veneazzurred’europa
diari della bicicletta
Danubio, vena azzurra d’Europa, dal Bastione dei pescatori di Budapest al confine ottomano di Kalemegdan, la fortezza di Belgrado. Seicento chilometri in bicicletta tra campi e pianure, piazze austroungariche, memorie cristiane, ottomane, ortodosse. E ceneri calde delle guerre recenti: torri crivellate, ponti bombardati. L’acqua del grande fiume danza, accelera, chilometro dopo chilometro, percuote le chiome degli alberi negli argini allagati. Muove l’aria che alza crinoline e poliesteri di spose bambine che danzano al ritmo di percussioni e trombe sulle sue rive. Manda la brezza che solleva i miniabiti sulle gambe lunghe che incedono sulla Knez Mihailova, accompagnate dalle battute incalzanti del turbofolk. Segna il tempo dei pescatori sugli argini e sfida i corpi delle giovani bagnanti in bikini. Fango e sabbia sui telai, piedi polpacci e cosce sui pedali, il sellino che insulta i sederi. testo e foto di Giulia Bondi
L
a pianura si distende infinita, modulata da piccoli declivi di vigneti, screziata dalle teste dei girasoli, carica di umidità tra gli steli altissimi del mais transgenico, ferita dai cartelli ‘danger!! mines!!’ alle soglie dei boschi, ogni tanto all’orizzonte campanili e torri dell’acqua. La tratta Budapest-Belgrado, in larghissima parte pianeggiante, fa parte dell’itinerario europeo “Eurovelo 6”, la lunga ciclabile che segue il Danubio. Ungheria, Croazia, Serbia, con city bike, borse impermeabili montate sul portapacchi posteriore, più portaoggetti da manubrio, con un carico complessivo di circa 10 kg
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per ogni viaggiatore. No tende o saccapeli data la qualità complessiva di alberghi e ostelli. Dotazione necessaria: tutto l’occorrente per la riparazione della bicicletta. Dotazione indispensabile: protezione antizanzare, calzoncini imbottiti da bicicletta, giacca antivento, caschetto. In caso di problemi tecnici, i trasporti locali in treno o bus esistono, non particolarmente efficienti. Il fiume porta il profumo della Foresta Nera da cui nasce, si mescola a polvere e terra in una densità verde scura. Scorre incurante di simboli e bandiere che si sono alternate nei decenni. Il viaggio è una caccia al thesaurus di eco e dif-
ferenze. Ogni metro sui pedali è un pezzo di fatica e sudore da stemperare con birre ghiacciate, zuppe di frutta, fagioli e carne alla griglia. E pane, che prima si chiama kenyér e poi kruh e poi hleb, ma hanno sempre la crosta morbida e la mollica bianca le fette che arrivano disposte in bell’ordine sul tovagliolo candido. Budapest Venezia-Budapest. Arrivo alla stazione di Keleti, in cuccetta, compartimento da 6 posti, offerta speciale tariffa Smart, €60. Biciclette smontate e confezionate in pacchi compatti. Cena sull’isola di Sziget. Pernottamento: Karoly central hostel. I pezzi dei trabiccoli d’acciaio sono sparsi sul marciapiede della stazione BudapestKeleti. Le brugole avvitano, le mani si sporcano, gli imballaggi del trasporto finiscono nella spazzatura. Il caffè ha tavolini fuori e ombrelloni, le bici sono appoggiate alla fioriera, le birre sui tavolini. Poi, il periplo della città, torri bianche e ponti, bellezze locali in bici da corsa, i coni fiabeschi del Bastione dei pescatori, una festa di nozze con invitate in tacchi a spillo e capelli rossi e bimbette in rosa che corrono scalze a perdifiato, poi siedono sui gradini con l’affanno e i piedi grigi. I bar vendono bevande alla cannabis. Nel parco di Sziget, attraversando l’isola che si chiama Isola, sotto la luce fioca dei lampioni, le bici fanno lo slalom tra le famiglie a passeggio con palloncini e zucchero a velo, dal fondo di sei chilometri di viale alberato arrivano le ultime note del concerto degli Iron Maiden. E poi tutta la strada a ritroso, lavori in corso, fila davanti ai cambiavalute, orchestrine sulle piazzette lastricate, commessi dei fast food che non vedono l’ora di andare a dormire, bellezze fotoritoccate che ammiccano dai manifesti pubblicitari e giovani coppie in posa per l’album delle vacanze. Alberto e Luigi. Geometra il primo, fotografo il secondo, si sono conosciuti alla stazione di Modena un minuto prima di partire. Tra due giorni hanno appuntamento con un altro gruppetto di tre ciclisti, alla fine dell’Ungheria e inizio della Croazia. Uno è al primo viaggio in bicicletta, l’altro ha vinto campionati e gare di mountain bike e conosce la meccanica del mezzo quasi più della sua macchina fotografica digitale.
Forature: due. Strade secondarie asfaltate, argine asfaltato, argine sterrato, brevi tratti su strade statali. Colazione: Budapest. Pranzo: Savoyai Kasteli, Rackeve. Cena: nell’unico ristorante aperto di Solt. Pernottamento: Hotel Szalloda Etterem, Solt. Si pedala dritti verso la periferia di Budapest, gli edifici neoclassici lasciano spazio al gusto sovietico e subito vince la campagna. La ciclabile, sulla riva sinistra del Danubio, è una lingua d’asfalto tra il fiume e il muro di una fabbrica di esplosivi abbandonata, riconquistata da edere e felci. È rimasta in piedi una sola delle colonne all’ingresso e ora fa coppia con il cartello giallo che recita “Eurovelo 6”, con le dodici stelle della Ue e la freccia a indicare la direzione della ciclabile. Dal fiume non salgono le note di Strauss o il Sogno d’amore di Listz, ma un inatteso ritmo tribale. Dagli alberi sulla riva che coprono la vista, sbuca per primo un drago giallo, poi una bionda che percuote un grosso tamburo rosso. È un ‘otto con’ di canottaggio, il drago è la polena del natante, la bionda il timoniere che dà il tempo. Il fiume si allarga e la ciclabile si restringe, si costeggia la riva finché le gomme non rimbalzano pericolosamente sui sassi e la vegetazione fitta non insinua dubbi. Si torna indietro, all’incrocio di una piccola strada due pescatori scendono dagli scooter per dare indicazioni, suggeriscono itinerari disegnando arabeschi con le mani, accompagnati da commenti in una koiné francoinglese, italomagiara. Dalle borse sul manubrio esce la mappa austriaca, lei non può sbagliare. L’errore c’è stato e si paga in fatica e smog: dieci chilometri di statale, testa bassa e dita strette sul manubrio per non farsi spostare dai tir, prima di tornare tra le case di villeggiatura dai tetti a punta, ognuna con la sua barchetta davanti. [Rischio caduta a
Dal fiume non salgono le note di Strauss o il Sogno d’amore di Listz, ma un inatteso ritmo tribale
Gigi la brugola Budapest-Solt. 103 km. Totalmente pianeggiante, lato sinistro del Danubio. Partenza ore 9.30, arrivo ore 20.
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causa di una ragazza bionda, che butta il pattume coperta solo da due ciabatte e tre minuscoli triangoli del bikini; poi di nuovo paesi in stile austriaco, in una rotatoria un piccolo monumento commemora tre caduti del 1956. L’anno della rivolta al regime sovietico]. Alle 14 zuppa di frutta al ristorante Savoy di Rackeve, un palazzotto candido con grandi vetrate. Le sedie di plastica sparse sul prato e l’orchestrina di rom in gilet e cravatta ricordano un banchetto di matrimonio. Gli scaldavivande del buffet si aprono su lasagne e carne in umido, poi insalate e frutta all you can eat. Passa un ciclista americano in ciabatte infradito, la chitarra di traverso sul portapacchi. Le sedie non bastano, dall’interno ne hanno portate di legno, con lo schienale alto intagliato, che sembrano uscite da una baita altoatesina. Su una siede un uomo in braghette beige – stazza tabaccaia di Fellini in Amarcord -, calzini color carta da zucchero come la canotta spiegazzata, davanti, sul tavolo, tanti boccali di birra, tutti vuoti. Pedivelle e corone ricominciano a girare tra i campi di mais accanto ai canali, pochissimi incontri nel caldo umido del pomeriggio, bustine di integratori si sciolgono all’ombra delle sporadiche querce, finché sul bordo di una strada strettissima s’intravedono una ruota, un telaio, una sacca e un mucchietto disordinato di chiavi inglesi. «Can you do that?», implora un ragazzo con una t-shirt del Brasile, con in mano il copertone della sua city bike sgangherata. È Alan, di Bruxelles, viaggia in direzione Belgrado, lì lo raggiungeranno degli amici per andare al festival degli ottoni di Gu a. Luigi - già dalla stazione di Budapest ‘Gigi la brugola’ - lascia a malincuore la Ricoh digitale che tiene ininterrottamente accesa, armeggia un po’ sul velocipede fiammingo fino a capire che Alan non ha i pezzi di ricambio giusti. Il dono di una camera d’aria suggella l’incontro e si prosegue insieme. “E la linea ritorna a Fabrizio Maffei”, chiosa Alan con l’unica frase in italiano che conosce.Le soste sono state troppo lunghe, a Solt, all’arrivo, è buio, al primo marciapiede del centro abitato una
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nuova foratura. Gigi ricomincia, stavolta ostacolato da una nuvola di zanzare e dai consigli in lingua di un umarell locale, la specie umana diffusa in quasi tutto il mondo di quelli che si fermano a guardare e dispensano saggezza. Nell’unico ristorante aperto è rimasta solo la zuppa, acqua tinta di rosso da cui di tanto in tanto affiorano frammenti di pesce. Per darle consistenza, la si accompagna con tanto pane e una compilation di Celentano, Modugno e Loredana Berté. Tour de France Solt-Baja. 98 km. Totalmente pianeggiante, su strade secondarie o argini sterrati e sabbiosi. Partenza ore 10.30, arrivo ore 20. Forature: due. Pranzo: minimarket. Cena: Riverside pub, Baja. Pernottamento: Hotel Kaiser, Baja. La mattina a colazione la bici di Alan è di nuovo a terra. Sarebbero le ore migliori per pedalare, invece si gira per Solt tra contadini che caricano sacchi di grano e signore con i cesti di vimini per la spesa attaccati al manubrio, tra casette colorate e orticelli, strade piccole e cancelli di legno o ferro battuto, quasi tutti aperti. Alberto e l’anziano cicerone locale, uno a destra e uno a sinistra delle proprie biciclette, camminano conversando tra grandi sorrisi. Parlano ognuno nella propria lingua senza capire una parola l’uno dell’altro, fino a quando il calendario erotico appeso alla porta di un garage rivela inequivocabile la presenza di un vero meccanico in servizio. Alla bici di Alan serve un tagliando completo se vuole raggiungere Belgrado. Con lui magari ci si incontra più avanti. Alberto e Luigi ripartono cantando Brasil e La bella lavanderina, le magliette sudate stese ad asciugare sui portapacchi. La ciclabile asfaltata tra i campi è bella e torrida come un’autostrada, si può deviare per comprare una banana o una coca-cola nei minimarket dei paesini. Le richieste d’indicazioni si basano su toponimi ben scanditi e sulle dita, che scorrono sulla cartina o segnano numeri
per i chilometri. Il fiume scorre maestoso accanto a un mare di prati verdi punteggiati di balle di fieno, sull’argine sopraelevato motorini e mercedes fanno mangiare la polvere ai ciclisti, mentre accanto pascolano incuranti vacche e cavalli. Al chiosco dove ci si ferma a fare merenda, con salumi spalmabili e frutta spappolata, siede una coppia di contadini. Hanno davanti due pacchetti di sigarette semivuoti e le teste di entrambi sono coperte di dreadlock polverosi, neanche fossero appena tornati dal festival di Woodstock. Quando l’umidità si trasforma in timida pioggia, gli italiani incrociano un ‘treno’ di due coppie di tedeschi di mezza età, tutti con il caschetto in testa, il giubbetto catarifrangente indosso, il sistema di navigazione gps sul manubrio e di sicuro centinaia di altri gadget nelle sacche anteriori e posteriori. Sono diretti fino al delta, alla rumena Costanza, e stasera si fermano a Baja. Nel sentire che Alberto e Luigi oggi vogliono arrivare fino a Mohacs se la ridono di gusto. Da questo momento scatta un inseguimento feroce. Si sta attenti a non perdere mai di vista il gruppo germanico, nei paesi dove passano i camion con il megafono per affilare coltelli e riparare cucine a gas, poi lungo gli argini di terra bianca e di sabbia, dove le bici devono cercare di galleggiare alla massima velocità. Tour de France dei Kraftwerk (“L’enfer
du Nord: Paris-Roubaix…Dernière étape Champs Elisées…” etc.), colonna sonora nell’iPod, fa assomigliare la sfida a un videogioco. L’imprevisto è ancora una foratura. Sportivamente, i teutonici si fermano e offrono in prestito una mini-pompa ipertecnologica, ma sotto i baffi hanno sorrisetti di scherno, nella certezza che raggiungere il confine croato sia ormai impossibile. La buona notizia è che, preceduto da un sms recitante “Arrivo”, sullo sterrato compare Alan. Ha macinato chilometri sulla statale per fare prima, reca in dono una camera d’aria nuova di zecca. La ricomposizione del gruppo si festeggia con pizza e birra sulla riva del fiume, doccia multi-idromassaggio e sigaretta in accappatoio, affacciati al balcone dell’hotel Kaiser sulla larga piazza di Baja.
Il fiume scorre maestoso accanto a un mare di prati verdi punteggiati di balle di fieno
Cicogne e batraci Baja-Osijek. 123 km. Prima sul lato sinistro, poi sul lato destro del Danubio (a Mohacs si attraversa con un piccolo traghetto. 190 fiorini a persona + 175 a bicicletta). Argine sterrato e strade secondarie. Leggere salite dopo il confine croato. Sull’ultimo tratto prima dell’arrivo a Osijek (parco naturale Kopacki) attraversamento di cicogne, cavalli, cinghiali, pecore e rane sulla ciclabile. Forature: nessuna. Pranzo: Hemingway cafè, Mohacs.
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Ai lati della ciclabile pascolano pecore e cavalli, tornano le cicogne e attraversa Cena: Kod Ruze, Osijek. Pernottamento: Hostel Tufna, Osijek. «I trebbiatori dell’Impero sovietico hanno le spalle madide di sudore», declama Alberto al risveglio. Un breve saggio di poesia epica che rinfaccia ai coinquilini le ronfate notturne. Le bici sono a posto e si può ripartire, l’obiettivo è ricongiugersi con Glauco, Elisa e Francesca, preoccupatissimi per il ritardo sulla tabella di marcia. Per calmare il ping-pong di sms si fa un giro pro forma fino alla stazione ferroviaria. Non c’è nessun treno che faccia al caso del gruppo, e comunque non c’era nessuna voglia di prenderlo. Il terzetto esce dai portici della stazione cantando Kiss, di Prince: “non devi essere ricca per essere la mia ragazza… (You don’t have to be rich to be my girl…) con l’americano in infradito intravisto due giorni prima. Il treno lo si fa con le bici. Gigi spiega come andare a ruota e darsi il cambio, e per alcuni effervescenti minuti i tachimetri superano i 30 all’ora, fatto più che raro in tutto il viaggio, a parte le sporadiche discese. Il vento taglia la faccia del primo della fila «Coraggio y espero», incita Alan. Quando dal marsupio escono le barrette ai cereali, il belga commenta «Bonne idée» e Alberto approfitta per insegnargli un po’ di dialetto: «Bendessa» (Dio ti benedica). Quando Alan sta per ricambiare con una lezione di fiammingo, tre cicogne si posano sulla ciclabile tacitando tutti A Mohacs si attraversa per la prima volta il Danubio con un piccolo traghetto. Gigi fotografa i viaggiatori. Alber-
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to si perde a guardare i chilometri di fiume lasciato alle spalle, Alan regge la propria bicicletta con fierezza tra due file di automobili. Pochi chilometri e il confine croato. Le informazioni su dove mangiare sono il pretesto per attaccare bottone alle belle signore del posto, nessuna abbocca ma i tre finiscono un buon ristorante. «Annibale vinse a Canne, poi ci restò in mezzo negli ozi di Capua...», commenta Alberto alla fine del lunghissimo pranzo annaffiato di birre. Una fila di tir fermi ristora i ciclisti con la propria ombra, lungo la strada che porta alla frontiera di Udvak. Le rassicuranti stelline dorate che hanno unito monete e confini d’Europa lasciano posto allo spezzatino di valute e dogane detto Balkan. Il cielo azzurro è tempestato di nuvole e i camionisti incoraggiano il terzetto. L’accordo col gruppo di testa della corsa è incontrarsi a Osijek, ma dopo il primo gran premio della montagna del viaggio la sosta viene spontanea. Il minuscolo paese si chiama Dubosevica e accoglie i viaggiatori con il suo cimitero fitto di lapidi color grigio scuro. Quasi tutte portano stampata in nero lucido la foto del defunto, e alcune sono tombe di famiglia preparate in anticipo: accanto all’immagine del congiunto già sepolto, hanno il nome e la data di nascita di chi è ancora vivo. Al momento dell’irreparabile, non resterà che aggiungere le ultime due cifre dell’anno di morte. La piazzetta centrale del paese è dedicata alla “Gioventù croata”, un ragazzino sorridente si dondola sull’altalena col campanile sullo sfondo e un busto bron-
qualche cucciolo di cinghiale. Gli alberi si specchiano negli argini alluvionati. zeo di Karol Wojtyla con tanto di bandiera vaticana dà il benvenuto. Alan si concede una pennichella sotto un albero promettendo di farsi vivo la sera. La valuta è cambiata, non ci sono i soldi giusti per comprarsi una bibita fresca, ma dopo pochi chilometri ha inizio lo spettacolo gratuito del parco nazionale Kopacki, un paradiso terrestre su un ramo cadetto del grande fiume. Ai lati della ciclabile pascolano pecore e cavalli, tornano le cicogne e attraversa qualche cucciolo di cinghiale. Gli alberi si specchiano negli argini alluvionati. Acqua verde e cirri bianchi si tingono di rosa e le ombre si allungano. In giro solo qualche contadino sul trattore. È già quasi buio quando il parco proietta la sua ultima attrazione: la tragicommedia dei batraci suicidi. Un cartello avverte “Attraversamento rane”, migliaia di sagome dei poveri anfibi di ogni età e dimensione sono stampate sull’asfalto, molti altri cadranno al passaggio delle sei ruote. «Io ho una bellissima pedalata» ripetono i ciclisti come un mantra cercando di fare scorrere l’asfalto fino a Osijek e dimenticare la strage appena compiuta. Alla città, prima turca poi austroungarica, che si fregia pure del nome italiano di Ossero, si arriva trafelati, coi fanali accesi. Le strade dal pavé bianco sono illuminate da lampioni flebilissimi, timidi cerchi di luce arancione che aumentano il fascino decadente ma pulito delle facciate e delle piazze rettangolari. Dopo pochissimo ecco anche Alan. A cena scorre crno vino, denso e tannico, e Alberto rimpiange “una bella boccia di Grasparossa”.
La torre. Osijek-Vukovar. 44 km. Minimi saliscendi, strade asfaltate secondarie. Forature: una. Pranzo e cena a Vukovar, nei caffè al lato del Danubio. Pernottamento: Hotel Dunav. Merenda: a casa di Sandra, alle porte di Vukovar. Se il miracolo di Josip Broz Tito è stato tenere sotto la stessa bandiera gli ex sudditi di Francesco Giuseppe e i discendenti dei giannizzeri, il sestetto appena formato sulla piazza di Osijek non manca di vivaci differenze. Gigi è ancora addormentato, tutina aderente e maglietta coordinata con la scritta “Rock no war”. Alberto in maglia rossa, pantaloncini imbottiti neri e ginocchia doloranti. Da stamattina pedaleranno con loro Elisa e Francesca, sorridenti in occhiali da sole, caschetto e foulard colorati. Caschetto in testa anche per Glauco, in total black a cavallo di una bici candida, due sacche minimaliste senza nulla che sporge, minuscoli fanali a led, un’attrezzatura essenziale ma perfetta. Infine Alan, maglietta di cotone dell’ultimo tour dei Radiohead, pantaloncini consunti, sacca da palestra legata di traverso sul portapacchi, due piccole borse di attrezzi scelti a caso e una tenda - mai usata - agganciata al manubrio con un elastico. Il sestetto appena composto si ferma subito per un rifornimento a un mercatino di quartiere, dove la frutta si pesa ancora su vecchissime stadere di metallo. La strada di periferia è percorsa da vecchi tram. Accanto, muri di cemento costellati di pubblicità di vestiti e di formaggini.
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Si pedala lontano dal fiume, tra vigneti e paesini colorati. Fuori dalle case, le prime cataste di legna spaccata in vista dell’inverno. Senz’altro, tra poco, qualcuno inizierà a pelare peperoni per la conserva di ajvar. Una guerra fratricida consuma le ginocchia di Alberto: risparmiare la destra affaticata non fa che compromettere la sinistra. Quando Elisa fora, alle porte di Vukovar, Francesca approfitta della pausa forzata, abbandona il foulard bon ton e si trasforma in una sorta di zingara guaritrice. Risana l’infortunato con una serie miracolosa di esercizi basati su movimenti impercettibili dell’interno coscia. Intanto, si affacciano da casa Sandra, Vera e Nikola, con pizzette e kolaci per i forestieri. Insistono a larghi sorrisi e gesti perché si entri. Rifiutare è impossibile. Dal giardino con il cane e la vecchissima Volkswagen parcheggiata si arriva a una piccola veranda con i muri intonacati, il pavimento in cemento, un tavolo con le sedie di plastica e uno stereo posato per terra. Il marito di Vera fa il poliziotto, lei non ha più lavoro da molti anni. Stavano meglio quando c’era Tito, facevano perfino shopping a Trieste, ammette sorseggiando Nescafé, uno status symbol immancabile anche nella più decaduta delle case borghesi. L’ottimo caffè turco dal fondo melmoso di grani macinati fini lo offrono ormai solo i profughi e i rom. Vukovar. Degli 87 giorni di assedio del 1991, Vera e Sandra non fanno parola. Ne parla la torre piezometrica crivellata di colpi, e i buchi a rosa delle granate che costellano portici e palazzi. Il resto della città
passa un’altra frontiera. Ieri per poco non si è entrati in Serbia da clandestini, nell’entusiasmo della trattativa con un anziano Caronte che avrebbe trasportato bagagli e biciclette dall’altro lato per una cifra irrisoria. Mancava solo la Carina, la dogana, dove viene timbrato il passaporto. Chi abita qui può ancora attraversare il fiume come una volta, come se non fosse adesso un confine tra due Stati. Per gli stranieri, invece, la frontiera è trenta chilometri più avanti, tutto un saliscendi da intervallare con spuntini e succhi di frutta. Si lascia la Croazia sul “Most Ilok”, un ponte-terra di nessuno, sul cui cartello qualcuno ha scritto “Tito” a grandi lettere stampatelle. Al cambiavalute di Backa Palanka si perde giusto il tempo necessario per non assistere in diretta a un grave incidente sulla statale. Chi l’ha visto però è Marko, ventenne strampalato dal sorriso monumentale e la forza di un cavallo da tiro. In sella alla sua bici senza cambi segue il gruppo per oltre dieci chilometri, pur di continuare a esercitare il suo inglese ripetendo ossessivamente la dinamica dello scontro. Si è messo in testa che proseguirà anche lui fino a Novi Sad, dove può dormire dal cugino. Solo l’efficace rudezza di Alberto lo convince, infine, a tornare a casa. Poco dopo due anziane contadine, sedute sull’argine, su sgabelli portati da casa. Avranno una ventina di denti in due. Sono così diverse ma complementari, ognuna ha la propria stampella, ognuna la propria borsetta, una in rafia intrecciata e l’altra in tela. Una è apparentemente più vecchia e tutta in nero, tranne un accenno di fantasia leopar-
Si lascia la Croazia sul “Most Ilok”, un ponte-terra di nessuno, sul cui sembra di nuovo discretamente ricca e spensierata. “Il primo urbanicidio europeo dopo il 1945” si respira tra le tombe, le croci bianche e un sacrario pieno di ceri accesi, con le tinte del tricolore croato bianco, rosso e blu. Decine di lapidi portano le stesse date di morte e la stessa scritta, Hrvatski Branitelj, difensore della Croazia. Ma il racconto dell’insanabile odio etnico vacilla per un istante davanti alla tomba di Husein e Cilika, sepolti insieme, stella e mezzaluna per lui, croce per lei. I ponti Vukovar-Novi Sad. 99 km. Prevalentemente su strade secondarie. Nell’ultimo tratto su argine asfaltato e sterrato. Attraversamento del Danubio e del confine a Ilok (la frontiera è subito dopo il ponte), preceduto da circa 20 km di saliscendi. Forature: nessuna. Pranzo: minimarket di Celarevo. Cena: Novi Sad. Pernottamento: Hostel Sova, Novi Sad. Le prime luci entrano dalle finestre dell’hotel Dunav, quindici piani di pura nostalgia socialista e un enorme salone per le colazioni con foto di Vukovar al tempo che fu. L’acqua del fiume riflette il rosa dell’alba, vira sull’argento per qualche minuto, poi azzurro chiaro. Oggi si
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data sulla camicia. L’altra, più sbarazzina, ha un cappello da pescatore che le copre quattro ciocche di un biondo impolverato, e siede fumando a gambe larghe in pantaloni e gilè. La riva si trasforma ancora, diventa una pineta, intervallata ogni tanto dalle palafitte colorate di piccoli bar. Verso Novi Sad cominciano i lavori in corso, gli operai stanno stendendo enormi teli di plastica nera tra la ciclabile e il fiume, chi torna tra qualche anno forse troverà una discoteca. La piazza centrale è ordinata e piena di bancarelle. L’asfaltatura della via in cui sorge l’ostello restituisce un po’ di caos balcanico. Nella reception si parlano cinque o sei lingue diverse, gli zaini per terra sono tutti simili e l’intera stanza con tutti i presenti potrebbe trovarsi tranquillamente anche a Praga, Berlino o Copenhagen. Le biciclette dormono in un cortile invaso dalle ortiche. L’acqua Novi Sad-Stari Banovci. 85 km. Argini sterrati, piccoli saliscendi e strade secondarie. Forature: nessuna. Una caduta senza conseguenze e una rottura del cambio. Pranzo: Stari Slankamen, sulle rive del Danubio. Cena e pernottamento: Kondorovi Dvori, Stari Banovci. Ripartire dalla fortezza di Novi Sad, affacciata sui resti
dei ponti distrutti dalla Nato, è difficile. Nessuno, come fino a qualche anno fa, apostrofa i viaggiatori recriminando: “Italians? Thank you for bombing us!”. Eppure è inevitabile perdersi tra i meandri e le pietre della fortezza di Petrovaradin. Memoria e bellezza. E mistero in questa macchina da guerra costruita in pietra in mezzo al Danubio. Le sedie dei tavolini che si affacciano sul fiume sono incollate ai sederi. I caffè sono degli espressi slavati, ma durano come fossero turchi, con il fondo da lasciar depositare. E allora il gruppo si divide. In quattro, compreso il belga, partono per Belgrado. Alberto e Gigi ordinano
l’ennesimo caffè e restano a guardare l’acqua che scorre. A distrarli ancora, qualche chilometro più avanti, sarà l’abito a fiori della barista Vesna, certamente non più giovane ma ancora bellissima. È un piacere darle lezioni di italiano, sentirle ripetere “Pivo, birra” e “Laku noc, buonanotte”. Poco importa se il bagno è una latrina maleodorante, e se per lasciare il locale bisogna per forza accettare mezzo chilo di pomodori. Poche ore dopo, prevedibilmente massacrati dal viaggio nelle sacche, i pomi d’oro troveranno sepoltura in un cestino sulla riva del fiume. Oggi, il percorso previsto dalla cartina correrebbe
cartello qualcuno ha scritto “Tito” a grandi lettere stampatelle
lontano dal Danubio, ma il richiamo dell’acqua e dei riflessi delle barche è troppo grande. Al cartello che indica il villaggio di Stari Slankamen sono le biciclette a decidere da sole di scendere, giù per sette chilometri fino alla riva, dove si mangia una trota impanata dall’inconfondibile sapore di fango. Inizia una nuova trattativa, fallimentare, per convincere un pescatore a portare uomini e bici fino a Belgrado, e a sorpresa ricompattarsi col gruppo di testa recuperando le ore di ritardo. In qualche modo bisogna risalire, ma i volti sfiduciati delle tre babe cui si chiedono indicazioni non promettono nulla di buono. Spiegano gentilmente che un sentiero in pietra sale nel bosco tra le villette, ma le fronti sono corrucciate sotto i foulard neri. Infatti, ci sarà la prima caduta, e in una buca Gigi spacca addirittura il cambio. Ci si consola della disavventura comprando pesche appena raccolte e pedalando piano piano, tra i villaggi dalle casette colorate con il timpano in stile austroungarico e la data di costruzione, tutte milleottocento e qualcosa. Contadini, perdigiorno e bambini diventano star per l’obiettivo di Gigi. Gli uccellini sono note musicali sui fili della luce. Si fa a gara di lentezza con i carretti sovraccarichi trainati dai cavalli, fino a fermarsi a Stari Banovci, alle porte della capitale. L’albergo è il Kondor, sontuoso e kitsch, copriletto di raso rosso e cuscini a forma di cuore, angioletti manieristi alle pareti e portacenere decorati con facsimile di banconote da cento euro. A cena non ci sono altri avventori, ma la tensostruttura color perla in riva al fiume sem54 GALATEA
bra rimbombare ancora di chiassosi banchetti, invitati vocianti, cravatte slacciate e scarpe coi tacchi che si muovono frenetiche al ritmo di trombe, e forse kalashnikov. La confluenza Stari Banovci-Belgrado. 25 km. Brevissima e pianeggiante, allungata di 12 km per una erronea deviazione in zona industriale alla periferia di Belgrado. Si entra in città attraverso Zemun. Forature: nessuna. Pernottamento: Hotel Slavija, Belgrado. Il protagonista della mattina è un signore amputato di due dita, che tenta di fare segno con le mani di quanto manca a Belgrado. Era quasi fatta, se un passaggio a livello attraversato per sbaglio e uno sguardo troppo distratto sulla cartina non avessero portato a una deviazione di 12 chilometri, tra fabbriche chiuse e case eternamente in costruzione. Si sente già il caldo quando ecco il campanile di Zemun, ultimo bastione austroungarico prima di attraversare la Sava ed entrare nella città bianca, in realtà grigia e marrone di condomini coperti di graffiti. Un gigantesco uomo-città dai denti fatti di palazzi divora, su un murale, una foresta. Decine di rondini, in un altro, volano a spirale fino a trasformarsi in chiese e casette. Orientarsi è difficile, le strade hanno tutte cambiato nome, i toponimi titini sostituiti da nomi e cognomi di principi e vescovi medievali, col cirillico che segna nuovi confini. L’incontro con Glauco, Elisa, Francesca e
Alan è per caso, a un angolo di strada, stanno per andare a prendere il treno e consigliano l’hotel Slavija, fossile vivente degli anni Settanta pieno di fascino e moquette a pochi passi da San Sava. Davanti alla grande chiesa le grida sconnesse di una mendicante pazza. Dentro, l’ordinata devozione dei fedeli che sfilano davanti alle immagini sacre, lasciando offerte, veloci segni della croce e rapidi baci. Poi Knez Mihajlova, che non aveva un nome socialista, seduti in un bar con le immancabili pivo ad ammirare il passeggio di giovani famiglie e ragazze in minigonna, davanti a un muro vandalizzato dalla scritta “Jebem bam mater” (mi scopo vostra madre). E va beh. Che siano gli Stati Uniti d’America, la cui ambasciata ha ancora porte e finestre murate per questioni di sicurezza, o l’Unione Europea, i graffitari serbi non si stancano di vergare sulle pareti della città slogan contro gli imperi. Ciò che rimane, strutture in cemento armato vuote, dei ministeri bombardati di Kneza Milosa recitano “Kosovo è Serbia”, “1389” e un più ironico “Nato. Just boom it!”. Le luci dei lampioni si stanno già accendendo quando
Luigi, Alberto e le loro bici ora scariche di bagagli si affacciano sulla confluenza dei due grandi fiumi. Attraversano la fortezza di Kalemegdan tra le bancarelle che vendono cartoline d’epoca e banconote da un miliardo di dinari, fino a sedere sul muretto di pietra tra decine di giovani e migliaia di zanzare, a osservare la Sava che incontra il Danubio nella luce del crepuscolo. Lontano, la torre della televisione, i grattacieli di Novi Beograd, il centro commerciale di Block 70 con le sue chincaglierie cinesi. Lontano, prima, risalendo le acque del fiume, le cupole rosse di Budapest e la piazza quadrata di Osijek, le selle magiare e i campi di granturco. E più avanti, davanti a noi, lungo la vena profonda della vecchia Europa, nuovi confini, fino alle porte di Costanza con il suo solido nome latino, fino al delta dove l’acqua verde si scioglie nel Mare Nero. Meglio non chiudere gli occhi, per non restare intrappolati in altri Orienti, le scalinate di Odessa, gli smarrimenti di Trebisonda, le moschee scintillanti di Costantinopoli. Domani, un treno ci riporterà indietro. 왏
he siano gli Stati Uniti d’America o l’Unione Europea, i graffitari serbi non si stancano di vergare sulle pareti della città slogan contro gli imperi