GIOVANNI SCARAFILE
L’OMBRA, IL VARCO, LA SOGLIA
Self-Portrait #16 | r.f.m II / Robby McKee | Licenza CreativeCommons
ANTICIPO DEL REALE E CONFRONTO DISCRIMINATORIO NELLE RELAZIONI INTERPERSONALI ED INTERCULTURALI
CINEFILAB ESSAYS
GIOVANNI SCARAFILE
L’OMBRA, IL VARCO, LA SOGLIA. ANTICIPO DEL REALE E CONFRONTO DISCRIMINATORIO NELLE RELAZIONI INTERPERSONALI ED INTERCULTURALI
CINEFILAB ESSAYS 2009
L’OMBRA, IL VARCO, LA SOGLIA. ANTICIPO DEL REALE E CONFRONTO DISCRIMINATORIO NELLE RELAZIONI INTERPERSONALI ED INTERCULTURALI Giovanni Scarafile*
Lo spirito umano … ha sempre paura di se stesso. Georges Bataille Io che coltivavo il vizio raro del solipsismo E avevo per insegna il “vietato l’ingresso” (agli altri), mi trovavo vietata l’uscita, indefinitivamente. G. Morselli, Dissipatio H.G.
Nella Meravigliosa storia di Peter Schlemil (1837), Adalbert von Chamisso narra di un baratto tra un intellettuale, Schlemil, ed un garbatissimo signore vestito di grigio, che si rivelerà essere il diavolo. Oggetto del baratto non è l’anima dell’intellettuale, ma qualcosa almeno all’apparenza meno prezioso: l’ombra. In cambio della rinuncia alla sua ombra, Schlemil potrà ottenere un borsellino senza fondo. In effetti, dopo la sottoscrizione del patto, Schlemil diviene un signore ricco e potente. Nel momento in cui egli pensa di avere finalmente risolto ogni suo problema, dovrà invece fare i conti con una realtà molto più amara, dovuta alla pubblica scoperta della sua nuova identità. L’essere senza ombra farà piovere addosso a Schlemil lo scherno ed il disprezzo della città, sino al punto in cui l’uomo si vedrà abbandonato anche dalla sua futura sposa. *
Docente di Etica e deontologia della comunicazione nell’Università del Salento. Il presente saggio è stato pubblicato in AA.VV., Identità e disgregazione, Edizioni Ente dello Spettacolo, Roma 2008
L’ombra, il varco, la soglia.
La disponibilità, conferita dal borsellino magico, di accesso ad ogni cosa si converte in isolamento. In seguito all’acquisto degli stivali delle sette leghe, Schlemil potrà attraversare in rapidi passi oceani e nazioni ed in questa condizione “a distanza” dal mondo trascorrerà il resto della sua esistenza. La vicenda di Schlemil, interpretata in chiave metaforica, suggerisce alcune considerazioni. Schlemil rinuncia ad una parte di sé ritenuta superflua. Egli è infatti convinto che si possa vivere, e bene, senza ombra. L’ombra è considerata accessoria, non riferibile al più proprio, all’identità e, come tale, alienabile. Si può essere – questo sembra essere stato il ragionamento alla base del patto – un uomo tutto d’un pezzo, fatto di sola luce. Che tipo di possesso è mai quello dell’ombra? Possiamo davvero dire di essere proprietari dell’ombra? «A ben riflettere – scrive Giuseppe Zarone – si tratta di una strana possessività perché l’ombra è, sì, mia ma non anche a «mia disposizione», solo bensì a disposizione della luce, della fonte luminosa che colpendo il corpo la produce»1. Ci sono, nel caso dell’ombra, condizioni di possibilità che sono assunte da Schlemil come interne alla propria disponibilità nel momento in cui sottoscrive il patto. In altri termini, l’errore di Schlemil consiste in una sorta di indebita appropriazione, una riconduzione alla sfera del proprio di ciò che si pone al di là di tale sfera. Mentre egli cerca un migliore accomodamento alla realtà, una posizione migliore, la rinuncia ad una speciale parte di sé, ritenuta erroneamente superflua, non solo gli preclude l’accomodamento cercato, ma lo condanna ad un accesso al reale a distanza, ovvero mediato. La rinuncia, che si presumeva essere condizione per un guadagno di realtà, si converte in perdita della realtà stessa.
1. La sindrome Schlemil La vicenda di Schlemil, il tentativo di essere sola luce, è – a mio avviso – una buona metafora per alludere ad equivoco identitario piuttosto frequente. Esso consiste nella presunzione che si possano scindere in maniera definitiva quelle due dimensioni interagenti e costitutive della identità di ciascuno, note da sempre ed indagate sotto diverse costellazioni tematiche e linguistiche: visibile e invisibile, implicito ed esplicito, conscio ed inconscio.
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G. Zarone, Il discorso e la parola. Parabole del senso tra Atene e Gerusalemme, ESI, Napoli 1997, p. 171.
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Nei casi in cui la sindrome Schlemil è operativa, ciò che va in frantumi è l’idea stessa di mobilità identitaria, quel processo mediante cui il nucleo fondante l’entità si definisce per la costanza di oscillazione tra termini omogenei ma diversi. All’interno di una tale prospettiva, l’identità è un concetto definibile mediante una metafora spaziale: essa è un perimetro, un limite per mezzo del quale è possibile individuare nettamente il dentro ed il fuori. Da una tale idea di identità è espunta qualsiasi dimensione temporale, che consentirebbe un eventuale transito da ciò che è più interno a ciò che è più esterno o viceversa. Il concetto di identità, dischiuso dalla vicenda di Schlemil, è statico, a differenza del secondo tipo, il concetto di mobilità identitaria, che risulta essere dinamico. Ciò che viene escluso dall’identità è posto fuori una soglia immaginaria. Essa è matrice di ogni inclusione ed esclusione. Una tale fissità, simile ad un arroccamento, non solo non consente di scorgere oltre il proprio dominio, ma risulta operante anche nei confronti della alterità: l’altro è colui che ricorda la rimozione originaria compiuta già all’interno dell’io nei confronti di quelle dimensioni, metaforicamente le ombre, ritenute accessorie e, per questo, escluse dal dominio dell’identità2. 2
Il rapporto identità-differenza, ricco di implicazioni, è stato indagato secondo direttrici molteplici, a partire dalla dimensione metafisica. Ha scritto, in proposito, Werner Beierwaltes, Unità e identità nel cammino del pensiero in V. Melchiorre (a cura), L’uno e i molti, Vita e Pensiero, Milano 1990, p. 31 e p. 33: «A considerare le cose in modo oggettivo, il dispiegarsi del rapporto tra identità e differenza presuppone già sempre in partenza l’idea di unità e quella di molteplicità. […]. Infatti un’unità pura e in sé irrelata e un’unità ordinata (sintetica), in sé sussistente in quanto relazionalità e correlata ad un Uno unificatore, vanno intese entrambe come il paradigma di identità e differenza, sia che esse vengano intese ciascuna per se stessa, sia che si consideri l’identità nella differenza». Ed ancora: «Nel suo dispiegamento l’Uno diventa Tutto-Uno, dal momento che fonda ogni cosa, provoca e conserva l’essere-uno dei singoli enti collegandoli in senso integrativo l’uno all’altro e imprimendo in essi il movimento della conversione a se stesso che ne è il fine». Interrogandosi sulle forme e la consistenza di un “pensiero etico”, Marco M. Olivetti, L’uno e l’altro in V. Melchiorre (a cura), L’uno e i molti, cit., pp. 66-7, ha scritto: «il marchio del pensiero ontologico è il privilegio dell’uno. E diremo che, nonostante ogni distinzione tra ontico e ontologico, fra l’uno pensato come ente sommo o generico e l’uno pensato come al di là dell’essere […], l’uno è privilegiato dal pensiero nostalgico. La nostalgia è il segno del privilegiamento dell’uno. La nostalgia è la conoscenza stessa: la conoscenza come unificazione, come comprensione che unifica (ad es., kantianamente, il molteplice nell’oggetto) e tiene presente, ovvero tiene nel presente – main – tenant, vor – handen – unificando il differire temporale, inscrivendo ogni diacronia nella sincronia, fino all’eterno presente, fino al divenire uno con il conosciuto, fino all’unio mystica, fino dunque al superamento della conoscenza, oltre l’intelletto, oltre la ragione».
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Come costante fonte di rammemorazione, all’altro da me va riservato lo stesso atteggiamento riservato all’altro di me: l’alienazione. Ancor prima delle legittime domande sulle forme più autentiche di riferimento all’altro, ancor prima di sottoporre a critica ogni atteggiamento di identificazione dell’alterità nel medesimo, la stessa approssimazione all’altro è impedita dalla paura.
2. La paura tra senso ed evento La paura di fronte a determinati eventi (persone, situazioni, avvenimenti) può essere costituita dalla difficoltà di ricondurre quegli stessi eventi ad un quadro di riferimento in grado di spiegarne l’origine. Essa è interruzione del circuito di attribuzione del senso. Per quanto pauroso possa essere l’evento, la strategia per depotenziare la paura consiste nella riconduzione di ciò che ha causato la paura all’interno di un ordine in una qualche misura dato. Va precisato che tale processo può non essere in grado di eliminare la paura tout court. Esso, tuttavia, è in grado di svuotarne dall’interno la sua dimensione scandalosa, l’essere essa un impedimento per il pensiero. Che cosa è implicato infatti nella configurazione della paura come scandalo? Risulta evidente come la paura conosca una serie di gradi in relazione alla intensità della sua fenomenologia. Quello che a me sembra è che la possibilità di inquadrare la paura all’interno di un struttura ermeneutica progressiva dipenda in larga parte dalla riuscita del tentativo di trovare dei riferimenti in grado di fungere da orientamento (ed anche, come si accennava, disinnescamento) della paura. È per questo che la riconduzione dell’evento pauroso ad un quadro di riferimento può riuscire secondo vari livelli di attuazione. Si può mostrare questo stesso processo ragionando in negativo, alludendo a ciò che accade quando non è possibile operare alcuna riconduzione della paura ad un ordine preesistente, e come tale rassicurante, per il fatto di offrire una sponda certa cui riferire l’evento pauroso. Nell’assenza di un tale riferimento, e quindi al di fuori di qualsiasi possibilità di rendicontazione, lo stesso evento pauroso non è riferibile ad alcuna origine, ad alcuna parentela anche remota È mistero che permane nel mistero. È scacco di ogni tentativo di illuminazione. È costante fonte di soggezione. A ben riflettere, l’assenza della possibilità di ricondurre un determinato evento ad un ordine prestabilito dice di una differenza intrinseca consistente nel fatto che esso è slegato da quanto è preliminarmente conosciuto e come tale, proprio per la sua non inscrivibilità all’interno del consueto, esso si costituisce in minaccia 5
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sempre possibile, in sovvertimento dell’ordine esistente. L’evento in questione è un evento avulso dal contesto nel senso che in esso è andata smarrita la distinzione tra figura e sfondo, distinzione – come è noto – propria della fenomenologia della percezione. Inoltre, proprio quanto precede mostra come l’individuazione delle strutture mediante cui la paura si presenta possiede analogie con il rapporto tra evento e struttura. È qui accennata una questione, in parte paradossale, di grande rilevanza, che può essere, seppur succintamente, così formulata: la possibilità di pensare l’evento non è disgiunta dalla necessità di inscrivere nel pensiero dell’evento la negazione dell’evento stesso. Volendo fare un solo esempio, tra i molti possibili, in grado di declinare l’accennato rapporto tra evento e possibilità di pensiero dell’evento, si consideri la celebre distinzione tra langue e parole di Saussure. Alla base di tale coppia antinomica è la inestricabilità del rapporto tra i due termini. Proprio nel momento in cui si intende argomentare la loro intrinseca differenza, non si può che ribadire la loro coappartenenza specifica. È in base a tale coappartenenza che è possibile indicare la specificità del linguaggio risultante dalla combinazione tra elemento strutturale ed elemento evenemenziale. Nel momento in cui si presumesse di far consistere il linguaggio soltanto in una delle due dimensioni, il linguaggio stesso svanirebbe . Se, come osserva Ricoeur, il dar senso all’evento, lo stesso rapporto tra senso ed evento, «si presenta […] come richiesta di padroneggiamento, sia intellettuale che pratico, dell’aspetto eccezionale dell’evento. Ma eccezionale in rapporto a che cosa? In rapporto ad un ordine prestabilito, si tratti di classificazione, di caratterizzazione, di relazione. L’evento è il nuovo in rapporto all’ordine già istituito. È instaurando un nuovo ordine, nel quale l’evento sia compreso, che il senso riduce l’irrazionalità di fondo della novità»3 . 3
P. Ricoeur, Evento e senso in G. Nicolaci (a cura), Segno ed evento nel pensiero contemporaneo, Jaca Book, Milano 1990, p. pp. 17-18. Un modo per soggiogare l’evento è di inscriverlo nel tempo, in un tempo pensato come successione, come ordine del prima e del dopo secondo il numero; oppure pensarlo secondo il rapporto dell’accidente alla sostanza. Dal punto di vista linguistico, ciò si compie attraverso una declinazione nel tempo del verbo in grado di dire l’evento. Da questa prospettiva, solo il verbo all’infinito è in grado di costituirsi a riferimento espressivo meno inappropriato rispetto al verbo declinato, riferito all’evento che, inserito nell’ordine del tempo, rappresenta una modalità di depotenziamento dell’evento stesso. Su un altro versante, Jean Ladrière (cf. la voce “Event” in D.A. Boileau e J.A. Dick (a cura), Tradition and Renewal. Philosophical Essays Commemorating the Centennial of Louvain’s Institute of Philosophy, Leuven, Leuven
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3. La decostruzione dell’esclusione e l’anticipo del reale L’analisi sin qui condotta è giunta ad individuare nella cosiddetta sindrome Schlemil una erronea concezione dell’identità, imputabile ad una irrisolta relazione con ciò che viene espunto dal sé. Una analoga esclusione è alla base dell’atteggiamento nei confronti dell’altro. Agente di una tale rimozione è la paura. La soglia tra io ed altro non è permeabile, ma piuttosto essa viene a configurarsi come limite invalicabile ed altissimo. Proprio in ragione della struttura della soglia, l’altro non può che permanere nel suo mistero. È presuntivamente altro, non essendo possibile dire nient’altro che ciò che di esso possiamo monologicamente immaginare proiettivamente. È possibile determinare ulteriormente la dinamica tra soglia e paura? E, soprattutto, in quali termini è possibile, se è possibile, sottrarsi ad essa? Mostrare cosa possa accadere nel momento in cui sia depotenziato l’investimento emotivo nei confronti dell’altro è possibile con riferimento a tre film4, La Zona5, La Banda6 e Aleksandra7. Nel film di Rodrigo Plà, la Zona rappresenta una comunità separata dal resto della città da una barriera che si pensa invalicabile. Solo in seguito ad una coincidenza University Press, 1993, pp. 147-164) propone quattro modi di depotenziamento dell’evento: 1) la spiegazione per sussunzione di un fatto sotto una legge; 2) la spiegazione per riduzione, ovvero l’indicazione di un elemento sottostante il darsi dell’evento cui ricondurre l’evento stesso; 3) la spiegazione mediante la genesi; 4) il processo di ottimizzazione, ovvero la ricerca di stati stabili. 4 Ai fini della presente analisi è utile anche fare riferimento al film Zur Lage: Österreich in sechs Kapiteln. Un film di Barbara Albert, Ulrich Seidl, Michael Stuminger. Produzione Austria 2002. In vista delle elezioni politiche del settembre 2002, quattro registi austriaci si confrontano con la realtà del loro paese per documentare visivamente lo stato della nazione proprio nel periodo della svolta conservatrice del Partito Popolare di Jorg Jaider. Ulrich Seidl (regista anche di Canicola) ritrae una coppia di sposi preoccupata della presenza di famiglie straniere. Michael Stuminger fa visita ad alcune famiglie austriache: l’arroccamento che nasce dalla paura dell’altro non ha fondamento in una conoscenza dell’altro, ma si alimenta di ignoranza e di stereotipi. L’altro è difficilmente un altro in carne ed ossa, ma invece è qualcuno che è immaginato essere nella condizione di offendere. L’altro è semplicemente una proiezione. 5 Un film di Rodrigo Plà. Con Daniel Giménez Cacho, Maribel Verdú, Carlos Bardem, Daniel Tovar, Alan Chávez, Mario Zaragoza, Marina de Tavira. Produzione Spagna, Messico 2007. 6 Un film di Eran Kolirin. Con Sasson Gabai, Ronit Elkabetz, Saleh Bakri, Khalifa Natour. Produzione Israele, Francia 2007. 7 Un film di Aleksandr Sokurov. Con Galina Vishnevskaya, Vasily Shevtsov, Raisa Gichaeva. Produzione Russia 2007.
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che si rivelerà sfortunata, i tre ragazzi riescono ad infiltrarsi in tale comunità protetta. Accortisi dell’intrusione, gli abitanti della Zona sono in grado di scovare due dei tre infiltrati, mentre il terzo rimane nell’oscurità, come una minaccia latente. È proprio il senso di questa minaccia ad innescare dinamiche psicologiche perfino scontate, possibili nella misura in cui all’incontro con l’altro si sostituisce la proiezione sull’altro delle nostre peggiori intenzioni. Il particolare su cui vorrei soffermarmi è l’atteggiamento del giovane Alejandro, il quale, pur all’interno di un confronto dialettico con il padre Daniel, il coraggio di vincere la paura e di guardare in faccia Miguel, il terzo ladro, di cui gli abitanti della Zona sono alla ricerca. Superata la soglia della paura, Alejandro potrà dare parola al suo coetaneo ed in questo modo l’alterità, che si presumeva eversiva, potrà dispiegarsi narrativamente come diversità. Già il punto di partenza del film La Banda, risulta suggestivo. Due alterità sono poste l’una di fronte all’altra. Da un lato, la Banda del Corpo municipale della Polizia di Alessandria d’Egitto, dall’altra uno sparuto gruppo di clienti di un minuscolo ristorante di Bet Hatikva, un piccolo villaggio israeliano. Restringendo il campo, da un lato Tewfiq, il Direttore della Banda; dall’altro Dina, la proprietaria del ristorante. Vorrei soffermarmi in particolare sulla sequenza del film in cui Dina e Tewfiq sono seduti su una panchina a raccontarsi la propria vita. Alla domanda della donna su cosa si provi a dirigere una banda, Tewfiq non trova le parole. Non trovare la parole non è soltanto l’incapacità di colmare linguisticamente la distanza con l’altro. In questo caso essa corrisponde all’irriducibilità di quello che si è. Una irriducibilità che non riesce ad accontentarsi della parole dette, delle possibili parole da dire, ma già dette. In questo caso, l’irriducibilità non conduce ad una rinuncia al dialogo, come pure sarebbe stato legittimo attendersi. Il tentativo di stabilire un ponte è infatti più forte. Ciò di cui i due protagonisti hanno bisogno è un “involucro” espressivo del tutto nuovo, che possa attingere ad una fonte di significazione non pregiudicata dalle appartenenze e, quindi, inedita. Solo la novità di una tale forma espressiva può candidarsi a contenere il diverso che si vorrebbe dire, oltre le regole prefissate della comunicazione. La mancanza di parole di Tewfiq da un lato, l’attesa negli occhi di Dina dall’altro, costituiscono la soglia dell’incontro con l’altro. Il seguito della scena, il gesto di Tewfiq che non tanto mima il dirigere una banda, ma impersonifica con il suo gesto il senso della sua direzione, costituisce il ricorso 8
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ad una matrice comune, anteriore rispetto ad ogni possibile predicazione e/o divisione culturale. Il gesto di Tewfiq dischiude una zona terza, una foresteria, comune all’io e all’altro, che funge da sfondo per la rivelazione reciproca. Qui avviene l’incontro. Qui c’è l’epifania dell’altro. Qui Dina e Tewfiq si vedono davvero. Si tratta di una scena così carica di significato da non richiedere dal punto di vista registico l’adozione di alcun particolare espediente. Dina e Tewfiq sono infatti ripresi per tutta la durata della scena con un piano americano. In Aleksandra, Sokurov mostra il viaggio di una anziana donna alla volta della postazione militare in terra cecena dove è impegnato il nipote, Denis Kazakov. Nel corso del viaggio e del successivo incontro presso il campo base dei russi in territorio ceceno, noi partecipiamo allo sguardo di Aleksandra. Tutte le vicende risultano inscritte all’interno di una contrapposizione con un nemico, che, seppur mai visibile, è ovunque: nei gesti dei soldati, nelle ristrettezza della vita militare così come nel mutamento fisico di Denis, subito riscontrato dall’atteggiamento materno di Aleksandra. In un particolare momento del film, è proprio la congenita insofferenza dell’anziana donna nei confronti delle rigide disposizioni e limitazioni della vita militare che la portano a superare il limite del campo russo per spingersi sino al nemmeno distante mercato ceceno. Fuori del limite prefissato, Aleksandra incontra Malika, una coetanea donna cecena. Nell’incontro le barriere cadono: «Perché essere cattivi? Gli uomini possono essere nemici, ma siamo immediatamente come sorelle» dice Malika, accogliendo nella sua casa Aleksandra. Accogliere nella propria soglia dà inizio al prendersi cura, al farsi carico dell’altro. La solitudine lamentata da Aleksandra è superata dall’atteggiamento di Malika. Nell’incontro tra le due ipotetiche nemiche si respira una sapienza di chi ha colto il senso nascosto delle cose, quello stesso senso precluso quando si antepone ogni predicazione (come ad esempio, l’appartenenza nazionale) a ciò da cui la predicazione ha origine (l’umanità, per esempio). Mi pare che i tre film abbiano un elemento in comune: in essi, infatti, a diverso titolo e con diversi stili, l’altro irrompe. Al di là di ogni previsione, al di là di ogni preventivata capacità di accoglienza. Il destino di un incontro con l’altro si decide in seguito ad una tale irruzione. In effetti, la persistenza con cui si impedisce la rivelazione dell’altro trova una sua ragion d’essere nell’anticipo di giudizio nei confronti della realtà.
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L’altro è colui che, in modo eminente, attiva e potenzia la comune propensione a vivere l’incontro con la realtà non sotto l’insegna dell’incontro con la realtà stessa, ma sotto l’insegna dell’anticipo. Molto spesso la realtà che incontriamo è la realtà che immaginiamo di incontrare. Il nostro rapporto con la realtà è, un po’ come succedeva nella parte finale della vicenda di Schlemil, un rapporto quasi mai immediato, ma mediato, ovvero filtrato da pre-giudizi, vere e proprie lente deformanti. Guardare in faccia la realtà non è qualcosa di naturale e spontaneo, ma paradossalmente, il frutto di una scelta, di un saper guardare. In questo modo, è soltanto quando questa disponibilità dello sguardo è instaurata che avrà fine l’atteggiamento che presume l’altro. Abbassare il varco richiede un grande coraggio, consistente nell’andare non tanto contro la corrente del senso comune, ma contro quella corrente continua che intratteniamo con le cose e che ci spinge a non esporci ad esse, ma a vivere l’incontro con le cose all’interno di una proiezione di noi stessi sulle cose. L’instaurazione di un atteggiamento autentico nei confronti dell’altro deve fare i conti preliminarmente con una tale sincronizzazione, alludendo alla quale Lévinas scriveva: «l’immanenza connota questa riunificazione del diverso del tempo nella presenza della rappresentazione. Questo modo per il diverso di non rifiutarsi alla sincronia e così ... l’attitudine di entrare nell’unità di un genere o di una forma sono le condizioni logiche della sincronizzazione»8. Liberare l’altro, incontrarlo al di fuori di un orizzonte sincronico significa pensare un’effrazione. Uno sforzo estremo, ai limiti, in cui non solo l’ esito, ma la stessa partenza, non sono mai scontati. Alejandro e Miguel, Tewfiq e Dina, Aleksandra e Malika fanno l’esperienza del volto dell’altro: «La conoscenza, nel senso assoluto del termine, esperienza pura dell’altro essere, ha il dovere di mantenere l’altro essere kath’auto. ... La manifestazione del kath’auto ... non consiste affatto per esso [essere] nell’essere svelato, nello scoprirsi di fronte allo sguardo che lo prenderebbe come tema di interpretazione... La manifestazione kath’auto consiste per l’essere nel dirsi a noi, indipendentemente da qualsiasi posizione che noi potremmo aver preso nei suoi confronti, nell’esprimersi. Qui, contrariamente a tutte le condizioni di visibilità degli oggetti , l’essere non si situa nella luce di un altro ma si presenta da sé nella manifestazione che deve soltanto annunciarlo, è presente come colui che dirige questa manifestazione stessa ... L’esperienza assoluta non è svelamento ma rivelazione: coincidenza di ciò che è espresso e di chi esprime, manifestazione, per ciò stesso privilegiata, di Altri, manifestazione di un volto al di là della forma. ... Il 8
E. Lévinas, Notes sur les sens, in «Le Nouveau Commerce», 49, 1981, p. 105.
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volto è una presenza viva, è espressione. La vita dell’espressione consiste nel disfare la forma nella quale l’ente, che si espone come tema, finisce, per ciò stesso, con il nascondersi. Il volto parla. La manifestazione del volto è già discorso»9.
4. Il confronto discriminatorio La mia ipotesi è che almeno una parte dei processi cui si è fatto cenno nella prima parte del saggio possano essere individuati, in parte mutati di segno, anche all’interno di dinamiche più vaste, come ad esempio negli scambi interculturali. Molto utile per individuare questa specifica forma di asimmetria è il ricorso al concetto di confronto discriminatorio (invidious comparison) individuato da Dascal10. Si consideri il seguente resoconto scritto nel 1912 da Lamberto Loria, celebre viaggiatore ed etnologo italiano: Mi trovavo in compagnia di un funzionario governativo nella punta nord-est della Papuasia, quando un indigeno, rivolgendosi a me, chiese se era vero che il padre del funzionario governativo era morto: per tutta risposta bastonai l'indigeno. E si noti che è severamente proibito maltrattare i papuani: eppure io lo feci in presenza del funzionario che poteva anche arrestarmi e punirmi. Ricordo, come se fosse ora, il viso meravigliato dell'inglese quando, a spiegazione del mio atto, gli dissi che l'indigeno non avrebbe potuto offendere più fortemente la maestà della legge che domandandomi notizie di suo padre morto; giacché nessun papuano di quella regione oserebbe fare ciò con un suo simile. Il morto è talmente rispettato che il nome che esso portava non si può neppure pronunciare; e poiché i nomi propri di persona si traggono sempre dai nomi comuni, come ad esempio albero,terra, fiume, ecc., il non poter più pronunciare questi nomi alla morte delle persone che li portavano, fa sì che la lingua locale debba variare di anno in anno continuamente. L'offesa fatta ad una persona nominando uno dei suoi cari estinti, non può essere vendicata se non con la morte dell'offensore. Se io non fossi stato presente all'atroce insulto fatto al funzionario governativo, questi avrebbe preso per cortesia ciò che non era che mancanza di rispetto, e l'autorità della legge ne avrebbe grandemente sofferto11.
In questo racconto realmente accaduto, in cui si riconoscono tre protagonisti, lo stesso Loria, il funzionario ed il papuano, si possono individuare almeno tre caratteristiche 9
E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1990, pp. 63-4. Le nozioni di ‘confronto discriminatorio’ (invidios comparison) e di ‘asimmetria del contingente’ (asymmetry of contingent) ricorrono nel saggio di M. Dascal, Understanding other cultures. The ecology of cultural space in Id., Interpretation and Understanding, John Benjamin B.V., Amsterdam 2003, pp. 477-494. 11 L.M.Lombardi Satriani, L’etnologo e il bastone. Osservazione sulla rifondazione dei quadri teorici delle scienze dell’uomo in T. Tentori (a cura), Antropologia delle società complesse, Armando, Roma 1990, p. 83. 10
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trasponibili più generalmente al dialogo tra culture. Le enumero brevemente, prima di soffermarmi più analiticamente su ciascuna di esse.
1. Il confronto discriminatorio (Invidious comparison). È quanto emerge da una prima analisi del racconto da cui si evince l’assoluta inamovibilità della posizione della guida, ben salda nella convinzione di aver agito per il meglio, anche a condizione di aver dovuto infliggere una bastonata “pedagogica” all’indigeno. Inoltre, risulta determinante la palese asimmetria, fondata sulla forza, tra i protagonisti dell’episodio. Mi chiedo se un simile atteggiamento risulti isolato e se eventualmente si diano forme ad esso riconducibili negli attuali scenari delle società complesse. 2. Le strategie di conoscenza dell’altro. La guida del funzionario governativo fa valere la conoscenza di una specificità della cultura ospitante. Ragionando in termini più generali, mi chiedo se sia legittimo presupporre una zona franca da cui guardare l’altro o se invece una tale presupposizione non risulti non solo venata di ingenuità, ma in modo più sinistramente significativo, non risulti essere una forma di raffinato neoetnocentrismo. Se, dunque, la conoscenza dell’altro risulta, se non determinata completamente, quanto meno influenzata dai metodi adottati in fase di conoscenza, si dà una preferenza tra le strategie di conoscenza dell’altro? Lo stadio successivo è costituito dal transito dei significati dalla cultura ospitante alla cultura ospite. Se nell’episodio riferito, una tale operazione diviene evidente ed in un certo senso scontata, in altri casi ben più complessi, laddove ad interagire sono interi gruppi culturali, può non esserlo. Che cosa è richiesto allora per operare una trasposizione che tenga conto delle specificità di tutti i soggetti in essa coinvolti? 3. Modelli teorici di interazione. L’assoluto ed autosufficiente radicamento nel proprio gesto da parte della guida del funzionario esprime, in fondo, una sicurezza più ampia, riferita a ciò che appare essere l’indubitale superiorità del proprio modello culturale: la “norma più universale” coincide con la cultura stessa cui il funzionario appartiene. «Se il comprendere non si accompagna al pieno riconoscimento dell'altro come soggetto, allora questa comprensione rischia di essere utilizzata ai fini dello sfruttamento»12. Questa prima indicazione di Todorov designa, anche nel senso di smascherare, ogni dinamica in cui la dialettica io-altro sia vissuta all’insegna di una più o meno marcata asimmetria tra i due termini, in cui uno dei due eserciti una forma di dominio nei confronti dell’altro. In presenza di una tale asimmetria, le possibilità di dialogo sono pressoché nulle. Ha osservato Botturi: «Si tratta di 12
T. Todorov, La conquete de l’Amerique. La question de l’autre, Editions du Seuil, Paris 1982; tr. it. di A. Serafini, La conquista dell'America, Torino, Einaudi, 1982, p. 161.
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prendere sul serio il valore dell’identità relazionale e della relazionalità identificante, cioè il fatto che identità e differenza si danno insuperabilmente in relazione»13. Intenderei indagare nel prosieguo del paragrafo due forme di asimmetria: 1.1) l’opposizione tra abilità locali e perfettibilità globale; 1.2) l’ ideologia delle metafore spaziali.
4.1) Opposizione tra abilità locali e perfettibilità globale. I navigatori responsabili della scoperta delle Americhe, nelle rare occasioni in cui manifestavano ammirazione, e non semplice intento colonizzatore, nei confronti delle popolazioni autoctone, riuscivano a parlare bene degli indiani, ma quasi mai a parlare agli indiani. Un tale sbilanciamento non costituisce un unicum nella storia dei rapporti tra culture. Di quello stesso sbilanciamento si danno, ancora oggi, manifestazioni significative ed in un certo senso più “raffinate”. Osserva, in tal proposito, Dascal: La maggior parte di noi, Occidentali, è preparata ad ammettere che altre culture sono migliori della nostra in relazione a determinate materie. Accettiamo la diffusa credenza che gli Esquimesi sono in grado di discernere le varietà della neve, i Gauchos i cavalli, i Beduini i cammelli meglio di chiunque altro. Ammiriamo il senso di orientamento dei Pirahã negli oscuri recessi della foresta amazzonica, dove noi ci sentiamo completamente persi dopo pochi passi; siamo riverenti nei confronti della “miracolosa conoscenza farmacologica” degli Shuar. Concediamo che la tecnologia idraulica degli aztechi sia stata di gran lunga superiore rispetto alla migliore tecnologia equivalente europea del tempo; che l’agopuntura cinese può aver successo laddove la medicina occidentale fallisce. Riconosciamo che gli artisti africani conseguono una perfezione estetica nelle lavorazioni del legno; che la musica balinese, il gamelan, è superbamente profonda; che la danza singalese è delicata e sensibile; che la gastronomia Cantonese è squisita14.
La facilità nel compiere questo genere di riconoscimenti riposa sulla limitatezza dell’ambito di cui si riconosce l’eccellenza. Non sorprende, dunque, che in definitiva essi non intacchino la superiorità riferita alla nostra cultura, la cui preminenza viene fatta coincidere con la più generale capacità di autoperfezionamento in qualsiasi dominio. Dalla parte degli altri, le abilità locali; dalla nostra parte, la perfettibilità globale. 13
F. Botturi, Universalismo e multiculturalismo in M. Signore – G. Scarafile (a cura), Libertà e dialogo tra culture, Edizioni Messaggero, Padova 2007, p. 60. 14 Dascal, Understanding other cultures, cit., p. 482.
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Uno schema analogo è stato individuato anche dall’antropologia filosofica, più precisamente nella distinzione tra umwelt e welt, per spiegare specificità e differenze del rapporto tra uomo ed animale. La sfera animale ha una propria sfera di pertinenza esclusiva, di immediatezza fusionale con l’ambiente, in cui l’animale stesso può far valere la sua iperspecializzazione. L’uomo, invece, pur in assenza di una simile iperspecializzazione in relazione ad uno specifico ambiente, può in virtù della capacità previsionale, espressione di razionalità, porsi al di sopra rispetto alla sfera animale. È dunque possibile, individuato lo schema soggiacente, produrre lo smascheramento: proprio mentre si evidenzia la caratteristica di una cultura, si ripropone una neoassimetria, pervenendo ad una ulteriore soglia di confronto discriminatorio.
4.2) Ideologia delle metafore spaziali In secondo luogo, occorre rilevare una apparente stranezza consistente nel diffusissimo uso di metafore spaziali riferiti alle culture, già accennato nella prima parte di questo scritto. Se, per generale ammissione, la cultura attiene all’immateriale, da dove deriva un tale riferimento spaziale? Punto di partenza in tale discorso è la seguente osservazione di Dascal, il quale per evidenziare la dimensione spaziale riferita alle culture, fa uso per ogni prima occorrenza del corsivo: le culture sono concepite come territori. Essi hanno confini, che sono linee che possono (o non possono) essere attraversate. Alcune culture sono ritenute chiuse, mentre altre sono aperte. Le prime fieramente resistono alle influenze esterne e restringono severamente la mobilità interna dei suoi membri; esse adottano prospettive locali, ristrette, basate sul territorio; esse sono confinate alla periferia dello spazio culturale. Le seconde vedono la mobilità come un assetto principale ed incoraggiano l’espansione; hanno una richiesta globale o universale sull’intero spazio culturale al cui centro esse giacciono e da cui si allungano verso altre aree culturali15.
Non si può fare a meno di segnalare che l’indicazione spaziale per riferirsi alle culture si è intensificata nel contesto della espansione dello spazio fisico dell’Europa moderna da parte degli esploratori europei, ovvero in una situazione che, a parte rare e significative eccezioni, non può che essere connotata come ideologicamente volta alla conquista. Pertanto, pur evitando univoche equiparazioni, non si rischia di riproporre e, certo inconsapevolmente, di reiterare 15
Ivi, p. 479. L’elenco delle metafore spaziali continua nel testo di Dascal cui si rinvia per gli approfondimenti.
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un tale schema ideologico per il fatto stesso di ricorrere, al di fuori di una tematizzazione specifica, a tali forme di significazione? Già a partire da questi due esempi, il riconoscimento di abilità locali e le metafore spaziali designanti le culture, si può concludere sostenendo che, oggi come ieri, non è affatto tramontato il rischio di una riproposizione, ideologicamente determinata, di un rapporto con l’altro pervaso da un intento discriminatorio, seppur velato da forme di raffinato maquillage.
5. Strategie di conoscenza dell’altro C’è una soglia del rapporto io-altro in cui la conoscenza può diventare riconoscimento della soggettività dell’altro. Nel contesto dell’antropologia del dialogo interculturale, la via d’accesso ad un tale riconoscimento è lastricata da strategie interpretative. A livello generale, un tale riconoscimento di soggettività diviene possibile quando si depotenzia l’estraneità dell’altro, operazione tanto rischiosa quanto frequente. Il depotenziare può prendere due sentieri: la riconduzione dell’alterità alla medesimezza, secondo i dettami di una forma di totalitarismo dell’identità; oppure, la traduzione, ovvero la trasposizione/transito di significati da una cultura ad un’altra, operazione, questa, non certo immune da rischi, che tuttavia mi pare possano essere tenuti più facilmente sotto osservazione. Riferirò nel prosieguo di questo secondo paragrafo di due strategie di transito: 2.1) la teoria funzionalistica di Malinowski; 2.2) l’antropologia interpretativa di Geertz; e dei modi (2.3) per superare l’apnea culturale, principale limite di entrambi gli approcci.
5.1 Dai bisogni alle istituzioni In linea di massima, ogni ipotesi di traduzione riposa sul convincimento, certo da confermare di volta in volta, che si diano equivalenti concettuali e linguistici in ogni cultura. Muovendo da una simile presupposizione si è cercato di isolare i semantemi comuni a molte lingue nell’intento di pervenire ad un metalinguaggio semantico naturale16. 16
È l’operazione tentata da A.Wierzbicka, in Cross-Cultural Pragmatics. The Semantics of Human Interaction, Mouton de Gruyter, Berlin - New York 1991. La Wierzbicka, a p.10 osserva: «Suggerisco che possiamo trovare tali concetti nell’“alfabeto universale dei pensieri umani” [...], che è, nelle parole indefinibili (cioè semanticamente semplici) e nei morfemi del linguaggio naturale (come io, tu, qualcuno, qualcosa, questo, pensare, direi,
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A quali operazioni occorre fare ricorso nel tentativo di tradurre un tratto presente in una cultura di partenza se di esso non danno validi equivalenti nella cultura d’arrivo? È il caso, per esempio, della couvade, un rito descritto da molti autori, Diodoro Siculo, Strabone, Apollonio di Rodi, Marco Polo. Pur nella diversità dei molteplici contesti culturali in cui tale rito è stato riscontrato, di esso si danno delle costanti fenomenologiche: le danze rituali con cui il padre mima il dolore della madre, le sofferenze del travaglio e del parto, i ferimenti volontari cui egli si sottopone nella imminenza del parto della propria compagna. Per spiegare un simile fenomeno, Malinowski ha dovuto riformulare l’idea stessa di cultura, concepita come un vasto apparato mediante cui ogni uomo è posto nelle migliori condizioni per affrontare i problemi specifici relativi alla soddisfazione dei suoi bisogni. Le culture sono costituite da unità componenti, «sistemi organizzati di attività umane»17, aventi il proprio centro in un bisogno fondamentale. Per esempio, il matrimonio, in quanto istituzione, soddisfa il bisogno di propagazione della specie insieme ad altri (la cooperazione economica, le esigenze di rango, il desiderio della compagnia) necessari per rendere stabile il perseguimento di quel bisogno iniziale. La cultura è dunque un complesso di elementi legato tra loro da relazioni funzionali. L’assunzione del modello di Malinowski consente di rendere più intelligibili alcune specificità culturali che ad uno sguardo esterno sembrerebbero inesplicabili stranezze: «La funzione della couvade è quella di stabilire la paternità sociale attraverso l'equiparazione simbolica del padre alla madre [...]. La paternità è stabilita in maniera simmetrica in base a regole per cui il padre è tenuto in parte a imitare i tabù, gli obblighi e le regole di condotta imposte tradizionalmente alla madre». Concludendo, la couvade potrà essere compresa a condizione di risalire alla sua funzione nella cultura originaria, collocandola nelle volere o fare), che possono essere rinvenuti, sembra, in tutte le lingue del mondo». Inoltre, non esistendo all’interno di una lingua, termini o costruzioni linguistiche aventi equivalenti assoluti in altre lingue, è possibile, rigettando l’ipotesi dell’esistenza di equivalenti assoluti, adottare il concetto di “universali parziali” (partial universals): «Ciò che intendo con “universali parziali” (partial universals) è questo. All’interno di un particolare linguaggio, ogni elemento appartiene ad un unico network di elementi, ed occupa un particolare spazio in un unico network di relazioni. Quando paragoniamo due, o più, lingue non possiamo aspettarci di trovare networks identici di relazioni. Possiamo, cionondimeno, aspettarci di trovare talune corrispondenze». Segnalo il numero speciale – curato dalla stessa Wierbicka insieme a N.J. Enfield - della rivista Pragmatics & Cognition, vol. 10, n. 1/2 (2002), John Benjamin Co. Si veda, inoltre, M.K. Asante, W.B. Gudykunst (Eds.), Handbook of International and Intercultural Communication, Sage, Newbury Park, CA 1989. 17 B. Malinowski, Voce Culture in Encyclopaedia of the Social Sciences, New York, The Macmillan Company, 1931.
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istituzioni di cui essa è componente. Una tale comprensione non si ottiene se non prefigurando nel contempo una particolare inserzione partecipativa da parte dell’antropologo nella cultura da studiare.
5.2 Thick e thin description Un secondo modello, riconducibile all’antropologia interpretativa di Clifford Geertz, consiste nella differenza tra thick e thin description18. Si considerino due ragazzi nell’atto di contrarre la palpebra dell’occhio destro. Un gesto identico che riveste, tuttavia, una diversa valenza a seconda dei ragazzi. Per il primo ragazzo, infatti, si tratta di un tic involontario; per il secondo di un segnale di intesa ad un amico. Già rispetto ad un modello così semplice, è possibile fornire due descrizioni: la descrizione superficiale (thin description) riferirà che entrambi i ragazzi hanno strizzato l’occhio; la descrizione complessa (thich description) fornirà una versione differente, cogliendo la situazione dall’interno. Spiega Geertz, «Guardare alle cose ordinarie nei luoghi in cui prendono forme inusitate non rivela l'arbitrarietà del comportamento umano [...] ma il grado in cui il suo significato varia secondo il modello di vita da cui è influenzato. [...]. Capire la cultura di un popolo ne mette in luce la normalità senza ridurne le peculiarità»19. Sia l’approccio di Malinowski che quello di Geertz se, da un lato, consentono di superare l’impasse del paragone discriminatorio nei casi in cui esso sia direttamente riferibile all’ignoranza delle specificità di un’altra cultura, non sono coperti di fronte ai rischi riguardanti la sovraesposizione partecipativa, altrimenti detta “apnea culturale” (cultural apnoea)
5.3 L’apnea culturale: specificità e rimedi L’osservazione delle profondità marine (siamo passati dalle metafore spaziali alle metafora acquatiche!) può essere effettuata in due modi: mantenendosi in superficie, respirando con il boccaglio (snorkeling), oppure immergendosi. Ogni immersione in apnea, ovvero avvalendosi dei soli strumenti naturali a disposizione dell’uomo, si struttura in almeno tre fasi fondamentali: il tempo di discesa, il tempo 18
La distinzione è presente in C. Geertz, The Interpretation of Cultures, Basic Books, Inc., New York 1973; tr. it. di E. Bona, Interpretazioni di culture, Il Mulino, Bologna 1987. Tuttavia, essa fu formulata originariamente da Gilbert Ryle in The Concept of Mind, Hutchinson, London 1949. 19 Geertz, ivi, p. 52.
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di stazionamento, il tempo di risalita. La quantità dell’immagazzinamento dell’ossigeno da parte del subacqueo deve tener conto ed essere distribuita tra i momenti sopra enumerati. Mi pare si dia qui una analogia di struttura tra l’immersione del subacqueo ed il lavoro dell’antropologo. Infatti, così come per il sub, la riuscita di una immersione è funzionale al corretto e tempestivo instaurarsi del triplice atteggiamento (immersione/stazionamento/risalita), per l’antropologo è necessario procedere mediante il rispetto di tre condizioni (immersione nella cultura, conoscenza delle sue dinamiche interne, ritorno a casa). Si tratta di un fenomeno paragonabile all’essotopia di cui parla Bachtin, sul terreno dell’estetica: «io devo vivere - vedere e conoscere - ciò che egli vive, mettermi al suo posto e, per così dire, coincidere con lui [...]. Ma [...] l'attività estetica comincia, propriamente parlando, quando ritorniamo in noi stessi, al nostro posto [...] e conferiamo forma e compimento al materiale dell'immedesimazione»20. Sia nel caso del sub che nel caso dell’antropologo, indugiare in uno dei tre momenti, dimenticando gli altri due, rischia di pregiudicare l’intera impresa e qualche volta anche la vita. Scongiurare i rischi di una apnea culturale al livello dell’antropologia, diviene possibile nella adozione del seguente modello: 1) Allontanamento uno: consiste nell’allontanarsi dalla propria cultura, percependone la non autosussistenza. Si tratta di un atteggiamento anticipato da Montaigne, quando osserva: Io non incorro mai in quell'errore comune di giudicare un altro secondo la mia misura. Mi è facile credere che ci siano cose diverse da me. Per il fatto che mi sento portata ad una certa maniera, non vi obbligo gli altri, come fanno tutti; e credo e concepisco mille maniere diverse di vivere e al contrario della gente, considero in noi più la differenza che la rassomiglianza. Libero più che è possibile un altro essere dalle condizioni e dai principi che sono miei, e lo considero semplicemente per se stesso, senza paragoni, formandolo sul proprio modello21.
2) Avvicinamento uno: Consiste nell’immergersi in una società straniera, cercando la completa immedesimazione con quel mondo. «Metterci nei loro panni – suggerisce Geertz – è un’impresa snervante che non riesce mai perfettamente»22; 3) Allontanamento due: è la fase del ritorno a casa. Questo ambiente, originariamente familiare, mi appare diverso, «posso osservarlo con occhi di
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T. Todorov, Mikhail Bakhtine. Le principe dialogique suivi de Ecrits du Cercle de Bakhtine, Editions du Seuil, Paris 1981 ; tr. it. di A.M. Marietti, Michail Bachtin. Il principio dialogico, Torino, Einaudi, 1990, p. 137. 21 M. de Montaigne, Di Catone Il Giovane, in Saggi, Mondadori, Milano 1986, p. 254. 22 Geertz, Interpretazioni, p. 51.
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straniero - osserva Todorov – paragonabili a quelli che volgevo verso la società straniera»23; 4) Avvicinamento due: di questa ultima soglia credo che debba essere accentuato l’atteggiamento consistente nella discrezione della prensione rispetto ai dati specifici di una cultura. Come sostiene Signore, Dialogo interculturale non è frase retorica, [...]: esso ha luogo con lo straniero , vicino o lontano e non si può limitare al solo riconoscimento (che a volte lascia le cose come stanno), ma è lotta per la conquista da parte di ogni cultura del diritto di riconoscere e di far valere la propria visione del mondo, di vedersi salvaguardato il diritto di avere una propria visione del mondo, ma anche maturazione della disponibilità a relativizzare la propria visione del mondo, costretti, per questo, a colmare il grave deficit attuale di assoluti, di universali in grado di relativizzare (nuovo universalismo religioso) superando la mera proclamazione dei diritti, per pervenire al riconoscimento a tutti gli uomini del potere di tenere e coltivare una cultura propria [...] sotto la spinta di un universalismo nuovo che si declina nella logica della relazione24.
I risultati del modello qui proposto, ispirato a Levi-Strauss, possono condurre a significativi risultati, riassunti nell’esempio seguente: La prima volta che mi sono reso conto di essere biculturale fu in occasione di una passeggiata con il mio amico John, quando incrociammo il mio amico giapponese Miyako e la sua famiglia. Dopo che Miyako e i suoi genitori si furono allontanati, John mi fece presente quanto differentemente avessi agito in loro presenza. Il mio amico ha accennato al fatto che ero molto piegato, che la mia voce era più alta e che arricciavo (curled) le spalle nel comunicare. Ero realmente scosso, perchè avevo fatto tutto questo senza averne coscienza. Successivamente, ho iniziato a prestare maggiore attenzione alle “mie due personalità”. [...]. Ora sono consapevole di quanto differentemente io agisca con i due gruppi e non mi sento più colpevole per questo. So che il nucleo della mia personalità è sempre lo stesso; solo che agisco in modo differente così da poter ottimizzare la comunicazione nelle due società25.
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T. Todorov, Nous et les autres. La réflexion francais sur la diversité humaine, Editions du Seuil, Paris 1989; tr. it. di A. Chitarin, Noi e gli altri. La riflessione francese sulla diversità umana, Torino, Einaudi, 1991, p. 98. 24 M. Signore, Partire dal Mediterraneo. Per una cultura di pace e di cooperazione in M. Signore – G. Scarafile (a cura), Libertà e dialogo, cit., p. 42. 25 R.Brislin, T.Yoshida (Eds.), Intercultural Communication Training: an Introduction, Sage, Thousand Oaks, CA 1994, pp. 64-65.
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6. Conclusione In questo scritto si è cercato di individuare un triplice paradigma, indicato dalla metafora dell’ombra, del varco e della soglia, esprimente, secondo modalità decrescenti, il livello di negazione dell’alterità. Una tale preclusione sembra essere il più delle volte addirittura congenita ed inavvertita, inserita nel naturale esperire del mondo. Individuato ed indagato, seppur brevemente, un tale paradigma si è provato a verificarne la presenza all’interno del rapporto tra culture. All’interno di questa indagine, il richiamo a tre film ha consentito di svelare ciò che non appariva presente all’interno di un’analisi meramente concettuale. Si è cioè mostrato allusivamente quali siano le forme di una possibile decostruzione dell’impianto escludente l’alterità. Sia nel caso delle relazioni interpersonali che nel caso delle dinamiche interculturali è comune l’avvertenza non solo della pressante attualità di quanto accennato ma anche del fatto che proprio nel momento in cui si preclude ogni accesso all’altro si è di fatto impedita ogni possibile estroversione dell’io. Concludendo, vorrei allora richiamare i seguenti versi di Martin Niemöller, pastore protestante tedesco, in cui proprio la comunione di sorti tra io ed altro è indicato in maniera mirabile: Als die Nazis die Kommunisten holten / habe ich geschwiegen; /ich war ja kein Kommunist. Als sie die Sozialdemokraten einsperrten, / habe ich geschwiegen; / ich war ja kein Sozialdemokrat. Als sie die Gewerkschafter holten, / habe ich nicht protestiert; / ich war ja kein Gewerkschafter. Als sie die Juden holten, / habe ich nicht protestiert; / ich war ja kein Jude. / Als sie mich holten, / gab es keinen mehr, der protestierte26.
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Prima vennero per i comunisti, / e io non dissi nulla /perché non ero comunista. / Poi vennero per i socialdemocratici / io non dissi nulla/ perché non ero socialdemocratico. / Poi vennero per i sindacalisti, / e io non dissi nulla / perché non ero sindacalista. / Poi vennero per gli ebrei,/ e io non dissi nulla / perché non ero ebreo. / Poi vennero a prendere me. / E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.
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Indice
1. LA SINDROME SCHLEMIL ...................................................................................3 2. LA PAURA TRA SENSO ED EVENTO .....................................................................5 3. LA DECOSTRUZIONE DELL’ESCLUSIONE E L’ANTICIPO DEL REALE ...................7 4. IL CONFRONTO DISCRIMINATORIO ...................................................................11 4.1) OPPOSIZIONE TRA ABILITÀ LOCALI E PERFETTIBILITÀ GLOBALE.................13 4.2) IDEOLOGIA DELLE METAFORE SPAZIALI ......................................................14 5. STRATEGIE DI CONOSCENZA DELL’ALTRO ......................................................15 5.1 DAI BISOGNI ALLE ISTITUZIONI .....................................................................15 5.2 THICK E THIN DESCRIPTION ...........................................................................17 5.3 L’APNEA CULTURALE: SPECIFICITÀ E RIMEDI ...............................................17 6. CONCLUSIONE .................................................................................................20