GIOVANNI SCARAFILE
GUARDARE IL MONDO CON OCCHI SPALANCATI
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PROPEDEUTICA PER UNA FENOMENOLOGIA DEL CINEMA
CINEFILAB ESSAYS
GIOVANNI SCARAFILE
Guardare il mondo con occhi spalancati. Propedeutica per una fenomenologia del cinema
CINEFILAB ESSAYS 2009
Guardare il mondo con occhi spalancati. Propedeutica per una fenomenologia del cinema Giovanni Scarafile*
Sei matto? Per vedere il mondo come va, non c’è bisogno degli occhi. Guardalo con gli orecchi Shakespeare, King Lear
Le parole fluttuavano intorno a me; diventavano occhi, che mi fissavano e nei quali io a mio volta dovevo appuntare lo sguardo Hofmannsthal, Lettera a Lord Chandos
Titoli di testa Mi propongo in queste brevi note di considerare la possibilità di una fenomenologia del cinema. Alcune domande illustrano il percorso scelto. In primo luogo, mi chiedo quale possa essere la rilevanza filosofica della meraviglia. Perché mi è sembrato importante partire dalla meraviglia? Non è infatti la meraviglia l’indiscutibile luogo originario della ricerca di senso, come da tutti unanimemente riconosciuto? Sì, appunto. A mio parere, però, tale comunanza di vedute rischia di tradursi in una rimozione vera e propria, legittimando l’accantonamento delle domande poste dalla meraviglia stessa. Se può essere più immediato cogliere il legame tra cinema e meraviglia, io ritengo che si debba tornare a riflettere sulle implicazioni filosofiche di questo luogo originario. In secondo luogo, provo a capire se sia possibile un pensare separato dal pathos. In fondo, non è la filosofia la scienza dell’impassibilità? E qual è la rilevanza di un riferimento al pathos nel *
Giovanni Scarafile è Professore Aggregato di Etica e deontologia della comunicazione nell’Università del Salento. Il presente saggio, apparso in “Filmcronache”, 2/2004, presenta nell’edizione Cinefilab Essays, un aggiornamento dell’apparato bibliografico.
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rapporto tra cinema e filosofia? Accenno dunque al rapporto tra scientificità della filosofia e impersonalità dell’approccio filosofico. Quali i termini di un tale rapporto? Successivamente, mi riferisco alla componente patica del filosofare e all’importanza della nominazione, così come alla questione se la nominazione sia qualcosa di esclusivamente attinente alla parola o se essa non possa invece essere estesa all’immagine. In questo caso, allora, di che tipo di nominazione si tratta? E che cosa le immagini permettono di dire? Ed in che modo? In terzo luogo, provo a far riferimento, anche se solo per cenni, al rapporto tra immagini e immaginazione che è come dire che provo ad indicare il possibile percorso tra visibile ed invisibile. È a questo livello che comincio con il riferirmi ad alcune categorie proprie della fenomenologia husserliana, quali l’epoché, la coscienza “quasi” posizionale, la fantasia, il segno espressivo. Mi è parso che tale riferimento consentisse l’acquisizione di una sorta di grammatica particolarmente utile alla delineazione di un discorso filosofico sul cinema. Una conferma singolare di questo percorso possibile mi è sembrato di trovarlo in una lettera di Husserl a Hofmannsthal alcuni passi della quale chiudono il presente saggio. Principio ispiratore di ciò che segue sono le parole di Schopenhauer riguardo la chiarezza del filosofo: «Il filosofo cercherà sempre la limpidezza e la chiarezza, e si sforzerà di assomigliare non ad un torrente torbido e impetuoso, ma piuttosto ad un lago svizzero che, grazie alla sua calma, benché così profondo, ha grande trasparenza ed è proprio questa a renderne visibile la profondità»1
Contaminazioni meravigliose Edith Stein nel delineare la caratteristica fondamentale dell’atteggiamento teoretico, proprio del filosofo, parla di guardare il mondo con «occhi spalancati», in modo da giungere ad una forma di conoscenza che consenta di «cogliere le cose stesse abbandonandosi ad esse»2. L’allieva di Husserl racconta di un diritto di precedenza. Prima ancora della parola, del dominio teoretico 3 , di qualsiasi 1
A. Schopenhauer, Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, Guerini, Milano 1990, pp. 22-3. 2 E. Stein, Introduzione alla filosofia, Città Nuova, Roma 1999, p. 37. 3 Come ha osservato Rigobello, la meraviglia «si domina teoreticamente mediante la scoperta del principio, che è criterio interpretativo, strumento capace di cogliere i rapporti che si intrecciano nel contesto di esperienza e quindi di conoscerli nella unità di un comune e originario riferimento», A. Rigobello, L’unità del sapere, Città Nuova, Roma 1977, p. 7. La meraviglia corrisponde più che ad uno stato ad un processo articolato. Al tempo stesso, essa è, a sua volta, inserita in un processo che conduce al suo superamento, al suo dominio, come osservava Rigobello e come lo stesso Aristotele riconosce in altri passaggi della Metafisica: «bisogna arrivare al contrario della meraviglia iniziale» I, 983a, 16-17. Maria Zambrano, osservando che «lo stupore che produce in noi la generosa esistenza della vita
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categorizzazione del reale; all’alba dello stesso atteggiamento riflesso c’è “qualcosa” di cui tener conto se si vuole addivenire all’autentico cuore del filosofare. È la meraviglia. In due celeberrimi luoghi del pensiero occidentale è scritto: «gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare, poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non sapevano rendersi conto»4. Di fronte alla meraviglia di Teeteto, Socrate replica: «Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo; e chi disse che Iride fu generata da Taumante, non sbagliò, mi sembra, nella genealogia»5. Quali sono dunque le implicazioni del riferimento di Aristotele e Platone al thaumazein? È il grammatico Esichio ad indicare i sinonimi di thauma, ovvero ekplexis (sbalordimento) e xenisma (turbamento) e di thaumazien, ovvero theasthai (guardare) e manthanein (imparare, comprendere). Cosa intende dirci Platone parlando di Iride e di Taumante? Taumante, come tutti ricordano, è figlio di Gaia, la creatrice di tutte le cose del cielo e della terra. Taumante, inoltre, ha una figlia, Iride, il cui nome deriva da erein, che significa parlare, dire, manifestare. Platone dunque intende dire che solo attraverso la meraviglia è possibile individuare il fondamento originario di ogni ente e che tale percorso che conduce dalla meraviglia al fondamento delle cose trova espressione nella parola. Tuttavia, ciò su cui dobbiamo soffermarci è che perché si arrivi all’atto della nominazione della cosa occorre, ad un livello generalissimo e conformemente ai sinonimi di thaumazein precedentemente indicati, che il guardare non si esaurisca in un semplice vedere. Il vedere, in questo caso, implica il rimanere indifferenti, il non partecipare alla situazione. È come non esserci. Platone invece parla di un’esperienza affatto differente. Si riferisce a qualcosa in grado di colpirci, consentendo l’instaurarsi di uno stato di sbalordimento e di turbamento tali da togliere il fiato, da lasciare ad occhi aperti. È un’esperienza che è successa a tutti, almeno una volta nella vita: trovarsi di fronte a qualcosa che ci ha sbalorditi, che ci ha lasciati a bocca aperta. Ebbene, la meraviglia di cui Platone ed Aristotele parlano è ciò di fronte a cui non si può rimanere immuni. La meraviglia contamina, invece.
che ci circonda, è tale da non permettere un così rapido distacco dalle molteplici meraviglie che l’hanno generato» (M. Zambrano, Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna 2002, p. 31), ipotizzava l’esistenza di un tipo di violenza come forza complementare alla meraviglia e scatenante lo sguardo, proprio del filosofo, in grado dell’idealità dell’astrazione. 4 Aristotele, Metafisica, I, 982 b 12-15. 5 Platone, Teeteto, 155d.
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È vero che non si può essere permanentemente meravigliati e che quindi tale stato va superato, ma il superamento della meraviglia non significa rimozione od oblio. Si tratta invece di un’esperienza che va continuamente tenuta presente, costituendo l’originario del filosofare, il luogo presso cui il filosofo deve continuamente far ritorno. Sono insite in questo discorso le qualità specifiche dell’homo patiens, di colui che si orienta nella ricerca attraverso la messa in gioco della propria esistenza. La dimensione teoretica, conoscitiva, razionale si installa pertanto in una preesistente condizione che, per essere più precisi, attiene al sentire e che non ha semplicemente senso mettere da parte o subordinare ad altre facoltà ugualmente necessarie al filosofare. «Ci sono – continua Edith Stein - forme delle coscienza rispetto a quella conoscitiva e anche altre funzioni della ragione che non sono meno adeguate o più povere della chiarezza filosofica: il sentire, il volere, l’agire»6.
Sulla presunta anti-patia del filosofo Ci dev’essere stato un momento iniziale in cui sentire e capire non erano separati, quel momento iniziale del conoscere che è abbastanza indifferente situare o no in un tempo determinato, in un illo tempore più o meno preciso, dato che ogni inizio è insieme una meta: dove esso si dà in tutta la sua purezza attiva, lì è il luogo della “conoscenza che si cerca”. All’inizio del conoscere, il capire e il sentire non avrebbero potuto vivere separati; e il contrapporli, giocando sulla separazione determinatasi in seguito, dà la misura della distanza che separa chi così si conduce da questa conoscenza che si cerca – e che è presente fin dall’inizio Maria Zambrano, I beati.
Quanto precede non confligge con l’idea, consegnataci dalla tradizione, dell’impassibilità del filosofo? È necessario non identificare univocamente pathos e passione. La filosofia è senz’altro studium virtutis, esercizio di virtù, ma come lo stesso Seneca osserva, questo esercizio non pone il soggetto in una zona franca, acontestuale, separata dal 6
Stein, Introduzione alla filosofia, cit., pp. 41-2.
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mondo, «giacché non può esserci né virtù senza esercizio, né esercizio di virtù senza virtù»7. Proprio mentre si cerca un governo delle passioni incontrollate, non si può rinunciare al mondo della vita. L’impassibilità del filosofo, pertanto, non può essere semplicisticamente ricondotta al congedo dalle passioni. Per chiarire questo passaggio, è opportuno rifarsi a Diogene Laerzio, il quale sottolinea adeguatamente come, di contro alla vulgata che identifica univocamente saggezza e impassibilità, esista una dimensione ulteriore e, in un certo senso, più subdola della stoltezza, consistente nella «durezza e aridità», ovvero nell’indifferenza del soggetto rispetto all’incontro con le cose: «Dicono che il sapiente è esente dalla passioni, per il fatto stesso che è irreprensibile. Ma vi è anche un altro impassibile, lo stolto, la cui impassibilità si può dire uguale alla durezza e all’aridità»8. Se l’integrità dell’umano, meta degli stoici, consiste nella padronanza di sé, ovvero nella ricerca e riconoscimento di un giusto rapporto tra ragione e passione, l’inumano è rinvenibile sia nella soggezione ai sensi, sia nell’occlusione dei canali del sentire mediante cui il soggetto esperisce il mondo. Tuttavia, la qui richiamata ineliminabile esigenza di coniugare attività teoretica e biografia, quale cifra del filosofare autentico, non rischia di infrangersi contro gli scogli del solipsismo? Se non si può rinunciare ad una prospettiva di visione individuale quali sono gli antidoti all’autoferenzialità? E che cosa ne è dell’aspetto formale ed universale del conoscere? In realtà, ci si immerge in se stessi per guardare più lontano. È la concentrazione che permette di distogliere l’attenzione dall’infinito gioco dei rimandi della natura per dare inizio alla ricerca dell’arché, ovvero dell’elemento in grado di spiegare tutti gli altri e di risalire all’origine delle cose. Il raccoglimento cui alludo è la prima tappa di un processo che conduce nel suo pieno dispiegamento alla costituzione della coscienza intenzionante. Nella sua fase genetica, esso si espleta mediante un ritrarsi che non conduce ad una residenza permanente quanto alla individuazione di un polo cui ricondurre l’indeterminato che prende forma. L’indeterminato stesso, infatti, è tale se relazionato ad un polo intenzionante. D’altro canto, è proprio nell’approdo alle spiagge sicure e condivise dell’arché che si coglie la tensione all’universalità, al superamento della ricerca di senso valida unicamente in senso soggettivo. Questa ricerca di una maggiore sicurezza, di una terra ferma su cui fondare i propri discorsi non espunge tuttavia il rischio dal cercare. In tal senso, mi sembra significativo che Platone, nell’indicazione dell’elemento razionale in grado di vincere l’indeterminazione dell’informe, conservi un elemento di incertezza, la zattera e parli espressamente di «rischi». L’affidarsi alla ragione cioè non può essere vissuto all’insegna di un’ormai 7
Seneca, Epistole, 89. D. Laerzio, Vite dei filosofi, in Stoici antichi, UTET, Torino 1989, II, pp. 1230, sottolineatura mia. 8
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acquisita definitiva sicurezza dell’oggettività. L’oggettivo cui la ragione consente di pervenire va continuamente immerso nel mare dell’elemento personale: Infatti, trattandosi di questi argomenti [gli argomenti concernenti il senso della vita e della morte], non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere da altri quale sia la verità; oppure scoprirla da se medesimi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita9.
La filosofia presenta dunque sin dal suo esordio una duplice componente: è, da un lato, un guardare il mondo, dalla propria prospettiva di visione, correndo il bel rischio della contaminazione mediante un coinvolgimento non meramente intellettivo; dall’altro lato, è continua ricerca di quell’elemento comune, che possa valere intersoggettivamente 10 . Coniugando dunque componente soggettiva e componente formale, la filosofia è dunque una forma di racconto scientifico: Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: […] essa come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima, dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima11.
La componente patica del filosofare diviene maggiore «capacità di penetrazione»12 del pensiero in forza della congiunzione tra universalismo logico-dimostrativo e universale personale. Come ha osservato Maria Zambrano,
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Platone, Fedone, 85 c-d, sottolineatura mia. Come ha sottolineato Luigi Vero Tarca, in Filosofia ed esistenza oggi. La pratica filosofica tra epistéme e sophia, in R. Màdera, L. V. Tarca, La filosofia come stile di vita, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 192: «la filosofia, che in quanto autobiografia sembra riservare un ruolo centrale e assolutamente privilegiato proprio all’io, mette capo, in verità, a una sorta di distacco radicale dallo stesso io in generale: la piena autorealizzazione dell’io si compie mediante il completo distacco dall’io. Ma, si badi, deve trattarsi di un distacco che differisce essenzialmente da ogni forma di rinnegamento dell’io. Infatti il distacco di cui qui si parla va accuratamente distinto da ogni forma di indifferenza. Quest’ultima, come dice il termine stesso, è sostanzialmente un atteggiamento “negativo” nei confronti delle passioni, degli affetti e dei sentimenti che costituiscono la nostra esistenza reale. Invece il distacco di cui stiamo parlando è qualcosa di diverso da ogni atteggiamento freddo e impassibile (in-passibile); si tratta infatti di un atteggiamento che fa della passione per la pura esistenza delle cose il riferimento centrale della propria, intensa e vitale, affettività». 11 Platone, Lettera VII, 341d. 12 C. Ferrucci, Le ragioni dell’altro, Edizioni Dedalo, Bari 1995, p. 21. 10
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La passione, da sola, mette in fuga la verità, che è sufficientemente vigile e agile da sottrarsi alla sua presa. La ragione, da sola, non riesce a sorprendere la selvaggina. Ma la passione e la ragione unite, la ragione che si slancia con impeto appassionato per poi frenare al momento giusto, possono cogliere, senza menomarla, la verità nuda. [...] Sarebbe bello venir scoprendo l’anima in quelle forme in cui essa è andata cercando da sola la sua espressione, lasciando da parte per il momento ciò che, sull’anima che ad esso si sottopone, ha avuto da dire l’intelletto. Scoprire quelle ragioni del cuore che il cuore stesso ha trovato mettendo a profitto la sua solitudine e il suo abbandono13.
Dallo stupore si arriva all’individuazione mediante la nominazione. Tener conto dello stupore senza trattenersi in esso ed anzi individuando parola significa garantire allo stupore diritto di cittadinanza. La sovrabbondanza e la multivocità del mondo non possono certo essere esauriti da alcuna parola. La parola individua e, proprio nell’individuazione, limita. La parola nomina, ma il nome afferra solo qualcosa del tutto. Proprio questa parzialità va considerata e mai dimenticata. Come Gargani osserva, si tratta di non eliminare il caso, ovvero di cogliere nuove possibilità entro una codificazione del mondo, delle situazioni ordinarie della vita. Per quanto paradossale possa sembrare, il caso, l’accidentale, il fortuito è qualcosa di meno paragonabile all’inciampare in un sasso ed invece qualcosa di più vicino a quella che vorrei definire un’occasione etica14.
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M. Zambrano, Hacia un saber sobre el alma, Alianza Editorial, Madrid 1989, pp. 19-20; 30. Ha scritto Pina De Luca ne Il logos sensibile di María Zambrano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, p. 11: «solo un pensiero che non rinuncia agli affetti ha chiarezza ed ella [Zambrano] [...] risponderà che un pensiero “si formula in modo cristallino” quando “incontra subito il sangue” ed è come se “ciò che di più ‘puro’, libero, disinteressato compie l’uomo debba essere pagato, o quantomeno legittimato, da questa ‘materia’ preziosa, che è essenza della vita, vita stessa che scorre nascosta” (le citazioni sono tratte da M. Zambrano, Delirio e destino, Cortina, Milano 2000, p. 49). Si veda anche Luigina Mortari, Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in María Zambrano, Liguori, Napoli 2006, in particolare quando a pag. 20 osserva che l’auspicato sapere intorno all’anima richiede una «ragione diversa da quella razionalistica e dialettica che prevale nella nostra cultura. A dominare è una ragione modellata su quella platonica, che concepisce la verità strutturata in idee generali ed astratte. La ragione che rischiara la vita è, invece, quella che rinuncia agli esercizi dialettici e rifiuta di perseguire l’idealità, per legare il pensiero a qualcosa di concreto». 14 A.G. Gargani, Lo stupore e il caso, Laterza, Bari-Roma 1986, p. 19. Ha, inoltre, scritto Gargani: «Lo stupore è quella condizione in cui noi non entriamo e non usciamo, ma in cui siamo come sospesi in un Aperto. Lo stato dello stupore suscita la svolta linguistica all’origine della transazioni fra i codici simbolici di versi che noi pratichiamo» (A.G. Gargani, Dal mito del museo all’inferenza pragmatica, in Id. – A.M. Iacono, Mondi intermedi e complessità. Edizioni ETS, Pisa 2005, p. 59). Ha dunque ragione Susy Zanardo
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Che cosa significa assumere lo stupore come occasione etica, dunque? Tornare allo stupore significa centrarsi in una distanza. Riconoscere un’altra origine. Una diversa provenienza. Uscita dall’immanenza fusionale con l’ambiente. È un’esperienza del confine valicabile. È possibilità di inversione dell’ordine. È infrazione. Recuperare il senza macchia. È decrescimento di potenza. La meraviglia come occasione etica è l’ago magnetico indicante il nord rappresentato dal ritorno sempre possibile al luogo di nascita. In questo senso è ri-avvertimento dell’originario. L’occasione etica è la possibilità di un ritorno all’autentico. Significativamente l’autenticare implica l’accertamento della verità di qualcosa. Se il pieno possesso delle proprie facoltà, il pieno dispiegamento del proprio sé, riveste un qualche ruolo nell’ambito dell’agire responsabile, allora misura di tale assunzione di responsabilità è la meraviglia come luogo dell’autenticazione.
La nomimazione: parola ed immagine We ought to think with the learned, and speak with the vulgar Berkeley, Principles
Contro l’assunto di un ingenuo realismo metafisico che, postulando l’attingibilità assoluta del reale da parte della parola, frantuma la differenza tra realtà e linguaggio, può essere utile mettere a tema, seppur brevemente, l’almeno parziale non riducibilità della cosa alla parola. È possibile parlare di tale indisponibilità sia in riferimento alla struttura della parola-segno15 sia alla essere stesso della cosa. L’assunzione della parziale inattingibilità del reale da parte della parola comporta il riconoscimento di un differente lo statuto della cosa stessa. L’identità della cosa non sta in un suo blindato permanere nell’identità, come ingenuamente spesso si ritiene, quanto nell’evasione dall’indurimento identitario. Come osserva Adorno: quando osserva che in Gargani, lo stupore «avvia un costante e personale riposizionamento rispetto ai codici linguistici ed epistemologici consolidati» (S. Zanardo, Il legame del dono, Vita e pensiero, Milano 2007, p. 483). 15 Come rileva L. Cortella, Il linguaggio e il suo altro. Possibilità e limiti della concezione ermeneutica del mondo, in “Fenomenologia e società”, n.1/2000, anno XXIII, p. 58: «Se il segno si esaurisse in sé sarebbe totalmente trasparente e non avrebbe bisogno di essere interpretato, di aprirsi cioè al confronto mai concluso dei punti di vista e al conflitto del comprendere».
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Il non identico sarebbe la propria identità della cosa contro le sue identificazioni. La parte più intima dell’oggetto si rivela come nello stesso tempo esteriore a questo, il suo essere conchiuso come apparenza, riflesso del procedimento identificante, fissante. [...]. Esso [l’oggetto, la cosa] giunge a sé soltanto nel suo estraniamento, non nel suo indurimento [...]. L’oggetto si apre ad un’insistenza monadologica, che è coscienza della costellazione in cui esso sta16.
La cosa, dunque, non se ne sta nella assoluta identità con se stessa, in una seità (Selbstheit) autoreferenziale ed irriducibile, ma vive all’interno di un rapporto di connessione (Zusammenhang). Ragionare in presenza della cosa vuol dire allora riuscire a definire i contorni di un linguaggio che tuteli e si faccia carico di tale specificità ontologica della cosa. La parola dunque nel suo configurarsi non potrà essere espressione di un pensiero identificante e con ciò stesso depotenziante la carica di alterità indicibile (ma non ineffabile!) della cosa stessa. Occorre pervenire ad una modalità del dire che piuttosto lasci trasparire la cosa nella sua apertura più che identificarla schematicamente in una distorcente e presunta fissità. La nonidentità della parola deve divenire esperienza della non-identità della cosa. Il linguaggio deve rendere non «l’esser contenuto dell’altro ma l’apertura all’altro»17, mediante una esperienza dialettica che evidenzi l’insussistenza di ogni elemento se considerato nella sua isolata determinazione. Come ancora rileva Adorno: Soltanto un sapere, che ha presente anche la costellazione storica dell’oggetto nel suo rapporto con altri, è in grado di liberare la storia nell’oggetto. [...]. La conoscenza dell’oggetto nella sua costellazione è conoscenza del processo accumulato in esso. Come costellazione il pensiero teorico gira intorno al concetto, che vorrebbe aprire sperando che scatti un po’ come le serrature di casseforti ben custodite, aperte non solo da una singola chiave o numero, ma da una combinazione di numeri18.
Proprio per queste caratteristiche bisogna rifarsi ad un linguaggio che superi la «coazione identitaria»19, rispettando l’alterità della cosa. Da un lato, dunque, il linguaggio non può essere soltanto linguaggio denotativo ma anche espressivo. È 16
T.W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 146. Nelle pagine precedenti, Adorno scrive: «Soltanto le costellazioni rappresentano dall’esterno quel che il concetto ha tolto via nell’interno, il di più, che esso vuol essere per quanto non possa esserlo. In quanto i concetti si raccolgono intorno alla cosa da conoscere, ne determinano potenzialmente l’interno, raggiungono con il pensiero quel che il pensiero necessariamente vi ha cancellato». 17 Cortella, Il linguaggio e il suo altro, cit., p. 59. 18 Adorno, Dialettica, cit., p. 144. 19 L. Cortella, Comunicare le cose. Adorno e il linguaggio, in M. Ruggenini, G.L. Paltrineri, La comunicazione. Ciò che si dice e ciò che non si lascia dire, Donzelli Editore, Roma 2003, p. 69.
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per questo che occorrerebbe valutare non solo l’apporto della retorica alla filosofia, superando talune posizioni oltremodo univoche 20 ma, prim’ancora, interrogarsi sulla rilevanza filosofica della retorica stessa. Così come esiste un linguaggio dimostrativo, dotato di una sua struttura logica, esiste una forma di linguaggio che definiamo persuasivo. Se il primo si basa su principi che riguardano la ratio, l’altro si fonda su principi che attengono al pathos. Così come ratio e pathos non possono essere disgiunti allo stesso modo c’è un rapporto di coimplicanza tra linguaggio dimostrativo e persuasivo, dato che «il solo sapere, come procedimento razionale, non può commuovere l’uomo e neanche indurlo a un’azione qualsiasi»21. È in fondo il senso dell’obiezione mossa da Gorgia a Socrate quando si chiede a cosa possa servire l’intero sapere di un medico se le sue parole non sono in grado di produrre nel malato quel cambiamento di atteggiamento necessario a ripristinare la salute. A ben vedere, dunque, non è tanto l’unione di ratio e pathos quanto la loro ingiustificabile disgiunzione a dover esser giustificata22. Cosa deriva dall’assunzione della distanza tra i due tipi di discorso? In che rapporto si trova tale forzosa discordanza con quella che Grassi definisce l’«idolatria della parola scritta»23? In primo luogo, viene meno il carattere di testimonianza dell’impresa filosofica. Il criterio per distinguere l’autentico filosofare prescinderebbe quindi dal valore connesso all’adesione interiore e biografica ai principi individuati nell’esercizio filosofico. Rilevante diviene l’impersonalità delle procedure di dimostrazione del procedimento logico. Si dimentica però che era stato lo stesso Platone a pronunciare una vera e propria invettiva contro «i bravi ragionatori […] ben 20
Paradigmatica, in tal senso, la concezione di Locke in Saggio sull’intelletto umano, UTET, Torino 1971, p. 588: «Ma se vogliamo parlare delle cose così come sono, dobbiamo concedere che tutta l’arte della retorica, a prescindere dall’ordine e dalla chiarezza, tutte le applicazioni artificiali e figurative delle parole che l’eloquenza ha inventato, non servono ad altro che a insinuare idee sbagliate, a muovere le passioni e con ciò a fuorviare il giudizio; sono quindi perfetti imbrogli». 21 E. Grassi, Potenza dell’immagine, Guerini, Milano 1989, p. 183. 22 Significative le parole di Descartes, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, UTET, Torino 1969, p. 136: «Stimavo moltissimo l’eloquenza […]. Coloro che hanno maggiore raziocinio e sanno meglio elaborare i loro pensieri, per renderli chiari e comprensibili, riuscirebbero sempre a rendere più persuasivi i loro argomenti, anche se parlassero soltanto il basso bretone e non avessero mai studiato retorica». 23 Grassi, Potenza dell’immagine, cit., p. 75, «La nostra epoca conduce all’idolatria della parola scritta; in nessuna epoca precedente, lo scritto prevaleva in modo così evidente. Il fascino che esso emana ha preso il sopravvento a un punto tale che la parola parlata è esposta a una crescente svalutazione. Così si spiega, per esempio, l’odierna mancanza di considerazione della retorica alla quale conferiamo solamente importanza storica per il suo ruolo nell’antichità».
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esercitati in ogni cavillo e in tutti i mezzi che per loro natura danno agilità alla mente»24, quando tale atteggiamento non sia vissuto all’insegna della continuità tra filosofia e vita25. In secondo luogo, il sapere diverrebbe implicitamente a-storico dato che la procedura logica, riconosciuta come unica essenza del filosofare, risulta essere sempre valida se legittimata dalla necessità e dalla validità universale che le competono. In terzo luogo, dall’assunzione del postulato della necessaria disgiunzione tra ratio e pathos 26 deriva l’anonimia della conoscenza filosofica e la conseguente indifferenza verso la bellezza, che viene così a negare la componente erotica27 di
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Platone, Leggi, 689d. Ha significativamente osservato Roberta de Monticelli, La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia, Guerini, Milano 1998, 107: «L’eredità oggi sopravvissuta di Cartesio non è quella di uno spiritualismo ... . È invece il modello della conoscenza che chiamiamo oggettiva, e che consiste nell’espellere da ciò che ci pare degno di questo nome tutto ciò che è legato al nostro punto di vista: così rinunciamo ad esempio a vedere come connaturale al nostro il moto delle stelle erranti, che perdono dunque l’anima angelica che le muoveva. ... Il fatto è però che, una volta introdotto, questo principio di spoliazione ha un effetto implacabile sul nostro modo di concepire il mondo umano. Così lo spazio vissuto dell’azione e della percezione umana, con i suoi assi naturali e il suo orizzonte, con l’alto e il basso, la scena dell’ambizione di ogni vita umana, delle sua ascesa e del suo declino – tutto questo, ad esempio, viene confinato nel mondo dell’immaginazione. ... Chiamiamo fisicalismo l’ontologia che risulta dalla spoliazione della realtà da ogni attributo legato al nostro punto di vista. ... Ma il prezzo di una estensione illimitata del modello cartesiano – o galileano, diceva Husserl – della conoscenza oggettiva non è tanto la perdita d’anima al sapere, ma la perdita di significato delle parole. Di significato, cioè di peso semantico serio, di contributo alle condizioni di verità delle frasi in cui compaiono. Se ciò di cui parliamo non esiste, in che senso possono essere più o meno vere – o false – le cose che diciamo?». 26 Come ha ancora rilevato Roberta de Monticelli, cit., pp. 144-5: «qui non è richiesta l’impassibilità del conoscente, come nel modello di conoscenza («teorica», cioè «contemplativa») che per primi definirono i filosofi greci. Al contrario, per farsi, questa conoscenza esige la disponibilità del conoscente a lasciarsi afficere, in misura più o meno profonda. Si progredisce nella conoscenza nella misura in cui si è disposti a subire o «patire» un coinvolgimento di qualche tipo: che può divenire sempre più «profondo» via via che la conoscenza si «approfondisce». 27 In Platone si registra un differente statuto dell’eros, che per il fatto di essere responsabile a vario titolo della ricomposizione dell’infranto, l’androgino, può essere ascritto al dominio dell’ontologia e non, come spesso erroneamente considerato a quello della patologia. In tal senso, ha argutamente rilevato Umberto Curi, La cognizione dell’amore. Eros e filosofia, Feltrinelli, Milano 1997, p. 84: «L’eros non contraddice, ma realizza, la physis di ciascun individuo; risana, non ammala; riconduce l’uomo alla ragione, distogliendolo all’insania di chi pensi di poter persistere nella propria difettiva separatezza, di chi si illude di poter 25
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ogni filosofare. Sin dalle sue origini, infatti, la filosofia è stata cura dell’anima, ovvero presa in carico, responsabilità del pieno conseguimento della componente di individualità propria di ogni uomo28, perché ogni uomo potesse diventare ciò che egli è, secondo il noto insegnamento socratico. In tal senso, le “belle persone” sono le persone pienamente realizzate e non anonime, coloro i quali hanno saputo attingere nel proprio cammino di crescita individuale alla globalità degli aspetti dell’esistenza che la disgiunzione intende negare29. Un’ultima considerazione, rilevante ai fini del nostro discorso, può essere desunta dal celeberrimo mito di Theuth. Com’è noto, il re di Tebe, Thamus, oppone un netto rifiuto all’offerta del dio egizio Theuth che proponeva l’offerta dei segni alfabetici30, dato che «[l’alfabeto] ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei. Non si fa riferimento soltanto alla memoria, quanto alla nociva azione di segni non più interni, quanto esterni. È significativo che il termine greco utilizzato per indicare in questo caso il segno sia týpos, ovvero “impronta”. Cosa rappresenta l’impronta se non ciò che segna personalmente, ovvero in modo esclusivamente individuale? La parola parlata non può, dunque, essere sostituita da persistere nella propria in-dividualità; […] restaura il per-fetto ordine originario, di cui la sfericità degli umani, prima della ferita, era immagine adeguata». 28 Il raggiungimento della compiutezza individuale è condizione per l’autorealizzazione universale. In tal proposito, ha osservato Luigi Vero Tarca, La filosofia come stile di vita, cit., p. 219: «Il “vero” filosofo si presenta sì come una persona in carne e ossa, ma di un individuo si può affermare con verità che è un filosofo solo nella misura in cui egli si mostra come una “bella persona” capace davvero di dar vita a quell’esperienza filosofica che consiste nell’autorealizzazione universale. “Filosofo” ciascuno lo è per quel tanto che dà consapevolmente vita a quelle esperienze nelle quali ognuno riesce davvero e concretamente a vivere filosoficamente». 29 La variabilità della distanza tra ratio e pathos è in realtà una specifica chiave ermeneutica per interpretare gli sviluppi del pensiero filosofico. La divaricazione massima di tale distanza, che corrisponde, come si è visto, ad una vera e propria frattura, può essere in qualche modo essere ricondotta all’anatema platonico lanciato contro i sofisti, colpevoli, a suo dire, di un uso spregiudicato della rhētorikē téchnē. Luogo per antonomasia di questa condanna è il Sofista, definito come chi è «in possesso di una specie di scienza apparente su tutto, ma non in possesso della verità»; oppure, chi «rifugiandosi nell’oscurità del non essere e attaccandosi a essa a forza di praticarla, a causa dell’oscurità del luogo è difficile da scorgere»; oppure, infine, chi, pur depositario di abilità dialettica, non è comunque in grado di pervenire alla vera conoscenza: nelle parole di Teeteto, «Sapiente, mi pare, è impossibile, dal momento che abbiamo stabilito che egli non sa; essendo, invece, un imitatore del sapiente, è chiaro che prenderà un nome derivato da esso e ho ormai compreso, direi, che dobbiamo chiamare costui realmente il vero e proprio sofista». 30 Cf. Platone, Fedro, 274c – 276a.
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alcuna parola scritta perché nel passaggio dalla oralità alla scrittura rischia di venir meno proprio la componente patica. L’efficacia persuasiva della parola parlata è legata quindi non solo ad una componente tecnica (la componente persuasiva di ogni retorica) quanto nel fatto di essere “parola interiore”. È una parola che per essere tale si individua nello sfondo oggettivo delle regole oggettivamente definite, ma che per essere autentica non può fare a meno di essere espressione della componente individuale. Agostino per designare la zona interiore in cui si realizza il “tu per tu” con le cose, ovvero il ritorno del linguaggio al pensiero, parla di intentio. Si tratta di un itinerario di ritorno a sé, uno sforzo di raccoglimento interiore. L’intentio è il luogo del silenzio, lo spazio privatissimo dell’individuo, il recinto inviolabile dove si è soltanto se stessi; è il tacito ricettacolo, il paradosso di un vuoto pieno di possibili significati. Al contrario, la distentio è dominio caotico delle passioni, molteplicità irrelata di atti assurdi, vita impersonale, prostrazione al “si dice”. Per tale ragione Agostino esorta: «Non uscire fuori di te, rientra in te stesso; nell’uomo interiore dimora la verità; e se avrai trovato mutevole la tua natura, trascendi te stesso». L’intentio, infatti non equivale ad una sorta di «ineffabilismo solipsistico, quanto ad una valorizzazione del mondo esteriore tramite il recupero di un nucleo interiore di significazione» 31. È la matrice interiore che costituisce in qualche modo il fondamento originario del linguaggio. Il linguaggio puramente esteriore, dice Agostino, assomiglia al lavoro di un agricoltore che cura la crescita di un albero: anche se la sua opera costituisce un elemento fondamentale, non è tale da modificare la natura intima e le leggi proprie della pianta. Il verbum è allora l’originario rispetto alla vox: ogni forma espressiva viene ricondotta a questa zona silenziosa dello spirito «dove è luce ciò che fuori è suono»32, dove l’uomo avverte la meraviglia sempre antica e sempre nuova del miracolo dell’essere. La vox, la voce, è l’espressione del verbum, della parola, di fronte alla meraviglia dell’esistente. È il tentativo di non rimanere indifferenti di fronte a tale meraviglia. È solo nell’intentio pienamente instaurata che si produce la parola vera: «La vera parola è in te quando nasce dalla tua scienza, cioè quando diciamo ciò che sappiamo»33. La scientia di cui parla Agostino è la conoscenza passata attraverso il filtro dell’individualità. L’interiorità è il luogo in cui si produce l’incontro con le 31
L. Alici, Il linguaggio come segno e come testimonianza, Edizioni Studium, Roma 1976, p. 41. 32 Ivi, p. 44. 33 Agostino, De Trin., XV, 27, 50. Intorno alla “parola vera” si organizzano gli atti della persona: «La vera parola si ha quando ciò che spostiamo con una specie di movimento incessante si fissa su ciò che sappiamo, ne trae la sua forma, prendendone una piena rassomiglianza, cosicché quale una cosa si conosce tale anche si pensi, cioè tale sia detta nel cuore, senza pronunciare parola, senza pensare ad una parola che appartenga sicuramente a qualche lingua» (De Trin., XV, 15, 25).
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cose: «Indaga nella tua interiorità. Dal momento che tu concepisci la parola interiore rispetto a ciò che intendi dire, vuoi dire qualcosa e lo stesso concepire la “cosa” nel tuo spirito è parola»34. Ma Agostino parla anche dell’ineffabile, dal momento che «tutto ciò che si può dire non è ineffabile»35. L’ineffabile è ciò che eccede, ciò che non può passare attraverso i consueti schemi linguistici. È proprio la contesa circa la possibilità di dire della parola è ciò che divide Mosè da Aronne nell’omonimo dramma di Schönberg. Di fronte alla fiducia di Aronne nella possibilità di trovare un modo per dire la rivelazione di Dio, nelle scene finali del dramma Mosè grida angosciato: «O parola, tu parola che mi manchi!» . Il disagio linguistico, il deliquio della parola viene superato dal pensare per «imago», frontiera estrema della conoscenza umana. Nel canto XVII del Purgatorio, Dante si trova nel girone degli iracondi e contempla immagini che si formano nella sua mente e che rappresentano esempi classici e biblici di ira punita. Progressivamente nei vari gironi del Purgatorio Dante si trova molto spesso di fronte a delle scene, vera e proprie “proiezioni” rappresentanti i peccati e le virtù (i bassorilievi che sembrano parlare, le visioni proiettate davanti agli occhi ed infine le immagini mentali). È a questo punto che Dante si pone una domanda: O imaginativa che ne rube Tal volta sì di fuor, ch’om non s’accorge Perché dintorno suonin mille tube, chi move te, se ’l senso non ti porge? Moveti lume che nel ciel s’informa, per sé o per voler che giù lo scorge36
O immaginazione, che hai la facoltà di sottrarci alle impressioni del mondo esterno e di rapirci in un mondo interiore, a tal punto che non ci si accorge più di ciò che ci succede intorno, neppure se suonassero mille trombe, da dove provengono i messaggi visivi che ricevi, quando essi non siano direttamente provenienti dalle percezioni dei sensi? Sei prodotta, immaginazione, o da un lume che si genera nel ciel37 o secondo regole intrinseche (per se) dell’immaginario o per il volere di Dio. Vogliamo richiamare le regole intrinseche dell’immaginario che consentono alle immagini di prendere forma, ritenendo che la loro enunciazione sia basilare per una filosofia del cinema38. Rispetto alla nominazione, quale è lo specifico ruolo delle 34
Agostino, In Jo Ev., 147. Agostino, Serm., 117, 7. 36 Purgatorio, XVII, 13-18 37 Dante fa riferimento ad una concezione medievale che attribuisce ad una sorgente luminosa collocata nei cieli la trasmissione alla mente di immagini ideali. 38 Ha scritto Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 2002, pp. 93-4: «Possiamo distinguere due processi immaginativi: 35
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immagini? Quale rapporto esiste tra immagine ed immaginazione? Quali sono le condizioni di possibilità dell’immaginazione stessa e quale la sua rilevanza per una filosofia del cinema?
Immagini ambigue Punto di partenza è costituito dalla immediatezza delle immagini. Le immagini hanno un particolare potere di fascinazione che costringe a non rimanere indifferenti, a prendere posizione39. Al tempo stesso, proprio tale disponibilità esigente il completamento immaginativo di ciò che emerge nella visione, consente di affermare che le potenzialità insite in un’immagine non si danno mai immediatamente, ma che è anzi richiesta una mediazione. Il primo sguardo non è sufficiente, dunque, da solo, proprio perché esso si riferisce all’apparenza sensibile, trascurando il dato fondamentale per cui nell’immagine è possibile cogliere un al di là. Quali sono le modalità per cogliere tale rimando e che cosa esso implica? Ad un primo livello, proprio questo sporgersi dell’immagine oltre se stessa lascia intravedere una più profonda connessione del discorso relativo all’immagine con le metodologie del pensiero e gli atti di giudizio. Questa prima acquisizione permette quindi di affermare la valenza simbolica di ogni immagine, nel senso che mediante l’immagine, che è visibile, si rimanda a qualcosa di non immediatamente dato, invisibile quindi. Esiste pertanto una sentiero che conduce dal visibile all’invisibile, dal vedere al pensare. Le immagini dunque convocano la complessità della nostra esperienza, «suscitando storia, memoria, una serie di “valori” (etici, estetici,
quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva e quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale. Il primo processo è quello che avviene normalmente nella lettura: leggiamo per esempio una scena di romanzo o il reportage d’un avvenimento sul giornale, e a seconda della maggiore o minore efficacia del testo siamo portati a vedere la scena come se si svolgesse davanti ai nostri occhi, o almeno frammenti e dettagli della scena che affiorano dall’indistinto. Nel cinema l’immagine che vediamo sullo schermo era passata anch’essa attraverso un testo scritto, poi era stata «vista» mentalmente dal regista, poi ricostruita nella sua fisicità sul set, per essere definitivamente fissata nei fotogrammi del film. Un film è dunque il risultato d’una successione di fasi, immateriali e materiali, in cui le immagini prendono forma; in questo processo il «cinema mentale» dell’immaginazione ha una funzione non meno importante di quella delle fasi di realizzazione effettiva delle sequenze come verranno registrate dalla camera e poi montate in moviola. Questo «cinema mentale» è sempre in funzione in tutti noi, - o lo è sempre stato, anche prima dell’invenzione del cinema – e non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vista interiore». 39 Ho analizzato alcuni di questi aspetti in Proiezioni di senso. Sentieri tra cinema e filosofia, Effatà, Cantalupa (TO) 2003, p.34ss.
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spirituali) che la rendono realtà stabile del nostro sapere e non suo contingente simulacro»40. Questo cammino è però un cammino di sospensione di ogni certezza ritenuta in prima istanza naturale. Riferirsi a tale cammino significa affidarsi al potere della riflessione sul dato della visione e ancor più in generale sulla visione stessa e sulle condizioni che la rendono possibile41. Nella lingua spagnola l’uso della ragione è definito “entrar en razon”. Si tratta di un’espressione simile alla nostra “entrare in religione”, con la quale intendiamo riferirci ad una scelta di vita che allontana dallo scorrere frenetico delle cose, condizione richiesta per l’acquisizione di un differente punto di vista sull’esistente. Ebbene, si tratta qui di acquisire, per mezzo della ragione, una distanza dall’immediatezza sensibile per cogliere le sue stesse condizioni di possibilità, ovvero di attuare una necessaria epoché. Ha scritto Husserl: Noi mettiamo fuori azione la tesi generale inerente all’essenza dell’atteggiamento naturale, mettiamo di colpo in parentesi quanto essa abbraccia ... dunque l’intero mondo naturale, che è costantemente «qui per noi», «alla mano» e che continuerà a permanere come «realtà» per la coscienza, anche se a noi talenta di metterlo in parentesi. Facendo questo com’è in mia piena libertà di farlo, io non nego questo mondo, quasi fossi un sofista, non revoco in dubbio il suo esserci, quasi fossi uno scettico; ma esercito in senso proprio l’epoché fenomenologica, cioè: io non assumo il mondo che mi è costantemente già dato come essente, come faccio, direttamente, nella vita pratico-naturale, ma anche nelle scienze positive, come un mondo preliminarmente essente e, in definitiva, come un mondo che non è un terreno universale d’essere per una conoscenza che procede attraverso l’esperienza e il pensiero42
Si tratta pertanto di acquisire una distanza dall’atteggiamento naturale dello spirito che ritiene che tutto sia dato in una disposizione immediata, che tutto sia «alla 40
E. Franzini, Fenomenologia dell’invisibile. Al di là delle immagini, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, p. 2. 41 Viene qui intravedendosi un cammino di fondazione del discorso filosofico sul cinema che sarà qui solamente enunciato. Come ha argutamente sottolineato Elio Franzini, Fenomenologia, cit., p. 6: «le immagini “si danno”, con la loro immediatezza empirica; lo sguardo riflessivo sospende tale immediatezza e chiarifica, struttura, distingue, mette ordine nella varietà e forma nell’apparenza; ma questo stesso sguardo tematizzante, in base a ciò che l’immagine stessa è, al senso ontologico della sua esperienza, può tornare al senso qualitativo originario di questo “darsi” dell’immagine, non limitando la descrizione a una passività del visibile, bensì cogliendo in esso la dinamicità dell’invisibile, cioè i percorsi del possibile». Sulle forme in cui l’immagine si mette in scena per lo spettatore, rinvio a P. Spinicci, Simile alle ombre e al sogno, Bollati Boringhieri 2008. 42 E. Husserl, Idee, I, §§ 30-32, Einaudi, Torino 2002, pp. 66-73.
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mano». La vita vissuta secondo questa disposizione è completamente rivolta verso le cose. L’approdo verso una critica della conoscenza costituisce un vero capovolgimento del tradizionale modo di guardare il mondo. Questo concetto può essere esplicitato proprio con riferimento ad un immagine, I due ambasciatori di Hans Holbein il Giovane, dipinto del 1533. In esso sono ritratti due importanti figure politiche del tempo43. La dignità, l’importanza dei due uomini è già desumibile dagli abiti magnificenti e dall’ambiente in cui vengono ritratti. Inoltre, in mezzo ai due uomini sono raffigurati taluni strumenti (il mappamondo, i libri, la meridiana) che simboleggiano il potere di cui questi due uomini potevano evidentemente disporre. Il mappamondo indica il potere degli uomini di rappresentare l’infinitamente grande; i libri indicano la forma del sapere, e la meridiana è lo strumento in un certo senso più raffinato di questo potere, indicando la facoltà di misurare addirittura l’invisibile per antonomasia, il tempo. Mettendo insieme tutti questi elementi sembrerebbe dunque che Holbein abbia voluto ritrarre con i due uomini il carattere di un’intera epoca. Tuttavia, se lo sguardo si limitasse a questi elementi di superficie esso non coglierebbe il vero significato del dipinto. A tale significato è possibile giungere soltanto se si guarda il quadro da una particolare prospettiva che rende visibile una figura anamorfica posta in mezzo ai piedi dei due ambasciatori. Che cosa è dunque questa figura che, se considerata dalla normale prospettiva, sembra indecifrabile? Si tratta di un teschio. Holbein pone alla base (in mezzo ai piedi) dei due uomini il simbolo della fallibilità. Questa presenza, discreta ed invisibile, è in grado di modificare radicalmente il significato dell’intero quadro. Holbein non celebra il potere dell’uomo, quanto denuncia la vanità di ogni potere laddove esso non sia ricondotto all’elemento che fonda tutti gli altri: la fallibilità dell’umano. Mentre i due ambasciatori con i loro strumenti di misurazione delle cose sembrano essi stessi misurare il mondo, sono invece misurati da un’unità di misura, la morte, che li fonda e li costituisce44. 43
La tela, conservata presso la National Gallery di Londra, ritrae Jean de Dinteville, ambasciatore francese in Inghilterra e George de Selve, vescovo di Lavaur ed amico del de Dinteville. 44 La tela di Hans Holbein il Giovane mi pare in grado di indicare la vocazione stessa ed i compiti della fenomenologia. Come ha osservato Giovanni Piana, La fenomenologia come metodo filosofico, in P. Spinicci, La visione e il linguaggio. Guerini, Milano 1992, p. 23: «Il punto essenziale... sta proprio nel fatto che l’intuire e il mostrare a cui si richiama la fenomenologia consiste anzitutto in questo attirare l’attenzione, in questo mettere in rilievo qualcosa che potrebbe passare inosservato, in questo far notare. E tutto ciò può avvenire naturalmente soltanto se il «guardare» che qui si richiede non è una pura registrazione passiva di tutto ciò che c’è, ma un guardare indagante che cerca risposte a problemi e che ha quindi di mira degli scopi».
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È un’immagine, dunque, a mettere in evidenza un elemento necessario per l’instaurarsi di un atteggiamento autenticamente filosofico. La sospensione della responsività della vita attiva comporta l’instaurarsi di una vita contemplativa. Come ha osservato Roberta de Monticelli: La vita contemplativa è indubbiamente, almeno alle nostre latitudini, un esercizio di conoscenza: ma in cui l’accesso all’oggetto e alla fonte di conoscenza ha per condizione una modificazione piuttosto radicale di atteggiamento del soggetto. Piuttosto radicale anche se l’istruzione è abbastanza semplice: fermati45.
Il centauro, l’ippopotamo o della libertà del geometra In cosa consiste propriamente l’immaginazione? Per rispondere a questa domanda bisogna superare ciò che all’atteggiamento naturale appare intenzionalmente indivisibile. Occorre, dunque, astrarre dal contenuto delle immagini se si vuole pervenire all’individuazione della immaginazione. Partire dalle immagini, dunque, per andare oltre le immagini stesse. Ad un primo livello, l’immagine è il modo di apparizione proprio delle cose durante l’attività intenzionale del soggetto. Ogni oggetto di percezione esterna diviene per il soggetto percipiente un’immagine. Un oggetto è cioè percepito attraverso una serie di immagini di esso che si producono all’interno del soggetto in virtù di una funzione passiva (le immagini si impongono al soggetto) e di una funzione produttiva (la unificazione delle diverse immagini di uno stesso oggetto in virtù dei movimenti cinestetici del soggetto stesso). Ad un secondo livello, possono essere ricordati gli atti della memoria che hanno la capacità di porre un tema lungo la catena del tempo oggettivo. Si tratta tuttavia di un livello in cui si fa riferimento alla riproduzione di una coscienza posizionale. È invece al terzo livello che emerge lo specifico dell’immaginazione vera e propria, consistente nella coscienza “quasi” posizionale (Quasi-posizionalität), ovvero il procedere come se, consistente nel fatto che i vissuti della fantasia non hanno connessione alcuna con le percezioni. Le oggettività della fantasia non partecipano delle oggettività della percezione. Le fantasie «non hanno più una connessione nel loro riferirsi agli oggetti, né fra di loro né con le percezioni»46. Io posso immaginare, osserva Husserl in Esperienza e giudizio, un centauro o posso aver immaginato un ippopotamo ma queste due immaginazioni non hanno una connessione diretta con il tavolo che percepisco attualmente, ovvero non hanno alcuna posizione temporale l’uno rispetto all’altro. Se è possibile dislocare temporalmente le esperienze passate, collocandole lungo un ordinamento in cui sia 45 46
De Monticelli, La conoscenza personale, cit., p. 39. E. Husserl, Esperienza e giudizio, Silva editore, Milano 1965, p. 183.
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possibile distinguere un prima e un dopo, ciò non è invece possibile per le oggettività della fantasia: «il centauro non è né prima né dopo dell’ippopotamo o del tavolo che ora percepisco»47. Fatta presente, anche se appena richiamata, questa caratteristica della fantasia è possibile riferirsi alla consistenza di quella che lo stesso Husserl in Idee definisce la «posizione privilegiata» della fantasia rispetto alla percezione. L’esempio è offerto dal lavoro del geometra che se nel progettare da un lato deve tener conto di dati reali e concreti, dall’altro lato può, proprio avvalendosi della fantasia, moltiplicare il possibile, godendo, dice Husserl, della «incomparabile libertà nella trasformazione arbitraria delle figure immaginate» 48 . Lo sbilanciamento tra percezione e fantasia è tale che «anche quando “si riflette” sulla figura, i nuovi processi di pensiero che seguono sono, rispetto al loro sostegno sensibile, processi di fantasia i cui risultati vengon fissati dalle nuove linee aggiunte alla figura»49. Ciò che vale per il geometra vale a maggior ragione per il fenomenologo, dato che anch’egli muove da datità originarie comunque limitate. È per questo che pur non potendo prescindere dall’originalmente offerente, «la libertà della ricerca delle essenze esige necessariamente che si operi con la fantasia»50. Per tali ragioni, conclude Husserl, «si può dire [...] che la “finzione” costituisce l’elemento vitale della fenomenologia, come di tutte le scienze eidetiche, che la finzione è la sorgente da cui trae nutrimento la conoscenza delle “verità eterne”»51. Le immagini conducono oltre se stesse. Non solo rinviano, dunque. Esse stesse sono protagoniste del transito e consentono l’approdo all’invisibile. Non possono essere considerate alla stregua di un semplice segno. Da questo punto di vista può essere utile rifarsi alla distinzione tra «segni indicativi», o segnali (Anzeichen) e i «segni espressivi» o espressioni (Ausdrücke) di cui Husserl parla nella Prima della Ricerche logiche. I segni indicativi, come i segnali stradali, hanno la semplice funzione di indicare qualcosa. La loro funzione consiste nel nascondimento e nell’indirizzo al designato. Diverso è il discorso per quanto riguarda i segni espressivi, come il sorriso, per esempio. Il sorriso è difatti un segno della gioia provata, nel senso che indica, che rinvia esso stesso alla gioia, ma è esso stesso espressione di quella gioia. In questo caso, c’è una partecipazione costitutiva della stessa valenza segnica. In questo tipo di segno si registra un trapasso intenzionale immediato tra l’aspetto fisico del segno e il suo aspetto intenzionale significativo. L’immagine fornisce dunque un esempio di percorso necessario per un approccio fondativo di una filosofia del cinema, che pur riconoscendo piena validità al fenomeno ritiene di dover procedere oltre lo stesso. L’immagine-simbolo dunque è 47
Ivi, p. 184. Husserl, Idee, cit., §70, p. 169. 49 Ivi. 50 Ivi, p. 170. 51 Ivi. 48
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essa stessa una segno espressivo: perché mentre mostra la possibilità di una processione oltre il puro dato fenomenico è, essa stessa, prova provata dell’esistenza di un ordine eidetico. In estrema sintesi, direi che esiste una sintonia tra l’atteggiamento teoretico fondamentale, «guardare il mondo con occhi spalancati», consistente eminentemente nella disponibilità all’incontro con le cose stesse e il percorso, proprio della fenomenologia, che muovendo dalle immagini conduce oltre le immagini, verso il dominio dell’invisibile52. Mi sembra che proprio in virtù di una tale consonanza sia possibile parlare di una fenomenologia del cinema, indicando lo specifico approccio mediante cui si tenta l’approdo ad una descrizione di ciò che, a partire dal visibile, prende forma. È per tale ragione che in chiusura mi sembra opportuno riferirmi direttamente ad Husserl, che in una lettera indirizzata nel 1907 ad Hugo von Hofmannsthal, scrive: il vedere fenomenologico è quindi strettamente imparentato al vedere estetico dell’arte «pura»: è ovvio, però, che non si tratta di un vedere che abbia per scopo il piacere estetico, ma che ha in vista, piuttosto, la ricerca, la conoscenza, la costituzione dei fondamenti scientifici di una nuova sfera (quella filosofica). [...] l’artista, che «osserva» il mondo, per conquistarsi una «conoscenza» della natura e degli uomini utile ai suoi scopi, ha verso il mondo lo stesso atteggiamento del fenomenologo53.
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Come ha scritto Emilio Tadini, La distanza, Einaudi, Torino 1998, p. 101: «Il cinema lo ha capito benissimo. E benché per propria natura sia destinato a mettere in scena fantasmi su fantasmi, mediante i primissimi piani il cinema mostra di volersi spingere, per quanto gli è possibile, dalle parti del mistico. Ancora un po’ più dappresso, e il nostro occhio potrebbe finalmente sprofondare nella cosa vista, identificarsi con lei». 53 E. Husserl, “Lettera a Hofmannsthal su estetica e fenomenologia”, Micromega, 2/98, p. 250, sottolineatura mia.
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Indice TITOLI DI TESTA..................................................................................................... 2 CONTAMINAZIONI MERAVIGLIOSE ........................................................................ 3 SULLA PRESUNTA ANTI-PATIA DEL FILOSOFO ....................................................... 5 LA NOMIMAZIONE: PAROLA ED IMMAGINE ........................................................... 9 IMMAGINI AMBIGUE ............................................................................................ 16 IL CENTAURO, L’IPPOPOTAMO O DELLA LIBERTÀ DEL GEOMETRA ..................... 19