedeva il primo chia​ro​re. - Che fac​cia​mo ades​so? La richiesta di Paolo mi rincuorò. Nonostante quell'avventura mi fosse piaciuta, per tutta la notte, in segreto, avevo sempre avuto una lieve paura che, alla fine, si sarebbe comportato come tutti i ragazzi, insomma: che ci avesse “provato” o, co‐ munque, che cercasse di ottenere un qualche tipo di rapporto fisico. Il fatto che titubasse riguardo alle nostre prossime mosse lo rese un eroe, ai miei oc​chi. Mi sentii molto donna, nonostante non avessi ancora vent'an‐ ni, e con al fianco un vero uomo: uno che sapeva quando era il mo​men​to di fare le cose. In po​che pa​ro​le, un ido​lo! Non avevo il coraggio di fare proposte, insomma era un po’ colpa mia se avevamo perso tutta la notte, in giro per la Luca‐ nia… ma il suo viso s’il​lu​mi​nò: - Ma​ra​tea! Ecco: là vale la pena di an​dar​ci, per ve​de​re l’al​ba. - Tu sei un paz​zo… com​ple​ta​men​te paz​zo. Ri​de​vo men​tre sa​li​vo in mac​chi​na. Partimmo noi; partì anche la musicassetta più “giusta” per quel mo​men​to: Stay​in' Ali​ve dei Bee Gees, la co​lon​na so​no​ra de’ La feb​bre del sa​ba​to sera. Ero gasatissima, portavo il tempo con i piedi e con le mani, can​tic​chia​vo, vo​le​vo esplo​de​re… fare qual​co​sa… E mi ad​dor​men​tai sul se​di​le, dopo tre mi​nu​ti.

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CORSA NELLA NOTTE

Alfa Ro​meo 1750

La musica era cambiata; anche il ritmo del motore era diver‐ so, più ag​gres​si​vo. - Questo è proprio uno stronzo! – Paolo scalò di marcia, scen‐ dendo in seconda, il motore gridava e le ruote stridevano, cer‐ can​do di​spe​ra​ta​men​te di ri​ma​ne​re ag​grap​pa​te alla stra​da. Quan​do tor​nai alla real​tà, vidi due luci ros​se da​van​ti a noi, ma invece di allontanarsi si avvicinavano vertiginosamente. Col “becco” della nostra macchina eravamo quasi addosso a un’auto scura; rombava peggio e più della nostra, e ci precedeva a forte ve​lo​ci​tà. Alla curva successiva, dopo una botta di freno, venni sbalzata in avanti sul sedile, poi mi ritrovai, subito dopo, di nuovo 22


schiacciata sullo schienale, per l’accelerazione. Paolo aveva scar‐ ta​to ver​so si​ni​stra e, con un bal​zo inat​te​so, ave​va su​pe​ra​to l’al​tro con​ten​den​te. Quei due matti stavano tirando, e io ero terrorizzata. Paolo, invece, aveva lo sguardo attento e cattivo, e sorrideva legger‐ men​te bef​far​do. - Idiota. – disse tra sé, mentre allungava la distanza tra loro due. Però l’altra macchina non dava alcun segno di voler cedere e ab​ban​do​na​re quel​la sfi​da, stu​pi​da e pe​ri​co​lo​sa. Tentò di superarci due volte, nonostante i tornanti stretti che scendevano verso il fondovalle. Purtroppo per me, poche centi‐ naia di metri dopo, le curve terminarono e le due macchine si trovarono davanti un lungo rettilineo. Incurante del fatto che stava invadendo la corsia contromano, quell’altro cretino, rom‐ ban​do, ci af​fian​cò cer​can​do di sor​pas​sar​ci. - Idio​ta al qua​dra​to, que​sto vuo​le mo​ri​re. - E allora lascia che muoia, - dissi impaurita - ti prego, ti pre‐ go, ral​len​ta! - Stai tran​quil​la, - sor​ri​se sen​za scom​por​si. - Tran​quil​la un cor​no, sie​te due paz​zi. In pochi secondi eravamo arrivati a quasi 150 km/h, e Paolo an​co​ra ac​ce​le​ra​va. Lo pre​si per la spal​la, cer​can​do di es​se​re de​li​‐ ca​ta. - Ti pre​go, ti pre​go, ho pau​ra… Lui mi guardò come niente fosse, però tolse il piede dall’acce‐ leratore; l’altro imbecille diede due colpetti col clacson, rientrò nella corsia davanti a noi, per poi infilarsi, sempre a velocità de‐ menziale, nel condotto che indicava “direzione Salerno”. Noi rallentammo, seguendo tranquillamente un lungo tornante, ci pre​pa​ram​mo per scen​de​re an​co​ra più a sud. Ricordo che ci fermò la Polizia stradale, praticamente subito. Paolo scese dall'auto; qualcuno fece luce con la pila verso il mio 23


viso. Quando ripartimmo, Paolo che sorrideva sempre, disse che gli agenti avevano controllato gli pneumatici: “dotto’ andate più pia​no che se no vi si squa​glia​no le gom​me!” A Ma​ra​tea ci ar​ri​vam​mo che il sole era già sor​to. So​stam​mo su un piazzale da cui si vedeva il mare. Aprimmo un po’ i finestri‐ ni e l’odore di salsedine ci raggiunse dalla scogliera. Mano nella mano, di​strut​ti, ci ad​dor​men​tam​mo come due bam​bi​ni.

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ED È SUBITO AUTUNNO

Ri​cor​dan​do...

- E poi? - Francesca era stupefatta. Aveva seguito il racconto della nonna come si segue un film: la bocca semiaperta, le mani attaccate ai braccioli della poltrona. Il suo tè si è raffreddato, sen​za che la ra​gaz​za si fos​se ri​cor​da​ta di ber​lo. - E poi… e poi… Nien​te. Che ti cre​de​vi fi​glia mia? - Ve​lia sor​ri​se con la sua in​na​ta dol​cez​za, la ni​po​te si ri​pre​se e, pra​ti​ca​men​te, le sal​tò ad​dos​so per ab​brac​ciar​la e strin​ger​la sé. - Eh, statti ferma, vedi di farmi pure cadere, adesso. - Ma la vecchia rideva, felice di aver sorpreso la nipote, di averle confi‐ dato uno stralcio del suo passato che lei non poteva immagina‐ 25


re. - E dim​mi, e il non​no, buo​na​ni​ma, il non​no che di​ce​va? - Ma che scemina! Cosa vuoi che dicesse? Nemmeno lo cono‐ scevo, o meglio: lo conoscevo di vista, ma neanche immaginavo che un gior​no lo avrei spo​sa​to. Il te​le​fo​no di Fran​ce​sca squil​lò. - Eccolo, nonna. Questo dev'essere il signore che mi darà un pas​sag​gio. Ti ho scrit​to il suo nu​me​ro sul bloc​co in cu​ci​na… Non si può mai sa​pe​re, però: stai tran​quil​la. La salutò con due potenti baci sulle guance e, prima di uscire, le strin​se le mani fis​san​do​la ne​gli oc​chi. - E chi lo sa: magari mi succede pure a me di vivere un’avven‐ tu​ra… Scappò per le scale ridendo rumorosamente, con una cartella in una mano e il giub​bi​no nel​l’al​tra. La nonna si precipitò verso la finestra, sperava di avere fortu‐ na e di vedere l’ospite di Francesca. Quello che vide la tranquil‐ lizzò: ad attenderla, c’era un signore sulla cinquantina, ben ve‐ stito, ma soprattutto, dal finestrino della macchina grigia, si in‐ travedeva perfettamente un volto femminile… Chissà forse un’al​tra per​so​na che ave​va bi​so​gno di un pas​sag​gio. Fran​ce​sca si pre​sen​tò. - Bene io sono Carlo, accomodati dietro. Questa è mia mo‐ glie, Dolores. Anche noi abbiamo una figlia che va all'università, al pri​mo anno… Carlo salì in macchina e subito partirono. Francesca sorrise, gen​ti​le ma leg​ger​men​te de​lu​sa, dopo lo scioc​can​te rac​con​to del​‐ la sua adorata nonna, aveva lasciato partire la fantasia. La realtà, invece, era assai più banale e, purtroppo, anche più amara… e proprio su questo si concentrò: tra poco più di un’ora, avrebbe avuto di fronte il professor Esposito, assai poco principe e men che meno az​zur​ro! 26


*** Ve​lia ades​so era sola. Ri​por​tò le taz​ze in cu​ci​na e si ac​cor​se che era​no an​co​ra pie​ne. Non le andava di accendere la televisione quel giorno; si acco‐ stò nuovamente alla finestra, stavolta cercando quel lembo di mare che si in​tra​ve​de​va in lon​ta​nan​za. Il suo ri​cor​do era as​sai più vi​vi​do di quan​to sua ni​po​te po​tes​se immaginare; assai più importante di quanto il suo povero mari‐ to avrebbe potuto mai sapere. Il resto di quella storia non era per nessuno, l’aveva scritto in una pagina del cuore, cui sola‐ men​te lei ave​va ac​ces​so. Tor​nò a quel​l'e​sta​te lon​ta​na. Inventando mille scuse e imbastendo mille sotterfugi, Velia l’aveva passata praticamente sempre con Paolo. Per oltre due mesi avevano fatto coppia, vivendo un rapporto intenso e pas‐ sio​na​le. Cambiavano case, ospiti degli amici. Cambiavano letto ogni not​te… Girarono per l’Italia, raggiungendo le più disparate località di villeggiatura. Posti che lei nemmeno conosceva; ma Paolo ave‐ va mol​ti ami​ci. An​che lei cam​biò, e di​ven​ne una don​na. Si amarono, senza limiti, senza freni, per due lunghi, intensi, mesi. Ve​lia co​nob​be il pia​ce​re pro​prio tra le sue brac​cia… Ma poi tutto ebbe fine. Ne soffrì, tornando presto la creatura si​len​zio​sa e ri​ser​va​ta che era sem​pre sta​ta. Più tardi, col passare degli anni, aveva capito che era giusto così. Forse loro non erano tanto diversi ma le loro vite erano trop​po di​stan​ti per po​ter​si in​trec​cia​re. 27


Stanca, tornò alla sua poltrona preferita e si addormentò, so‐ gnan​do una cor​sa nel​la not​te, alla fine del​la sua Pri​ma​ve​ra.

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