GIOVANNI SCARAFILE
IN LOTTA CON IL DRAGO. MALE E INDIVIDUO NELLA TEODICEA DI G.W. LEIBNIZ
2007 Edizioni Milella – LECCE
Ai testimoni della resistenza di fronte al drago.
RINGRAZIAMENTI Sono grato al prof. Mario Signore, il quale sin dagli anni del dottorato, ha incoraggiato e seguito, con sguardo benevolo e discreto, la ricerca qui presentata. Desidero, inoltre, ringraziare la prof.ssa Maria Rosa Antognazza (King’s College, London), il prof. Domenico Antonino Conci (Università degli Studi di Siena), il prof. Roberto Diodato (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) che hanno messo a mia disposizione importanti risorse bibliografiche. Di alcuni aspetti di questa ricerca ho discusso, in occasioni diverse, con il prof. Andrea Poma (Università degli Studi di Torino), con il prof. Virgilio Melchiorre (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) e con il prof. Marcelo Dascal (Tel Aviv University). Ad essi va la mia stima ed il mio sentito ringraziamento. È superfluo precisare che ogni eventuale errore contenuto in questo volume è imputabile solo al sottoscritto. G.S.
SIGLE E ABBREVIAZIONI A: Sämtliche Schriften und Briefe. Editi dal 1923 da diversi centri di Ricerca su Leibniz in Germania, Akademie Verlag, Berlin. C: Opuscules et fragments inédits, Editi da L. Couturat, Felix Alcan, Paris 1903 ; rist. Hildesheim, Georg Olms, 1961. DA : The Art of Controversies and Other Writings in Dialectics and Logic, Translated by M. Dascal con Q. Racionero and A. Cardoso, Dordrecht 2006. FdCNL: L.A. Foucher de Careil, Nouvelles lettres et opuscules inédits de Leibniz, Parigi, A. Durand, 1857 (rist. Hildesheim, 1971). GM: Leibnizens Mathematische Schriften, Herausgegeben Von C.I. Gerhardt, Halle, 1849-1863 (rist. Hildescheim, 1969). GP: Die philosophischen Schriften von Gottfried Wilhelm Leibniz, hg. von C.I. Gerhardt, 7 voll., Weidmann, Berlino, 1875ss. (rist. Hildesheim, 1961). GR: G.W. Leibniz, Lettres inédit d’après les manuscrits de la Bibliothèque provinciale de Hanovre, publiés et annotés par G. Grua, 2 voll., Paris, Presse Universitaires de France, 1948. Dei brani citati, formattati con carattere specifico, viene data in nota la versione in lingua originale talis qualis, preceduta dalla sigla dell’opera da cui la citazione è tratta.
ALTRE EDIZIONI DELLE OPERE DI LEIBNIZ CITATE IN QUESTO VOLUME: L. Dutens (Ed.), G.G. Leibnitii Opera Omnia, Geneva 1768. G.W. Leibniz, Disputazione metafisica sul principio di individuazione, con prefazione di Jacob Thomasius Origine della controversia sul Principio di Individuazione, a cura di Giovanni Aliberti, presentazione di F. Barone, Levante Editori, Bari 1999. G.W. Leibniz, Scritti filosofici, UTET, Torino 1968 G.W. Leibniz, Vita Leibnitii a se ipso breviter delineata in G.E. Guhrauer, Gottfried Wilhelm Freiherr von Leibnitz. Eine Biographie, Bd. 2, Breslau 1846 [rist. fot. Hildesheim 1966] I. Jagodinski, Leibniziana. Elementa Philosophiae arcanae de summa rerum, Mit. russ. Ăœbers. hrsg. v. I., Jagodinski, Kazan 1913; tr. it., G.W. Leibniz, Saggi filosofici e lettere, Laterza, Bari-Roma 1963.
PRO-LOGO La metafisica è quel ramo della conoscenza che ha di fronte problemi dei quali non viene a capo. Ora, la teodicea è esattamente questo in maniera esemplare […]. Avere problemi dei quali non si viene a capo, se è spiacevole dal punto di vista teoretico-scientifico, è tuttavia normale dal punto di vista dell’uomo. […] Esistono problemi umani in rapporto ai quali sarebbe anti-umano, e dunque un errore nell’arte del vivere, non averli, mentre sarebbe ultraumano, dunque un errore nell’arte del vivere, il risolverli. […] Metafisici di professione sono coloro che hanno appreso accuratamente e con successo a non sbarazzarsi dei problemi: in ciò consiste il loro valore. Certamente, chi ad un problema non dia alcuna risposta, si lascerà sfuggire in definitiva il problema stesso, e questo non va bene. Chi, invece, ad un problema dia una sola risposta, crederà di averlo risolto, finendo facilmente col diventare un dogmatico, e anche questo non va bene. La cosa migliore è di dare anche troppe risposte. Ciò, ad esempio, in rapporto alla teodicea, conserva il problema, senza effettivamente risolverlo. […] Pericolosi sono tanto l’astenersi dal rispondere, quanto il monismo della risposta. […] In definitiva, quanto alla metafisica le cose stanno così come quel cacciatore di leoni amico dei leoni che, interrogato su quanti leoni avesse già abbattuto, poteva ammettere: «Nessuno», ricevendo in cambio questa consolante risposta: «Coi leoni è già molto». Proprio così capita alla metafisica […] ed anche alla teodicea; dei suoi problemi essa non ne ha risolto «nessuno». E, tuttavia, «per gli uomini questo è già molto». O. Marquard
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1. SGUARDO INTRODUTTIVO. IN CERCA DEL DRAGO 1. Teodicea e Filosofia Non c’è teodicea senza filosofia, non c’è filosofia senza teodicea. La posizione di tale tesi può risultare improvvida e certo essa necessita di prove senza le quali rischia ineluttabilmente di ridursi a sterile enunciazione. Alla individuazione di tali prove è rivolta la ricerca qui presentata. Il conio del termine “teodicea” (da theós, Dio e díke, giustizia), con cui si indica il tentativo di pensare in maniera sistematica Dio e il male, risale all’opera di Gottfried Wilhelm Leibniz. Non è privo di importanza che negli Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et l’origine du mal, pubblicati nel 1710, il termine “teodicea” ricorra solo nel titolo. In questa scelta, è senz’altro ravvisabile l’avvertimento che la teodicea propriamente detta non può essere racchiusa in un singolo paragrafo o capitolo, quanto piuttosto dall’insieme delle numerosissime questioni insite nel nesso Dio-male. È, comunque, sorprendente come una tale coincidenza di un plesso articolato di questioni in un termine per opera di un filosofo, abbia potuto produrre, per una sorta di eterogenesi dei fini, un esonero della filosofia nei confronti di quelle stesse questioni. Inoltre, il credito, non sempre meritato, di cui hanno goduto le critiche mosse alla teodicea, non solo nella sua versione leibniziana, ha ottenuto il non trascurabile effetto di rendere in un certo senso “superfluo” il testo di Leibniz. Sin da subito, a partire dai celebri strali polemici mossi da Voltaire, si è creata una situazione per certi versi paradossale, che non sembra essere venuta meno nemmeno oggi: ci si riferisce alla teodicea quasi esclusivamente per via negativa, per ciò che essa non è riuscita ad ottenere, tralasciando di considerare se il suo presunto fallimento sia dovuto effettivamente a cause endogene e non piuttosto ad un domandare improprio.
14 Nello specifico, con riferimento a Leibniz, questa accennata rimozione ha di fatto reso nulla la possibilità di cogliere la connessione tra i singoli aspetti della teodicea e la restante elaborazione filosofica del filosofo di Lipsia, facendo con ciò torto non solo e non tanto a Leibniz, ma alla filosofia stessa, deprivata in tal modo di una sua componente erroneamente considerata accessoria. Al culmine di questo processo, la teodicea è diventata una sorta di riserva indiana, all’interno della quale gli studiosi sono liberi di esercitare il proprio specialismo, richiesto per entrare nei meandri delle intricate questioni. Tuttavia, l’esito di una teodicea ridotta esclusivamente a specialismo non può non indurre un qualche sentimento di tristezza di fronte all’impoverimento dell’istanza, vitale in ogni filosofare, di attualizzazione dei problemi dai quali filosofia, prima e teodicea, poi sono scaturiti. Credo fermamente sia condizione di possibilità di un pensare rigoroso il richiamo a quella «esigenza – riferita, tra gli altri, da Cristin - per il pensiero di ascoltare, proprio in base all’esperienza filosofica del nostro presente, ciò che Leibniz può dirci oggi. Riuscire cioè a capire se c’è qualcosa nel suo pensiero che tocchi la tonalità di pensiero della nostra epoca»1. La grande opportunità che si profila davanti ai nostri occhi sta, dunque, nell’uscire dalla riserva. Alcuni ritengono, erroneamente a mio avviso, che una tale estroversione contaminante corrisponda ipso facto ad una banalizzazione e depotenziamento dell’impresa filosofica che invece sarebbe garantita dal costante stazionamento presso la polvere degli archivi. Una preoccupazione di questo genere non è del tutto infondata, ma il modo in cui si può farvi fronte non consiste in un accrescimento dell’isolamento nel proprio specialismo, ma nel
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R. Cristin, La camera oscura. Implicazioni e complicazioni del soggetto in Leibniz, «aut aut», n. 254-255, marzo-giugno 1993, p. 161. Si veda anche F. Costa, Attualità della teodicea? in «Filosofia e Teologia», Anno VII, n.1/1993, pp. 223-250; L. Russell, What is living and what is dead in the philosophy of Leibniz, Edizioni di filosofia, Torino 1970.
15 tentativo sempre rinnovato di tradurre quello specialismo in risposta di senso ai problemi presenti nella coscienza di ogni uomo. Mi chiedo spesso come si possa esercitare la filosofia, quando essa non sia intesa secondo quanto denunciato da Platone parlando di «verniciatura di formule»2, e nel contempo rimanere indifferenti alla vera e propria fame di senso scaturente dal cuore di ogni uomo posto dinnanzi allo scandalo della sofferenza (questa è, in fondo, la teodicea)? Ha, molto significativamente, osservato in tal proposito Zarone: «Allorché la filosofia è divenuta il suo passato, come cosa quasi naturale e tacitamente ammessa dai più, essa medesima probabilmente si accinge a passare. E quando all’orizzonte autorevole e insistente appare l’invito filosofico a badare prima di tutto agli archivi ed agli inventari, è evidente che l’improbabile futuro del concetto dovrebbe dipendere solo più dall’imperativo a narrare ciò che una volta da altri fu concepito. Tuttavia il concetto ha pure diritto ad un futuro; e se è così, pare ovvio sospettare che la conoscenza a-venire non apparterrà alla filosofia, o per lo meno a questa filosofia»3. Appare evidente che, se si vuole assumere sul serio quanto precede, occorre preventivare una differente collocazione per l’impresa filosofica rispetto alla filodossia, rifacendosi per esempio ad uno statuto del comprendere che consenta, espletati i compiti di una ricerca ben fondata dal punto di vista filologico, di afferrare non soltanto un aspetto specifico della filosofia di un singolo filosofo, ma anche e soprattutto «l’intenzione totale»4 sottesa a quella filosofia ed in qualche modo costituente lo sfondo da cui il problema di volta in volta studiato in sede critica proviene. Orientare la ricerca in questo senso richiede una forma di arretramento del cercare, ossia riuscire a 2
Platone, Lettera VII, 340d. G. Zarone, Il discorso e la parola. parabole del senso tra Atene e Gerusalemme, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1997, p. 169. 4 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 27: «Si tratta di ritrovare ... la formula di un unico comportamento nei confronti dell’altro [...] una certa maniera di plasmare il mondo, che lo storico deve essere capace di riprendere e di assumere». 3
16 recuperare la scaturigine del senso (Sinngenesis) da cui è emersa la stessa dottrina studiata. Tale regressus ad originem è condizione per spingere la ricerca sempre più in là, al di là del già visto, realizzando così il necessario progressus ad futurum. Quanto qui accennato, e all’interno del volume posto in essere, può essere indicato come «ripetizione del problema fondamentale»5, locuzione con cui Heidegger intendeva riferirsi alla esigenza di un nuovo posizionamento di fronte al testo in grado di esplicitarne ogni intima dimensione. È così dunque che pensare un autore può divenire pensare con un autore secondo un itinerario di fedeltà consistente non tanto nel ricalcare le orme, quanto piuttosto nell’individuazione del senso di quelle impronte e nella prosecuzione lungo quel cammino. Procedere in questa direzione, ancor prima di essere una esigenza individuale o l’espressione di un corretto approccio ermeneutico, risponde ad un bisogno di coerenza rispetto a quanto scritto dallo stesso Leibniz: «Q u i m e n o n n i s i e d i t i s n o v i t , n o n n o v i t »6, chiunque mi conosca solo dai miei scritti, non mi conosce affatto. C’è teodicea, allora, se e quando c’è filosofia.
2. Aspetti della teodicea Nella definizione di teodicea convergono numerosi fattori. Il primo di essi è l’intento apologetico. Si è talvolta voluto raffigurare tale intento facendo ricorso alla immagine del processo
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M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, RomaBari 1981, p. 177: «Per ripetizione di un problema fondamentale intendiamo l’esplicitazione delle sue possibilità originarie ancora nascoste. Nella messa in opera di tali possibilità, il problema si trasforma; ma questo è il solo modo per salvaguardarne il contenuto problematico. Salvaguardare un problema significa, peraltro, mantener libere e deste quelle forze interne che lo rendono possibile come problema, nel fondo della sua essenza». 6 L’affermazione è contenuta nella lettera a Placcius del 21 Febbraio 1696 (cf. L. Dutens (Ed.), G.G. Leibnitii Opera Omnia, Geneva 1768, VI, I, p. 65).
17 contro Dio7, il cui esito – scontato proprio in virtù della istanza apologetica – è costituito da una assoluzione dell’Imputato con formula piena. Un tale pre-giudizio non è dovuto ad una corruzione della ragione, ovvero in una marginalizzazione delle risorse razionali, ma diviene piuttosto rinnovata attenzione alle istanze di fondazione della ragione su cui l’intero impianto della teodicea si regge. Su questo versante, «la teodicea diviene dunque la logodicea»8. Una prima conseguenza in tal senso sta nella esigenza di taluni requisiti di base, quali la coerenza logica, il principio di non contraddizione, la totalità sistematica. Per loro tramite, si assumono proposizioni univoche quali l’esistenza, la bontà, l’onniscienza, l’onnipotenza di Dio. La costanza di attribuzione di tali attributi a Dio è fuori discussione, dato che procedere altrimenti equivarrebbe ad una messa in crisi del paradigma classico mediante cui Dio è stato pensato dalla tradizione filosofica cui Leibniz ampiamente si riferisce. Pertanto, la giustificazione di Dio può esplicitarsi in numerose direzioni, oscillanti dalla riflessione sulla ragione stessa sino alla delineazione di una dottrina della giustizia di Dio9. Qualunque sia l’approccio scelto, l’articolazione del compito risulta di non immediato conseguimento, dato che la stessa presenza del male è lungi dal poter essere accettata senza con ciò accrescere i 7
In questo senso, si colloca lo scritto di E. Wiesel, Il processo di Shamgorod, (Giuntina, Firenze 1982) in cui, in modo narrativo, prende forma la specifica posizione ebraica in materia di teodicea. Tale posizione viene esposta, inoltre, in H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Marietti, Genova 1993. 8 E. Cassirer, Cartesio e Leibniz, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 346, sottolineatura mia. 9 In quest’ultimo senso, la teodicea costituisce la dottrina ontoteologica della giustizia di Dio. Su questo aspetto, rilevanti le osservazioni di Paul Ricoeur e H. Häring. Cf. P. Ricoeur, Le mal. Un défi à la philosophie et à la théologie, Labor et Fides, Ginevra 1986; H. Häring, Das Problem des Böse in der Theologie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1985.
18 problemi che dalla sua acritica assunzione si verrebbero a determinare. È proprio il ricorso ai già accennati attributi di Dio a non consentire di riferirsi a cuor leggero alla presenza del male. Parlare di presenza, infatti, implica l’ipostatizzazione, la sostanzializzazione del male stesso, con ciò contraddicendo quanto l’eredità filosofica aveva sancito, ovvero la assoluta equiparazione tra ogni sostanza e il bene, secondo il noto avvertimento di Agostino: «Dio ha fatto molto buone tutte le cose»10; ed ancora: «Il male […] di cui cercavo l’origine non è una sostanza, perché qualora fosse una sostanza 10
Augustinus Aurelius, De Genesi contra Manichaeos libri duo, 2, 29; La Genesi difesa contro i manichei, 2, 29, Città Nuova, Roma 1988. Id., De Genesi ad Litteram imperfectus liber, I, 3; Libro incompiuto su la Genesi, Città Nuova, Roma 1988, p. 201: «Tutte le cose fatte da Dio sono molto buone; non esistono, al contrario, nature cattive, ma tutto ciò che noi chiamiamo male o è peccato o castigo del peccato. Il peccato poi non è altro che il libero consenso della volontà al male, quando propendiamo verso ciò che è vietato dalla giustizia o da cui abbiamo la possibilità di astenerci. In altre parole: il peccato non sta nelle cose stesse ma nel loro uso illegittimo»; nel De Civitate Dei, XI, 9, La città di Dio, Rusconi, Milano 1984: «Non c'è natura del male»; XII, 4: «È invece ridicolo considerare riprovevoli le corruzioni degli animali, delle piante e delle altre cose mutabili e mortali […]. Tali nature hanno ricevuto con un atto del Creatore la loro misura, in modo che, nel loro continuo avvicendarsi, sviluppano la bellezza inferiore dei tempi, propria, nel suo genere delle parti di questo mondo. Non per questo, comunque, le creature terrestri sarebbero dovute essere uguali a quelle celesti, né sarebbero dovute mancare nell'universo, perché le altre sono migliori. Allorché, quindi, al livello che compete a tali esseri, alcuni crescono mentre altri vengono meno, i più piccoli soccombono ai più grandi, quelli che vengono superati si adattano alle qualità di quelli che li superano, siamo dinanzi all'ordine delle realtà che passano, e il valore di quest'ordine ci sfugge perché, legati come siamo ad una prospettiva parziale a causa delle nostra condizione mortale, non riusciamo ad afferrare la totalità dell'insieme, al quale le singoli parti che ci colpiscono si rapportano in modo organico e armonico».
19 sarebbe un bene e sarebbe o una sostanza incorruttibile e quindi un gran bene o una sostanza corruttibile e perciò un bene, altrimenti non potrebbe corrompersi»11. Sin da queste prime battute, allora, diviene più chiara l’effettiva consistenza della teodicea e il suo tributo alle riflessioni filosofiche che l’hanno preceduta e a cui è evidentemente tributaria. Del resto, che si tratti di tributo effettivo e non di ossequio formale risulta evidente anche da un fattore meramente numerico: il numero di autori, pari se non superiore a ottocentocinquanta, con i quali Leibniz si confronta nel corso degli Essais. Non è solo una questione numerica, si badi bene. Per ciascuna questione, lo scritto di Leibniz non solo fornisce risposte articolate, ma in un certo senso moltiplica le possibili soluzioni, mostrando di ciascuna di esse lo spettro costitutivo. Dal ricorso a molteplici piani, deriva una trama argomentativa talvolta complessa, della cui struttura è cifra il rimando. Per il fatto di connettere paragrafi distanti, muoversi tra piani, fornire declinazioni inaudite di argomenti tradizionali, gli Essais de Théodicée sembrano paragonabili ad un rizoma, una struttura che «connette un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente ad altri tratti della stessa natura; esso mette in gioco dei regimi di segni molto differenti e anche degli stati di non-segni. Il rizoma non si lascia ricondurre né all'uno né al molteplice. […] Non è fatto di unità, ma di dimensioni, o piuttosto di direzioni mobili. Non ha inizio né fine, ma sempre un mezzo, dal quale germoglia»12. È per tale ragione che le discipline evocate nella discussione intersecano i propri saperi in un dialogo ininterrotto. Se, per descrivere il carattere principale della filosofia di Leibniz, Serres ha utilizzato la metafora della rete, allora un tale richiamo è ancor più vero per gli Essais de Théodicée: proprio qui, infatti, Leibniz ha avuto la cura di «collegare ogni punto a tutti gli altri con il maggior numero di strade, o addirittura con tutte le strade 11
Augustinus Aurelius, Confessionum Libri XIII, 7, XII, Le confessioni, Ed. Paoline, Alba 1964. 12 G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, Les Editions de Minuit, Paris 1980, pp. 27-8.
20 possibili»13. Di conseguenza, risponde ad una esigenza di conformità al testo la disponibilità, richiesta al lettore, nei confronti di una esperienza ermeneutica di sistematico decentramento delle proprie attese. La mia impressione è che negli Essais sia rinvenibile un percorso simile agli chemins de Jerusalem, i labirinti decorati sui pavimenti di alcune chiese francesi del Medioevo. In una sorta di osmosi figurativo-funzionale tra struttura della chiesa e struttura del labirinto, ripercorrere in ginocchio gli chemins significava ascendere alle vette dell’esperienza religiosa. Allo stesso modo negli Essais, la disponibilità richiesta al lettore prevede la individuazione prima, e il percorrimento dopo, del percorso che Leibniz lascia intravedere. Non escludo la possibilità di altre modelli di lettura degli Essais, per quanto mi sembri che al di fuori dello chemin leibnizienne, le possibilità di incorrere in equivoci, anche solo sovrapponendo le proprie precomprensioni, siano piuttosto alte14. 13
M. Serres, Le système de Leibniz et ses modèles mathèmatiques, Presses Universitaires de France, Paris 1968, p.14. Su questo aspetto ha scritto Cione, Leibniz, Libreria scientifica Editrice, Napoli 1964, p. 202: «Leibniz è un pensatore talora così scarsamente autocritico da lasciar coesistere nell’esposizione del suo pensiero soluzioni contraddittorie. È inoltre capace di sovrapporre ed identificare distinzioni parallele, ma di carattere e significato assolutamente diverso». Non va trascurato che era stato proprio Leibniz in una lettera al padre gesuita Des Bosses a dire che i suoi principi filosofici erano tali che potevano essere separati solo con difficoltà, per cui era sufficiente conoscerne uno per conoscerli tutti, «qui unum bene novi, omnia novi», cf. GP II 412. 14 In tal senso, mi pare si collochi il giudizio di Hegel, il quale nelle Lezioni sulla filosofia della storia (cf. G.W.F Hegel., Lezioni sulla filosofia della storia, III/2, La Nuova Italia, Firenze 1963, p. 186), il quale non mancò di definire l’impresa di Leibniz una philosophie pour dames per il fatto che a suo giudizio «più che di sistema filosofico, ha l'aspetto di un'ipotesi sull'essenza dell'universo […] pensieri che del resto vengono esposti in maniera narrativa senza logica concatenazione concettuale, e presi per sé non mostrano nel loro nesso alcuna necessità». La filosofia di Leibniz è «come una
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3. Il ruolo delle critiche 3.1) Cronologia ed ontologia delle tematizzazioni Il binomio teodicea-critiche alla teodicea è per molti versi scontato. Meno scontato è l’ascrivere, come io vorrei fare, le critiche al campo stesso della teodicea. Se infatti è palese l’esistenza di una subordinazione delle critiche rispetto alla teodicea, nel modo in cui sul piano della logica ogni negazione è subordinata alla affermazione che nega, non è meno vero che una tale derivazione debba essere rivista in seguito all’avvento di una salutare contaminazione con talune determinazioni proprie della semantica del tema di cui si cerca una rendicontazione, ovvero il male. Detto altrimenti, l’assunzione di una prospettiva di pertinenza semantica dell’oggetto di studio richiede che il consueto rapporto di subordinazione tra critica ed affermazione si converta in comprimarietà. Il ruolo derivato delle critiche, in seguito all’esclusiva applicazione di un modello logico di rendicontazione del male, va piuttosto riferito alla cronologia della tematizzazione. Da tale punto di vista, infatti, è pienamente legittimo sostenere che, sul piano dell’argomentazione, viene prima la teodicea e dopo le critiche. Va però evitato di compiere una indebita proiezione al livello della valenza ontologica delle critiche di un rapporto di subordinazione vigente ad un livello estraneo all’ontologia stessa. Il riposizionamento del rapporto tra negazione e affermazione quando si parli del male, presenta una ragione ulteriore riferita alla struttura stessa della teodicea al fondo della quale è rinvenibile ciò che non esiterei a definire una tendenza autoritaria, ovvero il tentativo di porre fine ad ogni discussione in seguito all’esibizione della prova finale in grado di scagionare Dio. Tuttavia, la vittoria definitiva, ove giungesse, proprio nel momento del coronamento di tutti gli sforzi della teodicea, sancirebbe la sua stessa fine. La particolarità della teodicea, dunque, risiede nel fatto che essa per sancire la propria vittoria deve cercare con insistenza la propria serie di affermazioni arbitrarie, che si susseguono l'una all'altra, a guisa di un romanzo metafisico».
22 morte, nello stesso momento in cui sono proprio le critiche dei suoi avversari a mantenerla in vita, reinserendola così nel circolo della problematizzazione in cui, ogni volta come la prima volta, essa cerca la risposta definitiva, in attesa di poter morire. All’inizio di questo paragrafo, si è fatto riferimento alla subordinazione esistente tra critiche e teodicea, mostrando che una tale subordinazione va riferita alla cronologia della tematizzazione piuttosto che all’ontologia dei termini implicati. La conferma di un tale riposizionamento è stata conseguita quando, in seguito al ricorso al principio di pertinenza semantica, si è mostrato che la teodicea presenta una struttura tale per cui l’affermazione di sé si realizza tramite la negazione di sé. È possibile allora concludere che il genere di subordinazione tra critiche e teodicea non è tale da espungere le critiche dal contesto della definizione. Se non c’è critica, dunque, non c’è teodicea. 3.2) Abrogazione dell’individuale e razionalità disincarnata Prendere sul serio quanto precede chiede che si consideri con attenzione quanto le critiche hanno rilevato come problematico. In tal senso, uno dei punti di partenza, uno dei più ineludibili a mio avviso, è dato dalle parole di Dostoevskij quando osserva che sia pure vero che «alla fine del mondo e nel momento dell’eterna armonia si compirà e si rivelerà qualcosa di tanto prezioso che basterà per colmare tutti i misfatti degli uomini, tutto il sangue da essi versato [...] a che mi serve l’inferno per i carnefici, a che può rimediare l’inferno, quando i bambini sono già stati martirizzati? E che armonia è questa, se c’è l’inferno?»15. Gli obiettivi polemici delle critiche, rilevanti ai fini del discorso, sono principalmente due: a) la teodicea non riuscirebbe a tener in debita considerazione la dimensione individuale, ciò che potremmo anche designare come esistenza concreta del singolo uomo. La teodicea presume di addurre fini superiori, ma – pur ammettendo la effettiva esistenza di tali fini – 15
F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Garzanti, Milano 1974, pp. 251ss.
23 il male, l’irrazionale non cessa di essere tale per il fatto di essere preordinato ad un fine buono e razionale. Risulta inammissibile che la valutazione di ciò che accade agli uomini sia compiuta da un punto di vista che li trascende: in fondo, gli esseri e gli eventi di questo mondo non devono essere misurati con il metro loro proprio? b) la teodicea riuscirebbe a conseguire i suoi risultati presupponendo una ragione astratta, ostentando indifferenza rispetto a ciò che cerca di conoscere. E, tuttavia, non è disumano credere che la sofferenza di un essere umano possa diventare concime per preparare l'armonia futura? La sofferenza, di per sè, è intrascendibile e, come tale, non può essere rendicontata in alcun modo. Il magnifico sistema di Leibniz fallirebbe allora in ciò che ha di più proprio, «in quanto più potente sforzo mai tentato di decentrare la riflessione filosofica in rapporto all’uomo e di pensarlo a partire dal Tutto infinito del quale fa parte»16. Di fronte al merito di tali critiche, anche quanti, come Sertillanges, hanno solitamente assunto posizioni aprioristicamente difensive nei confronti delle teodicee, non hanno potuto non rilevare che «Le leggi, i casi generali, non sono che astrazioni; ciò che esiste, è l’individualità, e se il problema del male individuo non è risolto, la Causa prima è in colpa. Questa verità deve essere proclamata fermamente, poiché è stata misconosciuta più di una volta nell’apologetica cristiana. Si è osato dire che Dio non dovendo niente a nessuno poteva realizzare i suoi grandi fini passando sopra a disgrazie e sofferenze, senza preoccuparsi dei miseri umani. Noi siamo niente davanti a lui: che ci tratti come niente, è giusto. Siffatti discorsi fanno inorridire»17. Prendere sul serio le critiche, ed interrogare il testo di Leibniz a partire da esse, comporta allora la delineazione di uno specifico programma di verifica. È proprio vero che l’attenzione per l’individuo è assente dal pensiero di Leibniz e segnatamente dalla 16
G. Friedman, Leibniz e Spinoza, Gallimard, Paris 1962, pp. 256-7. A.D. Sertillanges, Il problema del male. La soluzione, Morcelliana, Brescia 1954, p. 46. Una significativa eccezione rispetto agli esiti aprioristicamente apologetici delle teodicee è costituito dalla riflessioni di Vito Mancuso (cf. V. Mancuso, Il dolore innocente, Mondadori, Milano 2002). 17
24 sua teodicea? Quale tipo di fondamento prevede Leibniz per le sue considerazioni su Dio e il male? In che termini è presente, se è presente, negli Essais la scandalosa questione della sofferenza degli innocenti? Si tratta di domande ineludibili cui sono dedicati i capitoli di questo scritto.
4. Fatticità ed eidetica del male Prima di addentrarsi nel testo di Leibniz, è richiesto un ultimo delicato passaggio. Deve essere riconosciuto che la teodicea rappresenta sempre un’istanza seconda, l’istituzione di un movimento riflesso possibile in virtù di un differimento operato dal logos rispetto ad un dato di partenza costituito, per l’appunto, dal male ad un qualche livello dato18. Detto altrimenti, l’esperienza del male contiene in sé un elemento di immediatezza da cui è necessario prendere le distanze quale condizione per riferirsi al male esperito. La teodicea scaturisce in virtù di una distanziazione dalla fatticità del male, nel momento in cui ci si collochi nella prospettiva della ricerca di senso per il male direttamente o indirettamente vissuto e riferendo la stessa ricerca del senso ad una istanza di ordine superiore (quale senso se Dio c’è?), quale termine di conferimento del senso cercato. La distanziazione funge da tregua, almeno temporaneo arresto dell’impellenza del male. 18
Ha scritto in proposito O. Marquard, Motivi di teodicea nella filosofia dell’epoca moderna in Apologia del caso, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 96-7: «L’esperienza della vita mi sembra mostrare che, dinnanzi al dolore, sotto la sua immediata pressione, il problema non è mai la teodicea; qui, piuttosto contano soltanto la capacità di reggersi in presenza di passio e di pathos, l’attitudine a resistere, ad aiutare, a consolare. Arriverò al prossimo anno, a domani, all’ora successiva? Davanti a questa domanda, la teodicea scompare. Un boccone di pane, un respiro di sollievo, il minimo lenimento, un istante di sonno sono qui più importanti che non l’accusa e la difesa di Dio. Solo allorché, nelle condizioni della distanza, si allenta la pressione diretta del dolore e della compassione, si arriva alla teodicea, e ciò in maniera significativa nell’epoca moderna».
25 Tuttavia, l’accennata dinamica tra esperienza/espressione (quomodo mala?) e conoscenza del male (unde malum?) richiede che ad essa si faccia continuamente ritorno. Ciò risponde ad una esigenza di continuo inveramento dei risultati cui le indagini possono pervenire. Purtroppo, però, non si può fare a meno di rilevare come di questa necessità non tengano conto numerose indagini in cui l’elemento della espressione del male è accantonato. Il prosieguo della mia analisi non potrà non confrontarsi con una tale operazione, cercando di ritrovare le ragioni di ciò che appare come una rimozione tanto più problematica per il fatto che ciò che viene eclissata è la scaturigine stessa della teodicea, la sua dimensione fontale. In particolare, occorrerà domandarsi se l’accennata riduzione al silenzio dell’espressione del male non rischi ipso facto di vanificare i legittimi e necessari sforzi in sede di giustificazione del male stesso. Ha, in merito, osservato Melchiorre, «Interrogare daccapo quelle esperienze e l’intenzionalità che l’abbraccia è […] un itinerario critico indispensabile, è predisporsi a riconoscere meglio l’errore o la verità della nostra formalizzazione. In questo contrappunto fra filosofia e prefilosofia, l’ambito della verità trova, dunque, un suo limite ma anche una sua garanzia ed una via di espansione»19. L’esigenza di non disgiungere il piano formale dal piano dell’espressione vede di fronte a sé due possibili canalizzazioni: 4.1) Il ruolo della coscienza La prima esigenza attuantesi lungo la via del rispetto delle condizioni formali del conoscere, cerca di pervenire ad una descrizione delle strutture essenziali del male, ad una vera e propria eidetica. Già questo obiettivo richiede che si faccia i conti con il ruolo della coscienza consistente nel cogliere una realtà nell’indice della sua costanza, dato che «è la cosa che si dà alla coscienza, ma è questa che ne dà il senso»20. 19
V. Melchiorre, Il metodo fenomenologico di Paul Ricoeur in P. Ricoeur, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, p. 41. 20 Ivi, p. 9.
26 In particolare, la domanda che mi sembra urgente porsi è a quale tipo di ricognizione intenzionale occorrerà fare ricorso perché del male possa essere data una rendicontazione? L’esito di una tale indagine non si annuncia scontato ed in ogni senso, anche nel caso in cui dovesse emergere l’impossibilità di pervenire, in seguito alla constatazione della natura del cercato, ad una eidetica del male, ciò che affermerebbe una tale impossibilità sarebbe sempre e comunque la coscienza. Da tale punto di vista, la teodicea non può che dirsi fenomenologica e trascendentale proprio per il suo modo di procedere che parte dall’interrogazione dell’oggetto che ha di fronte per risalire alle sue condizioni di possibilità21. 21
Sono qui solamente accennate due questioni. La prima concerne le strutture trascendentali implicate nell’incontro tra la componente della fatticità e la componente formale, una questione al centro delle ricerche kantiane. La seconda questione concerne invece il ruolo della «intenzionalità fungente» (fungierende Intentionalität) di cui parla Husserl (cf. E. Husserl, in Logica formale e trascendentale, Laterza, Bari-Roma 1966, p. 291) e poi Merleau-Ponty (cf. Fenomenologia della percezione, cit., pp. 547-8), ossia il modo di recuperare la dimensione pre-rappresentativa da cui la conoscenza prende forma. Su questo secondo tema ha scritto Cantillo (cf. G. Cantillo, L’eccedenza della storia sul trascendentale, in G. Cantillo, F. C. Papparo (a cura), Genealogia dell’umano, Guida editori, Napoli 2000, p. 39): «Anche quando Husserl dà dell’intenzionalità un’interpretazione non più puramente statica, in quanto strutturale relazione della coscienza ad un oggetto (coscienza-di), ma ad un tempo genetica, costitutiva, e introduce la nozione di intenzionalità fungente costitutiva del mondo-della-vita, resta sempre il fatto che la “vita” è concepita in termini di “percezione” e di “rappresentazione”, mentre viene trascurata la sua dimensione biologica, il carattere del patire che è proprio dell’organismo naturale». Si veda anche M. Manfredi, L’irrazionale vissuto, Edizioni Dedalo, Bari 1972, p. 174, nota 1; M. Signore, Problema teleologico e fenomenologia della temporalità in Id. (a cura), Husserl. La “Crisi delle scienze europee” e la responsabilità storica dell’Europa, Franco Angeli, Milano 1985, p. 162; M. Carboni, Non vedi niente lì? Sentieri tra arte e filosofie del Novecento Castelvecchi, Roma 2005, pp. 171-2.
27 Tuttavia, proprio il richiamo alla fenomenologia rende incompleto questo primo approccio alla cosa, per la non aggirabile interconnessione tra studio delle essenze e fatticità richiamata tra l’altro dalle celebri parole di Merleau-Ponty: «[la fenomenologia è] studio delle essenze, e per essa tutti i problemi consistono nel definire delle essenze: per esempio, l’essenza della percezione e quella della coscienza. Ma la fenomenologia è anche una filosofia che ricolloca le essenze nell’esistenza e pensa che non si possa comprendere l’uomo e il mondo se non sulla base delle loro “fatticità”»22. 4.2) Il preriflessivo Si giunge in tal modo nei pressi di una seconda esigenza. Non potendosi disconoscere che l’ancoraggio di una riflessione pura si fonda su un ambito completamente differente rispetto alla stessa riflessione, il successo della teodicea riposa allora sulla capacità di rifarsi e di interrogare, senza interruzioni, la fonte stessa della riflessione, costituita dal male patito, dalla sua esperienza e dalla espressione di una tale esperienza. Occorre allora prevedere un’interazione tra fatticità e forma, senza di cui si giungerebbe ad una frattura che impedirebbe sia l’avvio della riflessione sia l’ascolto dell’espressione. È necessario rifarsi ad uno sviluppo del pensiero che «lungi dal costituire l’abbandono del λόγος, è […] ricerca della consistenza ontica e del suo rapporto con l’essere23. [...] a questo livello, sarebbe pur sempre possibile una fenomenologia del linguaggio o della confessione quotidiana»24. La riflessione risulta così titolare di un tributo ad un ambito preriflessivo quale condizione di possibilità del pensare: «Ritornare alle cose stesse significa ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre»25. Se non c’è espressione del male, non c’è teodicea. 22
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 16. Melchiorre, Il metodo fenomenologico, cit., p. 28. 24 Ivi, p. 14 25 Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 17. 23
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5. S-coprirsi gli occhi Un’usanza invalsa nel Medioevo consisteva, di fronte ad una predella raffigurante il drago, simbolo del male per eccellenza, nel graffiare con le dita gli occhi ritratti in quelle immagini. Si pensava che bucare gli occhi, mutilare quelle immagini sgradite fosse sufficiente per depotenziare la portata negativa che si temeva fosse in esse depositata. Trasposto al livello del pensiero, un tale atteggiamento rischia di tradursi – è questa in fondo la tesi di questo scritto – non tanto in una operazione di mutilazione di quanto si ha di fronte, ma di occultamento della vista per l’impossibilità del percipiente di considerare il male nella sua complessa articolazione, alla cui evidenziazione sono dedicati i paragrafi di questa introduzione. Solo un approccio sinfonico può restituire la visione del drago ad uno sguardo che voglia farsi carico della responsabilità di fronte al male.