I peccatori

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Giovanna S.

I peccatori Racconto breve


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© Giovanna S. - 2014


"meglio per lui non essere mai nato o, una volta nato, morire giovinetto" Sileno (Erodoto - VII secolo a. C.)

Gianni era a disagio. Il ragazzo aveva scoperto il disagio da poco... non lo sapeva gestire, poverino. Si agitava sulla seggiola, mentre i piedini levitavano a mezz'aria. Che razza di castigo era quello? La mamma sorrideva pacifica, a un palmo da lui. Erano nella grande chiesa del paese: altissima, scura, incuteva quasi paura. Niente a che vedere con la domenica mattina: allora c’era piÚ luce; c’erano gli altri ragazzi; il prete che parlava ad alta voce, la gente che rispondeva a tono e, a volte, cantava.


Ma quella sera, la chiesa quasi vuota, lo metteva a disagio. «Ormai sei grande.» gli dicevano tutti, condiscendenti, con una specie di velata complicità. «Devi fare la prima Comunione, certo... ma prima ti devi: Confessare!» Confessare? Che parola complicata... implicava già un giudizio. Certo i “grandi” dovevano avere scoperto tutte le sue marachelle. Lontano da lui, nella navata più buia, un bambino si stava confessando... almeno così sembrava, tra le ombre indistinte del piccolo costrutto di legno tutto nero. Là dentro avrebbe dovuto esserci don Franco; lui lo conosceva: un pezzo d’uomo, sempre dolce e gentile. Ma ne poteva essere sicuro? Sua madre al suo fianco sembrava convinta... Gianni incrociò le dita. Il suo pensiero volò via, si allontanò dalla lugubre serie di archi e navate, per raggiungere veloce lo spazio profondo. Gianni tornò ad essere onnipotente, invincibile: illimitato. “Per prima cosa” pensò, guardando dall'alto il suo piccolo paese e identificando con la supervista la minuscola cattedrale “devo spostare quella chiesa! Anzi no: la faccio proprio sparire con il raggio Laser!” «Thud; thud; thud.» I colpi precisi, luminosi come saette, fecero sì che dal campanile si spargesse un’esplosione accecante. Dopo la chiesa era ancora al suo posto. Ma Gianni era già implicato in altre missioni, e quello era un particolare del tutto secondario. Aveva troppe cose a cui pensare...


Con Umberto, il suo quarto, migliore, amico del cuore, erano già organizzati a puntino: in tenuta antisommossa la mattina dopo, sarebbero rimasti sul bus. Nessuno li avrebbe notati, perché si sarebbero resi invisibili, l’un l’altro. Appena soli, la missione era semplice: smontare l’autobus in piccoli pezzi, da lasciare accatastati sul marciapiedi, appena fuori di scuola. Avrebbero iniziato dai 24 seggiolini. Forse era quest'azione di guerriglia ad essere stata "sgamata" dai grandi... forse era questo che doveva confessare? Gianni atterrò rapidamente in parrocchia. Sua mamma adesso si era alzata e parlava fitto, fitto con Assunta, la vicina di casa. C’era ancora tempo: Gianni partì per l’Oceano Indiano. Gli squali gli avevano sempre provocato una certa apprensione. Non aveva paura di morire, era il fatto di essere mangiato che proprio non gli andava a genio. Lui era morto già un sacco di volte. I suoi amici gli avevano sparato; lo avevano accoltellato; fulminato; bombardato. Una volta lo avevano persino sepolto, con tanto di cerimonia e trombette che suonavano in suo onore. Ma essere mangiato doveva essere orribile. E poi, che schifo! Si sa quello che si mangia che fine fa... puah! Ma Gianni non aveva paura: un colpo secco sull’Omnitrix saldamente fissato al suo polso, gli permise di trasformarsi in una specie di tartarugone gigante, inattaccabile dai denti dello squalo tigre.


«Guarda» disse sua mamma toccandogli il ginocchio «Teresina ha appena finito; dovresti vergognarti: sei un maschietto tu!» Gianni seguì attento le mosse della sua amichetta. Camminava lenta, lenta, con le mani giunte e la faccia che guardava per terra. Invece di correre fuori a giocare, raggiunse mogia, mogia il primo scranno. S’inginocchiò e, probabilmente, cominciò a pregare. La madre la controllava, curiosa, da poco lontano. L’atmosfera cupa e Teresina addolorata, rattristarono Gianni. «Ecco, adesso va Antonio, dopo tocca a te. Speriamo di sbrigarci, che devo ancora comprare l’olio.» disse sua madre. Gianni la ignorò e corse in fondo alla chiesa, andò a rivisitare per l’ennesima volta la cappella più bella, la sua preferita: Gabriele l’Arcangelo, vestito di una sgargiante armatura, che assoggettava il Drago. Questo si che era uno tosto... sembrava quasi posticcio in una chiesa: Gabriele era un uomo d’azione. Un eroe! Gianni, tornò in missione: era il suo destino. Stavolta era Gabriele ad avere bisogno di lui. Con un gesto semplice, già provato più volte, Gianni si fece spuntare le ali e raggiunse l’Arcangelo, senza troppe difficoltà. Aveva lunga dimestichezza col volo. Su un vecchio sgabello del nonno, fin da quando era un bambino piccolo, suo padre lo posizionava a pancia sotto e lui volava, senza intoppi, nei cieli più inaccessibili. Ora erano tra le nubi, solo loro due, pronti a combattere le forze del Male. Il drago era li, da qualche parte: li aspettava. Lo scovarono e lo fecero a pezzi con le spade d’argento. Con il clangore delle armi che ancora riecheggiava nelle orecchie... Gianni atterrò, direttamente in chiesa.


Sedette al fianco di sua madre. Era nuovamente a disagio. Le campane della chiesa suonarono all'improvviso. Dovevano essere le sette. Il suono mistico aggiunse un pizzico di gioia all'ambiente cupo e freddo. "Incorreggibile Quasimodo", pensò Gianni tra sé. Lo aveva conosciuto qualche anno prima, durante un cartone animato. Un tipo simpatico: uno giusto. Nonostante la gobba, se la sapeva cavare per i soffitti, e tra le garguglie. Da lui, Gianni, aveva imparato a non temere più i mostri, per quanto brutti potessero presentarsi: lui non li temeva più! Era grande, praticamente... Solo questo incontrollabile passaggio della “confessione” lo annichiliva. Non riusciva a capire a che prova si sarebbe mai dovuto sottoporre, nessuno dei suoi supereroi gliene aveva mai parlato. Tranquilla, Teresa, gli passò vicino, seguita da sua mamma. Lui avrebbe voluto fermarla, saltarle addosso, minacciarla, affinché gli dicesse tutta la verità: ma la bambina passò oltre, solenne, senza degnarlo di uno sguardo e con un'aria di superiorità. “Ah, le donne!” pensò. Ormai Antonio stava quasi per finire. «Ma insomma, mamma, che diavolo devo dire a quel prete?» Certo sua mamma era solo una donna, ma suo padre, quando lui aveva sfiorato l’argomento aveva riso, lo prendeva in giro. Traditore! La mamma gli sorrise, delicata:


«Ma niente, Gianni, te lo chiede lui. Tu devi solo rispondere alle domande di padre Franco, devi dire la verità. Tutto qui!» “E hai detto niente?” pensò il ragazzo. E se mi ha sentito quando insieme a Marcello, ci ha preso la risarella e siamo dovuti scappare in Sacrestia? Un pensiero lo assalì: orribile, tremendo, fulminante in tutta la sua potenza peccaminosa. E se don Franco gli chiedeva della figlia del droghiere? Lui e Marcello, l’avevano spiata tre volte, dal finestrino del bagno che dava sulla campagna... ogni volta Gianni aveva avuto il mal di testa, dopo quello che aveva visto: i grandi seni, il sedere chiaro e quella parte scura... Le budella gli si attorcigliarono nella pancia. Adesso toccava a lui. Per la prima volta in vita sua, Gianni sperimentò la solitudine: era solo, mentre attraversava quello spazio infinito dallo sgabello al confessionale. Né mamma, né papà erano con lui, i suoi amici più fidati lo avevano lasciato solo. Nemmeno don Franco si vedeva, nascosto nel buio del Confessionale. Si sentì al centro della chiesa enorme; si sentì osservato. Persino i quadri, le statue antiche adesso, prendevano vita per seguirlo nel suo cammino. Povero Gianni. Si trascinò sul pavimento lucido e finì inginocchiato davanti a una grata a forma di croce. L’odore di vecchio, tipico delle chiese, lo assalì, caricandolo di un peso che non aveva mai conosciuto. Non sapeva se il prete si era già accorto di lui...


Nonostante la chiesa fosse silenziosa, adesso, stentava a sentire le prime parole che il sacerdote gli rivolse. Era difficile credere che, nascosto dall'altro lato della grata, ci fosse don Franco. Lui lo conosceva bene. La sua voce arrivava quasi salmodiante, sinuosa, seguendo degli alti e bassi musicali. Recitava formule che Gianni non capiva: confuso e impaurito, più da sé stesso che da ciò che lo circondava. Poi cominciarono le domande. Aveva ragione di essere a disagio... in pochi minuti imparò cose di cui prima aveva solo sentito parlare. Imparò il peccato e la menzogna. Imparò la vergogna e il disgusto di sé... quello che, subdolamente, lo coglieva solo dopo aver portato a compimento il suo peccato. E il suo peccare, era impossibile da dominare. Un meccanismo misterioso che, anche da grande, non avrebbe mai capito: essere sé stessi era peccato. Seguire i propri istinti: era peccato. Provare piacere: era peccato. Anche vivere era quasi peccato, ma veniva tollerato, accettando però che l’uomo è un essere miserabile che pecca, sempre, qualsiasi cosa faccia. Gianni si vergognò ma disse al prete quasi tutto. Persino peccati che non aveva commesso. Si vergognò del suo corpo. Di quando, giocando con Teresa, erano stati tanto vicini (per nascondersi o per sorprendere qualcuno): lui aveva avuto delle reazioni incontrollate nel basso ventre e la ragazzina, misteriosamente, aveva spinto il suo corpo a favore di lui, sorprendendolo. La catastrofe che si aspettava, però, non venne mai.


Don Franco non sembrò sorpreso e nemmeno troppo interessato ai suoi misfatti. Anzi, Gianni ebbe la netta sensazione che il prete fosse annoiato; infatti in fretta e furia, terminò le sue formule sussurrate, e poi gli diede la penitenza. Una serie di piccole preghiere da eseguire, prima di poter ricevere la comunione, la domenica successiva. Il prete venne fuori dalla piccola struttura. Fece una carezza a Gianni, disinteressandosi subito a lui, per salutare invece sua madre. Forse per discutere con lei degli ultimi dettagli. “Tutto qui?” pensò Gianni deluso. Le statue erano tornate a posto e i quadri avevano perso ogni interesse nei suoi confronti. Solo Gabriele, l’Arcangelo, se ne stava un po’ sulle sue. Gianni capì che non avrebbe più giocato con lui. E nemmeno tanti altri personaggi, amici immaginari, della cui concretezza non aveva mai dubitato, prima. Persino la mano di sua mamma, che tenne tra le dita uscendo dalla chiesa era diversa, meno invincibile, meno certa. Il povero Gianni aveva perso l’immortalità. Iniziò la sua agonia quella sera stessa e si spense serenamente, o quasi, 59 anni dopo.

FINE

© Giovanna S. - 2014



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