Islanda: Hanno salvato i ricchi (Galatea, novembre 2011)

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reportage

«Hanno salvato i ricchi» Reykjavik. La crisi può sembrare invisibile a chi passeggia per Laugavegur. La strada, che un tempo portava ai lavatoi della periferia, ospita negozi eleganti, abbigliamento tecnico per difendersi dalla furia della natura, gioielli in lava vulcanica, morbidi pupazzetti di pelouche a forma di foche e pulcinelle di mare. Prezzi alti, suv a passo d’uomo. Il tratto che da Laugavegur scende verso il Parlamento si chiama Bankastraeti, via della Banca. A portare il paese al tracollo, la crisi di un settore bancario che dalla metà degli anni Novanta in poi si era espanso fino a occupare il 10% dei lavoratori del paese, portando gli uomini d’affari islandesi, i cosiddetti “banchieri vichinghi” a scalare le classifiche di Forbes degli uomini più ricchi del mondo, viaggiare su lussuosi jet privati decorati dal martello di Thor, festeggiare il proprio compleanno chiamando a cantare Elton John. In realtà, quelle stesse banche avevano concesso prestiti con troppa facilità, e accumulato debiti a breve termine per una cifra pari a più del doppio del prodotto interno lordo islandese (2003), raggiungendo alla fine del 2007 un’esposizione debitoria totale pari al 900% del Pil. Nel 2008, quest’isola - 66 gradi di latitudine nord, 100 mila km. quadrati, 320 mila abitanti - è stata la prima nazione occidentale a ricorrere a un prestito del Fondo Monetario Internazionale. Non accadeva dagli anni Settanta. testo e foto di Giulia Bondi

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l’Harpa, il nuovo mega auditorium in vetro e cemento costato 27 miliardi di corone (180 milioni di euro), e finiscono in Austurvollur, il piccolo giardino rettangolare su cui si affaccia l’Althingi, il Parlamento, erede dell’assemblea legislativa fondata dai coloni norvegesi nel 930, la più antica del mondo. Proteste Sabato 1 ottobre. Oltre a Rebecka, alcune centinaia di persone, famiglie con bambini, uomini e donne di mezza età, pescatori in tuta. La manifestazione è allegra e chiassosa, i partecipanti hanno cartelli che chiedono le dimissioni del governo, parodie di locandine di film dove politici e banchieri sono diventati una gang di “inglorious basterds”. Transenne e polizia per una fascia di dieci metri attorno al Parlamento, così possono entrare i deputati. Ivan sta in piedi sotto un manifesto che ironizza sui nomi delle banche e sulla continuità tra gli istituti di credito falliti e i nuovi che li hanno sostituiti. Arion Bank, subentrata alla Kaupthing dopo il collasso, nel poster è ribattezzata “Carry On Bank”, la banca che continua. Al posto di Landsbankinn, banca nazionale, “Landsbani”, morte nazionale; Glitnir, il terzo degli istituti di credito crollati, diventa “Glaepnir”, crimine, e poi ancora “Sparithjofur”, ladro di risparmi e “Aflandsbanki”, banca in alto mare. «Siamo qui perché il governo non sta facendo abbastanza per noi - spiega - i tassi di interesse sui mutui sono ancora troppo alti. Le famiglie soffrono e i banchieri continuano a incassare bonus». Ha perso risparmi per 6 milioni di corone (40 mila euro) e ha più debiti con la banca di quanto vale la sua casa. Dal palco parla Andrea Johanna Olafsdottir, che con l’associazione Heimlin cerca di fare pressione sul governo per una riforma delle politiche abitative. Molti mutui erano in valuta estera e sono schizzati alle stelle con la svalutazione della corona. Altri, indicizzati sull’inflazione, sono cresciuti del 35-40%. Uno dei risultati ottenuti è che chi non ha altre proprietà può vedersi ridurre il debito al 110% del valore dell’immobile. «Di fatto vuol dire che non possiedono neppure le chiavi di casa, ma è già qualcosa», chiarisce Olafur Isleifsson, professore dell’Università di Reykjavik. Fino all’ottobre 2008, sembrava che molti islandesi avessero trovato, in fondo ai tanti arcobaleni che solcano i cieli di quest’isola dal tempo mutevole, la pentola d’oro. L’avevano presa solo in prestito, da un sistema bancario fatto di debiti, deregulation, liquidità senza garanzie e rating gonfiati. L’isola è implosa, poi, quando il castello di carte è crollato, ed è rimasta in mutande. «God bless Iceland», era riuscito a dire l’allora primo ministro Geir Haarde il 6 ottobre, giorno in cui fallì la prima banca. Poi sono fallite tutte e nel vortice ci è finito anche il Governo.

“La crisi è finita!? I nostri stipendi non bastano più e loro hanno ricominciato a volare in prima classe”

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uck them all, che si fottano tutti, mi scusi il linguaggio». Rebecka abbassa a terra gli occhi azzurri. Sessanta anni, i bei capelli grigi, seduta su una panchina della piazza dell’Althingi, il Parlamento di Reykjavik, stretta nella giacca a vento nera. “La crisi è finita?! I nostri stipendi non bastano più e loro hanno ricominciato a volare in prima classe”. Attorno si sta svolgendo una delle manifestazioni che continuano a portare in piazza decine e centinaia di islandesi, con stipendi e pensioni mangiate dai debiti e dall’inflazione. Alle pareti dei bar le immagini di quei paesaggi dai colori soprannaturali che attirano ogni anno mezzo milione di turisti da tutto il mondo. Fuori, il vento spacca gli ombrelli e taglia il viso. Un ragazzo in tuta da neve carica tre casse di calici di cristallo su un’enorme jeep rossa. Le nuvole nere esaltano i fucsia, gli azzurri e i bianchi delle casette basse, dalle grandi vetrate che non si aprono mai. La pioggia va e viene, accendendo arcobaleni che sovrastano il porto, partono dal-

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Davanti al Parlamento per primo - ogni sabato alle 15 - il musicista gay Hordur Torfason, poi centinaia, infine migliaia di persone, che, dopo settimane di piazza, sono riuscite a ottenere nuove elezioni e le dimissioni dei responsabili della Banca centrale e dell’Autorità di sorveglianza finanziaria. Dal febbraio 2009 c’è il governo di Johanna Sigurdardottir. I conti sono stati risanati, le banche parzialmente statalizzate o passate ai creditori. E i loro profitti hanno ripreso a correre. Le famiglie, invece, sono fortemente indebitate. Negli anni grassi hanno comperato con

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varie forme di prestito fuoristrada e tv al plasma, villette e seconde case. Nel report della Special investigation commission, l’Islanda appare il laboratorio in miniatura di quella stessa deregulation neoliberista che ha travolto il sistema finanziario nordamericano. A Reykjavik, chi scende in piazza non si sente protagonista di una rivoluzione, ma vittima di un’ingiustizia. Torge ha 39 anni e fa il poliziotto. È davanti al Parlamento assieme ai due figli, biondi come lui. «Per fortuna oggi non sono in servizio. È dura quando sei dall’altra parte,


indossi la divisa mentre vorresti essere a manifestare anche tu». Torge ci ha rimesso meno di altri: «Non ho perso il lavoro, ma il mio mutuo è aumentato, come tutti, e il salario è diminuito». La svalutazione della corona ha fatto aumentare i prezzi di tutto ciò che è importato, la benzina è salita da 80 a 300 corone (circa 2 euro) al litro. Peter e sua moglie hanno portato in manifestazione anche il figlio piccolo e il cane. «Siamo qui perché il Governo in realtà ha salvato i ricchi, non la gente comune». Personalmente la famiglia di Peter ha avuto pochi problemi, sono qui per sostenere la causa: «Teoricamente oggi siamo noi i proprietari delle banche, ma in realtà non le controlliamo. Ci chiedono solo di pagare». Silla ha 53 anni - «ora lo sa tutta l’Islanda», sorride - tipografa, da tre anni disoccupata. «Le banche continuano a prosperare, mutui e affitti per la gente comune sono sempre più alti e i ricchi sempre più ricchi». Un berretto rosso con lunghe trecce di lana le nasconde i capelli biondi. In mano ha un cartello che dice: «Elezioni ora! Per un nuovo governo coraggioso e non corrotto». Gunnar e sua moglie si riparano sotto un enorme ombrello nero. Lui sventola una bandiera islandese, lei ha quella dell’associazione ‘Fifill’, tre fiori di tarassaco in campo arancione. «Abbiamo scelto questo fiore perché ricresce sempre e perché la nostra è una protesta pacifica. Vogliamo portare via il potere alla finanza e restituirlo alle persone». E come? «Take the square, revolution», risponde lui, con gli occhi chiari pieni di fiducia. Di Johanna Sigurdardottir, primo ministro dal 2009, dopo le settimane di proteste che hanno portato Geir Haarde a dimettersi, ora dicono: «È peggio di quelli di prima. Gli altri, almeno, erano apertamente neoliberali. Lei ha fatto un sacco di promesse, ma è schiava delle banche esattamente come loro». Sul palco è salita una giovane brasiliana, canta Garrota de Ipanema e la protesta si scioglie in danza.

La nuova Costituzione Il Constitutional Council, è un’assemblea di 25 cittadini, eletti tra 522 candidati senza la mediazione dei partiti, che ha lavorato da aprile a luglio 2011 per redigere la bozza della nuova Costituzione. Ne cura l’organizzazione Thorsteinn Sigurdsson - studi di Business Administration negli Stati Uniti e un lavoro di portavoce di ‘Skatar’, l’associazione islandese dei Boy scout. «Ho saputo che cercavano un responsabile e ho presentato domanda, anche se ero scettico, perché qui i posti pubblici sono assegnati per clientele politiche». Viene scelto e, con un budget di 500 milioni di corone (3 milioni e 300 mila euro), fa lavorare i 25 delegati (per 4 mesi stipendiati come parlamentari) su tavoli tematici, con discussioni settimanali sulle bozze degli articoli e la possibilità per i cittadini di aggiungere commenti e osservazioni attraverso internet e i social network. Per presentarsi al Consiglio basta avere la maggiore età, la fedina penale pulita, e raccogliere 30 firme di cittadini a proprio sostegno. Se la Costituzione passerà l’esame del Parlamento, renderà obsoleto l’attuale sistema di quote sulla pesca, spiega la delegata, Katrin Oddsdottir: «Quello che abbiamo voluto sancire, prendendo l’esempio da paesi come l’Ecuador e la Bolivia, sono i diritti della natura in se stessa. Quando scriviamo che tutte le risorse che non sono già in mano privata apparterranno per sempre al popolo islandese, ci riferiamo alla terra, al sottosuolo, e soprattutto al mare. Il sistema delle quote ha avuto effetti positivi nel preservare le specie ittiche a rischio, ma sostanzialmente ha regalato lo sfruttamento alle grandi compagnie. Un nuovo sistema dovrà prevedere che questi diritti non siano ceduti una tantum, ma affittati periodicamente, per non creare oligopoli e dare benefici all’intera popolazione». Freyja Haraldsdottir si è battuta per includere nella bozza di Costituzione il “diritto alla vita, che ogni essere umano eredita dalla nascita”. «Ci tenevo – chiarisce - perché sono

«Quello che abbiamo voluto sancire sono i diritti della natura in se stessa.»

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stanca che le persone mi fermino al supermercato per dirmi quanto gli dispiace che io esista». Freyja, 25 anni, soffre di osteogenesi imperfetta e vive su una sorta di piccola lettiga, con un’assistente personale che si prende cura di ogni sua esigenza. Un handicap che non le ha impedito di laurearsi, diventare la responsabile di un centro che studia e promuove diritti e ausili per i disabili, e fare parte del Consiglio costituzionale. «La vita sarebbe molto noiosa se fossimo tutti uguali», conclude Freyja, titolare del nome della Dea dell’Amore nella mitologia nordica. «Ci sarebbe piaciuto poter inserire qualche articolo sulla regolamentazione del sistema finanziario - ammette un altro consigliere, Gisli Tyggvarson - ma non siamo riusciti a trovare un accordo. A evitare che un’altra crisi si possa ripetere, sarà il nuovo sistema di checks and balances che abbiamo previsto tra i poteri dello Stato, rafforzando le comunità locali e prevedendo una serie di istituti di democrazia diretta, la possibilità di presentare leggi di iniziativa popolare e sottoporre a referendum le scelte del Parlamento». Gisli lavora come responsabile dell’Autorità di tutela dei consumatori islandesi e aveva tentato di creare una commissione incaricata di rinegoziare collettivamente i tassi di interesse sui mutui. «Ne avrebbero dovuto far parte rappresen-

tanti dei consumatori e delle banche. L’idea è fallita e oggi le persone trattano con le banche soprattutto a titolo individuale, con meno potere contrattuale». Il Consiglio ha approvato all’unanimità e consegnato la bozza di Costituzione. Spetta al Parlamento valutarne l’ammissibilità ed eventualmente modificarla, e c’è chi teme che il lavoro della Costituente possa essere vanificato. «I membri del Parlamento si sono sentiti esautorati nella loro prerogativa legislativa, ma non credo potranno snaturare il nostro bel lavoro» dice Astros, fiduciosa.

«Quello che servirebbe all’Islanda è entrare nell’Unione Europea. Vedo invece una mentalità sempre più chiusa»

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Saghe, famiglie, banche Davanti a una birra da ‘Solon’, il bar più noto di Bankastraeti, Kolfinna Baldvinsdottir, 40 anni, giornalista dice convinta: «Quello che servirebbe all’Islanda è entrare nell’Unione Europea. Vedo invece una mentalità sempre più chiusa e all’Europa preferiamo la Cina». Pechino sta realizzando un’enorme ambasciata nella capitale. Gli investimenti cinesi sono iniziati dal 2008. Il miliardario Huang Nubo attende l’autorizzazione dal Governo per acquistare Grimsstadir, un vasto terreno a Nordest dell’isola, sul quale costruire un resort turistico di lusso. Nubo è legato da un’amicizia pluriennale con il marito di Ingibjorg Solrum Gisladottir, ministro degli Este-


ri negli anni della crisi, ora in partenza per Kabul come funzionaria delle Nazioni Unite. Il premier Johanna Sigurdardottir preme per l’ingresso nella Ue, ma il presidente della repubblica va più spesso in Cina che a Bruxelles. A sentire Kolfinna, questo minuscolo paese è diverso da come lo dipingono. Reporters sans frontières gli assegna il primo posto per libertà di stampa, Transparency international l’11esimo posto su 178 per corruzione percepita, l’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite il primo posto al mondo nel 2007 e nel 2008. «Sarebbe una lunga storia - dice Kolfinna - e per raccontarla bisogna presentare i personaggi, proprio come nelle saghe. Per esempio, Stefania Ingibjorg, erede del gruppo di grande distribuzione Hagkaup, sposata con Jóni Ásgeiri, rampollo della famiglia che controllava l’altra catena di supermercati, Bonus. È nato così il colosso Baugur Group, che oltre al 60% del mercato della grande distribuzione controlla il canale televisivo Stod 2 e il quotidiano Frettabladid, ed era tra i principali debitori della Landsbanki prima del crollo». Tra chi doveva più soldi alle banche islandesi c’erano proprio i loro più grandi azionisti, che, indebitandosi, acquistavano società estere e squadre di calcio. Il primato del più alto prestito ottenuto va alla Novator, la compagnia di investimenti di Thor Bjorgolfsson, uno degli utrasarvikinga protagonisti dell’esplosione bancaria. A Thor Bjorgolfsson, e al suo antenato Thor Jensen, anche lui imprenditore a inizio Novecento, è dedicata un’ante-

prima nella sezione ‘Icelandic panorama’ del Reykjavik film festival. Il documentario, della regista danese Ulla Boje Rasmussen, si chiama La Saga dei Thor. All’uscita il pubblico è ammutolito e depresso. La storia del giovane Thor comincia a metà degli anni Ottanta, quando – lui quindicenne – il padre viene arrestato per uno scandalo legato all’industria della pesca. Thor va a studiare negli Stati Uniti e nel 1991, all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, investe in una fabbrica di birra a San Pietroburgo, che poi rivende all’Heineken. Col denaro appena incassato dalla multinazionale olandese, e tanta voglia di ristabilire l’onore della famiglia, Thor Bjorgolfsson torna in patria proprio quando il governo ha deciso di privatizzare il sistema bancario. La sua famiglia diventa così proprietaria di una larga fetta della Landsbanki, e come ironizza l’economista Thorvaldur Gylfason in uno dei suoi saggi sulla crisi, metterà in pratica il detto secondo cui «il modo migliore per rapinare una banca è averne una». La famiglia di Thor Bjorgolfsson è considerata legata all’ Independent party e privatizzazione della Landsbanki diventa un affaire di partito. Finiscono sul mercato anche le altre due principali banche, Glitnir e Kaupthing, con un occhio di riguardo per gli azionisti vicini alla Social Democratic Alliance, il secondo partito. «La nostra società funziona per network di conoscenze, per clan familiari. È ciò che in Italia si chiamerebbe mafia», continua Kolfinna, tornata in patria nel 2007 dopo 10 anni all’estero. «La so-


cietà era impazzita. Tutto ruotava attorno alle banche, ogni progetto, ogni idea. Anche i miei amici parlavano solo di azioni e finanza. Nell’autunno 2008 abbiamo bruciato la bandiera della Landsbanki e la gente è rimasta choccata. L’apice è arrivato dopo, nel gennaio 2009, quando anche le persone comuni scendono in piazza con pentole e padelle. E molti islandesi - sorride - erano convinti di essere stati loro a inventare la cacerolada». Corruzione all’islandese «Ci sono piccoli segnali, un’associazione come ‘Alda’ cerca di cambiare la mentalità delle persone, promuove pratiche democratiche e rispetto della natura, sostituisce il concetto di crescita con quello di sostenibilità. Piccoli esempi, in generale le persone continuano a rivolgersi ai propri compagni di scuola, che magari siedono in Parlamento, o al Governo, se hanno bisogno di sistemare qualche affare». I mezzi di informazione sono fermi «l’editore di uno dei quotidiani principali, Morgunbladid, è David Oddsson in persona» continua Kolfinna. Primo ministro dal 1991 al 2004, Ministro degli esteri e tra il 2005 e il 2009 Governatore della Banca centrale, Oddsson è tra coloro che la Commissione investigativa ha ritenuto ‘negligenti’ rispetto ai doveri di vigilanza sul sistema finanziario e bancario. Dal Parlamento l’autorizzazione a procedere è arrivata solo per Geir Haarde, l’allora primo ministro, che per alcuni capi di imputazione subirà un processo penale.

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Tuttavia i politici islandesi che hanno favorito l’ascesa dei grandi banchieri omettendo i controlli, non lo hanno fatto per arricchirsi personalmente. «La nostra è una società molto abituata ad aggirare le regole. Siamo orgogliosi di essere piccoli, di riuscire a fare le cose in fretta» spiega Salvor Nordal, direttrice del Centro di Etica dell’Università d’Islanda «quando i banchieri ostentavano attici a Manhattan, la gente li applaudiva. Gli stessi che oggi li chiamano criminali». Salvor ha fatto parte di un Comitato etico che ha cercato di analizzare il collasso bancario a partire dalla mentalità islandese, «c’è un gran bisogno di trovar colpevoli, ma servirebbe una riflessione sulle responsabilità collettive. Certo, i legami tra governo e affari erano troppo profondi. Amicizie, matrimoni. Ma il boom delle banche ha influenzato l’intera società. E dopo la prima ondata di proteste non sono emerse proposte reali di riforma». Viktor e Laufey sono due studenti del primo anno, lui di Scienze politiche, lei di Inglese. I genitori hanno impieghi statali e la crisi li ha solo sfiorati. «Sarebbe bello che il paese imparasse qualcosa - ammette Viktor - poterci far stimare all’estero per il nostro welfare e non per i nostri miliardari». Ma la gente è ancora concentrata sull’apparenza, e i coetanei «viziati e abituati ad avere tutto. C’è perfino una banca che pubblicizza, sui giornali per teenager, prestiti tramite sms – Laufey sorride sotto gli occhiali spessi «puoi chiedere fino a 40mila corone (circa 265 euro), ti ar-


rivano subito sul conto e in quindici giorni le restituisci» (gli interessi possono superare il 23%, più oneri aggiuntivi, come spiegano le clausole sul sito web della ‘Hradpeningar’.) Viktor è convinto che, quando starà a loro entrare nel mondo del lavoro, l’Islanda avrà trovato nuove risorse per rinascere: «Prima delle banche abbiamo avuto le aringhe e ora dicono che forse c’è il petrolio» chiosa Laufey. Non sono pochi i giovani adulti che scelgono l’emigrazione, i più qualificati, tra l’altro. Il Ministro della Sanità ha lanciato un appello perché troppi medici si trasferiscono per lavoro in Norvegia. Roberto è rimasto, anni 30, italiano, arrivato nel 2007, «attirato dagli interessi attorno al 15% ho spostato i miei risparmi dalle Bermuda e dalla Svizzera a un conto di deposito islandese. Non sono uno speculatore, avevo soldi ai Caraibi e ai piedi delle Alpi perché ho lavorato lì come cuoco». Ma il 6 ottobre 2008, quando apre la pagina dell’home banking, vede che quasi il 40% dei suoi risparmi se n’è andato. Fa appena in tempo ad andare in banca e ritirare il resto: «Amici che sono andati poche ore dopo non ce l’hanno fatta», racconta mentre guida la jeep della sua agenzia di viaggi «ho dovuto investire per forza in una nuova attività qui, con la svalutazione della corona i miei soldi non valgono più nulla, fuori da qui». Del paese è innamorato, e medita di aprirvi un salumificio. Gardabaer, comune satellite di Reykjavik, casette a schiera tutte uguali costruite negli anni del benessere. Vi abita Gusta, che l’ascesa e il collasso li ha visti da vicino, perché per quasi trent’anni ha lavorato in banca. Serve una torta deliziosa, prepara il caffè e mostra con orgoglio il maglione che ha appena finito di sferruzzare, lana islandese e tipiche decorazioni jacquard. «Lavoravo alla Spron, una piccola cassa di risparmio. Eravamo cresciuti come molti, da 70 dipendenti alla fine degli anni Ottanta eravamo tre anni

fa più di duecento. A quanto ne so, i nostri conti erano in ordine, eppure, a marzo 2009 ci hanno chiuso». Non sapeva le motivazioni reali nemmeno il direttore, che scoppia a piangere quando convoca i dipendenti. «I correntisti hanno ricevuto la comunicazione che i loro conti erano passati alla Arion Bank e ai dipendenti è stata proposta la disoccupazione o il passaggio al nuovo istituto». Lunedì 3 ottobre Di nuovo in piazza, serata gelida. Non c’è il palco, ma, fin dal pomeriggio, anziane signore e giovani punk dai giubbetti borchiati si danno da fare per riempire la piazza di barili di metallo verdi e rossi. Alle 19, in corrispondenza con il discorso della premier Johanna Sigurdardottir, comincia la cacerolada. Tutti hanno portato da casa cucchiai e martelli, li picchiano con convinzione su pentole, padelle e scatole di biscotti. Qualcuno combatte il gelo con piccoli falò dentro i bidoni colorati, dove hanno ritagliato fori per la combustione a forma di cuore o di casetta. Nel rumore assordante, quasi non si sentono le parole di Olafur Isleifsson, economista dell’università di Reykjavik. «Una delle vittorie del popolo islandese - spiega - sono stati i referendum che hanno respinto le proposte di rimborso ai correntisti esteri dei conti Icesave. Landsbanki era una banca privata, e la responsabilità verso i risparmiatori stranieri è soltanto loro» sostiene. Ora il rischio è che i governi olandese e britannico ricorrano alla Corte di giustizia europea. Secondo Olanda e Regno Unito, infatti, rifiutare di rimborsare i correntisti stranieri significherebbe violare le normative dello Spazio economico europeo, di cui l’Islanda fa parte, sulla non-discriminazione in base alla nazionalità. Se la Corte darà loro ragione, Governo e cittadini islandesi rischiano di pagare anche di più di quanto avrebbero pattuito gli accordi bocciati con i re-

«Landsbanki era una banca privata, e la responsabilità verso i risparmiatori stranieri è soltanto loro»

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ferendum. Olafur parla della farsesca gestione delle banche prima del crollo:«Erano gli stessi grandi azionisti a farsi concedere crediti enormi, risucchiando le risorse delle proprie banche». Sull’ingresso nell’Unione Europea Olafur non si pronuncia. Gran parte della popolazione è ostile, teme che la Ue sia interessata alle risorse naturali e ittiche dell’Islanda. «Vorrei prima vedere l’accordo e poi esprimere un parere, certo la questione del pesce sarà cruciale. Appartenere all’euro, poi, avrebbe impedito la svalutazione della corona, ma d’altronde il turismo e i settori dell’industria che si rivolgono all’esportazione ne hanno beneficiato”. Intanto, dall’altra parte della piazza, il ritmo tribale non dà tregua. Picchiano sulle latte di metallo casalinghe e studenti, pensionati e lavoratori, in una rabbia rumorosa che andrà avanti per quasi tre ore.

decentemente, nonostante Unnar, oltre al commesso di negozio, facesse il riparatore di automobili e il tassista di notte nel weekend. Sono tornati nel paese di origine della moglie. Hanno chiesto una consulenza alla società Spara, per capire come meglio ripagare i vari mutui accesi ed evitare l’escalation degli interessi. Tra pochi anni saranno liberi dai debiti. Unnar ha tempo per le figlie, prima le vedeva solo a colazione la domenica, prima di buttarsi sul letto distrutto. Nel paradiso bianco e azzurro della laguna glaciale di Jokulsarlon lavora Runolfur, detto Ronnie, 51 anni, per 23 pescatore di merluzzi nel villaggio di Hofn. «Amavo davvero navigare, finché il sistema delle quote non ci ha reso la vita impossibile». Il sistema islandese che assegna alle imprese quote di tonnellaggio per le diverse specie ittiche, e che ora anche l’Unione Europea potrebbe prendere a modello, ha rafforzato un oligopolio di poche compagnie medie e grandi, alle quali progressivamente i piccoli pescatori sono stati incentivati a cedere le proprie quote. Una spirale che sta portando allo spopolamento molti piccoli centri, e ha attirato anche una condanna formale delle Nazioni Unite. Ronnie non si è dato per vinto, lavorare per una grande compagnia non gli piaceva, così è diventato ‘pescatore di uomini e cacciatore di aurore’. Assieme a due dei suoi cinque figli, lavora alla laguna glaciale di Jokulsarlon. Per mare ci va ma, per accompagnare i turisti agli iceberg che si staccano dal Vatnajokull come mostri fantastici di neve e cristallo, qua e là screziati di nero per la cenere delle continue eruzioni. Si naviga su mezzi anfibi dipinti di bianco e giallo, l’amico di Ronnie che gestisce le gite sulla laguna li ha comprati dall’esercito statunitense che li aveva progettati per il Vietnam. Nei mesi in cui non c’è turismo, Ronnie arrotonda lo stipendio con la sua passione, la fotografia. I suoi scatti di psichedeliche aurore boreali sono in vendita nella caffetteria di Jokulsarlon. Quando ci sono i turisti si lavora tutti i giorni, e d’in-

«Amavo davvero navigare, finché il sistema delle quote non ci ha reso la vita impossibile»

Cambiamenti Fuori Reykjavik tutto cambia. La furia d’Islanda non è più quella degli indignati che smartellano forsennatamente contro le transenne che proteggono l’Althingi. È la forza delle cascate d’argento che percuotono la terra lavica, il calore sotterraneo che ribolle l’acqua dei geysir, il mistero dell’oceano visto dal faro di Dyrholey, il candore del Vatnajokull, il ghiacciaio più grande d’Europa. Fuori Reykjavik, tra chilometri e chilometri di pascoli per pecore oberate di lana, la vita si svolge attorno ai distributori di benzina e alle fattorie. Nella minuscola cittadina di Kirkjubæjarklaustur, a due passi dallo spettacolare parco nazionale di Skaftafell, Unnar, 40 anni, gestisce il piccolo supermercato. È alla cassa, le persone si affrettano per gli ultimi acquisti e tutti, compreso un anziano in carrozzella con un berretto di lana calcato sugli occhi, pagano con la carta di credito, anche solo per una confezione di pesce secco e un pacchetto di caramelle. Unnar si è trasferito da meno di un anno, la moglie fa l’insegnante in una scuola che ha in tutto 42 bambini, tra gli allievi ci sono anche le loro due figlie. A Reykjavik non riuscivano a vivere 48 GALATEA


verno ogni momento è buono per saltare sulla jeep assieme al cane Baldo e andare a immortalare la magia dei paesaggi islandesi. Fuori Reykjavik ci va appena può anche Kristinn mar Ársælsson, che assieme alla compagna, Solveig Alda Halldorsdottir, ha fondato nel 2009 all’associazione Alda, che in islandese significa “Onda”. “Ci siamo accorti che il nuovo governo, pur avendo tentato di ricostruire il sistema difendendo il welfare e l’istruzione, non intendeva cambiare la struttura del sistema finanziario”. Alda, nei cui gruppi di lavoro partecipano decine di cittadini, chiede invece un cambiamento di sistema: forme di democrazia deliberativa sul modello di Porto Alegre, una regolamentazione del sistema finanziario “che metta fuori legge le transazioni puramente speculative come i derivati”, l’avvio di esperienze di social banking “che finanzino i progetti non in base ai profitti ma all’utilità sociale”. Processi lenti ma, secondo Kristinn, irrinunciabili: “perché oggi, in tutto il mondo occidentale, il denaro è considerato più importante delle persone, e perché consumiamo risorse a un ritmo insostenibile”. «Il vero e più grande cambiamento è che ora anche mia nonna sa che può scendere in piazza, prima non lo avrebbe mai fatto», riprende Katrin Oddsdottir davanti a toast e patatine fritte al Café Paris di Reykjavik. Avvocato impegnato nella difesa dei rifugiati politici, 34enne, Katrin è

sposata con una coetanea e si definisce una femminista. «Nel periodo delle proteste avevamo anche messo in piedi un ‘Governo di emergenza delle donne’. Molti dei responsabili della crisi erano maschi in cravatta, che hanno passato la vita a moltiplicare denaro e non hanno idea di cosa sia la realtà». Katrin ha fatto parte del Consiglio Costituzionale «perché sogno di cambiare il mondo, e quello mi sembrava un buon modo di fare la mia parte, per un tempo limitato, senza lasciarmi corrompere dal potere, come succede a chiunque entri in politica». Ricorda bene di quando fu bruciato l’enorme albero di Natale di Austurvollur, davanti all’Althingi, o quando la maggior parte dei manifestanti andò a offrire tè e cioccolatini alla polizia, cui il giorno prima erano state lanciate uova. «La protesta funzionò perché aveva delle richieste chiare, protesta nonviolenta ma implacabile». Non è una vera rivoluzione, c’è ancora tanta strada da fare: «Il Governo di Johanna sta facendo del proprio meglio, ma tutto sommato stanno ricostruendo il modello precedente, una specie di Frankenstein, un morto che cammina. Per abbattere il sistema finanziario globale ci vuole più tempo. Per ora abbiamo capito che possiamo alzare la testa. Che i ricchi e i potenti non hanno sempre ragione. Che il potere appartiene alle persone. È un inizio». Sorride Katrin, slega la bicicletta e comincia a peda왏 lare controvento.


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