Trimestrale internazionale di attualitĂ , storia e cultura esoterica Anno XXII - Settembre 2010 - numero 3
Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXII - n°3 Settembre 2010 Direttore Editoriale e Responsabile
Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della G.L.D.I. degli A.L.A.M. Piazza del Gesù, Palazzo Vitelleschi LUIGI PRUNETI Direttore ANNA GIACOMINI Comitato di Redazione ALDO A.MOLA FABRIZIO DEL RE , LINA ROTONDI, coordinatrice per l estero LUISA CERAVOLO, coord. per il nord RENATA SALERNO, coord. per il sud SILVIA BRASCHI, Eventi e Segreteria Comitato Scientifico MAURIZIO COHEN GIUSEPPE LATERZA PAOLO MAGGI ALDO MARIOTTINI RAFFAELE MAZZEI MICHELA TORCELLAN SANDRA ZAGATTI GIOVANNA LA BELLA, consulenze legali hanno collaborato a questo numero LUCIANO ARCELLA MASSIMO CENTINI SERGIO CIANNELLA MAURIZIO GALAFATE ORLANDI CLIZIA GALLAROTTI ANNA GIACOMINI LUCA IRWIN FRAGALE VALERIA KOU J. HWA PAOLO MAGGI SILVIA MALAGUZZI ALDO ALESSANDRO MOLA LUIGI PRUNETI ALDO PAOLO ROSSI MICHELA TORCELLAN progetto e realizzazione grafica PAOLO DEL FREO La copertina è stata ideata da Anna Giacomini fotografia e realizzazione di Paolo Del Freo
2 Noi e il tempo
Anna Giacomini
38 Tradizione e Modernità Luciano Arcella
4 Ultimissime dal Belpaese
44 La croce
Massimo Centini
Luigi Pruneti
10 Equinozio d’autunno 2010
52 Sant’Antimo
Michela Torcellan
Luigi Pruneti
12 La Loggia
Sergio Ciannella
56 Dietro il velame del triplice volto Silvia Malaguzzi
18 Alberto Giannini Aldo A.Mola
60 Condivisione,equità e solidarietà Clizia Gallarotti
24 Il gene, il meme e la parola perduta
64 La grande Dea
Paolo Maggi
Michela Torcellan
28 Dalla Wunderkammer al museo virtuale
68 Dalla Dea Bianca alla Madonna Nera
Massimo Centini
Michela Torcellan
70 La grande sintesi dell’universo Valeria Kou J. Hwa
30 L’un contro l’altro armati
74 In Biblioteca
M. Galafate Orlandi
Massoni... Pietrantonio... 1000 libri
34 Nella selva oscura dei segreti da svelare
79 Fregi di Loggia
Aldo Paolo Rossi
Noi e il tempo
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ssistiamo un po’ inerti e certamente stupiti ad un fenomeno di carattere ermeneutico che ci conduce a riflettere in modo profondo sulle capacità creative dell’uomo di oggi. Nei vari campi dell’espressione umana, ci appare quasi inevitabile una strada che deriva la sua origine da quella compagine di scassati lacerti che ci ha lasciato la cultura dagli anni ‘30 fino alla fine della guerra. Non si vogliono qui proporre per ciò che non sono, l’idea, le volumetrie, gli
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Anna Giacomini spazi infranti o quelli ricostruiti intellettualisticamente - dagli artisti della forma e non - operativi agli inizi della seconda metà del ‘900. Curiosamente però il Massone rileva che, in un momento di generale riformulazione estetica, egli è colpito più che altro dall’effervescenza di una globale ricostruzione; ossia dal desiderio di impossessarsi di ogni tipo di residuato bellico per creare nuove forme. Si tratta naturalmente di nuova materia prima, e non pasticcio fatto in economia. Se ne possono portare molteplici esempi.
Il gusto per l’auto d’epoca, che ha fatto di esemplari obsoleti oggetti da museo; o si potrebbe trattare di collezioni di vini che non saranno mai bevuti; o ancora di raffinatissimi cronografi che ormai hanno solo della reliquia essendo stati ampiamente surclassati da tutti gli economici swatch. Le signore si piegano reverenti a palpare sete sfinite di abiti vintage, ossia anni ‘30- ‘40, estasiate accarezzano pellami sporchi di vecchie muffe, oppure nei mercatini si contendono oggetti veramente da poco, quando non addirittura
falsi studiati apposta per illudere l’istinto del ricercatore che è pronto a sorgere ad ogni stimolo. Sembra una grande commedia in cui il possibile si mischia con l’impossibile, in attesa della mente ordinatrice che avrà ragione di tutta quella confusione. Non vorrei far sembrare scoraggiante questa mia considerazione, perché è esattamente così, con questo metodo, che l’archeologo creando le sue stratificazioni e riportando ad esse i reperti, riesce a dare un ordine davvero. Ma egli è un archeologo. In lui nulla è dilettantesco ed abborracciato; ha studiato lingue antiche e storia, sa riconoscere una patina vecchia da una sintetica. E questa, in fondo, è la differenza che distingue il professionista dall’appassionato connois-
seur. Questo stesso sistema, ossia la ricostruzione del messaggio originale tra quelli che originali non possono essere considerati perché spurii, perché interventi posteriori, perché làsciti di culture diverse interpolati abusivamente a testi che non li riguardano, dovrebbe essere utilizzato nell’ambito della ricostruzione testuale dei documenti antichi. Ecco per quale motivo risulta essere fondamentale il lavoro di ricostruzione di Rituali e Statuti che rappresenta uno degli sforzi più importanti a cui si è dedicata la Gran Loggia d’Italia. Non si tratta di una spolveratina vintage per dare al testo un tono alla moda, che si accompagni ad una sorta di stile Mussolini completamente fuori luogo. È un lavoro da archeologi dello spirito alla ricerca della verità. L’im-
presa era sicuramente ambiziosa, perché come tutti i lavori afferenti alla filologia, ha bisogno di solidi documenti, ma questo è stato reso possibile dall’amore per la materia che ha da sempre caratterizzato il Massone. Avvicinarsi all’esoterismo massonico rappresenta certamente un atto d’amore. In questo ricercare si esprime infatti un coraggio che può essere stimolato solo irrevocabilmente dai sentimenti, oltre che dalle speculazioni razionali dello studio erudito. In fondo, si tratta di una ricerca sapienziale che travalica la forma per raggiungere le verità ardenti sotto i ghiacci del permafrost conservativo. il direttore P.2-3: Autunno (foto P.Del Freo).
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Gran Maestro
Ultimissime dal Bel Paese Luigi Pruneti
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eraviglioso paese l’Italia di cime innevate, di dolci colline, di marine care ad Afrodite. Paese felice l’Italia culla d’arte e di cultura, terra ferace di santi, navigatori, eroi e poeti, ma ancor più lieta per la certezza delle leggi, l’attenzione per il bene comune, l’alto esempio morale e la profondità di pensiero della sua illuminata classe politica. Tutto è giubilo nella Penisola e soprattutto non vi alberga il tedio. Considerate ad esempio gli altri partner della Comunità europea: dibattito fra maggioranza e opposizione, confronto sui temi del sociale, dell’economia, della politica internazionale, si discute e ancora si discute… che noia! Da noi no. Qui fra le vette bianche di neve e l’azzurro mare vi è allegra rissa, sapida contumelia, maschio livore. Sembra di vivere in un immenso stadio dove s’affrontano curva Nord e Sud a suon di berci, di urla, di invettive che animano piazze, studi televisivi e aule parlamentari. Anche i media, anima della democrazia, si sono adattati a questo spirito nuovo, passionale e goliardico. Quando mi trovo all’estero e sfoglio un giornale la monotonia mi prostra: pagine su pagine sui soliti, lògori temi di sempre. Da noi invece il vecchiume dell’informazione è stato spazzato via da uno sbarazzino, spumeggiante gossip che spazia da storie sentimentali ad affascinanti vicende di trasgressione, da traversie testamentarie ad episodi da fiction. Certo qualche problemino vi è anche in casa
nostra, ma sono sciocchezze: il debito pubblico, la disoccupazione giovanile, la crisi, il crollo dei valori, un po’ di malavita spiccia e organizzata, qualche milione di persone che annaspa sulla soglia della povertà... che volete che sia! Diciamocelo francamente, la vera, unica preoccupazione del Bel Paese, democratico, tollerante, laico ed europeo, è una sola: la massoneria. Lo insegna anche la storia antica e recente, basta ricordare ciò che avvenne nel 1992. In quell’anno, sull’onda di tangentopoli, accadde di tutto: avvisi di garanzia all’ex Presidente del Consiglio Bettino Craxi, all’ex Guardasigilli Claudio Martelli, al Segretario del pri Giorgio La Malfa, del pli Renato Altissimo, al ministro Franco Reviglio, ad Arnaldo Forlani, a Giulio Andreotti, ed ancora al Segretario amministrativo della dc Severino Citaristi, al Presidente dell’iri Franco Nobili. E, mentre le carceri si riempivano di notabili, amministratori, esponenti politici, imprenditori, un numero impressionante di personaggi illustri si suicidava: Sergio Moroni, Sergio Castellari, Gabriele Cagliari, Raoul Gardini. Tutto questo avveniva mentre l’economia andava a rotoli, tanto che il Presidente del Consiglio Giuliano Amato impose un prelievo forzoso sui conti correnti bancari e postali. Per di più in un contesto così devastato la mafia imperversava aggredendo al cuore lo Stato con gli omicidi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino1. I giornali in quei giorni sembravano bollettini di guerra, con notizie drammatiche
che giungevano da fronti diversi. Poi, però, all’improvviso, tutto cambiò giacché il bel Paese comprese che il problema, quello vero, quello di fondo, era un altro: la Libera Muratoria. Siffatta scoperta fu dovuta alla Procura di Palmi che aprì un’inchiesta sull’annosa setta. All’annuncio di ciò che bolliva in pentola, buona parte dell’Italia delle tv e dei giornali si alzò in piedi per inveire contro la madre di ogni male e sulla passerella dei media sfilarono opinionisti, politici, giuristi, intellettuali, prelati ed ognuno, secondo un rito antico, inventato da Bodrero e rinverdito da Benito Mussolini, sentenziò sulla “subdola piovra”2. Agostino Cordova annuiva e, gustando un mezzo toscano, lamentava che la Repubblica democratica fondata sul lavoro avesse abrogato l’articolo 209 del testo unico di Pubblica Sicurezza, dell’anno X dell’era fascista. Nel frattempo l’inossidabile Leoluca Orlando, trascinato dall’«ansia di verità», asseriva che il «sospetto è l’anticamera della verità» e il suo ideologo, padre Ennio Pintacuda, dissertando su «libertà formale e libertà sostanziale», dannava la setta rea d’impedire la trasformazione rivoluzionaria3, unica igiene del mondo. Intanto fiorirono notizie di ogni tipo e si venne a conoscenza di aspetti sempre più inquietanti sull’attività delle Logge. Su Avvenimenti si leggeva, ad esempio: «sono state trovate tracce di alcuni grossi scandali di questi anni, dal traffico di rifiuti tossici, al commercio illegale di armi, agli appalti, addirittura al traffico di uranio con l’ex Unione Sovietica»4.
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L’inchiesta diventò un fatto di rilievo internazionale e per aiutare la Procura di Palmi, troppo piccola per una simile indagine, s’istituì un pool di magistrati che affiancasse Cordova. La Penisola fu allora divisa in tre tronconi e assegnata ad altrettanti sostituti procuratori. Perquisizioni e sequestri furono effettuati ovunque per scovare la massoneria deviata che ancora non era chiaro dove si trovasse. L’intera Italia fu rivoltata, vennero acquisite liste di nomi, documenti di ogni genere5 ed anche medaglie, maglietti ed insegne: niente doveva sfuggire al setaccio della giustizia. La Crociata andava avanti e in attesa dei rinvii a giudizio, i quotidiani anticipavano gli infiniti reati ascritti alla setta: corruzione nella sanità6, legami con la P27, costituzione di una “Gladio” massonica8, truffe alla CEE9, collusioni con la malavita organizzata e con la destra eversiva10, vendita ai regimi canaglia di ogni genere di armi, inclusi i sommergibili11, insomma si stava delineando un “quadro sconvolgente”12. La tecnica comunicativa era collaudata accuse su accuse “per una pagina intera senza un solo fatto preciso, ma con un linguaggio ultimativo che [aveva] chiaramente l’obiettivo […] di criminalizzare una organizzazione da sempre nel mirino dei cattolici, comunisti e fascisti”13. Intanto, in attesa di ascoltare il rassicurante scampanellare delle manette, per mantenere desta l’attenzione e incrementare le vendite, il quotidiano L’Unità varò una nuova moda letteraria: la pubblicazione del-
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le liste dei massoni. A dir la verità si trattava solo di un revival, perché già negli anni ’20 la stessa iniziativa era stata presa da Roma fascista14, ora però non eravamo di fronte alle prevaricazioni di un regime, ma ad una crociata per la trasparenza. L’idea ebbe un buon successo, la gogna mediatica funzionò tanto che era “impossibile trovare [lo storico giornale comunista] nelle edicole”15. Le manette però non scattavano, perché? Ed ecco pronta la risposta: lo strapotere massonico si era infiltrato così profondamente che rischiava d’imbrigliare l’inchiesta, come scriveva la solita Unità, in prima linea, insieme a La Repubblica e a Avvenimenti nell’opera di bonifica nazionale16. La bagarre si trascinò fino al 1994, poi il tema ‘massoneria’ perse d’interesse e i giornali preferirono concentrarsi su altri argomenti. Ma l’inchiesta di Palmi che fine fece? Attribuita, per competenza, al tribunale di Roma e dimenticata dal dottor Cordova, approdato all’ambita Procura di Napoli, si trascinò per otto anni senza portare a niente. Poi, finalmente, il 3 Luglio 2000 la dottoressa Augusta Jannini, Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, accolse la richiesta di archiviazione avanzata dai Pubblici Ministeri Lina Cusano e Agnello Rossi. Nell’atto si dichiarava di “Non doversi promuovere l’azione penale nei confronti degli indagati indicati in epigrafe, ed ordina la restituzione degli atti al pubblico ministero”17. è interessante esaminare il dispositivo della
sentenza dove, fra l’altro, si legge: “Non può, infatti, essere taciuto che in questo procedimento penale l’indagine conoscitiva, ha vissuto momenti d’inusuale ampiezza”. Da uno sguardo d’insieme del ponderoso materiale acquisito e raccolto in circa 800 faldoni ed un numero imprecisato di scatoloni contenente materiale sequestrato, si può trarre la certezza che è stata compiuta, in tutto il territorio nazionale, una massiccia e generalizzata attività di perquisizione e sequestro che le iniziali dichiarazioni del notaio Pietro Marrapodi, peraltro anticipate dal settimanale Avvenimenti, certamente non consentivano […]. Da questi racconti a contenuto generalissimo ma conformi all’immaginario collettivo sul tema “gruppi di potere”, il p.m. di Palmi ha tratto lo spunto per acquisire una massa enorme di dati […] che poi è stata informatizzata e che costituisce una vera e propria banca dati sulla cui utilizzazione è fondato avanzare dubbi di legittimità, tanto più che l’indagine si sta concludendo con una generalizzata richiesta di archiviazione. In questo procedimento, infatti, l’art. 330 c.p.p. è stato interpretato come potere del p.m. e della polizia giudiziaria di acquisire notizie e non, come si dovrebbe, notizie di reato. Era, infatti, chiaro che l’acquisizione di elenchi di associazioni, anche e non solo massoniche, costituiva una mera notizia e non certamente una notizia di reato». Nient’altro, dunque, che un po’ di confusione intorno all’art. 330 e in vir-
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tù di questo, Agostino Cordova aveva messo sottosopra mezza Italia, disposto perquisizioni, sequestri, “precettato” forze di polizia, scatenato una pirotecnica campagna stampa… alla fine nessun reato, nessun rinvio a giudizio… un buon risultato comunque era stato ottenuto: tonnellate di fango sulla massoneria. Passarono gli anni nell’attesa di una nuova stagione di eroici furori, di scoop, di rivelazioni che facessero ancora tremar le vene e i polsi all’opinione pubblica. Un tentativo di replica vi fu nel maggio 2007, quando il Sostituto Procuratore della Repubblica di Potenza Henry John Woodcock, aprì un’inchiesta a seguito delle ‘rivelazioni’ del faccendiere Massimo Pizza. Sembrava, anche in quel caso, che vi fosse un oscuro ordito massonico tanto che il magistrato chiese a 103 prefetture gli elenchi degli iscritti alle logge. La speranza allora illuminò i volti e i cuori dei cacciatori di trame; fu tuttavia una vana speranza, al brontolio del tuono non seguì il temporale. L’inchiesta vivacchiò per un po’ di tempo per poi perire con una richiesta di archiviazione. L’anno successivo l’indagine livornese sulla gestione di ‘Porto 2000’ sortì la magra iniziativa del Corriere di Livorno che pubblicò gli elenchi dei massoni labronici, lodevole iniziativa imitata da La voce delle voci, celebre periodico campano che dette alle stampe tabulati di quarta mano, gabellati per aggiornatissimi. Robetta, ordinaria amministrazione, al pari
delle esternazioni di esponenti politici di area cattolica, comunista e dipietrista. Poi finalmente è giunto questo luminoso 2010 che ha visto sbocciare di nuovo il fiore dell’antimassoneria con le sue fragranze di luoghi comuni, di pregiudizio, di torbida intolleranza ideologica. Le prime avvisaglie si sono avute alla fine dell’inverno quando nella Regione Marche, già celebre per la legge 34/96 massacrata a Strasburgo18, si è aperta la caccia all’assessore massone, attività presto estesasi alla Toscana dove fu impallinato un assessore del comune di Scarlino. Il caso ebbe rilievo generale tanto da interessare le maggiori testate nazionali e la dirigenza del pd di cui la preda faceva parte. Diversi ras del partito invocarono una presa di posizione del Segretario generale, l’On. Bersani che in ben altre faccende affaccendato demandò il tutto all’On. Luigi Berlinguer della Commissione Garanti. Questi, Codice Etico alla mano, fornì una risposta aperta, tanto che molti mugugnarono ed altri sottolinearono, con malcelato sospetto, il suo eccessivo interesse per la massoneria19 . D’altronde, Robespierre ha insegnato e Stalin ha confermato che chi non grida al capestro! è - in fieri - un nemico del popolo. A questo punto mi chiedo per quale motivo chi si dice democratico e difensore dei valori costituzionali nutre così tanti sospetti sulla massoneria. Se si dubitasse che siffatta ostilità fosse originata da antiche radici ideologiche, lor signori negherebbero sdegnati, additando
l’origine di tale idiosincrasia nella mancanza di trasparenza e nell’atipica solidarietà massonica. Veniamo al primo punto. Tanti catto-comunisti, afferma Mola, gridano al segreto, ma quale sia il segreto rimane un mistero. è, in effetti, un enigma insondabile, è un paradigma, un dogma, un atto di fede, giacché contrasta con tutto ciò che è dimostrabile. Della Gran Loggia d’Italia, ad esempio, sono note le sedi, noti i nomi dei loro vertici, note le sue attività istituzionali. Negli ultimi due anni ha promosso oltre cinquanta incontri pubblici, aperti a tutti. Ha un sito internet, pubblica due periodici - Officinae e Delta - diffusi attraverso la rete di distribuzione. Inoltre gli iscritti sono informati di ogni attività associativa dal semestrale Palazzo Vitelleschi che ogni tre anni, dopo l’assemblea elettorale, pubblica i nomi dei Fratelli e delle Sorelle chiamati a ricoprire incarichi centrali e periferici. Sono così trasparenti anche i partiti politici, i sindacati, le infinite associazioni sparse in tutta la Penisola? Rimane la questione della notorietà degli elenchi d’iscritti. La legge non prevede che i nomi dei membri di una qualsiasi associazione siano resi noti, anzi impone il rispetto della privacy, un diritto che viene meno nei paesi totalitari dove solo lo Stato è soggetto di diritti. In Italia, anche chi grida alla trasparenza, si guarda bene da pubblicare il nome dei propri sostenitori; sarebbe invece opportuno che costoro dessero il buon esem-
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pio fornendo gli elenchi dei propri iscritti per poterli confrontare con quelli dei funzionari e dei dipendenti di Regione, di Province, di Comuni, di Enti pubblici o della rai20, sarebbe così possibile verificare se sussista e, eventualmente in quale misura, una lottizzazione del Paese nel nome del politicamente corretto. Esaminiamo ora la vexata quaestio della solidarietà. Nessuno nega che sia un valore: l’associazionismo umanitario, le leghe delle cooperative, i sindacati, il volontariato hanno origine dalla solidarietà. Certo se questa è a discapito di alcuni non è più solidarietà ma malaffare. I massoni esercitano una vicinanza spirituale nei confronti dei confratelli, ma non si sognerebbero mai di intervenire affin-
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ché un altro affiliato abbia benefici a discapito degli altri. è così per tutti? In Italia che peso ha la meritocrazia di fronte all’affinità ideologica e al nepotismo? Per rispondere a questa domanda molti di coloro che sbraitano, invece di cercare immaginari granelli di sabbia negli occhi della massoneria dovrebbero guardare cosa vi è nei propri. Sussiste poi un altro problema. Recita l’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Ora se mi è vietato di associarmi ad un partito perché questi mi discrimina, come posso esercitare un mio diritto, e quanto quel partito rispon-
de al dettato costituzionale? Ed ancora perché io, escluso da un partito, debbo contribuire a sostenerlo? Sarà forse una questione da poco ma visto che l’Italia fa parte di un contesto europeo, mi vien voglia di affrontare l’argomento ad altre latitudini, per sentire un parere da chi vive la democrazia da una più lunga stagione. Finalmente il tormentone del Partito democratico si sgonfiò per lasciare la scena al caso della Loggia P3. Questo ultimo evento nasce da un’inchiesta su un presunto gruppo occulto di potere costituito da Flavio Carboni, Pasquale Lombardi e Arcangelo Martini. Il terzetto, con la collaborazione di altri, avrebbe messo su “un’associazione segreta finalizzata ad influenzare decisioni politiche, appalti, processi o a pilotare le nomine di cariche istituzionali dello Stato”. Cosa c’entrano costoro con la massoneria? Niente. Quale pur lieve assonanza avevano con un’istituzione massonica? Se lo chiede anche Massimo Introvigne, fondatore e direttore del Centro Studi Sulle Nuove Religioni che afferma: “è un’etichetta [quella di P3] che mi lascia perplesso. La P2 all’origine nasce come loggia regolare, è dopo la nascita, per la particolare personalità del suo Maestro Venerabile, che diventa altro. Ma in questa presunta P3, se c’è qualcosa, forse si tratta più di massoneria di cartapesta che di massoneria vera. Sarà una cricca, una lobby, ma non tutti i gruppi di pressione possono essere etichettati come massoneria […] da quello che ho letto sui giornali mi sembra che manchi quell’elemento di carattere rituale che distingue un’associazione segreta tout court da un’associazione massonica […] L’impressione è […] che al massimo ci troviamo in un sottobosco che nulla ha a che fare con le vere logge massoniche”21. Ormai però il capo espiatorio, la subdola piovra è stata di nuovo arpionata, così s’insiste su “una nuova loggia massonica, […] che sarebbe all’origine di molti episodi di corruzione e avrebbe tentato di condizionare alcuni giudici”22. La visione stereotipata della massoneria, tanto cara all’immaginario collettivo, figlia delle condanne clericali, delle scomuniche comuniste, delle invettive fasciste riemerge in tal modo con il suo corredo di intrighi e di complotti. è nuova acqua che la roggia mediatica porta al vecchio mulino del pregiudizio voluto e cercato. La massoneria riaffiora davanti all’opinione pubblica come una dimensione oscura e perturbante, un’entità dai confini indefiniti capace di condizionare ad-
dirittura gli usi, i costumi, le tendenze. Scrive IL, periodico de Il Sole 24 ore “La cultura di massa […] pesca a piene mani nella loggeria: lo scrittore italiano oggi universalmente più noto è l’eroe anticamorra Roberto Saviano; il regista che viene chiamato a Hollywood è Paolo Sorrentino. L’autore del ritratto in chiaroscuro del potere andreottiano (Il Divo); la fiction più apprezzata dopo la Piovra è stato Romanzo criminale […] e non è un caso se il nostro intellettuale più noto nel mondo, Umberto Eco, sia un appassionato romanziere di esoterismi: per la sua prossima prova ha scelto come plot narrativo una loggia massonica deviata. Altro che semiologie per tutti da Diario minimo, qui siamo alla metafora letteraria bella e buona”23. Insomma come scriveva Carl Gustav Jung “non siamo noi ad avere segreti; sono essi, i segreti veri, che ci possiedono”. Così la loggia, pietra angolare della Libera Muratoria, è associata di riffa o di raffa a tutto ciò che vi è stato e vi è di più torbido e di negativo, è il mondo delle tenebre che affiorando lorda questa nostra numinosa realtà. Italia, terra opima di santi, navigatori, eroi e poeti quali giornate di solare felicità avresti vissuto, in questo 2010, se non vi fosse stata la “loggeria” e la batosta dei mondiali in Sudafrica! Ma a proposito, ripensando a quelle disgraziate partite, con la Nazionale a pezzi spompata e tremebonda, mi sovviene un amletico dubbio: dietro i polpacci mosci dei calciatori e alla loro disarmante rassegnazione, non vi sarà mica stato un complotto massonico?! ______________
to Guglielmotti. Quest’ultimo fu uno dei più accaniti avversari della massoneria, tanto che Roma Fascista considerò la lotta alla libera muratoria una missione. L. Pruneti, La sinagoga di satana … cit, p. 146; Inimica vis. La sindrome antimassonica in tre secoli di scritti e di testimonianze, testi di A. A. Mola, A. Santini, S. Guidi, Bari 2010, p. 124. 15
La democrazia non ha segreti, in L’Unità, 12/9/1993.
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L’Unità 10/7/93; Avvenimenti 5/8/93.
Tribunale Ordinario di Roma, Sezione dei Giudici per le Indagini Preliminari, Decreto di archiviazione ai sensi dell’art. 409 del Codice di Procedura Penale a firma del G.I.P. dr. Augusta Jannini, n° 7400/94 R.G., p. 23.
in due interviste ad Affari Italiani e a L’Unità, arrivando in un caso ad equiparare la massoneria all’Opus Dei”. Daniele Martini, Guerre di massoneria. Le logge si contendono Siena. Lo scandalo P3 ha animato le fazioni in lotta, in Il fatto quotidiano, 2 Settembre 2010. Pubblicate anche i nomi degli iscritti ai partiti, in L’Unità 12/09/1993; Nicola Matteucci, Sant’Uffizio alla bolognese, in Il Giornale, 9/3/1989. 20
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Il 2 Agosto 2001 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condannava, all’unanimità, lo stato italiano al pagamento di un’ammenda di 10.000.000 di lire per aver consentito il mantenimento della legge 34/96 della Regione Marche, violando di conseguenza l’Art. 11 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. L. Pruneti, La sinagoga di satana … cit, p. 298. 18
“Luigi Berlinguer, ex rettore dell’Università di Siena, ex ministro della scuola, con il centrosinistra, presidente della commissione dei garanti del pd , da sempre considerato all’interno del suo partito molto attento verso la massoneria, anche se lui querela chi osa parlare di affiliazione, non si dichiara contrario alla doppia iscrizione 19
M. Conti, L’esperto Introvigne. La P3? Altro che loggia le cricche e le lobby non centrano nulla con la massoneria, in Il Giornale 12 Luglio 2010. 21
Una loggia segreta nel popolo delle libertà, in Internazionale, a. XVII, n. 855, 16/22 Luglio 2010. 22
Sette volte sette. La cricca, la P3. Le altre “squallide consorterie” denunciate dal Presidente della Repubblica. Ma perché l’Italia sembra sempre un paese fondato sull’intrigo? in IL, Intelligence in Lifestyle, n. 22 Settembre 2010, p. 60. 23
P.4 e 6-7: I Fori Imperiali di Roma; p.5: Il palazzo dell’EUR, Roma; p.8-9: Marco Aurelio e l’Angelo, due notissimi monumenti romani.
Note: A. A. Mola, Gelli e la P2 fra cronaca e storia, Foggia 2008, p. 30.
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L. Pruneti, La sinagoga di satana. Storia dell’antimassoneria 1725 – 2002, Bari, p. 269 e segg. 2
3 D. Del Bino, Il caso massoneria, un decennio di politica, giustizia, democrazia, Firenze 2011, p. 102 e segg. 4
Avvenimenti 18/11/1992.
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L’Unità 24/3/94 e 26/3/94.
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La Repubblica 1/9/93; La Stampa 1/9/93.
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Corriere della Sera 5/11/92.
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La Nazione 7/11/92.
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La Nazione 5/11/92.
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L’Unità 31/3/93; 3/11/92.
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Il Tempo 8/11/92.
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La Nazione 4/11/92.
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Il Giornale 4/11/1992.
Roma Fascista, fondata nel 1924 si segnalò per la sua inflessibilità verso i nemici del regime. Fu diretta, in un primo momento da Italo Foschi e da Umber14
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Equinozio d’autunno 2010
Luigi Pruneti
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arissimi, quando vi giungerà questo scritto Agosto avrà già passato il testimone a Settembre e per molti di Voi il profumo delle tamerici o dei prati di montagna sarà solo un ricordo. L’autunno s’approssima. L’accenna il cielo, ove i cirri sempre più spesso ricamano seriche trame, lo dice il vento che pare aver cambiato voce mentre accarezza le foglie, figlie dell’incertezza e infine l’annuncia il Sole che sembra voler accelerare la sua corsa verso la costellazione della Bilancia. è l’ora dell’Equinozio, è l’ora, ca-
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rissimi Fratelli e Sorelle, di riprendere i nostri architettonici lavori con forza e vigore… è l’ora di un nuovo inizio. Non a caso il periodo dell’equinozio d’autunno, all’origine della Tradizione, coincideva col principio dell’anno. Era così per gli Egizi che, dopo i cinque giorni epagomeni, il periodo sacro fuori dal tempo, festeggiavano il mese dedicato a Thot, il primo del loro complesso calendario. Lo era per i Sumeri che sulle sponde del Tigri e dell’Eufrate, quando il giorno e la notte avevano pari misura, celebravano l’inizio di un nuovo ciclo, ricordando la vittoria di Marduk su
Tiamat. Lo era e lo è per i Figli d’Israele che in questi giorni festeggiano il Rosh Hash-anà, che cade nel primo giorno di Tishri, momento complesso, denso di significati simbolici. Il Rosh Hashanà evoca il soffio vitale col quale iniziò il viaggio di Adam e Chavà lungo sentieri che dall’esilio e dalla morte riconducono la causa all’effetto, la parte al tutto, gli orfani al Padre. Nell’oscuro giuoco del nero e del bianco quel soffio, smarrito nella dolorosa contingenza della materia, cerca la via che riporti all’edenica, originaria purezza. Il Principio dell’anno si ha col sorgere della luna nuova, un
Gran Maestro
momento che non è né annunciato, né consacrato, perché la Creazione sfugge da ogni possibile comprensione. Dall’eterno presente del divino, fuoriesce il grande fiume del tempo. L’eterno plasma l’effimero, ma accenna ad un ritorno della goccia al mare. Lungo quali vie? Difficile dirlo giacché ognuno può scegliere la propria, forse fra i trentadue sentieri della saggezza indicati nel Sèfer Yetzirà che le coglie nelle dieci sefirote nelle ventidue lettere dell’alfabeto che incise la Thorah. Per noi questo momento rappresenta il ritorno alle origini, al Visita Interiora Terrae, alla ca-
verna mistica, al Gabinetto di riflessione ove vergammo il testamento e con quell’atto ebbe principio il cammino dell’iniziato. Un nuovo ciclo ha principio, il percorso però potrà essere felice solo se rafforzeremo e non smarriremo la nostra natura d’iniziati. Ogni giorno che l’anno ci proporrà dovremo confermare l’abiura delle logiche profane, distinguere e correggere ciò che è in noi, ricordarci che i Gradi non sono scatti di carriera, ma conseguimenti di crescita interiore che la collettività iniziatica ci riconosce, rammentarci che il lucore delle parole nasconde spesso il vuo-
to, mentre nel silenzio riposa la verità ed ancora, essere saggi ed accorti nel non prestare ascolto al canto delle sirene e nell’evitare il fonte di Narciso, dove è facile annegare. “Chi custodisce la disciplina è sulla via della vita”, recita un antico proverbio salomonico, rammentiamolo sempre, mentre le vele si gonfiano ai venti dell’equinozio per consentire alla nostra nave l’abbrivo verso i lidi d’Oriente e ad Occidente il Sole declina per incendiare il mare e spegnere un altro giorno. P.4-5: In viaggio, collez. privata (foto P. Del Freo).
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La Loggia Sergio Ciannella
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, L
abuso del termine Loggia, che per ignoranza di scienza esoterica o pregiudizio verso la Massoneria viene talora commesso da chi governa i mass media, snatura il significato della parola, confondendolo con l’idea generica di consorteria dedita a scopi poco encomiabili e svuotandolo in tal modo dei suoi autentici contenuti. Il modo più efficace per contrastare una realtà scomoda, se proprio non la si può ignorare, è infatti quello di banalizzarla o deformarla, fino a costruire un luogo comune che ispira istintivamente negatività anche in coloro che ignorano del tutto l’argomento. Quella di cui si discute, e che spesso viene dipinta a fosche tinte, è una realtà ben diversa, particolarmente complessa e non facilmente comprensibile se si considerano le implicazioni di carattere storico, tradizionale, esoterico sulle quali fonda la sua esistenza. Loggia è un’aggregazione originaria di “iniziati” ai misteri della Libera Muratoria, che si riuniscono per “lavorare” insieme alla realizzazione degli obiettivi indicati dagli antichi rituali, ovvero “per edificare templi alla virtù e scavare oscure e profonde prigioni al vizio”, espressione questa che in termini concreti si traduce in un programma di operatività applicata al perfezionamento morale dell’individuo e finalizzata, sempre secondo il dettato dei testi massonici fondamentali, al “bene ed al progresso della Patria e della Umanità”. La Loggia rappresenta il nucleo primario ed essenziale della Massoneria, quasi un microcosmo per la sua compiutezza ed autosufficienza, una società ideale grazie alle regole auree di pace fraterna che la governano. Nasce ad impulso di sette iniziati, nel rispetto di precise esigenze esoteriche di cui si dirà appresso, e per trasmissione di poteri attraverso una “patente” concessa dal Gran Maestro di una Obbedienza massonica, che costituisce formalmente la Loggia e le consente di svolgere regolari lavori, che comprendono la iniziazione di profani al grado di Apprendista libero muratore ed il conferimento dei successivi gradi di Compagno e di Maestro. La Loggia non pretende di essere l’unica formula per mettere insieme uomini
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e donne di buona volontà desiderosi di migliorare se stessi e di acquisire virtù per essere utili alla società, ma la Massoneria si distingue da ogni altra associazione benefica per una particolarità che la rende particolarmente adatta a questo scopo, pone cioè a sostegno di questa nobile intenzione una pratica rituale che avvicina gli adepti ad una dimensione sacra e ne favorisce l’azione. I simboli che popolano il contesto massonico, siano essi archetipi o tracce di verità scoperte dall’intuito umano, funzionano infatti da potente stimolo per la riflessione e l’apprendimento, aiutano ad elevare lo spirito e ad orientare le coscienze verso tutto ciò che è vero e giusto
e a discernere ciò che giova al bene ed al progresso dell’individuo e della collettività. In tal modo la Loggia asseconda lo sviluppo di quelle forze benefiche che donano pace, felicità e progresso. Per entrare più in profondità nell’argomento occorre partire dalla semantica, cercando di scoprire come si è giunti ad usare la parola Loggia per indicare l’associazionismo massonico. L’origine di questa parola è controversa, ma ogni ipotesi interpretativa offre utili spunti di riflessione e rivela interessanti aspetti che aiutano a capire meglio questa complessa entità. Nel linguaggio comune per Loggia si intende una struttura architettonica aper-
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ta su uno o più lati con arcate sostenute da colonne o pilastri, che vanta origini assai remote in quanto compare già sul tetto di alcune case dell’Antico Egitto e si diffonde in seguito in tutte le regioni del Mediterraneo. In epoca medievale questo era il luogo in cui si riunivano i membri di una stessa arte o corporazione. Agli inizi del XI sec. i Sassoni intrapresero la costruzione di numerose chiese e ben presto in tutta l’Europa Occidentale si sviluppò, quasi sotto una spinta emulativa, un fermento artistico di architetti, scultori, pittori, decoratori, che perfettamente affiatati, riuscirono a realizzare opere di una stupefacente perfezione e bellezza. Dietro il mistero di questo risultato altissimo della intelligenza ed operatività umana, una perfetta intesa degli artefici: durante i lavori, accanto al manufatto, veniva
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collocato uno spazio a forma di portico, una vera e propria Loggia, una sorta di laboratorio dove le maestranze riponevano gli strumenti di lavoro, si consultavano, ricevevano gli ordini da chi aveva la direzione, si riposavano, scambiavano esperienze e insegnamenti. Luogo quindi d’incontro e di raccordo tra persone unite da uno stesso scopo: edificare templi a gloria e onore della divinità. Ciò giustifica ampiamente la derivazione ideale della Massoneria da queste Corporazioni e l’impiego di una simbologia mutuata dall’arte di edificare dei muratori. Quando il Rinascimento riportò l’uomo al centro degli interessi spirituali, culturali e artistici, la Loggia venne impiegata per diverso uso, più vicino alle esigenze dei tempi, come sede cioè di rappresentazioni teatrali, come testimoniano i più illustri esempi di ar-
chitettura del genere, quali la Loggia di Palazzo Riario a Roma o la Loggia Cornero a Padova, costruita appositamente per ospitare eventi artistici. Non è possibile stabilire esattamente quando si cominciò ad usare diversamente questo termine per designare una comunità dedita ad attività latomistiche, ma si può stabilire con certezza che fu accolto ufficialmente nella terminologia massonica a partire dal 1717, quando cioè quattro Logge di Londra si riunirono per formare la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, dando avvio ad una diffusione mondiale della Massoneria. Il semplice riferimento all’Architettura non poteva spiegare adeguatamente la complessità del fenomeno associativo di tipo massonico cui allude la parola, si è quindi cercato altrove l’origine del termine elaborando nuovi ed originali significati, non sempre attendibili, ma indicativi degli alti contenuti ai quali ci si riferisce. Tra le più suggestive la derivazione dal greco λόκα che nel suo significato di universo richiama un aspetto fondamentale del concetto di Loggia, ovvero la sua inseparabilità da un luogo fisico. Nessuna riunione di persone si può chiamare Loggia se manca il riferimento materiale al simbolismo massonico che, nella sua completezza, è rappresentato da un Tempio a forma di quadrilungo (vd. l’articolo Il tempio in Officinae n.2/2010, ndr) i cui elementi strutturali riproducono un universo conchiuso, efficacemente descritto da simboli eloquenti: nella parte alta un cielo stellato e tutto intorno le dodici costellazioni dello Zodiaco, in quella bassa i quattro punti cardinali che danno il nome alle quattro pareti ed il pavimento a scacchi bianchi e neri alternati, che rappresenta il contrasto dualistico che caratterizza la condizione umana e nello stesso tempo la premessa del suo progredire. Chiamare “universo”, che per definizione è infinito, uno spazio racchiuso entro quattro mura sembra una contraddizione, ma a ben vedere la composizione di questa parola non sta ad indicare l’illimitato, che è una qualificazione “a posteriori” di una idea cosmica del tutto, bensì un centro. Infatti universus - che in latino significa tutto intero - è formato da unus e versus,
participio passato di vertere, che nella nostra lingua corrisponde a volgere. In definitiva, quindi, le due parole combinate si possono tradurre, nel rispetto del significato originario, volto tutto intero nella stessa direzione, il che esprime l’idea di un punto centrale dal quale hanno avuto principio tutti i corpi materiali esistenti e al quale essi si legano, o si rivolgono, come nella traccia di un percorso a ritroso. Nella iconografia del Tempio, la Loggia è propriamente un centro simbolico, un luogo eletto da volontà umane a sede della fraternità universale, separato da influenze profane che renderebbero del tutto inefficace il “lavoro”, e reso sacro da un rito celebrato dal Gran Maestro, che
evoca le pratiche di consacrazione in uso nell’Antichità Classica. L’altra suggestiva interpretazione è quella che fa derivare la parola Loggia da λόγοσ, termine che in Filosofia significa discorso, parola e in senso lato concetto, pensiero. Il termine si trova in un Frammento di Eraclito, dove viene inteso come la Legge in forza della quale accadono tutte le cose, cioè la legge stessa della realtà. Questo concetto è sopravvissuto alla Civiltà Pagana per approdare al Cristianesimo, dove viene proposto come pensiero divino che si esplicita nella parola e si rivela in seguito agli uomini attraverso un processo di Incarnazione. Così l’incipit del Vangelo di S.Giovanni che recita “In principio era il
Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio…” e più avanti “tutto è stato fatto per mezzo di lui [...] in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini, la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno compresa…” La sequenza Dio-Verbo-vita-luce, rap-
Simbolismo presenta la scala discendente che collega l’essere umano ad una dimensione trascendente e ne rivela allo stesso tempo l’essenza sacra. Questo potente simbolo, che per i Massoni ha un valore universale superando i confini ristretti di una religione rivelata, è presente nel Tempio
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della Massoneria non è, come molti immaginano, un potere occulto, un progetto nascosto, una formula arcana. È lo stesso essere umano che, messo a confronto con un metodo di apprendimento simbolico e influenzato dalla verità di principi eterni e immutabili, diviene un segreto vivente che può - anzi deve - testimoniare saggezza e amore per il pros-
so ad avvicinarci in punta di piedi, come si conviene quando si visitano “Luoghi Alti”, a questa realtà e a scoprire, per quanto è consentito ad un “profano”, qualche segreto che ci riveli aspetti sconosciuti alla opinione pubblica. Va precisato al riguardo che il mistero
simo, ma non è in grado di rivelare la conoscenza acquisita, perché non trasmissibile con gli ordinari sistemi di comunicazione. Ne deriva che il vero potere, in ambito massonico, non è altro che la facoltà di trasferire ad altri lo strumentario ritualistico/simbolico che permette
a dimostrazione che la Loggia racchiude in sé le potenzialità che permettono all’iniziato di ripercorrere un cammino evolutivo alla ricerca della verità e della luce. Fin qui quello che può raccontarci della Loggia la parola stessa. Proviamo ades-
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di costituire Logge e iniziare alla Libera Muratoria, perpetuando la nobile tradizione che ha accompagnato e sostenuto nel corso dei secoli il progresso umano ed assicurando alla società la presenza di cittadini liberi da qualsiasi pregiudizio, influenza o condizionamento, obbedienti alle leggi e dediti al bene ed al progresso comune. L’origine storica di questo potere è ignota, è certo invece che si tratta di un potere derivato, attribuito cioè per trasmissione ad opera di una istituzione massonica, una Loggia nei tempi che hanno preceduto la nascita della cosiddetta Massoneria moderna nel 1717 a Londra e in seguito, dopo la istituzione di Corpi massonici unificati, una Obbedienza ovvero un’aggregazione di Logge che, rinunziando ad una parte della loro autonomia, scelgono di adeguarsi a regole statutarie comuni e di eleggere un unico capo nella persona del Gran Maestro. Pur conservando la propria identità e sovranità esse fanno parte di un ambito associativo più ampio ed articolato che, in virtù di questa cessione di poteri, assume una forza iniziatica propria. Ogni Obbedienza ha ricevuto a sua volta i poteri da un’altra istituzione massonica e questa catena di trasmissione ininterrotta è l’unica garanzia di una efficace pratica massonica. Ciò dimostra che qualunque nascita “spontanea” di gruppi che si definiscono massonici, ma che non hanno alcun raccordo con altra Obbedienza legittimata a trasferire i poteri, sono formazioni che pur seguendo rituali e statuti massonici non possono costituire Logge, né iniziare, né trasmettere a loro volta poteri. Nessuna legge può sancire un espresso divieto al riguardo, ma nel dominio iniziatico i principi regolatori sono ancora più forti e vincolanti delle norme comuni perché si rivolgono alla coscienza piuttosto che alla volontà e non richiedono sentenze quando vengono violati. La sanzione nei confronti di una condotta non conforme alle regole scatta infatti automaticamente e si estrinseca nella perdita dei poteri, che può condurre anche a fenomeni di contro-iniziazione ovvero ad effetti opposti a quelli che si desidera conseguire attraverso il lavoro massonico. Come si vede, per essere perfetta e fun-
zionale la Loggia deve rispondere a canoni rigorosi che si ritrovano non solo nei rituali e negli statuti della Massoneria, non sempre affidabili a causa delle modifiche e interpolazioni intervenute nel corso dei secoli, ma nella trasmissione orale e nella vasta letteratura esoterica che va esaminata con spirito critico e selettivo perché anche qui è facile imbattersi in errori e false interpretazioni. Il lavoro dell’iniziato sotto questo profilo è ricerca e affinamento di conoscenze, nella consapevolezza che il deposito di “scienza sacra” a disposizione dell’Umanità, costituito da archetipi, simboli, dimore filosofali, testi sapienziali, è un serbatoio inesauribile e poco esplorato. Come l’archeologo scava per riportare alla luce tracce di civiltà, così il massone è dedito al recupero di saperi sepolti dal tempo e dalla regola del silenzio rispettata dagli antichi iniziati. Comprendere in definitiva cosa sia una Loggia è impresa ardua per chi non è iniziato, penetrare nella intimità di una particolare Loggia è impresa impossibile anche per i massoni che non ne facciano parte, perché equivale a entrare nella coscienza di un individuo. Il concetto può risultare più chiaro se ci si rifà al momento della nascita di una Loggia: sette o più massoni decisi a costituirla, si riuniscono, si riconoscono nei loro gradi, si scambiano le loro esperienze e motivazioni, concordano l’idea sulla quale vogliono fondare la loro iniziativa, scelgono un titolo da attribuirle, un fregio che dovrà distinguerla e che esprime figurativamente la loro idea. Come nella nascita di un bimbo, la premessa è un atto di amore che in questo caso si realizza nella fraterna armonia sublimata dal desiderio comune di costituire una nuova Loggia, il titolo è come il nome imposto, che darà carattere e personalità alla nuova entità come al nascituro, la patente che sarà richiesta al Gran Maestro è il crisma definitivo che proviene da tutta la Comunione rappresentata dal Vertice che ne riassume i poteri. La prescrizione che i fondatori siano almeno sette viene da una esigenza esoterica di tipo numerologico: sette è un numero di perfezione perché rappresenta l’insieme di fattori necessari e sufficienti a produrre armonia e completezza sia nei colori che nel suono, come dimostra il fatto che i sette
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colori dell’iride compongono il bianco, immagine di luce assoluta e che le sette note del pentagramma sono in grado di produrre qualunque melodia. Riportata alla Loggia, questa proporzione numerica crea le condizioni adatte alla piena integrazione tra i fratelli che ne fanno parte mediante l’incontro delle rispettive personalità, il confronto delle esperienze di ciascuno ed infine la ricerca e l’elaborazione di una idea comune. In questo è la impenetrabilità della Loggia, cioè nella impossibilità di entrare in questo circuito che ruota intorno ad una esperienza comune, inesprimibile. Indipendentemente dalla volontà dei singoli diventa così un segreto incomuni-
cabile a chi non ha partecipato alla sua formazione. Ciò spiega perché nel lessico massonico la Loggia è definita “sovrana”: il suo intimo segreto, non conoscibile, sfugge a qualunque tipo d’influenza o soggezione. Spiega anche il motivo per il quale il presidente di questa società di liberi muratori sia chiamato Venerabile: nell’eleggerlo liberamente, i fratelli gli affidano questo segreto che è parte integrante della loro stessa coscienza, la parte migliore, il “sacro” che è presente in ogni essere umano. P.12: Pavimento infinito, coll. priv.; p.13: Libro e Compasso, Or. de L’Aquila; p.14: J e B, Siria; p.15: Tempio delle Pietre sapienti, Or. di Roma; p.16-17: Or. di Roma (tutte le foto Paolo Del Freo eccetto p.15: Massimo Badolato)
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Alberto Giannini Il percorso erratico di un massone senza cappuccio Aldo A. Mola
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lberto Giannini (Napoli, 22 marzo 1885 – Roma, 9 aprile 1952) è tra le figure emblematiche del Novecento italiano anche per le sue laceranti contraddizioni. Nel corso di una vita febbrile egli pose indubbie qualità di giornalista e scrittore a servizio della militanza politica intesa come critica, non quale ricerca del potere. Infatti, pur avendo i requisiti per ottenerla, non ambì mai ambire ad alcuna carica elettiva. A un seggio alla Camera o in un’amministrazione locale e a una seggiola di impiegato in un ente foraggiato dalle tasse dei cittadini preferì sempre la forza della sua penna, brillante e graffiante an-
giustificata, almeno ai propri occhi, dall’opzione patriottica super partes. E come Monti, anche Giannini capì quanto fosse illusorio scommettere sul ritorno di Astrea”. A differenza di altri celebri espatriati politici1. Sui massoni italiani e della maggior parte di quanti condivisero il suo triste cammino, Giannini visse e morì povero di quattrini ma ricco di capacità critica e di inventiva per esprimere con forza l’ansia di libertà attraverso la satira politica, di cui fu maestro riconosciuto anche dagli avversari più strenui. Socialista dalla giovinezza e cronista nella redazione del quotidiano romano “Il Messaggero”, nell’estate 1914 Giannini si schierò a favore dell’intervento dell’Italia in guerra a
nini varò il settimanale satirico Il Becco Giallo, [vd. pag. 74] che ottenne vasto successo passando in breve da 50.000 a 450.000 copie. Vi concorsero i disegnatori Gabriele Galantara Rata.Langa e Giuseppe Russo Girus, già pilastri dell’Asino di Guido Podrecca, e firme di prestigio quali il generale Roberto
che quando la piegò al compromesso con il regime fascista, non tanto perché questo gli sembrasse senza alternative sul periodo medio-lungo ma per crollo di fiducia nell’opposizione antifascista, in specie nei fuorusciti di area democratica, ch’era anche l’unica nella quale, da socialriformista anticomunista e anticlericale, egli si riconobbe. Giannini fu, in scala molto ridotta, un secondo Vincenzo Monti, massone a sua volta. Anch’egli percorse la via crucis di un esilio segmentato da ideali e opportunismi, svolte e cedimenti e il rientro senza benefici apprezzabili alle “amate sponde”, tra l’incitamento alla rivoluzione politica e la scettica capitolazione
fianco della Triplice Intesa contro gl’Imperi centrali e, ventinovenne, andò volontario: interventista intervenuto. Assegnato a un reggimento di artiglieria da montagna e travolto dalla ritirata di Caporetto, come egli stesso narra ed è documentato, nell’ultimo anno della grande guerra fu con la 35^ Divisione Alpina sul fronte macedone. Smobilitato, tornò al Messaggero e a simpatizzare per il magmatico socialismo riformistico che esprimeva figure di talento quali Alberto Beneduce. Nel 1921 fondò il quotidiano Il Paese, nettamente antifascista e bersaglio delle Camicie Nere nelle ore più fosche della “marcia su Roma”. Nel gennaio 1924 Gian-
gnetta vale tanti stanchi saggi o articoli eruditi che oggi s’affannano a documentare quanto ai contemporanei già era chiarissimo. Nominato Presidente del Consiglio per la pochezza della dirigenza liberale, la miopia del partito popolare, la pavidità dei socialisti (valutazione subito espressa non solo da Gaetano Salvemini e poi da Angelo Tasca ma anche, a caldo, dall’ottantenne Giovanni Giolitti e viene ora ripetuto da Ernesto Galli della Loggia) e dalla latitanza dei comunisti, per i quali valeva il principio del “tanto peggio tanto meglio”, Mussolini ebbe il consenso plebiscitario del Parlamento. Fu la Camera a votare la legge Acerbo (uno dei bersagli
Storia Bencivenga (massone), Tomaso Smith e Adriano Tilgher. La sua cifra vincente fu il rifiuto drastico della censura, rappresentata dal merlo dal becco stillante, vispe le penne e la coda. La rivista divenne il tormento del regime nascente. In molti casi una sua sola vi-
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preferiti dal Becco Giallo) e a spianare la strada alla vittoria del “listone” che nell’aprile 1924 ottenne i due terzi dei seggi non in virtù del premio maggioritario ma in proporzione ai voti effettivamente ottenuti: circa il 66% di quelli validi, al termine di una lotta durissima che in vaste aree dell’Italia settentrionale registrò la maggioranza relativa degli antifascisti. Il rapimento e l’assassinio (troppo stupido per essere premeditato) del deputato socialista Giacomo Matteotti da parte della fascistissima “banda Dumini” (10 giugno 1924), al servizio del Viminale, incrementò la diffusione del settimanale di Giannini, che non ebbe remore nel denunciare da un canto la protervia del “Trucio” (Mussolini) e dall’altro l’insipienza delle opposizioni, dormienti, attendiste (fu il caso di Giolitti, Salandra, Orlando...) o comunque incapaci di risposta, o in Aula (come chiedeva il re, Vittorio Emanuele III) o con l’autoconvocazione in assemblea permanente del popolo italiano, come invano proposto dai comunisti agli altri gruppi parlamentari. Giannini fu in prima linea contro l’applicazione della “legge sulla stampa”, promulgata un anno prima. Non sapeva, ma sospettava, quanto al deputato giolittiano a Marcello Soleri che si era recato appositamente a Sant’Anna di Valdieri (in una valle del Cuneese) per scongiurarlo di non firmare una legge che costituiva un passo all’indietro, re-
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plicò Vittorio Emanuele III: Questo dipende dal punto di vista da cui si guarda2. Più efficace di tante parole furono due vignette di sempre bruciante attualità: il “giornalista di opposizione nel libero esercizio delle sue funzioni”, chiuso in una cella, incatenato al muro, con la bocca chiusa dal bavaglio, braccia e gambe legate; e il Merlo col lucchetto al becco ma pronto a emettere da dietro il suo messaggio di ribellione e di sfida . Malgrado avversità d’ogni genere (sequestri, assalti alla sede del giornale, minacce, aggressioni...) Giannini tenne duro, al pari dei più pugnaci fogli dell’opposizione, quali La voce repubblicana, l’Avanti! e Il Mondo di Giovanni Amendola, ma con una differenza sostanziale: alle spalle non aveva né partiti né sindacati, né i potentati economici che infine ridussero alla ragione Alfredo Frassati e i fratelli Luigi e Alberto Albertini, costringendoli a cedere e a farsi da parte. La rivista era letta avidamente da antifascisti liberali, democratici, socialisti, repubblicani, ma anche da monarchici che si attendevano l’intervento del re, dalla caleidoscopica fronda fascista, non ancora domata dal discorso del 3 gennaio 1925 con il quale Mussolini rivendicò la portata politica e storica della “rivoluzione fascista”, e persino dal duce, che dalle sue pagine sentiva il polso dell’opposizione irriducibile e accelerò quindi l’istituzione dell’Ordine dei giornalisti per irreggimenta-
re: vantaggi normativi ed economici contro disciplina e assuefazione alle direttive del governo sino all’abiezione del Ministero per la cultura popolare. Bersagli prediletti del Becco Giallo furono Giovanni Gentile e Roberto Farinacci. Il primo per la supponenza, il secondo per la leggendaria ignoranza, con l’aggravante di essersi imboscato nella grande guerra. Quando il ras di Cremona intimò che contro le opposizioni occorreva non la scopa ma la mitragliatrice, Giannini rispose con la vignetta in cui a Ermanno Aminucci che gli domandava se sapesse usare l’arma, Farinacci rispondeva : “Ci vorrebbe uno che abbia stato al fronte”. In un’altra un asino nel ‘Gabbinetto del direttorre di Hremona nuova firmava l’articcolo è ditoriale’. Giannini non risparmiò né Vittorio Emanuele III né papa Pio XI, ai suoi occhi in vario modo condiscendenti con l’indurimento del regime cha lasciava alla fame e nella desolazione le moltitudini, come nel “Becco Giallo” Ratalanga continuò a denunciare con vignette di insuperata efficacia. Dal 1925 il settimanale assunse come logo il becco giallo chiuso dal lucchetto. La lotta con il regime incipiente divenne impari. Dovette sostenere duelli e subire violenze. Nel 1926 la rivista fu soppressa. Giannini inventò l’Attaccabottoni, che però, nel clima opprimente, ebbe scarsa fortuna. Perciò decise di espatriare a Parigi. Come e più di Nizza, Marsiglia e Tolosa la
capitale francese era approdo degli antifascisti. Dal 1° agosto 1927 Giannini dette vita a una nuova serie del Becco Giallo, diretto con Alberto Cianca, già redattore del Corriere della Sera. “Il fascismo – vi scrisse – ha paura della verità e del controllo. Esso ha bisogno di nascondere i suoi errori e i suoi delitti... Abbattere il fascismo è dunque riscattare l’Italia da una situazione di rovina e di vergogna”. Bisognava far sapere. Distribuito nella cerchia dell’antifascismo italofono, il periodico venne diffuso anche in Italia con stratagemmi e difficoltà crescenti. Giannini vi denunciò ruvidamente la connivenza della corona con il capo del governo in specie nella codificazione della repressione e nella convergenza con la chiesa cattolica. Un’atroce vignetta raffigura Vittorio Emanuele III con le mani dietro la schiena incamminato lungo l’ombra di un fascio littorio che si proietta sinistramente come una forca [p.75, ndr]. In un’altra il re si arrampica per afferrare una copia dello Statuto e scoprirne il contenuto. A ben vedere, dunque, anche da fuoruscito in primo tempo Giannini confidò nella resipiscenza della Corona e nella crisi del regime, in quella svolta che Francesco Saverio Nitti, Filippo Turati, Emanuele Modigliani e tanti altri di mese in mese davano per inevi-
tabile e imminente. Nella quasi certezza che prima o poi il governo Mussolini sarebbe imploso, Giannini evocò ripetutamente Cavour, Vittorio Emanuele II e altri padri fondatori della Terza Italia quale metro di raffronto per l’Italia del suo tempo. Nel 1928 commentò severamente la riforma elettorale che abolì la libertà di scelta e introdusse il listone predeterminato dei 400 deputati da votare o respingere in blocco con un voto plebiscitario, la cosiddetta costituzionalizzazione del Gran Consiglio (cui spettavano la determinazione degli eligendi e altre prerogative fondamentali, incluso il parere sulle leggi concernenti la successione al trono, da tanti sbrigativamente spacciato come tutela sulla successione stessa). La risposta degl’italiani alle leggi fascistissime, alla reintroduzione della pena di morte per i reati contro lo Stato e alle altre misure che indignavano una cerchia sempre più ristretta di oppositori fu l’adesione plebiscitaria al governo Mussolini, tanto più dopo il Concordato dell’11 febbraio 1929 tra il Regno d’Italia e la Santa Sede. Il Becco Giallo dell’esilio visse una seconda stagione dopo l’evasione di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti dal confino a Lipari. Fondato da Rosselli in Parigi, il movimento Giustizia e Libertà ebbe urgenza
di un portavoce immediato. Lo individuò nel periodico di Giannini, che versava in pessime acque. Il 1° marzo 1930 Rosselli e Giannini sottoscrissero l’accordo in forza del quale il foglio, “pur non potendo per sua natura diventare l’organo ufficiale del nuovo movimento, lo fiancheggerà in ogni occasione
Storia apertamente, divulgandone le idee e informando tutta la sua propaganda al programma comune”. Giannini ne conservò la proprietà esclusiva “per gli sviluppi editoriali che potrà avere in Italia, nell’avvenire”. Il direttore avrebbe ricevuto un’indennità mensile, fissata a parte. L’idillio durò poco, com’era prevedibile dalle clausole di garanzie e controgaranzie stipulate che ne evidenziarono retropensieri e diffidenze. Come ha icasticamente osservato Oreste Del Buono, nessuna personalità dell’antifascismo poteva sanare gl’inevitabili dissidi “tra Carlo Rosselli che pensava di essere l’unico a metterci i soldi e Alberto Giannini che pensava di essere l’unico a metterci le idee”. Il direttore non tollerava ingerenze. Era e rimase un cavaliere errante. Dal canto suo il fondatore di Giustizia e Libertà mirava a dotare il movimento di un
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Storia
giornale proprio, anche in funzione della sua linea politica, sempre più alternativa alla Concentrazione antifascista, i cui rituali sentiva stretti, e per crescente insofferenza nei confronti della rete massonica che aveva per referente il direttore del Becco Giallo. Rimasto pressoché senza risorse, dinnanzi a difficoltà finanziarie insormontabili, nell’agosto 1931 il Becco Giallo chiuse. Giannini si trovò dinnanzi all’angosciante dilemma di come sbarcare il lunario. Contrariamente alle ottimistiche previsioni, il crollo del regime non sopraggiunse affatto; anzi di anno in anno il consenso per Mussolini crebbe sia in Italia, ove i contraccolpi della grande depressione furono meno duri che nei Paesi a più alta industrializzazione, sia all’estero. Il consolidamento del governo passò anche attraverso l’opera di antifascisti notori, disposti a collaborare con Mussolini nel superiore interesse dell’Italia. Fu il caso di Alber-
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to Beneduce, massone, dichiaratamente avverso al regime, posto alla guida dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, la cui filosofia politica non fu ininfluente sul New Deal di Franklin Delano Roosevelt e sui nuovi orientamenti del socialismo democratico liquidati dalla terza Internazionale come socialfascismo. Anche nuovi attentati e i “colpi dimostrativi”, organizzati da Giustizia e Libertà, non solo non scalfirono il governo ma anzi concorsero a rafforzarlo nell’opinione pubblica interna, come già era accaduto negli anni 1925-26, perché nessun Paese può accettare senza reagire una serie quasi ininterrotta di attentati alla vita del capo del governo, sia questi democratico o autoritario o dittatore. Nel 1933 Giannini varcò il suo Rubicone. Contattato da Lorenzo Lorenzi, un banchiere dai trascorsi burrascosi e poco limpidi, entrò nella rete dell’ovra, l’Organizzazione (o Opera) Volontaria
per la Repressione dell’Antifascismo. Per lui volle dire danaro (poco) contro informazioni verosimilmente scarne. D’altronde non aveva da confidare o svelare più di altri informatori, né di quanto, per molte altre vie, il regime già non sapesse di lui e della maggior parte dei fuorusciti, come aveva mostrato il doppiogioco di Carlo del Re e l’arresto, a Milano, di “quasi tutti gli amici che facevano il lavoro di G. e L. e della C.(concentrazione) e parecchi dei membri di una loggia clandestina” (30-31 ottobre), come il 5 novembre da Parigi Giuseppe Leti scrisse sconsolato ad Arturo Di Pierto, suo referente-collaboratore per gli Stati Uniti d’America: “È così spezzato un lavoro di 4 anni, e un notevole numero di amici hanno la famiglia sul lastrico, oltre a essere essi oramai destinati a varii anni di carcere e di confino” 3. Se ne può concludere che Giannini non fu un confidente prezzolato né una “spia del regime” nel senso forte e spregevole del termine. Il suo cedimento, però, a Roma faceva gola, proprio perché sino a quel momento era stato la penna più brillante dell’opposizione e continuava a godere di vasta popolarità anche in Italia, negli ambienti moderati sempre più stretti dinnanzi alla scelta tra Roma e Mosca, tra il totalitarismo populistico mussoliniano e il regime sovietico che, dopo l’espulsione dei traditori (come Angelo Tasca), rimaneva lontano dall’opzione dei fronti popolari contro nazionalsocialismo e fascismo. Perciò, da quanto sinora emerso, secondo le regole della corruzione degli avversari, tutto sommato Giannini non fu neppure tenuto ad alcuna immediata e scoperta apologia del regime. Gli venne invece sollecitato, se mai ne avesse avuto bisogno, di gettare discredito sull’antifascismo, in specie su quello dell’esilio, anzi in particolare su Concentrazione, ex aventiniani e su Giustizia e Libertà. Rimasto senza lavoro e senza mezzi dopo la chiusura del Becco Giallo, con il sostegno di Lorenzi, Giannini aveva trascorso oltre due anni a scrivere un romanzo giallo a dispense settimanali di 32 pagine ciascuna, protratto stancamente per 130 puntate: un insieme di 4160 pagine, dunque una fatica poco remunerata ma indispensabile per la sopravvivenza. Poi, sollecitato dal finanziatore, chiuse sveltamente un memoriale, a sua detta già avviato. Lorenzi gli promise di diffonderlo in Italia, ove il suo nome non era certo dimenticato e avrebbe contato un’ ampia cerchia di lettori. Se il libro vi fosse stato pubbli-
cato e vi avesse avuto libera circolazione era inevitabile che all’autore fossero spalancate le porte, come accadde al massone Giovanni Ansaldo. Il regime, però, non ne ritenne maturo il rientro. Giannini doveva svolgere la sua nuova parte all’estero, a cospetto dei suoi ex compagni di antifascismo. Con la mediazione dell’avvocato Livio Bini, Le Memorie di un fesso (Parla Gennarino “fuoruscito” con l’amaro in bocca) comparvero quindi per i tipi di Crété (Corbeil). L’autore ne figurò editore. Il cerchio si chiuse su di sé. Come ovvio, ufficialmente ignorato in Italia, all’estero il libro fu accolto dal silenzio ostile degli antifascisti, sicché i calcoli di pingui guadagni sperati da Lorenzi, Bini e soprattutto Giannini rimasero un sogno. Nel 1934 Giannini varò una nuova rivista satirica, Il Merlo, che fischia(va) e se ne infischia(va) una volta la settimana. Malgrado aiuti saltuari, il nuovo foglio stentò a campare. Stampato su carta facilmente deperibile, ebbe circolazione difficoltosa e comunque limitata. Però fece da ponte per quanti via via scelsero di tornare in Italia, quasi sempre previa intesa con il Trucio. Fu il caso di Arturo Labriòla, che mandò articoli a Il Merlo anche perché era legato a filo almeno triplo con Giannini: entrambi arrivavano dal socialismo irre-
quieto di primo Novecento; ambedue erano stati iniziati alla Massoneria e infine avevano fatto parte del vertice del Grande Oriente d’Italia in esilio, Labriola quale Gran Maestro, Giannini come Gran Segretario e poi Grande Oratore. Sapevano molto l’uno dell’altro. La guerra d’Etiopia fece da spartiacque ulteriore per gli antifascisti all’estero, non tutti esuli, ovvero costretti a rimanervi per condanne o indagini giudiziarie. Mussolini riuscì a farne la vittoria degli italiani, una prova di orgoglio, suggellata da una moltitudine di adesioni di valore emblematico, quali il dono dell’oro alla Patria, che coinvolse la Regina Elena, antifascisti come Benedetto Croce e una moltitudine di cittadini che offrirono quant’avevano di più caro, dagli anelli nuziali a reliquie domestiche. D’altronde, quando il 5 maggio 1936 Badoglio entrò in Addis Abeba e il 9 Mussolini annunciò il ritorno delle aquile imperiali nei cieli di Roma nulla lasciava presagire la drammatica sequenza degli anni venturi: la guerra civile in Spagna, l’annessione dell’Austria da parte della Germania senza reazioni palpabili da parte delle “democrazie”, la conferenza di Monaco, l’acquisizione dei Sudeti da parte di Berlino, le leggi per la difesa della stirpe in
Italia, il patto Ribbentrop-Molotov, la guerra il 1° settembre 1939 e l’intervento dell’Italia il 10 giugno 1940 nella certezza che l’armistizio fosse a portata di mano. Il nazionalfascismo italiano, solo per alcuni aspetti creazione personale di Mussolini, non fu mai il nazionalsocialismo hitleriano. Il pri-
Storia mo rimase disegno incompiuto, circoscritto dalla monarchia, il secondo ebbe corpo organico. [segue sul prossimo numero] ______________ Note: 1 Aldo A. Mola, Los masones italianos del exilio desde la Santa Alianza hasta el fascismo in Actas del XII Symposium Internacional de Historia de la masoneria espanola. Represion y Exilios, diretto da José A. Ferrer Benimeli (Almeria, ottobre 2009), Saragozza, 2010.
Marcello Soleri, Memorie, Torino, 1949, p. 209.
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Aldo A. Mola, La Massoneria e Giustizia e Libertà in AA.VV., Il Partito d’Azione dalle origini alla resistenza armata, pref. di Giuseppe Galasso, Roma, Archivio Trimestrale, 1985, pp. 313-378. 3
P.18-23: Riproduzioni di alcuni dipinti di Tamara de Lempiztka.
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Scienza
Il gene, il meme e la parola perduta Paolo Maggi
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e vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Spesso utilizziamo questa celeberrima frase del “Gattopardo” per descrivere come, nonostante le apparenze, molte volte nulla cambi nella società e nei comportamenti degli uomini. Ma sarà poi vero? Certo è stato drammaticamente vero nel caso degli eventi narrati da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quando l’annessione del Regno delle Due Sicilie all’Italia sabauda ben poco cambiò della sua struttura arretrata e feudale e, se cambiamenti vi furono, non si trattò certo di miglioramenti. Ma è giusto generalizzare? La contesa è assai antica, e risale ai tempi della Grecia classica, quando già c’era chi sosteneva che la mente dell’uomo è troppo pigra per poter essere soggetta a una reale evoluzione. In realtà, oggi la maggior parte di noi ritiene che cambiare è possibile, e su questo assioma (che sembra uno slogan politico) sono costruiti molti pilastri della nostra società. Su di esso si fonda il concetto di giustizia, da Cesare Beccaria in poi, basato sul presupposto che il reo possa essere recuperato e rieducato. Se non credessimo a ciò non avremmo altro da fare che incarcerare a vita o decapitare tutti i criminali. Sul presupposto che cambiare è possibile si fonda anche la moderna pedagogia, la psicanalisi e, naturalmente, il percorso massonico. Se le possibilità di cambiamento della mente umana sono oggetto di discussione, nessun dubbio sembra esservi ormai sul fatto che le caratteristiche fisiche degli esseri viventi possano, anzi debbano essere suscettibili di cambiamento. Sono le mutazioni che conferiscono loro la capacità di adattarsi alle condizioni ambientali più diverse, persino a quelle estreme. A parte qualche irriducibile creazionista, la maggior parte di noi crede nell’evoluzione della specie. A proposito di evoluzione, dall’epoca di Charles Darwin si era sempre pensato che il soggetto principale della selezione naturale fosse l’individuo, uomo o animale che fosse. Nel 1976 invece fece la sua comparsa una nuova teoria sull’argomento che vedeva nel gene l’ unità fondamentale del processo evolutivo. Questa teoria, detta del “gene egoista” fu illustrata in un libro dall’omonimo titolo (The Selfish Gene). Il suo autore, Richard Dawkins, è un simpatico biologo inglese
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nato a Nairobi, divenuto sempre più celebre negli anni successivi, anche per le sue posizioni di ateismo ad oltranza. Perché i geni, secondo Dawkins, sono degli egoisti? Perché il loro unico obiettivo è quello di garantirsi in ogni modo possibile la sopravvivenza. In questa visione, l’uomo e gli altri esseri viventi sarebbero semplicemente un passivo veicolo dei loro geni, o per usare le parole dell’autore “macchine da sopravvivenza, robot semoventi programmati ciecamente per conservare quelle molecole egoiste note col nome di geni”. Dunque l’evoluzione non garantirebbe affatto la sopravvivenza dell’individuo, ma solo quella dei loro geni. Non può stupire nessuno che Richard Dawkins sia un feroce oppositore di qualsiasi “disegno intelligente” che guida il mondo che ci circonda. Per lui non esiste alcuna architettura dell’universo, ma tutto è mosso da un “orologiaio cieco”, appunto l’evoluzione
del gene: “La selezione naturale è l’orologiaio cieco, cieco perché non vede dinanzi a sé, non pianifica conseguenze, non ha in vista alcun fine. Eppure, i risultati viventi della selezione naturale ci danno un’impressione molto efficace dell’esistenza di un disegno intenzionale di un maestro orologiaio. Che alla base della complessità della natura vivente ci sia un disegno intenzionale, è però solo un’illusione.” (Richard Dawkins, L’orologiaio cieco). Ma nel suo libro The Selfish Gene, Dawkins ci propone una teoria ancor più affascinante e controversa: secondo lui la cultura umana si trasmetterebbe con un meccanismo molto simile a quello dei geni, e con le stesse finalità. È questa la teoria dei “memi”, gli analoghi culturali dei geni. Cos’è un meme? A dirla molto semplicemente è l’unità elementare della cultura, un pacchetto d’informazioni residente nel cervello capace, come un gene, di
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propagarsi autonomamente e di difendere strenuamente la propria sopravvivenza. Un meme può essere un’idea, una lingua, una musica, un oggetto, un’abilità, un valore morale o estetico; può essere, in genere, qualsiasi cosa comunemente imparata e trasmessa ad altri come unità d’informazione. Per capire meglio questo concetto facciamo qualche esempio pratico di unità d’informazione che possano essere definite memi: una tecnica utile è un meme (ad esempio, l’uso della ruota nelle sue mille applicazioni, o la tecnica di costruzione di una volta in pietra). Un’idea che ci aiuta ad affrontare un problema insolubile è
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un meme (ad esempio, un’idea dell’aldilà come il paradiso e l’inferno). Ma anche un poema epico, un’idea politica, una religione, una leggenda, un mito, un proverbio, uno slogan pubblicitario, un film celebre, un brano d’opera, e, naturalmente, la tecnologia, sono tutti esempi di memi. I memi si diffondono da un uomo all’altro per trasmissione culturale o per semplice imitazione e, a volte, la loro velocità di propagazione è talmente elevata da poter essere paragonata a quella di un virus. Più un meme si adatterà all’ambiente, più si diffonderà velocemente, e più tenacemente sopravvivrà. I memi più vantaggiosi saranno destinati a soppiantare quelli meno
vantaggiosi. Proprio come accade ai geni. Infatti, come per i geni, le idee che si trasmettono da una generazione alla successiva possono aumentare o diminuire le possibilità di sopravvivenza degli individui che le ricevono e che, a loro volta le trasmetteranno ai loro figli. Ad esempio, quel popolo che avrà sviluppato armi di difesa più potenti, tecniche di coltivazione e allevamento più efficaci, o un sistema di governo più solido avrà più probabilità di prosperare e svilupparsi sugli altri. Non solo, col passare del tempo anche gli altri popoli tenderanno ad adottare le stesse unità culturali. Così i memi si diffonderanno e sopravvivranno guidando con
la propria presenza o assenza il futuro di molte culture. Quando parlo di cultura a proposito dei memi però, uso questo termine in senso molto lato: spesso accade che un popolo si accorga che è più conveniente, in termini di sopravvivenza, rimanere nell’ignoranza: in questo caso, ahimè assai frequente, l’ ignoranza diventerà un meme. Sia i geni che i memi hanno ovviamente la caratteristica di poter sopravvivere molto più a lungo del singolo organismo che li reca in sé. Un gene vantaggioso (ad esempio un gene che protegge da una data malattia) può rimanere inalterato nel corredo genetico per centinaia di migliaia di anni. Un meme vantaggioso (come può essere una idea politica di successo o una grande religione) può propagarsi da un individuo ad un altro per tempi molto lunghi dopo la sua comparsa. Secondo Dawkins, al pari del gene, il meme non persegue alcuno scopo prefisso e non ha nessun progetto a lungo termine. Semplicemente è un “replicatore di sé stesso”: vuole sopravvivere il più a lungo possibile, e potrà farlo in un solo modo, replicandosi, appunto. In realtà, i memi qualche differenza rispetto ai geni ce l’hanno: il successo di un meme è legato a fattori più sottili, come gli effetti della moda, della pressione del gruppo, la capacità di resistere alle obiezioni o di persuadere il prossimo. Tuttavia, secondo Dawkins, anche nel caso dei memi, gli uomini spesso sarebbero null’altro che passivi contenitori destinati a garantire la sopravvivenza di queste piccole ed invadenti unità d’informazione comportamentale. Da molti anni Richard Dawkins è uno dei più prestigiosi rappresentanti internazionali del pensiero materialista e riduzionista. La sua teoria del “gene egoista” prevede un universo che si muove senza alcuna direzione, né criterio né senso. Ed è legittimo dissentire. Ma quando, con i memi, egli estende questa idea anche al mondo dei comportamenti umani e della cultura, per quanto ci possa sembrare provocatorio, non si può negare che qualche solida ragione ce l’abbia: la maggior parte delle idee che costituiscono la cultura di un popolo sono funzionali ad un vantaggio immediato, la progettualità a lungo termine è assai rara e si applica a pochi capolavori della mente umana, noti in genere solo ad un’élite intellettuale. In genere un’idea resiste nel tempo se la sua
convenienza si rinnova di giorno in giorno. Chi si propone con idee che potranno avvantaggiare le generazioni future, ma non portano un vantaggio nel presente, si sa, è destinato ad avere poco successo. Insomma, i memi non sono soltanto degli egoisti invadenti, ma sono anche molto miopi! Quello di cui Dawkins non tiene debito conto è che vi sono grandi valori che, nati in un certo momento della storia, vengono dimenticati o addirittura avversati, per tempi anche lunghissimi. Queste idee, che potremmo chiamare le “parole per-
loro. E, naturalmente, una parola perduta è la tradizione iniziatica, da secoli messa ai margini della cultura ufficiale, ma sopravvissuta in ogni campo del sapere umano grazie a un silenzioso passaparola. Si tratta di idee che non hanno nessu-
dute”, sono a volte gelosamente custodite da ristretti gruppi di uomini saggi, spesso anch’essi avversati, come le loro idee, che si danno il compito di tramandarle alle generazioni successive. Ma facciamo qualche esempio. Una parola perduta è stato il patrimonio culturale dell’antichità classica che ha attraversato i tempi, bui e lunghissimi, del medioevo, perché custodito da pochi saggi, chiusi nei conventi europei. Altre parole perdute sono i dialoghi intellettuali e spirituali tra civiltà diverse fra loro, conservati anche mentre imperversano sanguinose guerre ideologiche o di religione che sembrano compromettere per sempre ogni contatto tra
so se proiettate molto in là nel futuro della società, oppure se sono viste nell’ottica di un percorso individuale, sia esso culturale, spirituale o filosofico, non remunerativo nell’accezione corrente del termine. Insomma, la parola perduta sfugge alla logica egoista e utilitaristica dei memi, e ha la vista assai più lunga rispetto ad essi. Le molte parole perdute che la mente umana ha generato in ogni tempo sono un patrimonio d’immenso valore e la loro sopravvivenza si deve solo ai suoi pochi illuminati e coraggiosi custodi.
Scienza na apparente “convenienza”, se giudicate con i parametri convenzionali e che, anzi, possono sembrare francamente dannose, ma che possono avere un valore immen-
P.24: Eritrociti al microscopio elettronico; p.25: Antico meccanismo di orologio da campanile; p.26: Molla di acciaio armonico; p.27: Meccanismo di orologio moderno (25 e 27: foto P.Del Freo).
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L Mirabilia
Dalla Wunderkammer al Museo virtuale Massimo Centini
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e Wunderkammern, le cosiddette “Camere delle meraviglie”, dal XV secolo al XVIII secolo, raccolsero oggetti ritenuti straordinari per le loro caratteristiche, per l’esotismo, o perché “impossibili” da decifrare per le scienze di allora e quindi considerati velati di mistero, di mito, di sacro: reperti archeologici, fossili, curiosità di ogni genere, documenti con scritture allora “misteriose”, mummie e vari oggetti archeologici ebbero in questi locali la loro prima cornice conservativa che, per molti aspetti, erano portatori di un seme destinato a svilupparsi nella struttura sistematica e filologica del museo moderno. Sorta di “laboratorio filosofico”, le Camere delle meraviglie erano microcosmi dominati da profondo sincretismo, che ricevettero la loro impronta tipica alla corte dell’imperatore Rodolfo II a Praga; vi era di tutto: dai fossili agli “scherzi di natura”, dalle costruzioni meccaniche più originali agli automi. Al centro l’uomo, come “secondo Dio” capace di creare un mondo “altro” destinato a superare le barriere tra arte e tecnica, tra arte e natura. Tutto ciò produceva l’accostamento apparentemente bizzarro di prodotti di ogni specie e genere, rivelando il preciso intento di suggerire una continuità di sviluppo della natura passando attraverso l’opera d’arte antica e raggiungere la macchina moderna. I reperti raccolti appartenevano a due categorie ben precise che insieme costituivano quella dei mirabilia: vi erano i naturalia, oggetti che erano “straordinari” per forma, dimensioni e aspetto, ma comunque creature della natura: ad esempio animali morfologicamente strani al punto di essere indicati come mostri, resti scheletrici di creature credute mitiche, o “antidiluviane”, animali esotici, ma anche fiori e frutti di dimensioni tali da uscire dalla quella che allora era la “normalità”. L’altra categoria era quella degli artificialia, realizzazioni dell’uomo ma che, in ragione della loro complessità o del mistero della loro origine, erano considerati unici, quasi sempre irripetibili. In questo segmento i reperti archeologici avevano naturalmente un posizione privilegiata. Le Wunderkammern, studioli
Mirabilia
e gabinetti di curiosità, avevano in nuce la struttura dei moderni musei, anche se allora il concetto di esposizione era attivato seguendo le prerogative dello stupore, il gusto di unire arte e natura al fine di proporre una sorta di campionatura del mondo. “I criteri di raccolta non discriminavano tra le valenze estetiche, l’artificio, la fabbrilità dell’oggetto, la preziosità del materiale, la plausibilità delle provenienze, tonificati come erano dal balsamo sentimentale della meraviglia naturale pendant di un’inesausta curiosità (...) Erudizione, superstizione, ingenuità, orgoglio dinastico convivevano pacificamente, nel segno della volontà di incantare e del piacere di stupirsi delle meraviglie del mondo, laddove le sezioni di questi primi monolocali delle muse, naturalia, exotica, mineralia, artificialia, curiosa, ecc., si risolvevano in armadietti, cassetti e scansie, atti a garantire la provvisoria coabitazione di armi, libri, manoscritti miniati e incunaboli, stampe e dipinti, tesori di guarderobe, drapperie e guardarobette, cristalli e pietre dure, lavorate e non, oggetti d’oreficeria, strumenti musicali, orologi, automi, strumenti meccanici, ottici e matematici, miniature ed intagli d’ogni materiale, curiosa locali e d’oltremare, reliquie, vetri, coralli e conchiglie, monete e bronzetti, ceramiche e porcellane, rarità etnografiche, carte geografiche e animali imbalsamati di ogni tipo” (G. Guerzoni, Le stanze delle meraviglie,
Novara 2002, pag. 22). L’asistematicità e l’interminatezza di queste raccolte avevano il ruolo di enfatizzare l’esotismo e la presunta unicità, anche la straordinarietà dei singoli reperti, dando forma a quella “meraviglia” che nell’immaginario di molti di noi è ancora considerata una peculiarità delle raccolte museali. La Wunderkammer aveva in nuce i vagiti del museo moderno, quello strutturato secondo una metodologia scientifica, quello che ha saputo lasciare a latere gli aspetti correlati alla meraviglia e allo stupore, per privilegiare il taglio didattico e formativo. Poi il museo è diventato il luogo in cui è possibile anche toccare reperti e tracce, in cui “rifare” i reperti ad esempio con l’ausilio dell’archeologia sperimentale e avanti fino al museo virtuale da vistare stando in casa davanti al video del computer. È quindi cambiata la filosofia di approccio, con tutta una serie di vantaggi, di occasioni di approfondimento, di accesso alla materia altrimenti impensabile con la visione classica. Di contro si è però andato definendo un rapporto diverso nei confronti di un protagonista del museo: l’originale. L’alterità della copia, o la sua virtualizzazione nel messaggio offerto dal sito, dal dvd o da un altro supporto, deve essere pensata con cura, soprattutto per quanto riguarda alcune tipologie di museo che svolgono una funzione formativa importante. Inoltre l’originale non potrà
mai venir meno, soprattutto quando ci si rivolge ad ambiti come quello artistico. Ma a monte di tutto non bisogna dimenticare che un aspetto rilevante della fruizione del “supporto” museo è determinato dalla presenza di figure di riferimento, insostituibili, che hanno avuto da sempre il ruolo di “spiegarti” che cosa vedi, ma soprattutto di restituirti quell’aura che spesso neppure percepiamo quando siamo al cospetto di testimonianze lontane dalle nostre conoscenze e formazione. Quindi ben venga il museo virtuale, con il suo background che sa di globalizzazione e con il suo potere di porre al di fuori del tempo, ma ciò non faccia perdere quel quid di “antico”, ma anche quel riverbero di esotismo che sono un po’ le peculiarità più profonde del museo. Un luogo consacrato alla conoscenza, deve lasciare anche un po’ di spazio al sogno, al viaggio con la fantasia; perché il museo se è territorio della scienza, della ricerca, dello studio, è anche terra per viaggiare con la mente, per immaginare, forse anche un po’ dimensione ludica, dove il livello scientifico e quello dell’immaginazione hanno vite parallele. Ognuno ha il diritto di percorre quella che in quel momento è più congeniale al suo sentire. Al suo bisogno di conoscere, o di sognare… P.28-29: Oggetti appartenuti al ‘Gabinetto di Meraviglie’ di A. Kircher, sec. XVII, coll. priv.
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le Fonti
L’un contro l’altro armati Lo scontro tra Antichi e Moderni Maurizio Galafate Orlandi
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opo la costituzione della Grand Lodge of London and Westminster (Gran Loggia di Londra e di Westminster) avvenuta il 24 giugno 1717, nel 1751 si verificò un evento che in futuro sarebbe risultato determinante per la Libera Muratoria, la nascita della Grand Lodge of Free and Accepted Masons of England, according to the Old Constitutions (Gran Loggia dei Liberi ed Accettati Muratori d’Inghilterra, secondo le vecchie Costituzioni). Meglio conosciuta come la Gran Loggia degli Antichi, essa entrò presto in contrapposizione con quella fondata nel 1717 che venne chiamata Gran Loggia dei Moderni. I sedicenti “Antichi” intendevano recuperare le pratiche rituali tradizionali che a loro parere erano state dimenticate dai Moderns. vedremo in seguito non risulterà vero e si tratterà, quasi esclusivamente, di accuse infondate delle quali la storia non ci fornisce alcuna giustificazione. Laurence Dermott, che ne fu l’animatore, sostenne la necessità di doversi difendere dalla crescente profanizzazione del Rito per tornare ad una Libera Muratoria più pura. Egli disse di sentire il richiamo alla ritualità ed al suo rispetto, anche se noi sappiamo che la sua contrapposizione alla Gran Loggia di Londra era fondata su ben altri motivi, sicuramente profani. Quest’ultima era formata per lo più da protestanti seguaci degli Hannover mentre coloro che appartenevano a quella degli Antichi erano per lo più di origine irlandese e scozzese, cattolici quindi e seguaci del Re Giacomo II il quale dopo la sua cacciata trovò rifugio in Francia. La neonata Gran Loggia degli Antichi si trovò nelle condizioni di dover affermare e giustificare il proprio diritto ad esistere e, per realizzare questo proposito, non trovò di meglio che cercare di mettere in condizioni di inferiorità i rivali della Gran Loggia di Londra. Questo è quanto attuò Laurence Dermott, il quale, con grande furbizia, formulò nei confronti della Loggia rivale accuse che colpirono l’opinione pubblica, nonostante egli stesso fosse consapevole che non avrebbe potuto sostenerle con prove certe. Per conoscere chi fosse in realtà Laurence Dermott e la grande influenza che egli esercitò sulla Gran Loggia degli Antichi è opportuno analizzare, anche se breve-
mente, il suo libro delle Costituzioni che compilò nel 1756 pubblicandolo con il titolo di Ahiman Rezon. Non sappiamo con certezza perché scelse questo titolo, così come non ne conosciamo l’esatto significato che nel tempo è stato oggetto di svariate interpretazioni, delle quali una delle più accreditate è “Devoto fratello Segretario”, mentre il sottotitolo era chiaro e diceva “aiuto ad un fratello”. Quella di Dermott fu in realtà una compilazione di norme tratte da più fonti quali le Costituzioni irlandesi di Spratt che, a loro volta, si fondavano su quelle di James Anderson pubblicate nell’edizione del 1738. Ahiman Rezon risulta quindi, per larga parte, una semplice riscrittura di opere di autori irlandesi come il D’Assigny, il quale aveva narrato il decadimento della Libera Muratoria in Irlanda. Dermott, nella prima edizione delle sue Costituzioni, non fece alcun riferimento
ai Moderni e dovremo pertanto attenderne la seconda edizione, quella pubblicata nel 1764, per assistere all’offensiva che egli portò nei loro confronti. Come era costume dell’epoca il libro si apriva con una dedica, in questo caso al
le Fonti Conte di Blessington, quasi fosse una sorta di benedizione necessaria per il buon accoglimento della pubblicazione. Immediatamente dopo venivano elencati gli Antichi Doveri dei muratori anch’essi in parte copiati dalle Costituzioni di Spratt, e arriviamo quindi alla parte sostanziale del libro, quella in cui venivano elencate le Regole Generali, ispirate alle solite fonti ma modificate da Laurence Dermott che le adattò alle esigenze della sua Gran Loggia. Per ribadirne la provenienza antica e
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le Fonti
conferire così maggior veridicità alle sue affermazioni, l’autore in una nota del libro scrive che gli Antichi venivano chiamati anche Muratori di York, perchè la prima Gran Loggia di ogni epoca si sarebbe tenuta a York, riunita dal principe Edwin su autorizzazione del re Atelstano. Il libro si conclude poi con alcuni testi di canzoni massoniche. Otto anni più tardi, quando venne pubblicata la seconda edizione, la Gran Loggia degli Antichi poggiava ormai su solide basi e fu così che Dermott decise che quello era il momento giusto per sferrare un attacco alla Gran Loggia dei Moderni anche se egli stesso sosteneva di non provare la benché minima antipatia per i Moderni, anzi di provare per loro amore e rispetto. Tante furono le accuse, tuttavia la loro inconsistenza ed infondatezza è testimoniata da quanto esse fossero risibili. Prendiamo ad esempio i tre passi del Maestro che - non condivisi da Dermott - furono
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da lui messi alla berlina ed accomunati il I all’incedere di un ubriaco, il II al barcollare di un marinaio a bordo di una nave ed il III ad un uomo affetto dalla sciatica. Altre accuse fioccarono, si passò da quella di avere invertito i segni di riconoscimento del I e II grado alla diversa sistemazione degli arredi di Loggia, dalla eliminazione delle radici cristiane presenti nei rituali alla loro semplificazione ed abbreviazione, ed ancora, all’abbandono della lettura dei catechismi ed dell’uso delle spade in Loggia. Tutto questo non corrisponde al vero, si trattò esclusivamente del desiderio di Dermott di screditare coloro che considerava suoi antagonisti sia dal punto di vista politico che sociale. Come se ciò non fosse bastato, i Moderni vennero accusati di aver omesso di preparare i recipiendari nel modo tradizionale, di trascurare la lettura dei catechismi e di non leggere più gli Antichi Doveri durante la cerimo-
nia di iniziazione. Anche in questo caso le accuse non rispondono a verità perchè si fondavano ancora una volta su presupposti inesistenti, sulla pretesa inosservanza di antichissimi landmarks che, tuttavia, nessuno ha mai potuto leggere e - con tutta probabilità, o forse sarebbe meglio dire con certezza - non sono mai esistiti. Priva di fondamento è infine anche la supposizione che i Moderni avessero eliminato dai rituali la cerimonia di istallazione del Maestro Venerabile, perché non è noto il dove, il quando ed il come essa fosse stata tradizionalmente praticata e, per di più, non ne troviamo traccia né in Ahiman Rezon né in altre pubblicazioni legate agli Antichi. Il conflitto tra le due Gran Logge rivali continuò per circa sessanta anni durante i quali i loro rapporti a volte migliorarono ed altre peggiorarono. Sicuramente le due Gran Logge vennero più volte a contatto ed è per questo motivo che ciascuna di esse finì per adottare, quasi senza accorgersene, qualcosa delle pratiche rituali del sistema rituale rivale. Dopo varie vicissitudini, nel 1809, i Moderni costituirono la Loggia di Promulgazione con lo scopo di trovare un accordo con gli Antichi mentre, nel 1811, fu la volta degli Antichi a cercare un avvicinamento ai Moderni. I tempi erano ormai maturi per l’unificazione delle due Gran Logge che da più parti veniva considerata auspicabile e proficua. Il Principe del Galles, futuro Re Giorgio IV, venne eletto nel 1790 Gran Maestro della Gran Loggia dei Moderni e, nel 1813, Edoardo Duca di Kent venne eletto alla carica di Gran Maestro della Gran Loggia degli Antichi. Due fratelli ora presiedevano le due Gran Logge inglesi dimostrando così che politicamente non era più possibile tollerare la loro rivalità. L’unione avvenne con la firma da parte dei Gran Maestri di un documento composto da ventuno articoli e fu sancita definitivamente il 27 dicembre 1813, anno in cui si riunirono i membri dei due gruppi e, in una apposita tornata, mescolati gli uni agli altri, formarono quella che ancora oggi è la Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Dipinti di Jacques Louis David, sec XVIII/XIX, Louvre, Parigi: p.30: Ritratto del Conte Potocki; p.31: Ritr. di Jacques Francois Desmaisons; p.32: Ritr. di Gaspar Mayer; p.33: Ritr. di Pierre Seriziat.
le Fonti
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SocietĂ segrete
Nella selva oscura dei segreti da svelare Aldo Paolo Rossi
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Società segrete
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e associazioni segrete sono un gruppo o una categoria di persone unite da vincoli sociali, culturali, personali ecc. “privati” che non devono essere divulgati, ossia che possono essere conosciuti soltanto dai diretti interessati. Il che è quanto avviene di solito per le congregazioni, i circoli, i consorzi, ossia in tutte le organizzazioni non pubbliche (non nascoste o celate, ma semplicemente riservate o confidenziali): dai frati eremiti all’associazione per la ricerca dei funghi mangerecci, dall’accademia internazionale degli illuminati alle pro-loco, dagli ex-ufficiali ai membri di una società per l’enigmistica. Tutte queste hanno delle “conoscenze segrete” che si raccontano ad un altro e solo se questo fa parte del tuo circolo o club. Un segreto è un segreto solo se può essere svelato. Il noto, l’evidente, l’ovvio, non hanno bisogno di un’associazione che li appalesi o che li faccia conoscere perché qualsiasi persona sa che il notorio non può essere divulgato. Cioè: “La Palice est mort / il est mort devant Pavie / cinq minutes avant sa mort / il etait encore en vie”. Questo non è segreto! È un truismo! Una verità evidente e ovvia. “Quand il écrivait en vers / il n’écrivait pas en prose”. Una definizione di tautologia è “ciò che è tautologico”, cioè un logo che parla di se stesso, priva di valore informativo (proposizione composta che è sempre vera, indipendentemente dai valori di verità assegnati alle singole proposizioni che la costituiscono o frase che nel predicato ripete inutilmente ciò che è indicato già nel
soggetto). È chiaro che una “associazione lapalissiana” non può mantenere un segreto perché non ce l’ha. Analogamente ex falso sequitur quodlibet, ossia: “dal falso segue una qualsiasi cosa scelta a piacere” che è il principio del gazzettiere: da (A e non-A) da cui deriva tutto quel che si vuole. Gli uomini solitamente ragionano per argomentazioni; ossia, partendo da una premessa o dall’insieme delle asserzioni che devono fare da fondamento all’argomento, si arriva a una conclusione, l’asserzione che deve essere giustificata in forza della/e premessa/e. Le proposizioni vere sono immediatamente (senza alcuna mediazione) vere o logicamente vere (ricavate da altre proposizioni vere). La verità è stata intesa in vari modi: come corrispondenza con la realtà o come coerenza all’interno di un certo insieme di affermazioni o, più spesso, di convinzioni o di consenso. L’essere d’accordo con le opinioni di certi gruppi specifici, oppure un’idea è vera se è capace di guidarci senza intoppi da un’esperienza ad un’altra. La verità significa “non nascondo, rendo palese”, quindi svelo, dato che è composta da alfa privativo (α-) più lanthano (λanqanw), che vuol dire propriamente eliminazione dell’oscuramento, ovvero disvelamento. È chiaro che per qualsiasi associazione si parte da alcune proposizioni vere (o supposte tali) da cui ricavare le conclusioni. Ma questo non è il segreto illecito, semmai è il misterioso consentito. La Costituzione della Repubblica italiana stabilisce il diritto all’Associazionismo, mentre vieta le società segrete. “Art.
18. I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare”, ma non viene data una chiara e lineare definizione di “società segreta” (come dire è vietata “una riunione fra i rapprillici” che è un termine inesistente sia semanticamente che giuridicamente), la qual cosa ha determinato non pochi problemi di carattere legale, perché non si può proibire quello che non siamo riusciti a designare e a demarcare. Potremo dire che la “società segreta” è quella che divulga i propri segreti reconditi solo ai suoi aderenti. Ad esempio, come deve essere l’esca per prendere tanti pesci, la password che ti mette in contatto con i tuoi compagni, come andare vestiti se si è membri di un certo club, come mettersi in contatto con gli UFO, fino alle verità rivelate, esoteriche, occulte. Sant’Agostino ne Le Confessioni, si domanda: “Perché mi confesso a Dio, che sa tutto? Il fatto è che non mi confesso soltanto a lui, ma di fronte a tutti gli uomini, per adempiere la verità”. La verità esiste solo se viene detta, se viene confidata, se viene tolta dall’oscuramento. La massoneria è stata valutata “una società segreta”, ma le sedi delle logge massoniche sono regolarmente notificate in questura e gli elenchi degli iscritti sono accessibili a chiunque ne abbia diritto, per quanto la loro accessibilità sia circoscritta alle isti-
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tuzioni statali stabilite e previste e, principalmente a causa delle leggi sulla privacy e all’obbligo morale e civile sulla riservatezza (nel non rendere pubblici sentimenti, relazioni, notizie … personali e private cioè quando non siano contro la legge dello stato). Il termine segreto, ossia secretum, cioè il participio passato del verbo secernere = separare (se-cerno), vuole dire distinguere e quindi far uso del giudizio, dell’intelletto, ossia del raziocinio. Il verbo greco è krino, che sta per scelta, facoltà propria dell’uomo, di pensare, di collegare fra loro concetti e idee secondo rapporti logici e decidere per il meglio (secondo la propria opinione o doxa), da cui crisi e critico. Cosa fa diventare simili il segreto con l’occulto imperscrutabile e l’arcano misterioso? O per meglio dire rende affini la crisi con la caligine: è la stessa parentela che c’è fra il verbo krino e krupto (il giudicare e il tener nascosto o coperto), ossia il critico e il cripto. È ovvio che la segretezza è sinonimo di difesa o di protezione da chi, essendo certo di avere la verità, non fa uso dell’intelletto ma della forza e della violenza per convincere chi è in disaccordo con il suo uso del “vero”. Governi spietati e regimi
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politici sanguinari, autorità efferate e poteri feroci, chiese crudeli e cleri disumani … hanno da sempre discriminato coloro che erano perplessi e contrari, per cui il passaggio dall’essere critico all’essere criptico è ciò che avviene quando la sovranità popolare “lascia il posto” a una tirannia oppressiva e al totalitarismo, cioè il privato diventa nascosto, il riservato diventa occulto, il personale diventa il “segreto celato”. Molte società e popolazioni e moltissime etnie, stirpi, ceppi, sono stati perseguitati per la loro razza, religione, idee politiche… ma c’è una sola “associazione” o “circolo” (non un clan, ma un club) preso di mira e angariato da tutti indifferentemente, dai tiranni come dai libertari, dai monarchici e dai repubblicani, dai comunisti e dai nazifascisti, dai maomettani come dai cristiani, dai cattolici e dai riformati…: la massoneria. E la sua storia tricentenaria lo dimostra. “Un Massone è tenuto, per la sua condizione, a obbedire alla legge morale; e se egli intende rettamente l’Arte non sarà mai un ateo stupido né un libertino irreligioso… la Massoneria diviene il Centro di Unione e il mezzo per annodare una sincera amicizia tra persone che sarebbero rimaste in perpetuo estranee”… Un Muratore è un
pacifico suddito dei Poteri Civili, ovunque egli risieda o lavori e non deve essere mai coinvolto in complotti e cospirazioni contro la pace e il benessere della Nazione, né condursi indebitamente verso i Magistrati inferiori; poiché la Muratorìa è stata sempre danneggiata da guerre, massacri e disordini, così gli antichi Re e Principi sono stati assai disposti a incoraggiare gli uomini dell’Arte, a causa della loro tranquillità e lealtà; per cui essi praticamente risposero ai cavilli dei loro avversari e promossero l’onore della loro fraternità, che sempre fiorì nei tempi di pace. (James Anderson The Constitutions of the Free-Masons, 1723). Amicizia e fratellanza che implicano apertura mentale e rispetto nei confronti dei pareri altrui, equità e carità (ogni Fratello cercherà di soccorrere chi ne avesse bisogno) e libertà (il Massone lavora dentro se stesso per conoscersi e migliorarsi moralmente e nella società come singolo individuo perché si affermino i valori della verità, della libertà di pensiero e dei diritti civili). Libertà, Uguaglianza, Fratellanza sono concetti talmente chiari che se non capiti e messi in pratica portano all’intolleranza e settarismo. Ribadiamo: solo una associazione è stata
perseguitata fino dal momento della sua nascita1, il 24 giugno del 1717, a tutt’oggi e senza sosta: la massoneria o “libera muratoria che praticava riti arcani e si riuniva all’insegna del segreto”. La bolla di scomunica In eminenti Apostolatus specula2 di Clemente XII è del 1738 (poi ribadita da Benedetto XIV con la Providas Romanorum Pontificum del 17 agosto 1740). Vorrei citare un libro di “storia accaduta” di Luigi Pruneti, La sinagoga di Satana. Storia dell’antimassoneria 1725-2002 (Edizione Giuseppe Laterza, Bari, 2002), il quale da studioso e storiografo narra le infinite persecuzioni, vessazioni e tormenti cui fu sottoposta la massoneria. Dopo aver visto i secoli XVIII e XIX con le loro sevizie e sofferenze passa al XX secolo. Nel 1914 i massoni vennero espulsi dal Partito Socialista e nel 1923, per volontà di Benito Mussolini, dal partito Nazionale Fascista. Nel 1922 la Terza Internazionale di Mosca e, sulla sua scia, tutti i partiti comunisti, dichiararono guerra alla massoneria e ne annientarono gli affiliati. Altrettanto fece Hitler. Ancora, per chi appartiene ad una cultura di ispirazione catto-comunista, il massone rimane il nemico. Ma nella introduzione Aldo Alessandro Mola
dice che fra la nascita del cristianesimo e l’editto di tolleranza di Costantino passano quasi tre secoli … e la massoneria non li ha compiuti ancora. ______________
Cfr. la bolla di Giovanni XXII del 1327 Super illius specula con la quale ebbe inizio la caccia alle streghe.
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P.34: La ‘Selva Oscura’, coll. priv. (foto P. Del Freo); p.35-37: Cassaforte in ferro battuto, sec. XVI, collez. privata.
Note: Anche perché gli ebrei sono sempre stati un popolo e le streghe non esistevano come associazione.
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Società segrete
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Tradizione
Tradizione e ModernitĂ Due maiuscole per due pilastri Luciano Arcella
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I
l termine Tradizione va scritto con iniziale maiuscola non per sottolineare una sua eventuale superiorità, un suo privilegio, ma perché non si riferisce ad altro, ma trova senso e determinazione soltanto in se stesso. Il che non significa che per comprenderlo sia necessario rinunciare alla nostra razionalità (di noi occidentali più che di noi esseri umani), dal momento che esso è ben definibile senza la necessità di un’opzione mistica. Infatti è possibile definire come tradizionali in senso globale ogni principio, istituto, concezione, che si considerino fondati su valori ultramondani, ossia su un altrove che rimanda a una realtà collocata al di fuori di questo spazio e di questo tempo storico. Così come Platone, che per individuare meglio il concetto astratto di giustizia ritenne di poterlo definire attraverso la descrizione di uno Stato giusto (la sua politeia o repubblica), consideriamo possibile individuare il concetto di Tradizione attraverso concreti istituti umani che possono definirsi appunto tradizionali. Pensiamo ad esempio ad un istituto politico come la regalità. Questa può essere vista da una prospettiva mondana, se considerata come forma di governo creata dagli uomini e voluta o sopportata da altri uomini; appare come tradizionale se la consideriamo come voluta da Dio o da una realtà sovraordinata che la ispira e la impone. Di questo istituto si occupò ampiamente Evola, che nel capitolo dedicato al «mondo della Tradizione», dell’opera Rivolta contro il mondo moderno, colloca un paragrafo intitolato appunto «La regalità», nel quale celebra il sovrano in quanto dotato di poteri sovrannaturali ovvero divini. Con ciò egli evidenzia la dicotomia fondamentale fra il mondo della Tradizione e quello moderno, affermando che «Manca del tutto alle civiltà tradizionali, è solo cosa di tempi successivi e decadenti, la concezione semplicemente politica della suprema autorità, l’idea che la sua base sia la semplice forza e la violenza, o qualità naturalistiche e secolari […] Questa base ha invece sempre avuto un carattere metafisico. Così è assolutamente estranea alla Tradizione l’idea che i poteri vengano al capo da coloro che egli governa, che la sua autorità sia espressione della collettività e soggetta alla sanzione di essa»1. Il che non deve essere considerato un ingan-
Tradizione
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Tradizione
no perpetrato a danno dei più deboli, né un privilegio da parte di chi comanda, ma un grave impegno da parte di chi si assume il compito di ordinare la realtà. Atteggiamento non realizzabile però nei tempi attuali, ossia in questa fase in cui, di contro alla Tradizione, si afferma la Modernità con i sui valori. Poniamo in carattere maiuscolo anche la Modernità, onde evidenziare come tale termine, pur trovando applicazione nella storia delle civiltà, ha come l’altro, un suo valore assoluto, rispetto al quale specifici momenti storici risultano più o meno aderenti. Insomma, Tradizione e Modernità costituiscono due forme metafisiche - potremmo dire anche due atteggiamenti, o due caratteri, in senso psicologico - in base ai quali un istituto, ovvero un modo di pensare e di operare si ispirano - o non - a un principio ordinatore superiore. La differenza di atteggiamento sta nel fatto che in un caso il soggetto operante considera la sua esistenza preordinata, inserita cioè in un ordine superiore il cui rispetto gli dà libertà; il secondo realizza pienamente quella geworfenheit esistenzialista per la quale il suo «esserci» è del tutto fortuito e casuale e a suo modo irrelatamente libero. Per chiarire ulteriormente il principio di Tradizione in quanto forma metafisica ri-
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spetto alle sue manifestazioni storiche, ci riferiamo ancora a Platone e al suo modo di individuare il rapporto fra il concetto puro e la sua corrispondenza terrena. Ma se per il filosofo greco per risalire al concetto puro si attuava una «tecnica dialettica» in grado di suscitare il ricordo (ci riferiamo in particolare al dialogo Menone), nella visione dei tradizionalisti e di Evola in particolare si tratta di compiere un duplice cammino. Dalle rappresentazioni mitiche, per definizione sottratte al tempo, dedurre i principi di un ordine tradizionale; da alcune manifestazioni storiche, più vicine ai valori espressi dal mito, verificare l’attuazione di quegli ideali. In altri termini i dati storici (del resto come esseri umani ci esprimiamo nella storia e con la storia) permettono di conoscere come concretamente quanto parzialmente si afferma la Tradizione in alcune culture ed in determinati momenti, ma è questa, con i suoi valori a determinare l’agire, ossia a costituire la ratio essendi di un comportamento tradizionale. Ad ulteriore chiarimento del concetto, indichiamo quanto scrive Guénon in proposito: «… nella civiltà di tipo tradizionale l’intuizione intellettuale è il principio di tutto. In altri termini, la pura dottrina metafisica costituisce l’essenziale e il resto vi si connette
a titolo di contingenza…»2. Lo studioso francese arriva dunque alla Tradizione per una via alquanto diversa, ossia attraverso una intuizione che procede oltre i limiti della ragione dialettica, ma che ha comunque come risultato il superamento del contingente, specifico dei valori storici. Mentre per Evola è soprattutto la tradizione mitica, quale narrazione originaria e non umana col suo simbolismo (essenzialmente guerriero ed eroico) a indicare il principio della Tradizione, per Guénon a rivelarlo è una sorta di slancio mistico, una diretta partecipazione a quei valori superiori dai quali la modernità si è distaccata. Nel loro percorso verso l’origine o l’assoluto, i due studiosi mostrano così le loro propensioni, ossia il carattere di kshatria (guerriero) dell’uno, di contro alla natura essenzialmente sacerdotale, mistica dell’altro. Ma per entrambi la meta sta nel superare la contingenza, nel recuperare per ogni espressione dell’operare umano, e quindi dell’esistenza in sé, un contesto necessario e non soggetto alla decadenza e alla distruzione del tempo. Senza dover optare per l’una o l’altra posizione sulla base di una propensione personale, poniamo alcune considerazioni relative a società moderne e società tradizionali. Utilizzando una prospettiva storica come una an-
tropologica, ossia una basata sulla distanza temporale (culture lontane nel tempo), l’altra su quella spaziale (culture lontane spazialmente dal mondo occidentale), è facile notare come le concezioni essenziali della nostra modernità presentino un carattere di eccezionalità. In quale cultura ad esempio il potere politico (ritorniamo su questo fondamentale istituto della convivenza) non ha avuto (e non ha, se ci riferiamo a civiltà rimaste tradizionali) valore sacro? Quali culture se non la nostra attuale condannano l’organizzazione delle caste, intese come rispecchiamento dell’ordine cosmico? Nessuna o poche altre, sì che se dovessimo affidarci ad un elementare calcolo statistico, dovremmo dedurre che siamo noi l’eccezione. Non per questo negativa, ma comunque eccezione, alla quale spetterebbe eventualmente il compito di giustificarsi e soprattutto motivare la propria presunta «ragione» di contro all’irragionevolezza di una deviante alterità. Torniamo con ciò a Evola, che nel citato lavoro si pone tra l’altro il problema di come acquisire piena conoscenza del mondo della Tradizione: «Occorre saper concepire l’altro, crearsi nuovi occhi e nuove orecchie per cose divenute invisibili e mute nelle lontananze. Solo risalendo ai significati e alle visioni che vissero prima delle cause della civilizzazione presente è possibile avere un punto assoluto di riferimento, chiave per la comprensione effettiva di tutte le deviazioni moderne…»3. Lo studioso con queste affermazioni indica di voler risalire all’autenticità della Tradizione attraverso le sue manifestazioni storiche, parziali certamente, ma comunque denotative. Operazione possibile, aggiungiamo, soltanto se si interpreta sino a fondo la modernità, valutando quella che dovrebbe essere una delle sue categorie conoscitive fondamentali, e che invece viene ostentata per essere di fatto messa da parte. Quel relativismo culturale portato avanti a partire dal XX secolo, ma calpestato di fatto da una «correttezza politica» che non ammette deviazioni nei confronti di quelli che vengono ritenuti i valori ufficiali. Fra i quali la democrazia (potere fondato su scelte umane), la libera circolazione sociale (contro ogni forma di organizzazione per casta), il carattere puramente formale del rito (di contro al suo valore sostanziale, alla sua efficacia), il tempo lineare e progressismo (contro il principio tradizionale della
circolarità), per citare alcuni di tali valori, nei confronti dei quali non esprimiamo giudizi, ma ne sottolineiamo la storicità, ossia l’essere espressione di un particolare momento della storia umana e di una determinata civiltà. Rimanendo nell’ambito di una libertà opzionale e non condizionati dal politicamente corretto, tradotto nei nostri termini partitocratrici, nei limiti dell’arco costituzionale, consideriamo le due possibili scelte: l’essere per la Tradizione o per la Modernità. Scrive in proposito Enrico Montanari: «Nella revisione di Introduzione alla magia […] egli [Evola] inserisce una riflessione sul libro di Ernesto De Martino, Il mondo magico, uscito nel 1948. De Martino non appartiene alla cerchia degli “spiritualisti” e non era un “filosofo della crisi”. Era un antropologo che in questa ricerca, che diverrà famosa e susci-
terà molte polemiche, rilevava il carattere storicamente condizionato del nostro concetto di Io4, di natura, di realtà, che tendiamo a considerare come assoluto, mentre invece esso «è sorto e si è reso evidente solo all’interno della civiltà occidentale moderna”. Distinto e quasi contrapposto alla
Tradizione civiltà moderna è invece “il mondo magico”, proprio di culture di tipo sciamanico, nel quale la nozione di “realtà” sarebbe del tutto diversa. Ciò, secondo De Martino, comporta una relativizzazione dei cosiddetti “poteri magici”, spesso affini ai “fenomeni paranormali”: essi sono reali per il “mondo magico”, proprio perché “il concetto ordinario, moderno, di realtà è una formazione storica”; fuori dall’at-
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tuale civiltà, prima del suo apparire, “esso non ha alcun senso”. Su questo punto Evola è sostanzialmente d’accordo»5. De Martino opta dunque per la visione moderna, in quanto le culture tradizionali fonderebbero la certezza dell’io su false connessioni, tipiche della visione magica del mondo, confondendo però, come nota Montanari, «mondo magico» e «mondo stregonico». Egli, nella sua acritica adesione a un evoluzionismo progressista di stampo marxiano, ipotizza l’affrancamento dell’essere umano dal rischio incombente della «perdita della presenza», attraverso le conquiste sociali offerte dal mondo moderno. La scienza, la consapevolezza politica dei propri diritti, l’integrazione in un lavoro omologante (parità dei sessi), costituiscono per De Martino gli elementi di riscatto da un’antica, timorosa ignoranza. Di contro Evola sostiene che questi por-
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tati della modernità, anziché riscattare l’individuo dalla crisi, la determinano, nel modo in cui «Al superamento spirituale del tempo, che si ottiene elevandosi fino ad una sensazione dell’eterno, oggi sta di contro la retorica di esso: il suo superamento meccanico e illusorio dato dalla velocità, dell’istantaneità e della simultaneità […] L’essere, lo stare, al moderno valgono perciò come una morte: egli non agisce, se non si agita, se non si stordisce con questo o con quello»6 Evola pertanto capovolge De Martino utilizzando i medesimi mezzi, ossia il dato che il reale è comunque un prodotto culturale, con la differenza che l’antropologo applica questo relativismo solo parzialmente, nella presupponenza di una linearità evolutiva della storia, Evola relativizza soprattutto la nostra presenza e coglie la nostra «eccezionalità» rispetto alle altre forme culturali, assieme ad
una insita contraddittorietà. Egli con ciò si oppone al procedere dialettico, forma essenziale del conoscere nell’ambito della cultura moderna, per la quale non solo la consapevolezza dell’io è data dalla convinzione esercitata su questo dall’alterità, ma l’altro viene assimilato, fagocitato dal soggetto, che finisce con l’affermarsi a suo danno. Per Evola invece il riferirsi all’altro, ossia ad altre forme culturali, non si traduce in un automatico ritorno in sé, ai propri pregiudizi, ma esprime un’apertura, il circolo mai chiuso della ricerca. Certamente in Evola esiste alla fine una scelta di valore: relativizzare la Modernità significa optare per la Tradizione, che non è però scelta aprioristicamente immotivata, ma sostenuta dalla verifica di un’intima coerenza delle sue istituzioni e della salda «consapevolezza della presenza» che offre a un individuo, certo del suo posto in un mondo mai casuale. Con ciò non vogliamo arrivare a una decisa presa di posizione, ossia farci paladini della Tradizione di contro ad una negativa Modernità, ma da uomini della modernità quali siamo, viverne fino in fondo i suoi valori, e primo fra tutti quel sano relativismo che deve renderci critici nei confronti di noi stessi. Sì da comprendere che la storia non procede necessariamente in senso lineare, che la nostra realtà culturale non è superiore ad altre, e che pertanto esistono scelte diverse che potrebbero essere ben più coerenti delle nostre attuali. E che sia davvero questo il solo cammino attualmente percorribile, per noi, inevitabilmente moderni, in grado di condurci alla salute dell’essere. ______________ Note: J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Roma, 1969: 47 s. (1a ediz, Milano, 1934).
1
R. Guénon, La crisi del mondo moderno, Roma, 1997 (ediz. orig. Parigi, 1927).
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3
J. Evola, Rivolta …, cit.: 26.
Tale carattere, noto, lo aveva da tempo ampiamente rilevato Nietzsche.
4
E. Montanari, Spiritualismo moderno e rischi della persona, in AA.VV., Studi evoliani, Il Settimo Sigillo, Roma, 2001: 64.
5
6
J. Evola, Rivolta …, cit.: 367.
P.38, 41 e 43: Volterra, rovine romane (foto P.Del Freo); p.39: Radiotelescopio, USA; p.40: Particolare architettonico, Brasilia; p.42: Partenza dello Space Shuttle Endeavour, USA.
Tradizione
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L Storia
La croce
Traghetto dal supplizio alla fede Massimo Centini
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a crocifissione di Cristo rappresenta l’evento cardine della Passione, quello che assume molteplici valenze sul piano simbolico e offre importanti contributi per tentare una ricostruzione storico-archeologica dei fatti indagati. In queste pagine analizzeremo quindi le molteplici problematiche connesse alla crocifissione, tenendo conto delle tante implicazioni che scaturiscono dall’osservazione su quel terribile strumento di morte, ma anche simbolo emblematico del Cristianesimo. Per fare ciò ci serviremo di fonti di diverso tipo, da quelle archeologiche a quelle letterarie, senza dimenticare le implicazioni di carattere anatomo-patologico: in questo modo avremo l’opportunità di abbozzare un quadro globale che certamente sarà nelle condizioni di offrirci una lettura razionale e storica della crocifissione, priva di qualunque intento agiografico. Iniziamo questa parte di indagine sulla crocifissione avendo come base di inizio il caso di Gesù. Sappiamo che tutti gli evangelisti riportano i fatti del Golgota: Matteo vi dedica 24 versetti, 21 Giovanni, 19 Marco e 17 Luca. Sostanzialmente, l’evento può essere suddiviso in quattro scene: a) crocifissione; b) Cristo schernito e colpito sulla croce; c) morte di Cristo; d) evento osservato da Maria, altre donne e il “discepolo prediletto”. La crocifissione era una pena tra le più terribili, contrassegnata da un’aura infamante; a Roma era un “supplizio servile” che con il passare del tempo fu esteso a varie categorie di criminali, in particolare nelle province. Infliggerla ad un romano era considerata un’empietà: Cicerone definiva la crocifissione crudelissimum teterrimumque supplicium (Cicerone, In Verrem, V, 66) Un simbolo che viene da lontano Già molto tempo prima della sua trasformazione in emblema della cristianità, la croce era un simbolo importante: ne abbiamo testimonianza da documenti che provengono dalla preistoria, dove questo simbolo era soprattutto sfruttato per le sue valenze antropomorfe. La croce è caratterizzata da diverse forme, anche se sostanzialmente sono tre o quattro quelle che hanno trovato maggiore applicazione nel linguaggio simbolico, naturalmente non solo quello della religione. Chiunque tentasse di ricostruire la storia delle croce,
vista anche solo come strumento di supplizio, dovrebbe fare i conti con un’ampia e disorganica serie di testimonianze, in cui alle sommarie descrizioni letterarie, non sono però sovrapponibili contributi iconografici e archeologici sufficientemente estesi. Il documento più antico conosciuto su questa forma di supplizio è reperibile nella Discesa di Ishtar agli inferi, un prodotto della mitologia sumerica, in cui è descritta una pena per certi versi riconducibile alla crocifissione. La prima “croce” usata per fare soffrire un uomo forse fu un albero; così il Deuteronomio: “quando in un uomo c’è il peccato che lo rende reo di morte, questi sia messo a morte: lo appenderai a un albero; non lasciare il suo cadavere per tutta la notte sull’albero, ma lo devi seppellire nello stesso giorno, poiché un impiccato è una maledizione di Dio e tu non devi contaminare il suolo che Jahvé tuo Dio, sta per assegnarti in eredità” (Dt 21, 21-22). Per alcuni la crocifissione sarebbe un’invenzione degli Sciti: poi gli Assiri, i Medi e i Persiani (per Erodoto furono loro i primi a praticare la terribile pena) la diffusero rapidamente, trovando in Alessandro il Macedone un valido promotore. I Seleucidi in Siria e i Tolomei in Egitto, determinarono il trionfo della croce: è da loro, probabilmente, che i Cartaginesi impararono a servirsene così bene. A loro volta, i Romani sembra che appresero da Annibale ad utilizzare questo strumento; infatti è alla fine della seconda guerra punica (219-201) che in Italia apparve per la prima volta la crocifissione propriamente detta. I Romani ne fecero largo uso, sia in tempi di pace che di guerra, fino a farne una pena con la quale sostituirono quasi totalmente le altre forme di esecuzione capitale. Durante la repressione delle rivolta di Spartaco, sulla strada che da Capri conduce a Roma, furono erette seimila croci; Varo fece crocifiggere ben duemila Ebrei; durante l’assedio di Gerusalemme, l’esercito di Tiro giustiziò fra i bracci della croce fino a cinquecento Ebrei al giorno. A Roma, la crocifissione divenne supplicium servile, destinato prevalentemente ai servi, ma soppiantò anche il cosiddetto arbor infelix (su cui erano puniti durante la monarchia, e nei primi secoli della repubblica, i condannati per peduellio - alto tradimento - e la furca (una sorta di gogna che tratteneva il capo del condannato, generalmente ucciso a colpi di verga). Naturalmente il supplizio fu applicato con molte varianti sul piano esecutivo e su quello legale, in re-
lazione alla categoria sociale della vittima; inoltre è evidente che non si può pensare a una metodologia standardizzata, eseguita senza subire trasformazioni per circa cinque secoli. La crux humilis (piccola e bassa, realizzata in modo che gli animali potessero divorare il cadavere ad essa inchiodato) e la crux sublimis (più alta, soprattutto per favorire la sua osservazione da lontano), accol-
diserzione, alto tradimento, istigazione alla rivolta e delitto di lesa maestà (crimen laesae maiestatis). In Palestina le crocifissioni fatte eseguire dai Romani erano sostanzialmente di natura politica; se a Roma era principalmente gli schiavi e i liberti a finire in cro-
sero migliaia di vittime a Roma e nelle province, suscitando paura e orrore nelle genti semplici, così come negli autori che rievocarono con drammaticità la ferocia di una pratica che era considerata da tutti “summum supplicium”. In genere le tipologie più diffuse erano le seguenti: crux commissa (greca), crux immissa o capitata (latina), crux decussata (a forma di X), vi era inoltre l’infelix lignum (un semplice albero). Il civis romanus era posto in croce in seguito a reati che per il sistema giuridico del tempo, naturalmente per gli humiliores erano sufficienti reati minori, anche le lesioni o le pratiche magiche potevano condurre alla croce. Per il diritto romano, i crimini punibili con la crocifissione erano: rapina, omicidio, incendio doloso,
ce, nella colonia erano soprattutto rivoltosi e combattenti contro il dominio straniero. Presso gli Ebrei, la pena capitale abituale era la lapidazione; nel vocabolario ebraico non troviamo nessun termine che indichi la crocifissione, anche se questo punto è controverso. Per esempio, rileviamo che nella tradizione veterotestamentaria si citano spesso pene effettuate “appendendo” i giustiziati a un albero o a travi fatte innalzare appositamente; ricorre anche la mutilazione o un’esecuzione molto simile all’impalamento assiro: “prendi i capi e fa appendere il colpevole davanti al Signore, al sole, perché l’ira ardente del Signore li allontani da Israele” (Nm 25,4). Se per saperne di più ci affidiamo alle parole, scopriamo alcune cose inte-
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ressanti: Erodoto utilizza il verbo anaskolopizein per indicare persone crocifisse ancora vive e anastauroun quando si tratta di corpi ormai senza vita; in altri autori non sembra esservi attenzione per questa differenza. Giuseppe Flavio usa anastauroun, mentre Filone anaskolopizein, che di fatto sembre-
Storia rebbero sinonimi. Nel Nuovo Testamento troviamo il verbo stauroun, la croce viene indicata con stauros. Per Erodoto era una pena capitale ampiamente utilizzata dai persiani; Diodoro Siculo la lega alle popolazioni dell’India, ma l’attribuisce anche ai Celti, Traci e Sciti. Per Tacito anche Germani e Britanni la praticavano. Per Polibio e Tito Livio era soprattutto una creazione dei Cartaginesi. Archeologia e pena di morte Le informazioni letterarie sulla crocifissione sono tali da fornirci numerose indicazioni sullo stato fisico dei condannati, mentre non offrono elementi rilevanti atti a ricostruire con precisione la tecnica seguita per applicare quella tremenda forma di supplizio. Appare lecito chiedersi se la crocifissione fosse applicata sempre con identiche modalità e se vi fossero condizionanti legate alle tradizioni locali. Infatti, “anche ammesso che una legislazione codificata conservi tecniche e modi di punizione, sarebbe quanto mai azzardato immaginare che la crocifissione in uso ai tempi di Plauto (sec. III-II a.C.) venisse eseguita con le stesse modalità ai tempi di Costantino (IV sec. d.C.), senza presentare varianti nel corso di sei secoli. Non parliamo quindi di una tecnica costante quando la crocifissione viene eseguita in territori conquistati, in cui la crocifissione si presentava con modalità diverse e principalmente con significati giuridici e religiosi diversi” (G. Zaninotto, La tecnica della crocifissione romana, Centro Romano di Sindonologia, Roma s.d., pagg. 5-6). L’arte cristiana più antica ci offre alcuni interessanti contributi dai quali provare a trarre informazioni sulla crocifissione. Iniziamo con due graffiti: il primo proveniente da Roma, Palatino, con tratti caricaturali e l’altro da Pozzuoli, tracciato sulla parete di una taverna con intento realistico. Il graffito del Palatino, situato nella domus Gelotiana, è detto anche il “Crocifisso schermito”: l’opera ha infatti un’impostazione caricaturale e rappresenta un uomo crocifisso con testa asinina e un altro uomo,
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ai piedi della croce. Sotto la croce si trova anche la scritta in greco Alexamenos sebete theon, che significa “Alessameno venera [il suo] dio”; più in basso un’altra scritta che si collega alla precedente: Alexamenos fidelis. Scoperto e pubblicato nel 1857, questo graffito è stato al centro di numerose interpretazioni: al momento quella più accreditata è quella che lo considera una forma di derisione del Cristianesimo accentuata dalla presenta della testa asinina. Meno credibile la possibilità che l’incisione della domus Gelotiana sia da porre in relazione ad una setta di tradizione gnostica attiva nella Roma del III secolo, quando cioè fu tracciato quell’elementare raffigurazione sulla parete. Si ipotizza inoltre una relazione con i giochi del circo: in quelle occasioni i damnati ad bestias non avevano i piedi fissati al palo verticale, ma poggiavano su una pedana (come quella raffigurata nel graffito); inoltre venivano coperti con pelli sanguinanti di animali per renderli più appetibili alle
fiere affamate (la testa d’asino è da porre in tale relazione?) Il graffito di Pozzuoli è stato rinvenuto nel 1959 in una taverna della città e presenta dimensioni significative: palo verticale, 40 cm; traversa orizzontale 26 cm; condannato 35 cm, raffigurato vestito e con le gambe divaricate. È possibile che si tratti di una realizzazione da porre in relazione ai giochi praticati nel circo, come suggerito dalla presenza di raffigurazioni di gladiatori e una danzatrice presenti sulle pareti della taverna. Almeno una mano e i piedi sembrerebbero inchiodati al legno e nel complesso la raffigurazione pare allinearsi alla tipologia di crocifissione documentata dalle poche fonti archeologiche che analizzeremo successivamente. Altre informazioni utili per ampliare le nostre conoscenze sulla tecnica della crocifissione, giungono da limitate immagini intagliate su sigilli e amuleti di età precostantiniana. In alcune si riconoscono sistemi di crocifissione anche molto diversi da quelli ritenuti “stan-
Storia
dard” e più diffusi nell’iconografia cristiana. Ad esempio, in una pietra intagliata (II secolo d.C.) conservata a Wakefield nella collezione Grévile Chester, propone una crocifissione in cui il condannato appare nudo; nelle stesse condizioni il soggetto crocifisso è raffigurato in una corniola siriana del British Museum (II secolo d.C.). In una gemma conservata a Cambridge il condannato (Cristo) ha le mani legate alla trave orizzontale, mentre i piedi sono liberi e poggianti su una predella (suppedaneum). Soffermiamoci adesso su un documento di rilevante importanza: la Tabula Puteolana, che offre una serie di indicazioni per risalire alla tecnica di crocifissione, praticata tra la fine della repubblica e l’inizio dell’impero. Datata intorno alla metà del I secolo a.C, sulla base delle caratteristiche epigrafiche, la Tabula è costituita da tre frammenti marmorei e attualmente è conservata nel Museo Nazionale di Napoli. Il testo, di discreta estensione, riguarda il “servizio funebre pubblico” e anche se si tratta di una lex che riflette le normative in vigore a Pozzuoli, non vi sono motivi per negare la sua applicazione anche in altre città sottoposte al potere di Roma. Per quanto riguarda la nostra indagine, siamo particolarmente interessati ad alcune parti del testo che riportiamo, evidenziando in neretto quelle che forniscono dirette indicazioni sulla crocifissione. “Gli operai assunti per l’esecuzione di quell’incarico (seppellire i cadaveri) non debbono aver domicilio entro la torre dove attualmente si
trova il bosco di Libitina, non debbono levarsi dalla prima ora / della notte, non debbono entrare in città se non per portare via il morto o per acconciarlo oppure per eseguire il supplizio. Se uno di loro dovrà venire in città, tutte le volte che vi farà il suo ingresso o dovrà restarvi, porterà in capo un berretto colorato, inoltre / nessuno di loro abbia un’età superiore ai cinquant’anni o inferiore ai venti, non sia piagato, guercio, monco, zoppo / cieco, bollato con marchi. L’appaltatore non deve avere operai in numero inferiore a trentadue. (…) Se qualcuno vorrà suppliziare privatamente uno schiavo o una schiava o se vorrà che siano altri a suppliziarlo, lo supplizierà secondo le norme. Se (il suppliziatore n.d.a.) croce vorrà porre un patibolo, l’appaltatore (la crocifissione era affidata ad operatori specializzati che avevano alle proprie dipendenze alcuni collaboratori, n.d.a.) à fornire travicelli, strettoie, corde per i flagellatori, mentre chi chiederà il supplizio dovrà dare per ogni che porta il patibolo, per i flagellatori come pure per il carnefice, quattro sesterzi ciascuno (...) Egli (l’appaltatore n.d.a.) deve fornire chiodi, la pece, la cera, le torce e tutto l’occorrente per il reo. / Il cadavere sarà via con l’uncino, da un operaio vestito di rosso che dovrà estrarre quel cadavere a dove ci saranno parecchi cadaveri al suono del campanello”. Leggendo il testo non possiamo fare a meno di provare un senso di ribrezzo che ci confonde; però, superato l’impatto iniziale, proviamo ad analizzare il testo criticamente. Abbiamo così
modo di capire che gli incaricati alle operazioni di seppellimento dei cadaveri dovevano essere alloggiati in un’area esterna al cimitero e rispondere ad alcune caratteristiche fisiche ben precise. Dalla lettura della Tabula Puteolana apprendiamo inoltre che il diritto di morte, esercitato da chi poteva decidere se suppliziare uno schiavo, consentiva di trovare un esecutore materiale in un appaltatore incaricato di svolgere quel mesto servizio. Globalmente, la Tabula raccoglie una serie di indicazioni che pongono in rilievo quanto fosse organizzata e gestita con regole precise la pratica della crocifissione, le cui singole fasi erano scandite da formule standardizzate e definite. Di fatto una testimonianza oggettiva della diffusione di tale pratica, che certamente doveva essere piuttosto frequente e che era applicata in particolare nei confronti delle categorie sociali più basse. Leggi, regole e pena capitale Dopo la sentenza di condanna, di cui non conosciamo con precisione la formula pronunciata dal magistrato, il cruciaro doveva raggiungere il luogo dell’esecuzione, che come abbiamo visto, poteva trovarsi anche fuori città. Come si verificò nel caso di Cristo, spesso il tragitto da percorrere non era breve: questa fase, detta deductio, implicava il trasporto della croce (in realtà, come vedremo, solo di una parte) che diventava un impegno spesso ai limiti della sopportazione se si considera che il condannato era già stato sottoposto a forti sofferenze fisiche e
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psichiche; oltre al peso determinato dall’esposizione al pubblico ludibrio, contribuiva pesantemente a ferire la dignità del morituro, quando prevista,
Storia la nudità. Su questo punto le fonti non sono chiare: gli autori latini se parlano di nudità sembra che comunque presuppongano la presenza di una copertura dei fianchi diversamente indicata: subligaria, succinctorium, feminalia, lumbare; in ambito romano quasi certamente la nudità totale dei condannati doveva essere un fatto straordinario; aggiungiamo che quando nelle fonti si parla di nudità questa andrebbe intesa in un senso relativo. Identico discorso deve essere fatto per quanto riguarda la flagellazione. Da Plauto abbiamo notizia sull’uso di strumenti coercitivi atti a chiudere la bocca al condannato: servivano per fare in modo che durante il percorso per raggiungere il luogo dell’esecuzione non potesse imprecare, parlare con la folla, ecc.: “che tu possa portare il bavaglio o la forza” (Plauto, Casina, 389). In alcuni casi il condannato era legato con una corda (generalmente una sorta di cappio intorno al collo) che dava modo ai carnifices (cioè i militari addetti alle esecuzioni) di controllare meglio il soggetto nell’eventualità, veramente remota, che tentasse di fuggire. Al fine di garantire un controllo praticamente assoluto, a volte i cruciari erano legati gli uni agli altri: in questo modo il gruppo diventava una sorta di cordata di morte dominata da una grande instabilità. Infatti, se uno dei condannati cadeva, di conseguenza trascinava con sé anche gli altri a cui era legato; inoltre, se si considera che spesso le braccia erano fissate con corde alla croce, è facile immaginare quale fossero gli effetti delle cadute, la cui gravità era accentuata dall’impossibilità dei singoli di attutire il trauma con le braccia e le mani. Va chiarito che, sulla base della documentazione archeologica e iconografica a noi nota, abbiamo praticamente la certezza che sulle spalle
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I tipi di croce
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azionalizzando le fonti letterarie antiche, otteniamo alcune definizioni di quello strumento che abbiamo definito genericamente ‘croce’. Rivediamole rapidamente in sequenza: skolops: anche se usato in alcuni casi come sinonimo di croce, di fatto è un palo appuntito per impalare secondo la pratica assira; Eschilo lo paragonava ad uno spiedo per “pesci arrostiti”; stauros: ancora un palo (nelle fonti latine indicato talvolta come crux) adottato in modo da consentire che le mani sovrapposte e i piedi, potessero essere legati o inchiodati; era spesso utilizzato quando il condannato, dopo essere stato fissato, era colpito con frecce (un esempio emblematico è costituito dalla classica raffigurazione del martirio di San Sebastiano); crux patibolata: si tratta dello strumento più diffuso, nella cultura romana, formato da un palo verticale (stipes) sul quale era posto quello orizzontale (patibulum): la croce era indicata nello stesso modo quando il condannato trasportava solo il legno orizzontale e quando invece la croce era posta sul luogo dell’esecuzione già assemblata.
del cruiciaro, nel caso della deductio non pesava tutta la croce, ma solo il patibulum, cioè il braccio orizzontale. Tale legno, nel centro, era provvisto di una scannellatura che era la sede per il palo verticale, lo stipes, in genere già infisso nel luogo dell’esecuzione. Di fatto quindi la croce adottata era quella con modello a “tau”, in pratica aveva la forma di una “T” che conformava una macchina di morte strutturalmente più gestibile. Questo tipo di crocifissione, sebbene contrasti con l’iconografia più nota, risulta comunque conforme ai testi più antichi del mondo classico; vi è comunque la possibilità che nelle aree orientali, dove la crocifissione era praticata spesso con un solo palo verticale (stauros, skolops), il cruciaro portasse sulle spalle tutta la machina crucis. A sostegno dell’ipotesi, aggiungiamo che in alcune fonti classiche il cruciaro è anche detto patibulatus. È possibile che lungo il tragitto che lo conduceva al luogo dell’esecuzione, il cruciaro portasse al collo un “titulus” con le motivazioni della condanna e che fosse sorretto dall’aiuto di persone incaricate, a vario titolo, di offrire bevande inebrianti per alleviare i dolori, due aspetti salienti che, come è noto, sono evidenti nell’esecuzione di Cristo. In genere, il luogo in cui avvenivano le esecuzioni era situato all’esterno dell’abitato: in aree che nelle diverse tradizioni sono state ammantate da un’aura “maledetta”; significativo il testo di un papiro egizio del II secolo d.C. rinvenuto nell’area del Fayûm: “Intorno al campo una quantità di trucidati in modo orribile, decapitati, crocifissi e cadaveri infelici giacciono sul terreno, sgozzati da poco, altri, poi, impalati stavano come trofei della loro triste sorte. Le furie, coronate di ghirlande, sghignazzavano sullo stato infelice dei cadaveri”. In genere quindi le esecuzioni capitali, alla stregua delle sepolture, avevano il loro luogo deputato all’esterno della città, con ciò non va ignorato che tale regola fu applicata soprattutto dalla cultura romana, mentre non fu osservata ad esempio da Assiri e Car-
taginesi. Si tenga inoltre in debito conto un ulteriore aspetto: vi erano casi in cui i condannati erano “crocifissi” ad alberi, oppure su strutture di legno, come i portoni. Si ha inoltre notizia di crocifissioni effettuate in luoghi in cui i condannati potevano essere visti da molte persone. Ampia la casistica di esecuzioni per mezzo di croce effettuate in occasione dei “giochi” circensi: il graffito del Palatino di cui abbiamo già detto, potrebbe essere la memoria di un’esecuzione di questo tipo. Particolarmente indicativa la testimonianza di Tacito: “Quelli tra i cristiani che andavano a morire (nel circo di Caligola in Vaticano, n.d.a.) vennero esposti alle risa: rivestiti di pelli ferine erano dilaniati dai cani” (Annali, XV, 44). A questo punto, al fine di raccogliere un maggior numero di informazioni utili per la nostra indagine, proviamo ad elencare quali erano gli strumenti generalmente presenti in occasione delle crocifissioni: stipes, patibulum, sedile (non sempre presente), suppedaneum (abbastanza frequente: una mensola che serviva per facilitare il fissaggio dei piedi allo stipes e contemporaneamente consentire al condannato di disporre di un punto d’appoggio sul quale esercitare la forza necessaria per sollevare il torso e respirare), chiodi/funi per fissare gli arti del condannato. Non esiste un primato tra i due mezzi, così come è praticamente impossibile stabilire il numero dei chiodi utilizzati. L’affissione non seguiva modalità standardizzate che erano strettamente connesse al tipo di croce utilizzato; variavano anche le tecniche per fissare il condannato alla macchine di morte (ne parliamo più avanti); si deve inoltre considerare anche un altro aspetto: la destinazione del crocifisso. Infatti, chi pendeva dai bracci della croce poteva essere destinato a morte lenta, oppure essere vittima degli animali: i damnati ad bestias erano infatti lasciati, nel circo, allo strazio determinato dalle fiere che ne dilaniavano le carni. In alcuni casi, per attirare gli animali sui condannati, quest’ultimi erano coperti di interiora e sangue. Le fonti classiche ci forniscono qualche indicazione sul sistema di fissaggio del condannato alla croce. Senofonte Efesio afferma: “Rizzata la croce, vi appendono i cruciari, dopo aver legato con funi mani e piedi: questo è il modo con cui gli Egiziani eseguono la crocifissione” (Senofonte Efesio, Racconti efesii intorno ad Abracóme e Anzia, IV, 2). Tertulliano ricorda che i condannati erano strettamente legati con corde alla croce (astringi cruci)
(Scorpiaco, XV); mentre Plinio il Vecchio testimonia la pratica di sfruttare a fini magici le corde utilizzate per fissare i condannati alla croce (Historia Naturalis, XXVIII, 58). Articolate le informazioni fornite dalla Passio Andrea: “Egea, indignato, ordinò di
nava un prolungamento dell’agonia. I chiodi, di conseguenza, avevano la funzione di affrettare la morte. Vi sono comunque testimonianze sull’uso di entrambi i mezzi. Sant’Ilario di Poitiers, nel De Trinitate poneva in rilievo: “le sofferenze di un corpo che penzola in croce e la stretta violenta delle
Storia
inchiodare Andrea alla croce, dando istruzioni ai carnefici di legargli mani e piedi e di farlo estendere come su un tripassalon (“croce” con forma di p greco, n.d.a.) perché non venisse subito meno a motivo dei chiodi, ma perché venisse più a lungo tormentato dalla sofferenza” (Passio Andrea, IX). L’utilizzo della corda aveva la funzione di facilitare l’affissione del condannato e quindi il distacco del suo cadavere; inoltre determi-
funi che fanno aderire alla croce, e le ferite dei chiodi infitti” (De Trinitate, X, 13). Poche le notizie sulla tipologia dei chiodi, che nelle fonti sono genericamente indicati come clavi trabales. Il punto in cui il chiodo doveva essere conficcato era determinante, perché aveva la funzione di sorreggere il peso del corpo senza affrettare la morte: dati archeologici e ricostruzioni teoriche rendono probante l’applicazione del chiodo nell’avambraccio, tra l’ulna e il radio, o nel carpo. Queste posizioni dei chiodi risultano in diretta contraddizione con le ferite nel palmo della mano come ampiamente documentato dall’iconografia e dalle stigmate che segnano alcuni mistici. Altri elementi strutturali che potevano contribuire a prolungare la permanenza in croce, erano costituiti dal sedilis o sedecula e dal suppedaneum. Il primo, come si evince dal nome, era una elemento che aveva la funzione di offrire un appoggio per consentire al condannato di sedersi e quindi rendere meno gravosa la sua posizione (Tertulliano, Adversus Marcionem, III, 18). Indicativa la testimonianza di Seneca: “inchiodami pure alla croce metti sotto una base acuta sulla quale sono destinato a stare seduto” (Seneca, Epistole, CI, 14). La presenza del sedile è comunque confermata anche dall’iconografia dei primi secoli del Cristianesimo. La pedana o suppedaneum era la base sulla quale potevano essere fissati i piedi del condannato; questa base d’appoggio aveva la funzione di offrire al crocifisso un punto di forza per alleggerire il peso meccanico determinato dalla crocifissione. Pur constatando la difficoltà di individuare una metodologia ricorrente definita nelle singole fasi, la crocifissione degli arti inferiori sembrerebbe essere stata caratterizzata da uno dei quattro sistemi indicati qui di seguito: a) piedi sovrapposti, fissati allo stipes con un solo chiodo; b) piedi accostati, fissati allo stipes con un chiodo ciascuno; c) piedi legati; d) piedi non fissati in alcun modo. Naturalmente si tratta di una suddivisione non vin-
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colante, anche in considerazione di un fatto meno noto, cioè l’utilizzo di più chiodi per un solo arto; emblematica la testimonianza di Plauto: “che si inchiodino due volte le braccia e due volte i piedi” (37). Va inoltre aggiunto che abbiamo notizia di casi in cui il cruciaro pur avendo le braccia fissate sul-
venuti quindici ossari, contenenti i resti di 35 individui: la ricostruzione anatomica ha restituito undici uomini, dodici donne e dodici bambini. I materiali archeologici che in questa sede ci interessano particolarmente provengono dalla “Tomba I”, costruita da
Storia la trave orizzontale, poggiava i piedi sul terreno. Per porre fine alla vita del crocifisso, la procedura romana prevedeva il crurifragium, cioè la frattura degli arti inferiori; in questo modo il condannato, non potendo reggersi sulle gambe, era destinato a morire per asfissia. Con gli arti inferiori e quelli superiori bloccati dai chiodi il condannato, quando si trovava nella posizione accasciata, veniva travolto prima da uno stato di asfissia, e quindi di tenania. Cercando di sfuggire a questa fine, il condannato era costretto a riacquistare la posizione rialzata e, così, fra i terribili dolori prodotti dalle torsioni sulle braccia, riusciva a riprendere una respirazione quasi normale. Quando la stanchezza e il dolore superavano gli sforzi, il condannato ritornava nella posizione accasciata. Il caso di Jehohanan crocifisso a Gerusalemme nel I secolo Quando, nel mese di giugno 1968, in occasione di alcuni scavi per le fondamenta di nuovi palazzi che avrebbero dovuto sorgere a nord-est di Gerusalemme, si rinvenne una necropoli, gli archeologi non potevano immaginare di trovarsi al cospetto di una scoperta che avrebbe fornito un contributo determinate alla ricostruzione storica delle tecniche di crocifissione. Nell’area, chiamata Giv’at ha-Mivtar, è stata scavata una necropoli di notevoli dimensioni, con reperti che consentono di indicare una cronologia estesa tra il II secolo a.C. e la distruzione del tempio di Gerusalemme (70 d.C.) Il complesso è costituito da quattro tombe, tutte scavate nella roccia e costituite da camere sepolcrali con loculi (kokhim) disposti a raggiera intorno alla camera sepolcrale. Sono stati rin-
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due camere sepolcrali comunicanti e poste a livelli diversi; nella superiore, a cui si accede dall’ingresso principale chiuso da una lastra di pietra, vi sono quattro kokhîm con uno scheletro ciascuno; nella inferiore i loculi sono otto, cinque contenenti scheletri e tre ossari; altri cinque ossari si trovavano sul pavimento della camera sepolcrale. Gli ossari sono in calcare, decorati e al loro interno sono state rinvenute sostanze che probabilmente avevano la funzione di garantire una migliore conservazione dei resti. Particolarmente importante uno di questi ossari, con caratteristiche tali da datarlo al I secolo e con l’iscrizione: YHWHNN BN HGQWL - Jehohanan (Giovanni) figlio di Hgql. L’ossario contiene alcuni resti ossei umani, tra i quali quelli di un individuo che certamente morì sulla croce. Probabil-
mente quell’Yehohanan fu condannato alla pena capitale perché ribelle e, in considerazione del tipo di pena a cui fu sottoposto, forse potrebbe essere uno degli Zeloti coinvolti in una delle repressioni attuate dai Romani. Dal punto di vista antropologico risulta che i resti sono attribuibili ad un uomo tra i 24 e i 28 anni: il metodo di crocifissione - che, vista la datazione, potrebbe essere stato molto simile a quello adottato per Cristo - è ricostruibile attraverso l’analisi dei resti che presentano tracce inequivocabili. Le ossa dei calcagni sono trapassate da un chiodo con la punta ritorta. L’ulna e il radio del polso destro presentano una scalfittura, dovuta forse allo sfregamento delle ossa sul corpo del chiodo ogni volta che l’avambraccio ruotava. Le ossa delle gambe sono fratturate, come se avessero subito un crurifragium. Infatti, la linea di frattura è collocata nel terzo inferiore, proprio nel punto in cui l’osso risulta meno protetto e, quindi, più vulnerabile. Osserviamo con attenzione il chiodo con tutto il suo importantissimo corredo di tracce, utilissime per la nostra analisi: testa del chiodo; deposito ferroso e calcareo; resti di legno non identificato; crosta calcarea; ossa del calcagno destro; appoggio sinistro dell’astragalo; frammento di legno di ulivo. Scartando l’ipotesi che il frammento di legno di olivo trovato fra il chiodo passante per i calcagni fosse il titulus, si può pensare a una tavoletta (pedica), sfruttata per tenere uniti i piedi inchiodati con un unico clavis trabalis. Inoltre vi è la possibilità che quando la sentenza era ormai eseguita, questa tavoletta serviva forse per facilitare l’estrazione del chiodo dallo stipes. Osservando le informazioni provenienti dai resti di Giv’at ha-Mivtar, non è esagerato dire che si tratta di una delle più importanti scoperte archeologiche da collegare alla vicenda terrena del Gesù dei Vangeli. Con i dati forniti dall’analisi dei resti di Jehohanan siamo oggi in grado di immaginare con maggiore ricchezza di particolari le drammatiche procedure della crocifissione. Dando per scontato che gli arti superiori del crocifisso rin-
venuto a Giv’at ha-Mivtar furono fissati al patibulum con un chiodo passante tra l’ulna e il radio, e che la rottura della ossa inferiori pone in evidenza l’applicazione del crurifragium, è stata suggerita la possibilità che il condannato avesse modo di sedersi su un supporto (cornu, truncus), mentre i suoi piedi erano fissati allo stipes con un unico chiodo. In un primo tempo si è ipotizzata una posizione dei piedi con i talloni appoggiati, le gambe divaricate e un sedile su cui il cruciaro si teneva in equilibrio; in seguito si è invece pensato che l’uomo avesse le gambe parallele con le ginocchia piegate, il piede destro sovrapposto al sinistro ed entrambi trafitti da un solo chiodo, così che il corpo risultasse in torsione. Qualche perplessità giunge dalla curvatura della punta del chiodo: si tratta quasi certamente di una piegatura prodotta da un nodo presente nel legno dello palo; non è intenzionale poiché mancano completamente tracce di ribattitura. Da un esame del reperto si può pensare che l’estrazione del chiodo non fu possibile, vista la sua curvatura, quindi si rese necessaria una violenta azione per staccare la tavoletta superiore, lasciando però il chiodo nei calcagni senza ulteriori interventi. In pratica il corpo venne tumulato con i piedi ancora inchiodati e con porzioni di legno: in questo modo ci è così giunta una testimonianza archeologica di straordinario interesse che, come abbiamo visto, fornisce un contributo rilevante alla ricostruzione della pratica della crocifissione. I frammenti di legno non forniscono informazioni importanti per una valutazione della tipologia della croce: c’è anche chi ha suggerito la possibilità che invece di uno strumento strutturato per Jehohanan sia stato direttamente sfruttato un albero (di ulivo?); utilizzando la morfologia della pianta i carnefici avrebbero disposto le braccia su due rami, posti ad “Y” rispetto al tronco, mentre per gli arti inferiori sarebbe stata utilizzata senza difficoltà la larga superficie del fusto. Abbiamo infatti notizia di crocifissioni di massa effettuate sfruttando direttamente gli alberi per accelerare la pratica e non perdere così tempo nella costruzione di croci in legno.
Storia
P.44: Crocifissione, Salvator Dalì; p.45: Crocifissione, the Cloisters, NYC, USA; p.46: Il Cristo giallo di Paul Gauguin; p.47: Crocifissione, Brest, Francia; p.48: Crocifissione (part.), Maestro bizantino, Hagia Triada, Grecia; p.49: Croce su una chiesa Metodista, USA; p.50: Crocifissione, manoscritto miniato, XII sec. Oxford; p.51: Vetrata con crocifissione, Abbazia di Steinfeld.
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Archeologia
Sant’Antimo
, Tra le colonne dell alabastro solare Michela Torcellan
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Archeologia
S
u Sant’Antimo, monastero benedettino della Val d’Orcia, presso Montalcino in provincia di Siena, è già stato detto molto. Da quando all’inizio del ‘900 se ne occupò l’architetto Canestrelli in uno studio rimasto negli annali della storiografia, tutti gli specialisti si sono limitati a qualche variazione sul tema generale. La chiesa abbaziale, in buona sostanza, sarebbe sorta nel XII secolo sopra o accanto a strutture preesistenti, databili secondo la tradizione a Carlo Magno, ricalcando una tipologia architettonica francese, per l’esattezza cluniacense. Allo scopo sarebbero state chiamate a lavorarvi delle maestranze d’Oltralpe che avrebbero compiuto l’intera opera nel corso di parecchi decenni, forse con ripensamenti e adattamenti. Fin qui la ricostruzione ufficiale. Tuttavia chiunque si avvicini a Sant’Antimo non può fare a meno di cogliere un’atmosfera particolare, benché quel che ne rimane attualmente non sia che un pallido riflesso di ciò che questa abbazia rappresentò nei secoli centrali del Medio Evo.
I crolli, i restauri e, prima ancora, gli adeguamenti del programma originario, hanno infatti modificato quello che doveva essere il piano di esecuzione della chiesa abbaziale. Ma forse qualcosa se ne può ancora cogliere. Intanto emerge a colpo d’occhio la pianta, particolarissima, con l’abside a deambulatorio, scolpita in buona parte con una pietra straordinaria, l’alabastro, che crea particolari effetti luminosi. L’alabastro era un materiale pregiato e costoso, adoperato soprattutto per i vetri delle finestre in modo da creare una luce morbida, eterea, trasparente. Lo vediamo su gran parte del materiale scultoreo absidale e chiunque si provveda di una torcia elettrica potrà, accostandola, vederlo accendersi di caldi bagliori gialli e arancione. Il deambulatorio che gira attorno all’abside centrale, da cui è separato da sei colonne con capitelli scolpiti, è inoltre un elemento piuttosto strano, anche se viene di solito accostato agli esempi francesi contemporanei. Si dimentica tuttavia che la basilica “a circo”, per quanto rara, era una tipologia architettonica che in età paleocristiana si
trova attestata proprio in Italia, annoverando quale esempio più illustre la basilica di S.Lorenzo fuori le Mura a Roma nella sua primitiva versione. La si trova anche ad Aquileia nella basilica della Beligna, da taluni identificata con la basilica Apostolorum della città capitale della regione Venetia et Histria. L’impianto è quello basilicale a tre navate, solo che l’abside si presenta in qualche modo “doppia”, costituita da una parte interna larga quanto la navata centrale e da una parte esterna che comprende tutta la larghezza, navate laterali comprese. In questo modo si crea quello che viene definito “deambulatorio”, cioè un passaggio per camminare attorno all’abside. La basilica a circo si riscontra nel IV-V secolo, poi il deambulatorio si conserva talvolta nelle cripte, dove diventa per forza sotterraneo, ma sparisce dalle absidi. A Sant’Antimo questa particolare costruzione ritorna in maniera fulgida, incrostata di alabastro dagli effetti luminescenti. Ma non è tutto. I capitelli scolpiti rappresentano solo una parte di quelli che un tempo esistevano: le demolizioni, i crolli, i restauri ne hanno
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disperso una gran parte e molta di questa “pietraia erratica” è ancora in corso di studio. Ma osservando gli animali raffigurati, pur nella limitata varietà superstite, si nota la presenza all’interno di tre figure: l’ariete, il leone, il sagittario. Sappiamo che queste rappresentazioni erano ti-
Archeologia
piche della scultura romanica, sia italiana che francese, quindi non ci sarebbe nulla di strano. L’ariete e gli ovini in generale alludono all’Agnus Dei, l’Agnello di Dio, che è epiteto del Cristo. I leoni sono ovunque presenti, spesso a reggere colonne (i cosiddetti “leoni stilofori”), il centauro fa parte di quelle figure mitologiche che simboleggiano l’unione o la transizioni tra due stati, umano e animale, puro e impuro, di salvezza e di dannazione. Tuttavia questi animali sono presenti soprattutto all’interno della chiesa abbaziale di Sant’Antimo, mentre all’esterno ne prevalgono altri non legati ai segni zodiacali di fuoco, ma allusivi dell’acqua e della terra, cioè il toro, pesci o animali acquatici, conigli e cinghiali. Un fenomeno solare, di cui non è possibile una verifica data la chiusura del complesso alle 18,30, si verifica nei quattro giorni
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precedenti il ferragosto, quando il sole al tramonto illumina il volto del Cristo crocifisso che si trova al centro dell’abside, ed ecco ancora ritornare il Leone, segno del Sole. Per quanto si neghi l’intenzionalità del fatto, è comunque probabile che l’idea di una solarità liturgica sia stata inclusa nei programmi architettonici dell’abbazia. Se ne vedono tracce nell’alabastro che illumina quel percorso solare - da nord a sud ma anche viceversa - che è il deambulatorio, se ne scorgono delle allusioni palesi nei segni di fuoco presenti nei capitelli e anche l’aquila, che compare in uno di essi, potrebbe riferirsi alla leggenda medievale che ritiene questo rapace l’unico essere vivente in grado di guardare il sole. Da queste poche tracce emerge il sospetto che un programma liturgico coerente e ben determinato abbia guidato gli artisti di Sant’Antimo, forse stabilito da qualche maestro di particolare cultura, forse approvato dagli stessi abati che decisero la riedificazione dell’abbazia dopo il 1118. Non si può a questo punto fare a meno di ricordare l’abate Guidone che ricevette il consistente lascito dei nobili Ardengheschi permettendo la realizzazione dell’opera e, dopo di lui, almeno in ordine temporale, il Mestro di Cabestany uno dei più estrosi e appassionati artisti dell’epoca che lavorò nella Francia meridionale e sui Pirenei e che a Sant’Antimo scolpì il magnifico capitello di “Daniele nella fossa dei leoni”. A questo proposito è già stata avanzata l’ipotesi che gran parte del programma decorativo fosse dovuto a lui e che questo scultore non fosse di ambito culturale francese, come finora creduto, bensì spagnolo, forse originario proprio dei Pirenei. Ecco quindi che tutta la concezione religiosa dell’abbazia, compresi alcuni riferimenti esoterici e i retaggi di un antico culto solare cristianizzato, assumerebbero dei contorni culturali ben definiti proiettandosi nella Spagna cristiana sensibile da un lato agli influssi arabi, dall’altro alle suggestioni eretiche del contemporaneo movimento càtaro. Naturalmente non ci sono prove per sostenerlo, ma esistono precisi indizi. Del resto il cristianesimo dei primi secoli aveva recepito modelli e iconografie di altri culti, in particolare quelli iniziatici, cristianizzandoli in gran parte e sostituendovisi in una continuità del sacro che non ne escludeva tuttavia l’utilizzo da parte di al-
La cripta carolingia
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ella prima S.Antimo, precedente alla donazione del 1118, rimane solo quella che si è soliti chiamare ‘cripta carolingia’. Si tratta di un’abside, visibile all’esterno, sul lato sud, costruita in maniera molto diversa dalle strutture del XII secolo. È infatti composta di pietre stondate, quasi ciottoli di fiume, di piccole dimensioni. A livello della chiesa vi è collocata la sacrestia, ma un livello sottostante sembra esserci stato di uso anteriore. La zona è stata più volte rimaneggiata dato che vi si immorsavano i muri del refettorio e non sembra che vi sia mai stato effettuato uno scavo con criteri stratigrafici. La cosiddetta ‘cripta’ potrebbe tuttavia essere il retaggio della costruzione precedente. Nei monasteri era diffusa l’usanza di riutilizzare gli edifici precedenti, dopo averli in parte demoliti, come sostegno di quelli che si andavano a costruire e spesso la nuova chiesa sorgeva accanto a quella più antica. In questo caso la cripta carolingia non sarebbe altro che una parte del complesso di età altomedievale. Naturalmente non si può del tutto stabilire la pianta di questo edificio, anche perché la zona rientra nella clausura monastica, ma in attesa di eventuali scavi scientifici, si possono almeno formulare delle ipotesi. La chiesetta abbaziale altomedievale avrebbe potuto essere sia a navata unica con una sola abside, sia a tre absidi contigue: nell’alto medioevo sono infatti diffuse entrambe le tipologie. Si trattava in ogni caso di piccole chiesette interne ai monasteri (S.Maria di Aurona a Milano, S.Michele alla Pusterla a Pavia, S.Maria in Sylvis di Sesto al Reghena), spesso talmente piccole che non si riesce a capire come potessero entrarvi tutti i monaci. Forse questi ambienti liturgici erano più di uno nello stesso monastero, forse si sono rinvenute solo delle parti di edifici più grandi. Sta di fatto che l’architettura altomedievale è pochissimo nota a causa delle distruzioni che i rifacimenti - e qualche volta gli archeologi successivi - vi hanno operato. Con queste premesse i cosiddetti secoli “bui” sono per forza costretti a rimanere tali.
Archeologia
cune cerchie. Prima che l’Inquisizione, istituita all’inizio del XIII secolo proprio per combattere il catarismo, e poi il Concilio di Trento (dal 1548 in poi) spazzassero via ogni spunto diverso definendolo sommariamente ‘eresia’, i lasciti pagani convivevano pacificamente con la cultura cristiana e non sempre si trattava di rituali stregoneschi praticati da conventicole di bassa levatura. Anzi, in particolari circoli di élite, i retaggi iniziatici precedenti riemergevano spesso, più o meno cristianizzati, talvolta ispirati dai movimenti ereticali, altre volte quale spontanea e consapevole scelta, in una visione mistica onnicomprensiva o almeno pluricompren-
siva. A Sant’Antimo si potrebbe essere di fronte a uno di questi casi, quello di un ricordo solare, di tipo quasi mitraico, che collegava come già era avvenuto nel IV-V secolo la figura del Cristo al sole, Sol Salutis come veniva definito, cioè ‘Sole di Salvezza’. Il deambulatorio ‘solare’ che ne rappresenta il cammino tra le trasparenze dell’alabastro, gli animali astrologici scelti tra i segni di fuoco, escludendo gli altri, quasi a ribadire l’idea del Cristo/Sole, la scelta di maestranze provenienti da zone di vivace scambio culturale, tutto ciò porterebbe a pensare a un ritorno di quel sincretismo tardoantico, velocemente affossato
dai primi concili della Chiesa. Ma a quale mente ideatrice si debba questo programma purtroppo non ci è dato sapere. Almeno per ora. ______________ Bibliografia: A.Canestrelli, L’abbazia di S.Antimo, Siena, 1910. M. Burrini, Il portale ovest dell’Abbazia di Sant’Antimo, in Anthimiana, 1, 1997, 77-94. M.Burrini, Note su un capitello di Sant’Antimo, in Anthimiana, 2, 1998, pp.81-93. Comunità di Sant’Antimo, Una pietra che canta, Edizioni Sant’Antimo, 2001. P.52-55: Abbazia di sant’Antimo; p.55: Dettaglio del capitello con Daniele nella fossa dei leoni (tutte le foto P.Del Freo).
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Arte
Dietro il velame del triplice volto Silvia Malaguzzi 56
Arte
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l Kunsthistorisches Museum di Vienna è conservato un inquietante dipinto del Rinascimento: il Triplice ritratto di orefice di Lorenzo Lotto, pittore veneziano coevo di Tiziano ma a lungo attivo a Treviso, Bergamo e nelle Marche. Si tratta di un mezzobusto maschile presentato in triplice prospettiva: frontale, laterale sinistra e laterale destra, un espediente senza precedenti che ha spinto la critica a formulare molteplici congetture. Fra queste vi è l’idea singolare che l’opera dovesse fungere da bozzetto per una scultura e pertanto illustrare con cura le varie possibili angolature del soggetto agevolando così l’artista nella corretta resa plastica del busto. L’ipotesi sembra ardita dal momento che il dipinto mostra un grado di raffinata completezza che la allontana decisamente dall’approssimazione bozzettistica. Perché allora questo curioso espediente? Una possibile spiegazione va cercata nell’identità del personaggio ritratto che pure sfugge ad una precisa definizione. Il
titolo suggerisce che possa trattarsi di un orefice poiché l’unico oggetto rappresentato nell’opera è una scatolina di anelli collocata in primo piano al centro della composizione. Tuttavia l’oggetto è rimasto a lungo misterioso e poi scambiato per un gioco del lotto, possibile scherzoso rimando al nome dell’autore. Se tale ipotesi fosse stata corretta l’uomo del dipinto sarebbe stato lo stesso pittore ma il confronto con altri verosimili autoritratti di Lotto: quello a fresco sulle pareti dell’Oratorio Suardi a Trescore Balneario e quello a tarsia sugli stalli del coro della chiesa di Santa Maria Maggiore a Bergamo, ha tolto ogni fondatezza alla congettura. Molto simili fra loro i due ritratti probabili si discostano recisamente dalla fisionomia del nostro orefice documentando lineamenti assai più maturi rispetto al nostro ed in linea con la presunta età del pittore che negli anni ‘30 del Cinquecento, l’epoca del dipinto di Vienna, doveva avere circa cinquant’anni. Una volta riconosciuto l’oggetto come contenitore di anelli gemmati la stessa critica si è trovata concor-
de nell’interpretarlo come riferimento alla professione del protagonista da identificarsi pertanto in un collezionista di gioielli o più probabilmente in un orefice. Fra i committenti e gli amici di Lorenzo Lotto i gioiellieri erano assai numerosi, egli stesso ce ne parla nel suo libro di conti che documenta con scrupolo maniacale le entrate e le uscite negli anni fra il 1538 e il 1552. Nel documento non mancano riferimenti a vicende personali, e riflessioni di ordine morale e sentimentale che, conferendo un sapore romantico alle altrimenti aride cifre, raccontano le relazioni di Lotto con gli amici gioiellieri attivi a Venezia in quegli anni. Fra i più cari, menzionati con frequenza, vi sono i fratelli Carpan orefici di origine trevigiana ma attivi nella Serenissima in ruga del Sol. Dei tre fratelli Carpan Bartolomeo è particolarmente vicino al pittore, con il quale si intrecciano transazioni economiche e prestiti temporanei che lo soccorrono nei momenti di maggiore difficoltà. Si parla di scambio merci fra dipinti e gioielli che Lotto apprezza molto ed utilizza di quan-
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Arte
do in quando per sdebitarsi con quanti lo avevano ospitato o aiutato. Spesso Lotto per giustificare il trattamento di favore economico di cui è talora soggetto e talaltra oggetto usa la formula: “tra doi carissimi amici” che fuga ogni possibile equivoco sulla qualità del legame che lo univa al Carpan. È Bartolomeo Carpan ad ospitare per ben un mese e mezzo il pittore malato a casa sua non facendogli mancare né il mantenimento né l’assistenza, con una generosità che Lotto non saprà mai come ricambiare poiché nessun compenso materiale avrebbe mai potuto ripagare lo slancio caritatevole dell’amico. Analogamente apprendiamo dallo stesso documento dell’esistenza di un altro gioielliere, un certo Giovanni del Saon nella casa trevigiana del quale Lotto si trasferisce per un lungo soggiorno fra il 1542 e il 1545 con l’idea di rimanerci fino alla fine dei suoi giorni. Entrambi i gioiellieri per analoghe ragioni di affettuosa disponibilità avrebbero dunque avuto motivo di meritarsi un ritratto… e tuttavia non solo è difficile determinare quale dei due potesse meritarlo di più, ma anche colmare il piccolo divario cronologico che separa il libro dei conti dall’epoca in cui il ritratto fu dipinto: i primi anni trenta del Cinquecento. Nonostante la discrepanza cronolo-
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gica nulla vieta di pensare che l’amicizia fra Lotto e i gioiellieri datasse ad un’epoca precedente il libro dei conti e che quindi il riconoscimento di uno dei due nel nostro soggetto si confermi del tutto verosimile. Un elemento comune ad entrambi è l’origine trevigiana cui sapientemente Lotto avrebbe rimandato con l’espediente singolare del triplice punto di vista alludendo a Treviso, come in un rebus, attraverso i tre visi. L’interpretazione è interessante ma forse non esaustiva dacché, a onor del vero, non si tratta di tre visi ma di tre busti completi di mano sul cuore che sembrano chiamare a gran voce un secondo livello di lettura più intimo e profondo. Soprattutto quella mano sinistra sul cuore non sembra un dettaglio casuale tanto più che non vi sono immagini religiose davanti alle quali ribadire la propria fede ma una semplice scatolina di gioielli. Sembra quasi che il nostro gioielliere voglia affermare come la sua etica professionale sia assai più che una legge imposta dalla pratica degli affari, quasi un codice morale cavalleresco. La critica ha indagato in lungo e in largo il serpeggiare dell’eresia presso i mercanti veneziani, individuando proprio nelle botteghe degli orafi un luogo privilegiato dove la nuova fede religiosa indisturbata
raccoglieva proseliti. Sono davvero molti gli orefici, fra i quali Bartolomeo Carpan, costretti a subire i processi dell’Inquisizione e condannati per la loro adesione alla Riforma protestante. Molta attenzione è stata rivolta anche ai rapporti di Lotto con l’eresia senza che tuttavia se ne siano trovate delle prove inconfutabili. Certo è che di se stesso il pittore scriveva in una lettera del 1526: “che sono de natura et religion christiana et chi se engana suo dano” facendo capire come qualunque illazione sul suo comportamento religioso fosse del tutto fuori luogo. A suggello della sua ortodossia del resto vi è l’intensa attività professionale svolta su commissione di confraternite ed ordini cattolici ed è inoltre dato certo che Lorenzo Lotto sia morto a Loreto mentre lavorava presso la Santa casa (tempio cristiano romano) ed abbia egli stesso disposto di essere tumulato in abito francescano. Cosa legava dunque il pittore agli amici gioiellieri in odore di eresia se non era la condivisione di una fede religiosa comune? Forse più in generale la condivisione di un comune sentire morale. Un cronista veneziano annota nel 1571: “Ci era a Venezia una compagnia fra gli orefici che tenevano per chiaro e certissimo che l’uomo era salvo per la fede senza le opere, della quale fede se gloriavano loro
dicendo che alle volte avevano dato scatoline di gioie di molta valuta senza dubio che se rompessero la fede l’un dell’altro per l’amore che se portavano insieme.” La descrizione sembra davvero aprire uno squarcio sul perché proprio presso gli orefici l’eresia avesse tanto ben attecchito. Nel passo del cronista la fede religiosa e la fiducia reciproca si confondono mettendo in evidenza come presso quei cristiani eterodossi la legge del Vangelo fosse divenuta davvero legge morale, codice di un’intera categoria professionale capace di rendere superfluo il ricorso a garanzie scritte o orali. Forse era proprio il comune modo di intendere l’onestà, la fiducia, la carità a spingere Lotto verso gli amici gioiellieri che quotidianamente traducevano la loro fede in una superiore etica morale e professionale. Chissà se quella mano sul cuore non volesse trasmettere proprio questo concetto… La fratellanza spirituale fra il pittore e i gioiellieri tuttavia nella Venezia del Cinquecento poteva radicarsi con altrettanta tenacia e profondità in un altro ordine di interessi, quello occulto per l’alchimia, elitario e sofisticato, capace di soddisfare le esigenze pratiche, teoriche e spirituali dell’artigiano e dell’artista. In quella temperie che il gioielliere fosse anche un’alchimista non deve stupire dal momento che l’alchimia, antichissima di-
sciplina, si proponeva come obbiettivo la creazione delle gemme e la trasmutazione dei metalli da vili a nobili. Non si trattava tuttavia necessariamente di un falsario anzi la trattatistica spesso ribadisce come potesse fregiarsi del titolo di alchimista solo colui che sperimentava indefessamente non per lucro ma per amore di conoscenza. Come l’alchimista anche il gioielliere realizza con la materia un rapporto privilegiato capace di colorarsi di misticismo qualora nell’esperimento riuscito, nell’opera realizzata egli scorga la prova di aver correttamente operato attingendo alle leggi superiori che regolano l’universo materiale. Lorenzo Lotto conosceva l’alchimia già dai primi anni della sua carriera quando a Treviso lavorava presso il vescovo Bernardo de’ Rossi noto per aver riunito intorno a sé una cerchia significativa di intellettuali e scienziati. Lotto stesso aveva dipinto un ritratto di un celebre alchimista dell’ambiente del vescovo, certo Aurelio Augurello autore di un poemetto alchemico dal titolo Chrysopoeia. A Trescore balneario nel ciclo affrescato nell’Oratorio Suardi una sibilla dall’anomalo epiteto di Chimica sembra ribadire l’interesse del nostro pittore per la scienza in questione. Accanto ai sentimenti di fraterna cristiana amicizia certamente anche la passione per l’alchimia dovette fare da
collante fra Lorenzo Lotto e gli amici gioiellieri ed in particolare, l’amico gioielliere del ritratto. Seguendo la scia della sapienza alchemica il triplice punto di vista diverrebbe così possibile metafora delle notissime tre fasi della trasformazione alchemica. Il colore nero dell’abito, il bianco della camicia e
Arte il rosso dei capelli e della barba verosimilmente potrebbero dunque raccontare i tre colori principali della Grande opera: la nigredo della decomposizione, l’albedo della rinascita e la rubedo che annuncia la riuscita dell’opera di creazione della pietra filosofale. Con la mano sul cuore il nostro gioielliere sembra asserire che è con purezza di sentimenti che egli lavora il metallo e che la scienza e l’arte e non il lucro sono le sue ultime vere finalità. Agli anelli e alla loro forma senza inizio né fine va forse il compito di ricordare, con un tocco quasi impercettibile degno del colto maestro, il valore eterno della legge secondo la quale nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, nella materia ma forse anche nello spirito. P.56 e 58: Lorenzo Lotto, Ritratto di orefice (vd. testo); p.57 e 59: Canaletto, vedute di Venezia, sec. XVII.
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Condivisione,equità e solidarietà Perchè non diventi macelleria sociale, ,
Clizia Gallarotti
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on so voi, ma io ormai inciampo quotidianamente nella fatica del mestiere di vivere. E non serve, né consola, riandare a Pavese per scovarvi in qualche modo la poesia, perchè il suo scrivere è difficile da affrontare per quanto è terribilmente tragico, come questa nostra realtà, seppure egli dica che “è bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla”. Neppure ci si può consolare dicendosi “domani è un altro giorno, e alcune cose si risolveranno da sole”, perchè l’oggi oramai ci perseguita anche domani, senza soluzione di continuità. Così alla nostra fatica personale si aggiungono i dolori del mondo sempre più macroscopici e sempre più iniqui. Si affastellano nella mente informazioni che causano sbigottimento, incredulità, indignazione, provenienti da giornali o televisione (come ad esempio la notizia di un presidente di istituto bancario che guadagnava il corrispettivo di 25.000 € al giorno, ora ridotti a soli 18.000, piuttosto che il costo delle nostre 626.760 auto blu-blu, blu, grigie a seconda dell’utilizzo o dell’ente al quale appartengono che – tra acquisto/noleggio, uso, manutenzione – con ca. 21 miliardi €/anno è pressochè uguale al valore dell’ultima manovra finanziaria da 24 miliardi) insieme allo spauracchio dei prossimi aumenti, delle tasse scolastiche e universitarie in crescita a causa dei tagli resi necessari dalla crisi e relativa manovra correttiva richiesta dalla Comunità Europea; e, ancora, si cumulano ai dati diffusi dalle organizzazioni caritatevoli per i quali attualmente i
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fruitori di mense, dormitori o altre elargizioni di carità, dalle medicine alle borse di alimentari e agli abiti, sono per almeno la metà italiani, ex professionisti, ex artigiani, ex padri che dopo aver pagato gli alimenti non hanno di che vivere, ex impiegati di concetto, ex casalinghe, ex pensionati dignitosi che riescono a mentenere i golfini e le scarpe di tempi migliori ma non hanno più di che vivere normalmente: tutte belle professioni, ma tutte ex. Del resto che c’è di strano: già alcuni anni fa, ai primi accenni di crisi, pare che tra i clochards parigini vi fosse un congruo numero di ex brillantissimi rampanti dirigenti diplomati alla Panthéon Sorbonne con invidiabili palmarès di master internazionali improvvisamente ridotti al rango di mendicanti. E si sa che a cadere dall’alto ci si fa più male che non a cadere dal primo gradino. Insomma, è un tormento. Si può provare a non comperare più i giornali e a non guardare la TV nelle ore fatidiche, ma non c’è nulla da fare: apri la posta elettronica, e prima delle tue mails partono i flash di agenzia delle notizie dal mondo; guardi un film alla televisione e al posto della pubblicità, che finalmente era divenuta quasi innocua un po’ grazie all’assuefazione, un po’ per l’acquisita consapevolezza di non volersi lasciar affabulare, un po’ perchè il bilancio famigliare funge da opportuno anestetico, e ti appare invece uno di quei TG veloci, in cui non basta dire le notizie principali, le altre te le scrivono sotto, cosicchè se vuoi sfuggire non ti resta che profittare della pausa per fare un salto in bagno o in cucina a bere un bicchier d’acqua purificatrice. Perchè sì, tutto questo si riflette irrimediabilmente sulla nostra salute così
, l Occhio di Minerva
fragile, di persone - prima - poco o tanto viziate, e si traduce in gesti inconsulti di autodifesa, con somatizzazioni per le quali non basta l’effetto ansiolitico del torpore autoindotto: sentiamo di doverci proteggere, ma non è sufficiente il tradizionale “non mi tocca, non sono in fondo fatti miei”. Subliminali o meno che siano le intrusioni, qualcosa addosso ci resta sempre appiccicato, e incrementa la nostra fatica di vivere. Non si sa neppure più dove collocarsi, di volta in volta ad ogni evento di attualità: tra gli indolenti o gli inter-
ventisti, tra gli indulgenti o i rigorosi, al contempo tra i colpevoli e gli innocenti, i docili e i combattivi, quelli che osano e si espongono o fan finta di non esserci, tra i generosi o gli avari, tra le scimmiette occhi-bocche-orecchie-coperte o tra le civette sempre attente e vigili. Si sente soltanto che la coscienza si frantuma di fronte a molte cose e che procedere, certi giorni, è solamente tentazione di guardarsi indietro perchè lì c’era qualcosa di buono, ma poi il pensiero di quel benedetto passato che ci si piazza davanti
e del futuro che ci arriva alle spalle... bisogna resistere al colpo! Fosse soltanto quella interiore, la vita, sarebbe perfetta: ascolti, mediti, assorbi, pratichi una disciplina, ti accorgi delle tue trasformazioni, sai che la strada non la smarrisci perchè è tracciata da millenni tra te e la matrice, di tanto in tanto incontri un maestro o trovi inatteso uno dei cartelli indicatori che pare che qualcuno di loro abbia messo lì apposta per te. E prosegui serenamente. Specialmente se hai avuto la fortuna di incontrare sul tuo
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percorso la Massoneria, con i suoi insegnamenti, con i luminosi esempi antichi e recenti che indicano i princìpi ai quali l’Uomo deve attenersi. Ma non è così. Perchè l’accesso alla conoscenza fa dell’iniziato un servitore dell’umanità, e non
, l Occhio di Minerva
te la puoi cavare tanto facilmente. E perchè l’economia doveva essere al servizio dell’uomo, e l’uomo è diventato lo schiavo dell’economia. Il massone sa che il progresso esiste soltanto quando è associato all’etica; la crescita infinita in un mondo finito è un assurdità tremenda... Ho letto le considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia all’Assemblea Ordinaria del 31 maggio 2010: condivisione, equità e solidarietà le sue parole chiave. Mi piace! Mi ricorda qualcosa che diciamo spesso. Sul momento in verità mi son chiesta se sia un alieno, e se si sappia qualcosa della possibilità di riprodursi degli alieni, in modo da poter contare sulla scienza che ci dia una mano, perchè i massoni sono relativamente pochi, e dif-
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ficilmente se non si impegnano tutti radicalmente ce la faranno a diffondere veramente e trasversalmente a ogni latitudine le idee in purezza, seguite dalle azioni. Per un attimo ho avuto il breve ricordo di una assemblea della Gran Loggia a Rimini che si è tenuta in un tendone: anche quella mi era piaciuta. Sostanziale, senza perdite di tempo, senza ostentazione, senza ridondanti discorsi. Si trattava di condividere delle informazioni razionali e si è avuta la relazione di quanto fatto in occasione del terremoto in Abruzzo. Azioni, senza troppe parole. Un’ altra cosa ha detto il Governatore che mi ha colpita: “l’evasione fiscale è la base della “macelleria sociale”: frase bella forte, vero? Riusciamo tutti a immaginarci una mannaia, qualche arto sanguinolento, qualche testa mozzata? Ma pensiamo quant’è vero, Dio mio! Ha anche spiegato che solo di iva si evadono 30 miliardi di euro all’anno, e che se negli ultimi pochi anni l’avessimo tutti pagata regolarmente il livello del debito sul prodotto lordo sarebbe tra i migliori d’Europa, circa il 60% anziché il 115,8%. Saremmo più forti dei tedeschi!
Da non crederci. Ma è proprio vero che le cose si concatenano sempre e tornano in mente al momento giusto per dare un senso a qualcosa che apparentemente non ne ha, o addirittura ti era molesto tanto da archiviarlo con un “non mi interessa”. E quindi, quando ieri mi hanno chiamato dal tribunale per andare a fare la traduzione a un’udienza penale, sono andata sbuffando ma incapace di dire di no quando ho il tempo per farlo. Non è propriamente il mio lavoro, ma è interessante, e mi da modo di conoscere realtà ignote e talora sorprendenti, oltre alla possibilità di avvicinare persone – spesso gli imputati – che insospettatamente ogni volta mi insegnano qualcosa della vita. C’è solo un neo: il pagamento delle spese di giustizia è a dir poco ridicolo. Infatti la Legge 8 luglio 1980, aggiornata nel 2002, recita: “La vacazione è di due ore. L’onorario per la prima vacazione è di € 14,68 e per ciascuna delle vacazioni successive è di € 8,15 (lorde) Il Giudice non può liquidare più di quattro vacazioni al giorno per ciascun incarico”. La procedura per incassare, poi, è quasi un’incitazione a rinunciare. Però si
, l Occhio di Minerva
lavora sotto l’egida dello Stato, e questo mi piace, e prima di questa fase han già lavorato le forze di Polizia, i dattilografi, i postini, i tuttofare con i carrelli di fascicoli... Dopo la prima di queste esperienze mi ero detta: “non mi interessa”, che se li tengano i soldi delle loro vacazioni! Se ho tempo vado volentieri e faccio il bravo cittadino collaborando a un lavoro utile a tutti, ma non affronto più questa trafila per una cifra mortificante. Oggi però, grazie a un anziano signore pachistano che fa il facchino (so che li pagano dai 4 ai 7 €/ora, se non sono in nero) ho osservato la cosa da un altro punto di vista. Testimone di una tentata rapina ai danni di tre turisti giapponesi, insieme al suo collega tunisino, ha lasciato il carrello col quale stava spostando dei bancali di frutta su un marciapiede, ha chiamato la polizia con il suo cellulare scassato mentre il tunisino seguiva in bicicletta i due rapinatori, e insieme li han fatti arrestare poco lontano. Parlava bene il tedesco il signore pachistano, e anche l’inglese. Quando all’inizio il giudice gli ha raccomandato bonario che in qualità di teste doveva dire la verità lui l’ha fulminato con gli occhi, e ancora in pie-
di con la mano sul cuore ha risposto lentamente: “quan-do par-lo, io dico sem-pre la verità”. E quando alla fine della deposizione gli è stato chiesto perchè si fossero tanto affannati, lui e il compagno, per far arrestare due malandrini, ha detto: “vivo in Italia da 5 anni. Lo vedo bene che qui ci sono molti turisti, e capisco che se ci sono i turisti l’Italia è un Paese che funziona e io posso continuare a viverci e lavorare. E non mi piace che i turisti pensino che in Italia sono tutti ladri.” Massimo della pena ai due rapinatori, 2 capitazioni riconosciute all’interprete. I testi se ne sono andati a testa alta, fierissimi di aver contribuito a una buona causa; per loro giornata di lavoro persa, una scarpinata dal tugurio dove avranno il loro materasso fino al tribunale, ma vuoi mettere l’onore! E l’interprete stavolta accetta eccome i suoi 22,83 € lordi di compenso, perchè sa dove andare a portarli. Anzi, perderà un giorno tra i registri dei fascicoli, ma cercherà di recuperare anche gli arretrati non incassati. Dobbiamo tutti forse cominciare o ricominciare dalle piccole cose, guardarci a fianco per vedere dove si nasconde il bisogno, sopportare un po’ di quell’in-
tenso afrore di aglio e cipolla che emana dalle persone che non avviciniamo mai ma che hanno i vestiti pulitissimi e mille bisogni non detti. Ricominciamo a distribuire i nostri tronchi della vedova anche per le piccole necessità, che possono salvare la giornata a qualcuno: è un passo avanti verso un futuro possibile. Perchè il Governatore della Banca d’Italia conclude così: “Anche la sfida di oggi, coniugare la disciplina di bilancio con il ritorno alla crescita, si combatte facendo appello agli stessi valori che ci hanno permesso insieme di vincere le sfide del passato: capacità di fare, equità; desiderio di sapere, solidarietà. Consapevoli delle debolezze da superare, delle forze ragguardevoli che abbiamo, affrontiamola”. Sono di nuovo parole che ci appartengono; a noi massoni, più che ad altri, per dovere. Noi faremo che non avvenga come teme il direttore del Corriere della Sera: “parole applaudite da tutti, il giorno dopo dimenticate da molti” (http://www.corriere.it/Media/pdf/cf09_considerazioni_finali.pdf). P.61: Ceppo e mannaia in una vecchia norcineria; p.62: Le tre scimmie, insegna commerciale, Londra; p.63: Toga forense.
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Archeologia
La grande Dea Michela Torcellan
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uando nel 1861 Johann Jakob Bachofen pubblicò Das Mutterrecht, Garibaldi era ancora nel pieno dell’impresa dei Mille e Lincoln iniziava la guerra di Secessione americana. Il libro dello studioso svizzero fu accolto da una freddezza glaciale, smaccatamente ignorato e tra coloro che espressero un giudizio furono mol-
“rispolverato” la vecchia e sbeffeggiata teoria del povero Bachofen. Ma, ovviamente, in un modo molto diverso. Il merito va soprattutto all’archeologa Marija Gimbutas (1921-94), ai suoi scavi in Grecia e Macedonia e soprattutto ai suoi studi comparativi che hanno affrontato per la prima volta la cultura pre e protostorica da un punto di vista interdisciplinare, fondando un nuova
catalogati in maniera sistematica apparivano come i pezzi sparsi di un gigantesco mosaico e parlavano una specie di metalinguaggio simbolico ricco e complesso, articolato e straordinariamente vivo. Contrariamente a quanto si era creduto fino a quel momento
to più numerosi i denigratori che gli estimatori. L’autore infatti, basandosi sulle sole fonti letterarie dell’antichità, delle quali possedeva profonda e ampia conoscenza, ipotizzava che all’origine della civiltà umana fosse praticato il diritto materno (da qui il titolo originale del libro), solo in seguito soppiantato dal diritto paterno. La traduzione italiana appesantiva ancora di più il giudizio sullo studioso intitolando il ponderoso libro Il matriarcato. Da qui al pubblico dileggio il passo era brevissimo, anche se il libro non smise mai di interessare gli intellettuali soprattutto negli anni ‘30 del Novecento. A quasi un secolo e mezzo di distanza è difficile accostarsi a questo testo, farraginoso e ormai troppo datato, che rivela ad ogni passo una grande ingenuità e un eccesso di elaborazioni fantasiose. Eppure, anche in considerazione delle sue alterne fortune e controverse interpretazioni, il ricordo del Mutterrechtnon può fare a meno di affacciarsi alla memoria dopo che gli scavi di villaggi neolitici europei e mediterranei, condotti con metodi moderni negli ultimi cinquant’anni, hanno in qualche modo
branca scientifica da lei chiamata l’archeomitologia. In pratica, i risultati degli scavi relativi alla fase neolitica e della prima Età dei Metalli vennero tutti catalogati dal punto di vista iconografico considerando monumenti, manufatti e anche semplici “segni” impressi su pietra e ceramica. Ne emerse per la prima volta un affresco inedito e soprattutto scientificamente attendibile, con il capovolgimento di antiche teorie e soprattutto di atavici pregiudizi. Segni, simboli, immagini della divinità conducevano tutti a una stessa religione estesa dall’Europa balcanica alla Palestina, a un unico scenario preistorico antecedente a tutte le mitologie occidentali, a una sola figura divina dominante: la Grande Dea. Questa definizione è stata adottata al posto di quella più limitativa di “grande madre” per definire tutti i molteplici aspetti della divinità femminile, della quale non si conoscono i nomi originari e che di certo dovevano variare da una zona all’altra. Gli oggetti di culto, talvolta semplicissimi, rinvenuti sia in scavi vecchi e dimenticati, ma sicuramente datati, sia in quelli nuovi, una volta
la religione pre-indoeruropea si poteva conoscere grazie a una grande quantità di manufatti: templi, tombe, rilievi, affreschi, sculture, ceramiche, bastava solo guardare tutto insieme. Sembra una cosa ovvia, ma fino ad allora ogni reperto veniva studiato da solo e ogni scavo era fine a se stesso. Si conoscevano già le immagini della Grande Madre pre-ellenica e alcune statuette paleolitiche di opulente signore ignude (alcune del 25.000-20.000 a.C.) dette frettolosamente “Veneri”, con riferimento a un tipo di divinità che suggeriva concetti licenziosi e si prestava all’aneddotica. Ma queste effigi in pietra, corno, osso e argilla erano anche percorse da simboli acquatici e lunari, da incroci e intrecci, spirali e pettini, triangoli e clessidre, segni a V a X a M, forse già significativi di sillabe, tutti riferibili a concetti sacri e che ricorrevano anche in manufatti aniconici. Insieme alla figura umana si rappresentavano alcuni animali a lei collegati: rane, porcospini, pesci, api, farfalle fino a quelli che ebbero la maggior fortuna nella simbologia successiva, cioè i tori e i serpenti. I reperti provenivano dai primi villaggi
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conosciuti dagli scavi, soprattutto Çatal Hüyük in Anatolia centro-meridionale, fiorito a partire dal 7000 a.C. fino al 5500 a.C., ma anche Gerico in Palestina fondata nello stesso periodo e, a seguire, tutta una serie di insediamenti tra la penisola ellenica (cultura di Sesk-
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possibile un simile equivoco? A Çatal Hüyük i locali adibiti al culto erano affrescati con scene di vita, animali e figure femminili spesso partorienti, l’attività era artigianale e agricola e la città ebbe in media circa 7000 abitanti per un periodo di vita complessiva di due millenni e mezzo. Fondò anche altri villaggi come Hacilar, Hesin, Beyce-
fermarsi del bronzo e del concetto di guerra di conquista nel III e II Millennio, gli indoeuropei conquistano i territori della Grande Dea e impongono agli abitanti i loro valori fondati sulla divisione in classi, lo sfruttamento delle popolazioni soggette, i simboli di lusso e di potere, ma soprattutto un pantheonin prevalenza maschile. I resti di
lo, verso il 6500 a.C. e Dimini dal 5500 a.C.), e i Balcani (culture di Starcevo e Karanovo, verso il 6200 a.C., cultura Cucuteni nel V Millennio, cultura di Vinća nel VI-V Millennio). C’era di che sovvertire tutta la precedente storiografia che vedeva l’alba della civiltà sorgere radiosa nella Mesopotamia meridionale con il popolo geniale dei Sumeri alla fine del IV Millennio. Invece già 5000 anni prima aveva iniziato a stabilirsi una rete di centri abitati in rapporto tra loro, almeno nella zona corrispondente alle attuali Turchia, Siria, Giordania, Israele. Come era stato
sultan, Kultepe, estendendo poi i propri contatti verso est. L’area mediterranea europea venne coinvolta più tardi, ma è quella che conservò più a lungo (basti pensare a Creta) i retaggi di un culto femminile destinato ad essere spazzato via. Sì, perché la Grande Dea dopo millenni di culto esclusivo (le effigi maschili sono al massimo il 5% del totale) non resiste all’impatto con gli invasori indoeuropei provenienti dall’odierna Russia meridionale e portatori di una civiltà nomade, guerriera e patriarcale. Con l’inizio dell’Età dei Metalli nel IV Millennio, ma stabilmente con l’af-
distruzioni violente, di abbandoni improvvisi dei luoghi, di rottura della continuità religiosa raccontano la fine di un mondo pacifico e inerme, senza troppe differenze sociali e sessuali. Una società agricola certamente, dedita alla produzione di cibo, ma anche di ceramiche, stoffe e oggetti di culto. Una società in apparenza”povera”, almeno per chi fonda il successo sulla competizione feroce, ma estremamente ricca nei contenuti. La visione del mondo appare infatti molto diversa da quella che si impose in seguito e che ancora sembra dominare nella società attuale. Il
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Archeologia pensiero e l’arte sembrano finalizzati alla celebrazione della vita che fluisce eterna esprimendosi in un’energia in costante movimento (serpenti, spirali, vortici). Tutto sgorga dal grembo oscuro della Dea e tutto vi ritorna, una forma sfuma nell’altra. Anche la Dea assume molteplici aspetti. Nella sua immagine opulenta, talvolta gravida o con il neonato tra le braccia, dava la vita e assicurava la fertilità. Per chiarire un equivoco creato dalle successive elaborazioni patriarcali si deve precisare che vita e fertilità non hanno niente a che fare con avvenenza e sessualità, dato che la Dea era unica e generava per partenogenesi. Per molti millenni nessuna figura maschile le appare accanto. Nella sua rappresentazione “secca”, lineare, resa in osso o corno con attributi di rapace, diveniva invece la Dea Bianca che portava la morte e, attraverso di essa, assicurava il rinnovamento, come dimostrava la periodicità stessa della natura fondata sui cicli della luna. L’antica religione credeva perciò nella rigenerazione e la morte era considerata anch’essa vita, nuova e diversa, ma sempre garantita da una nascita. La vita in natura alla fine è una. Lo dimostrano anche le tombe a ipogeo e i complessi funerari rotondi, dalle forme uterine. La sepoltura diventava così deposizione nel grembo della madre, attraverso ingressi riferiti esplicitamente all’anatomia femminile e in luoghi che, visti dall’alto, ripetevano le stesse forme corporee della Dea opulenta o di quella secca, come nei templi di Gigantija e nell’ipogeo di Hal Saflieni a Malta (IV-III Millennio), in Sardegna (cultura di Ozieri, IV Millennio), in Sicilia (cultura di Castelluccio, III Millennio), in Irlanda (IV Millennio). La Dea subiva essa stessa un processo di metamor-
fosi assumendo teste e attributi di uccello acquatico, e in tal caso si riferiva all’acqua e al suo potere rigenerativo, di rapace o avvoltoio con becco adunco e occhi fissi ma con grandi mammelle significando da un lato la morte e dall’altro ricchezza e nutrimento, di serpente con segni a spirale anche sul corpo rappresentando così le fasi lunari e con esse il ciclo della morte e della rinascita. Tutte queste immagini femminili continueranno in qualche modo nelle dee del pantheon patriarcale e olimpico, ormai solo spose, madri e figlie dei possenti dei uranici e folgoratori, ma che conserveranno qualche sparso indizio di un glorioso passato. Così Hera la dea “dagli occhi bovini” continuerà a essere onorata con offerte di serpenti, Athena “dagli occhi di civetta” sarà saggia e giusta, Artemide apparentemente sdegnosa di nozze sarà ancora regina degli animali, Demetra elargirà abbondanza in un’eterna e segreta alternanza con la figlia. Pochi ricordi e molti stupri. Infatti gli dei degli invasori dovevano “possedere” le dee più antiche per legittimare nel cielo la conquista delle armi avvenuta sulla terra. Eppure la Dea in tutte le sue versioni e immagini, anche contrastanti all’apparenza, non aveva bisogno di una separazione tra cielo e terra perché era immanente, stava con gli uomini e le donne in tutta la loro esistenza, viveva in ogni cosa, in ogni essere, in ogni evento lieto o triste. Nella sua concezione complessiva era signora della vita e della morte, delle piante e degli animali ed estendeva il suo dominio sulle acque e le grotte, le pietra e le tombe, secondo un concetto “olistico” che l’umanità, dopo cinquemila anni di amnesia e di dominio del metallo, sembra aver riscoperto solo in anni recenti.
Bibliografia: J.J.Bachofen, Il Matriarcato, 2 voll., Torino, 1981 M.Eliade, Storie delle credenze e delle idee religiose, Torino, 1999 R.Eisler, Il calice e la spada. La presenza dell’elemento femminile nella storia da Maddalena a oggi, Milano, 2006 M.Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Roma, 2008 M.Gimbutas, La religione della dea nell’Europa mediterranea; sacro, simboli, società, in: La civiltà del Mediterraneo e il sacro, Milano, 1991
P.64: La Dame de Brassempouy, Francia; p.65: La venere di Willendorf, Austria; p.66: La statuetta di Hohlefels; p.67: In alto il sito di Willendorf, lungo il corso del Danubio in Austria ed in basso la venere di Vestonicka.
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Dalla Dea Bianca alla Madonna Nera Michela Torcellan
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olte immagini tramandate nel folklore europeo derivano da frammenti sparsi della Grande Dea, già degradati e demonizzati dalla religione olimpica che aveva ridotto le divinità femminili a figure grottesche o ridicole, orride o compiacenti. È il caso della Dea Bianca, arcaica portatrice di morte e garante della continuità, perpetuata nell’immaginario popolare da figure spettrali e stregonesche. Si tratta delle ambasciatrici di morte e sventura dalla figura di rapace e o di serpe, come Morrigan la dea irlandese a forma di cornacchia o la Banshee delle saghe celtiche: entrambe si limitano a preannunciare il trapasso con strida e ululati presso la casa e le finestre del morente. Signora della notte e regina dell’inverno la messaggera, se a figura umana, è di solito piccola e brutta, come la germanica Frau Holle, oppure alta e ossuta, vestita di bianco o grigio. Significativa è la presenza del bianco che nell’antichità era segnale sicuro di lutto, mentre il nero rappresentava la fertilità. Il candido colore abbinato alla sventura è quindi un segno di notevole antichità. Talvolta la Bianca Signora assume l’aspetto di assassina soprattutto nel folklore slavo, come la Baba Yaga dell’immaginario russo. È la figura della vecchia strega dal naso adunco, simile a un rapace che spaventa i bambini. Talvolta è collegata alla luna e alle sue fasi, come la basca Mari, capace di assumere varie forme animali e di volare nella notte. L’assassina colpisce i raccolti e la vegetazione, provoca la grandine, ostacola il corso della natura, danneggia il bestiame e soprattutto rapisce e di-
vora i neonati. La vecchia megera si identifica così nel tipo della strega cattiva delle fiabe che vola su scope o su mostri, getta incantesimi, si trasforma in animale, raccoglie e manipola erbe portentose, per lo più nefaste. Purtroppo la caccia alle streghe del XVI- XVII secolo ha portato alla soppressione fisica di un numero incalcolabile di persone (soprattutto donne, ma anche uomini e bambini), accusate di operare per davvero ciò di cui si favoleggiava. Perché tutto questo? Faceva tanta paura il ricordo seppur sbiadito della possente Dea? Diametralmente opposto è il caso della figura formidabile della Vergine Maria che assume nel cristianesimo anche i ruoli della datrice di Vita e della Madre Terra. La Madonna si associa a sorgenti d’acqua limpida che spesso sgorgano miracolosamente, appare presso alberi e grotte, più di frequente a fanciulle e bambini. Le sue effigi si dicono dipinte da S.Luca in persona o si sono salvate da crudeli profanatori o sono apparse di colpo in altri luoghi. Spesso si tratta di immagini antiche, dipinte o scolpite su legno e scure nel volto; le cosiddette Madonne Nere. Tale prerogativa viene giustificata con un eccesso di candele devozionali o con una provenienza dall’oriente, dove il colorito umano è mediamente più scuro. Un recente convegno (maggio 2010) svoltosi in Piemonte ha affrontato questo argomento avvincen-
te e misterioso che da anni interessa studiosi e appassionati. Nell’occasione un docente dell’Università del Sacro Cuore ha esposto il suo censimento: sono 751 in tutta Europa, la metà in Francia, il resto soprattutto tra Italia e Spagna, disperse tra celebri santuari
Archeologia e oscure chiesette di campagna. Sembra che molti luoghi di venerazione siano sorti su antichi templi di Iside, dea che nel periodo tardo romano era rappresentata col figlioletto Horus tra le braccia. Si sottolinea che il culto delle Madonne Nere fu diffuso dai Templari e promosso da S.Bernardo di Chiaravalle. Si insiste su un significato esoterico, occulto, iniziatico di queste immagini. Ma alla fine si dimentica che il nero era il colore della fertilità e prosperità, associato alla terra e alla sua dea, anche in epoca classica di pelle nera. La Vergine, comunque la si immagini, è pura, forte, giusta, santa, madre di Dio incarnato e di tutta l’umanità. Tuttavia, proprio per la sua amorevole grandezza, può anche darsi che abbia voluto regalarci qualcosa della Dea. P.68: Il volto terrifico della russa Baba Yaga; p.69: In alto la Madonna nera di santa Eulalia a Barcellona, in basso ‘Vasilisa’, una illustrazione di Ivan Bilibin fine ‘800 di una fiaba sulla Baba Yaga.
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La grande sintesi dell’universo Valeria Kou J. Hwa 70
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e intendiamo il mondo un semplice fenomeno fisico governato dalle leggi della Meccanica, l’Uomo non è che la punta di diamante dell’evoluzione biologica. Il libro della Genesi però è eloquente: “Dio fece l’Uomo a sua immagine e somiglianza”. Vi è nel principio Purusha dell’Antropocosmo, un massima sublime: “l’uomo non è un componente dell’universo, ma il suo prodotto finale”. Non è una parte del tutto; ma è il tutto nella sua espressione Vivente. L’interazione e la sinergia dei suoi stessi organi rivela gli stessi aspetti funzionali dell’universo. Non c’è da meravigliarsi se con orgoglio affermiamo che l’uomo è la grande sintesi: è il riassunto di tutti gli elementi e di tutte le fasi della genesi del mondo. Tanta è la meraviglia da avere indotto la Tradizione iniziatica e quale ultimo anello la Massoneria, a disegnare l’architettura strutturale dei Templi sulla figura dell’Uomo Cosmico. Il Verbo fatto carne. Malauguratamente l’uomo è una forma transitoria, un nodo di energia luminosa che attende il nuovo Stato di assoluto, quando ciò che è mortale sarà vinto. Ciò non deve scoraggiare, anzi deve temprare gli animi perché è l’unica cosa che conosciamo del nostro Padre e la sola che possiamo usare per conoscerlo. Per questo la base di tutte le espressioni religiose ed iniziatiche è la dottrina che studia i principi dell’economia corporale, delle funzioni psichiche e delle funzioni mentali. Solo proiettandoci tutto l’universo e smembrandolo tocco a tocco questo nostro corpo ci permetterà di intuire. Perché in questo atlante immenso c’è tutto quello che dobbiamo sapere e ci siamo dimenticati. La ricerca esoterica mira a ritrovare il padre perduto e intelligente, che ci ha dato l’intelligenza per cercarlo. Il Tempio massonico, mappa umana I templi antichi ci invitano sempre a togliere le scarpe all’entrata. Per rispettare quello che si calpesta, l’immagine umana. La pianta del tempio è una figura geometrica che viene tracciata sul terreno e ritaglia uno spazio per consacrarlo. Ma andiamo oltre. Abbiamo tutti in mente l’uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. Cosa si disegna prima? L’uomo o il cerchio? L’evidente intento del maestro Leonardo è dimostrarci come, puntato il compasso nell’ombelico, il nostro corpo disteso sia inscrittibile in un cerchio. La figura geometrica è nostra schiava, perché noi siamo il modello migliore di ogni forma universale. Così è per i templi iniziatici dell’antichità
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occidentale e orientale. In India vive da tempo immemore la tradizione dei Vasturushamandala, ossia della pianta del Tempio costruita sull’Uomo Cosmico. Nel medioevo le cattedrali avevano il corpus christi quale immagine modello per l’edificio. L’importanza del corpo nel cristianesimo è tale che durante Messa questo è cannibalizzato dai fedeli. Tutta la figurativa egizia è basata sulla divina proporzione, la geometria e numerologia sacra. Non a caso il tempio di Luxor (v. § seguente) studiato da Renè Adolphe Schwaller de Lubicz è costruito su un’immagine umana in movimento. La tradizione Massonica, depositaria ultima degli antichi Misteri, ha costruito il quadrilungo aureo del Tempio sull’albero sephirotico. Canonicamente questo schema è per la kabbalah ebraica la spiegazione del processo creativo della divinità e del mondo sensibile ma è anche una mappa corporea. La straordinarietà del disegno sta nel fatto che essa ne ricalca di altre similari quali: quella indiana dei chakra, quella dei meridiani cinesi, quella dei centri di energia Dogon Africani, o delle antiche popolazioni mesoamericane e dei Nativi Americani. L’albero sephirotico è una composizione di dieci centri luminosi: le sefiroth. Le sephirot sono
manifestazioni di YHWH e sono localizzate in punti precisi del corpo umano. La cabala usa un’immagine allegorica per parlare di questo schema, definendolo una scala. Questa scala ha comportato la caduta dell’Adam Cadmon ma è anche lo strumento per risalire e risalire a Dio. L’albero sephirotico è disposto su tre colonne verticali: la via della forza (colonna del nord del Tempio e la parte destra del corpo, emisfero cerebrale razionale) la via dell’amore (colonna del sud del Tempio, parte sinistra del corpo, emisfero cerebrale creativo) e la via regale (l’asse longitudinale che percorre il tempio da oriente fino alla porta, la colonna vertebrale che collega i genitali con il cervello). I sette nodi massonici trovano la loro corrispondenza nelle 7 sephira esterne. All’oriente, dove siede il MV, la sephira kether (testa). Nella colonna del nord, procedendo da oriente i 3 nodi d’amore trovano corrispondenza con le sephire binah (la spalla destra e il collo), ghevurah (la mano destra) e hod (la gamba destra dal ginocchio in giù, si veda più avanti il tempio di Luxor). Alla colonna del sud altri tre nodi d’amore equivalgono a chockmah (spalla sinistra e collo) chesed (mano sinistra) netzach (gamba sinistra dal ginocchio in giù). Al centro, dove il tempio
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massonico vedrebbe il suo asse di simmetria, sono occultate partendo da Oriente le sephire Daath (l’Ara, plesso cardiaco Chakra Anahat) Tipheret (quadro di loggia, plesso pelvico e aortico, Mooladhara Chakra e Swadisthana Chakra, Iesod (porta di uscita, piedi). La sephira Malkhut essendo quella corrispon-
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dente alla materia nel suo stato più impuro, il nigredo alchemico, sarebbe collocata oltre la porta del Tempio. La via mediana così analizzata è il Sale Alchemico, come pure canonica di apertura dei chackra. La mappa corporea e le sue similitudini con altre tradizioni sono un’ indicazione esplicita a un processo dimenticato che è posto al fine di risvegliare le forze cosmiche latenti nell’uomo. Potenziare la natura umana, dando una veste adamantina al corpo di carne. Noi uomini siamo luce condensata nella forma. Le tecniche tantriche sono le uniche ancora fisicamente praticate per transustanziare la natura e liberare lo splendore divino. Colei che chiamano Kundalini, la dea che giace addormentata alla base della colonna vertebrale, è l’aspetto cinetico dell’universo, è il molteplice. È una corda che risuona incontrollata e la cui vibrazione distrugge tutto. Ed ecco perchè le discipline esoteriche disegnano mappe corporee, per istruire i posteri a domare la dea e ad indurla all’ascesa nella sua sede, la sushumna, la colonna vertebrale1. Questo è il gran segreto degli antichi Misteri, noi siamo un aggregato di nodi di energia in attesa di essere attivati. Ed è esattamente questo che tutti gli esoteristi hanno tramandato, alchimisti compresi. Una tecnica iniziatica d’eccezione che ci permetterebbe di fare della carne Verbo, dello zolfo oro. Perché il nodo non solo unisce le nostre parti, ma è anche sutratma2, un legame che riunisce l’uomo con il suo Architetto. La corda, che dalla terra sale verso l’alto e infine lega con amore in un volume ciò che per l’universo si squaderna3, per dirla con le parole di padre Dante... Il Tempio di Luxor Nelle cerimonie rituali l’obiettivo del percorso sacro era realizzare sui fedeli la focalizzazione delle energie telluriche e celesti. Il Tempio funzionava come un concentrato energetico che realizza la hierogamia, o nozze sacre, della Terra col Cielo. Nel mondo antico il tempio è sempre un contenitore e attivatore di energia sacra e viene innalzato sul luogo dove il Cielo sposa la
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Terra e si uniscono le energie cosmiche e telluriche. Il tempio di Luxor ricostruisce idealmente uno scheletro umano dai piedi alla testa. Il tempio racconta dell’ uomo perfetto, il Faraone/Uomo Cosmico. Le parti di questo corpo corrispondono alle funzioni dell’universo, i neter, centri dell’energia crescente che permette all’uomo attraverso trasformazioni alchemiche di risalire alla luce purissima di Dio. Ascesa spirituale significa apertura e attivazione dei corpi sottili, quindi trasformazione dalla pesantezza greve della carne (il piombo) alla luce splendente dello Spirito (l’oro). Nei grandi monumenti egizi compare frequentemente un ideogramma a cinque livelli detto Djed. Nell’iconografia egizia lo Djed è definito in molti papiri come “colonna dorsale di Osiride” e il procedimento ricalca quello che abbiammo visto per i chackra lungo la spina dorsale, l’albero Sephirotico ecc. ll tempio di Luxor è uno Djed. Un attivatore di energia in forma architettonica, una serie di pile sovrapposte che dispiega i suoi poteri
in modo crescente. Il tempio funziona come un diapason che raccoglie le energie cosmiche e le sintonizza sui 7 chakra dell’Iniziato. Nel tempio vi sono 7 luoghi architettonici che corrispondono a: coccige, plesso solare, plesso cardiaco, ganglio stellare, fontanella, santuario del naso e tiroide. Effettuando rilevazioni col biometro nel luogo che corrisponde al centro del petto (4° chakra induista) il biometro segna 6.500 unità (che è la misura dell’energia del plesso solare o quarto chakra induista); nel Naos, o punto tra gli occhi, (sesto chakra induista o terzo occhio), arriva a 18.000 unità4. Solo colui che ha innalzato il proprio livello di energia può sostare nel Naos, gli altri si sentiranno gravati da insostenibile stanchezza. Per il non iniziato il tempio di Luxor può risultare pesantissimo da sopportare ed estraniante, invece di attivare, inibirà i centri energetici, chiudendoli, come avviene al cervello quando arriva una dose eccessiva di zuccheri, perché si generano, anche a livello sottile, difese sponta-
sibile. Horus è luce pura e Seth è luce caduta nella Materia6, come recita un detto cabalistico “Luce nel posto sbagliato”. Così la lotta è tra Luce e Luce. Paiono parole astruse, ma in ciò sta il Percorso. Per questo abbiamo bisogno di riscoprire la nostra mappa corporea, perché il ritorno alla Luce è possibile già in vita. Guar-
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nee contro ciò che è in eccesso. L’edificio era di conseguenza ideato per permettere alla processione dei fedeli e dei sacerdoti un’attivazione graduale di energie. Le varie tappe liturgiche erano corrispondenti ai 7 luoghi sacri del corpo che abbiamo descritto. E’ comprensibile che essendo una scala con gradi di iniziazione come è quella massonica, ogni celebrante si arrestava nel luogo pari al suo stadio di energia. Il corteo risaliva le 33 vertebre della colonna vertebrale (che corrispondono ai 33 gradi massonici) per far giungere il Faraone al sancta sanctorum corrispondente all’ipofisi umana. Non è da dimenticare che la punta del tempio di Luxor è disegnata come una testa umana priva di calotta cranica. Ciò è volto ad indicare che l’Uomo perfetto si apre al divino ed esce dalla terra una volta concluso il processo iniziatico. Anche il Sahasrara “loto dei mille petali” si apre non dentro, ma sopra il cranio del Buddha. L’iniziato o adepto è colui che si è liberato dal mentale, e può mette-
re il suo spirito a contatto con l’energia assoluta senza temerla. Perciò la statuaria simbolica delle cattedrali mette in mano al santo la calotta cranica5. Conclusioni Il Tempio dunque vive. Non insegna. Perché insegnare significa usare la mente. Il tempio ‘attiva’ perché compito dell’iniziato non è conoscere ma essere. Solo oltrepassando le possibilità mentali si può raggiungere il Segreto. Il compito che il Tempio ci indica è ricordare il tempio personale che ci ha dato Dio, perché il corpo umano è il ricettacolo del Sacro. Oggi abbiamo smarrito il significato del simbolo, i riti sono morti, la liturgia si spegne. L’uomo non è più tempio a se stesso e ciò comporta una grande solitudine. Non capiamo più perché quando c’è male non c’è bene, quando c’è bene non c’è male. Così compare la grande inquietudine senza nome. Del resto il pavimento del Tempio massonico presenta una scacchiera perché Seth (la tenebra) e Horus (la luce) sono i costruttori dell’universo sen-
diamoci allo specchio con più passione. Siamo un urlo flebile nell’universo, ma siamo organismi eccezionali i cui meccanismi vanno oltre la comprensione degli scienziati. Coloro che compresero gli Antichi Misteri riuscirono a ricordare i meccanismi di vera apertura di questo corpo divino. L’ultima fatica del mediatico Dan Brown Il Simbolo Perduto segue questo importante tema ma è stato poco celebrato dalla critica e poco capito dal lettore che vedono questa tematica come un’ipotesi nebulosa di retaggio New Age. è il triste destino dell’uomo meccanico ed evoluto, che perde la qualità di vedere col terzo occhio. Rimane che se anche su questa terra non comprenderemo il potenziale del nostro corpo divino arriveremo comunque allo scioglimento del nodo carnale. L’equilibro energetico che non esisteva in vita e che abbiamo fallito a trovare. L’altalena del mondo si fermerà e la sorella Morte ci porterà ad uno stato polarizzato. Questo dicono beffardi gli scettri incrociati della mummia regale: la vita esisterà senza la morte. Gli scettri eternamente scissi e divergenti troveranno il loro punto di contatto. Per un induista questo limbo stupendo invece sarebbe come un passaggio momentaneo in attesa di una nuova reincarnazione della forma conquistata. Così il ritorno alla materia porterebbe l’Uno nuovamente sull’altalena del due. Per saperlo dovremo aspettare. Intanto ci è consentito Lavorare. _______________ Note: M. Albanese -G. Cella - F. Zanchi, I Chakra l’Universo in noi, pag. 25.
1
2
Renè Guènon, Simboli della Sienza Sacra, Milano,.
D. Alighieri, La Divina Commedia, Pd XXXIII, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze, pag. 594 3
4
Schwaller de Lubicz Rene A, Il tempio dell'uomo.
5
Jacq Christian, Il Messaggio dei costruttori di cattedrali.
Richard H. Wilkinson, The Complete Gods and Goddesses of Ancient Egypt. 6
P.70: Il cosiddetto ‘Uomo vitruviano’, disegno di Leonardo da Vinci, XV sec; p.71: Una nebulosa vista dallo Hubble telescope; p.72-73: Egitto, notturno del tempio di Luxor.
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Massoni antimassoni: Alberto Giannini
I
Aldo A. Mola
n La sinagoga di Satana. Storia dell’antimassoneria 1725-2002 (Bari, Giuseppe Laterza, 2002) Luigi Pruneti ha evidenziato che tra i più accaniti avversari della Libera Muratoria figurarono anche alcuni iniziati. Come ricorda Annalisa Santini nel saggio introduttivo a Inimica vis. La sindrome antimassonica in tre secoli di scritti e di testimonianze (Bari, Giuseppe Laterza, 2010), tra quanti accreditarono le loro opere antimassoniche con l’esperienza di loggia spiccano Augustin Barruel, Léo Taxil (sempre in attesa di uno studio che ne evidenzi le ripercussioni in Italia) ed Edoardo Emilio Eckert, autore di Storia dottrina e scopo della
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Frammassoneria scritta da un Framassone che non lo è più e dedicata a tutte le persone oneste, Vienna, 1861): un testo che alimentò la polemica della “Civiltà cattolica” contro i massoni, bollati quale centrale cospirativa ai danni della chiesa cattolica e della stabilità politico-sociale non solo in Italia ma dell’Occidente. Anche oggi alcuni tra gli scritti antimassonici di maggior successo figurano libri di autori che si dichiarano pentiti dell’iniziazione. Dopo l’avvento del fascismo non mancarono opere significative di “pentimento” o meditazioni critiche sul percorso compiuto dalla Libera Muratoria in Italia dopo la proclamazione del regno,
alla ricerca delle ragioni storiche della sua improvvisa crisi. In effetti, ancora sorprende la parabola della massoneria passata in soli otto anni dalle attestazioni di riconoscenza pubblica per aver concorso alla Vittoria del 4 novembre 1918 alla sua demonizzazione e al forzato autoscioglimento dell’autunno 1925, invano esorcizzato con ingenui tentativi di resistenza, come l’invenzione dell’Associazione San Giovanni di Scozia allestita da Raoul Vittorio Palermi. Tra quanti scrissero pagine polemiche contro il modus operandi dei massoni italiani all’estero vi fu Alberto
Giannini. Lo fece nella seconda edizione di Le memorie di un fesso (*), che per molti versi rimane uno scheletro nell’armadio non tanto per la massoneria quanto per l’antifascismo. Il “caso” merita speciale attenzione perché Giannini non fu un polemista qualunque. Dopo l’espatrio (1927), fu tra gli organizzatori del Grande Oriente d’Italia a Parigi (con sede nominale a Londra). Ne fu eletto Gran Segretario e poi Grande Oratore, accanto ad Arturo Labriola, Ministro del Lavoro nel V governo Giolitti (1920-
1921). Non sappiamo quando e dove iniziato, già affiliato alla Rienzi di Roma, il socialista repubblicano antifascista agente dell’ovra arrestato per connivenza col regime monarchico..., insomma il volubile Giannini concepì sempre la Massoneria come macchina
Biblioteca politica: antitotalitaria e anticlericale. Venne marchiato dalla damnatio memoriae sia da parte dell’antifascismo professionale (e questo si comprende) sia da parte della Libera Muratoria. Ebbe il torto di chiedere che fine avesse fatto il tesoro dell’Ordine e di credere all’onnipotenza politica del Grande Oriente, ancorché “in esilio”. Recentemente Arturo Labriola è stato iscritto nell’albo d’oro dei Grandi Maestri. Per coerenza bisognerebbe farlo anche del suo Gran Segretario e Grande Oratore Alberto Giannini che ne accolse gli articoli nei suoi periodici, Il Becco Giallo e La Tribuna d’Italia. Ne Le memorie di un fesso Giannini non screditò la Massoneria, ma un certo modo di proclamarsene alfieri e profeti. I massoni gli debbono gratitudine. _______________ (*) Pubblicata a Parigi nel 1934, l’opera uscì in Italia nel 1941 e venne ristampata. La terza edizione (ed. de Il Merlo Giallo, Roma, 1948) viene ora riproposta da Arnaldo Forni (Sala Bolognese) nella collana Massoneria: fonti e studi, in cui già comparvero classici dell’antimassonismo pensoso come Espiazione massonica di Comunardo Braccialarghe, Il velo alzato pe’ curiosi di François Lefranc, La Massoneria di Francesco Gaeta... Dai propri errori si può apprendere.
P.75 in basso: Il ferro, una vignetta di ‘Galantara’ apparsa su Il Becco Giallo. Per le altre illustrazioni vd. il testo dei due articoli di A.A.Mola in questo numero di Officinae.
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Pietrantonio Battifarano Una tavola poetica postunitaria tra le sue carte inedite Luca Irwin Fragale
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ndar per archivi è sicura fonte di scoperte, sebbene il lavoro possa spesso risultare lungo e tedioso. Spesso accade che non si trovi ciò che si cerca ma che si rinvenga qualcosa d’altro, forse anche più interessante. Questo è accaduto spesso a chi scrive, e anche in occasione di una recente visita all’Archivio Privato Battifarano di Nova Siri. Tale archivio – custodito dalla famiglia di Vincenzo Battifarano presso la masseria padronale di impianto seicentesco, sita in contrada Cerrolongo di Nova Siri (MT) – ha ottenuto riconoscimento del notevole interesse storico da parte della Soprintendenza Archivistica per la Basilicata, in data 20 luglio 2004. Su incarico della stessa Soprintendenza è stato compiuto, da Annunziata Bozza e Sergio Palagiano, un minuzioso lavoro di riordinamento ed inventariazione, talché l’archivio si presenta ora di semplice e proficua fruizione. L’intero materiale archivistico – precedentemente custodito presso altra proprietà di famiglia, ovvero presso il palazzo gentilizio nel centro storico di Nova Siri – è stato dunque trasferito in blocco presso l’antica masseria e risulta di grande valore documentale: a cominciare dai volumi a stampa o manoscritti – realizzati perlopiù dal rev. Giuseppe Battifarano – d’argomento storico, esoterico, filosofico e pedagogico. La visita compiuta, finalizzata principalmente alla consultazione della corrispondenza ottocentesca e del materiale storico-fotografico, ha dato modo di scoprire qualche documento di notevole rilievo culturale. Ci proponiamo, peraltro, di offrire in altra sede una disamina filologica dei formulari magici manoscritti dall’eclettico curato di famiglia (ancora una volta il sacerdote Giuseppe Battifarano, il quale si dedicò pure all’insegnamento della dottrina cristiana nelle scuole primarie fino a ricevere, nel 1870, la nomina vescovile di vicario foraneo della Chiesa di Anglona e Tursi). Qui è invece il caso di proporre alcuni versetti ritrovati tra le carte di Pietrantonio Battifarano (29/12/1827-1/9/1878), medico, patriota e perseguitato politico dal ‘48 al ‘60. Egli, compiuti gli studi nel seminario di Tursi, si trasferisce a Napoli ove si laurea in Medicina, Belle Arti e Filosofia e intraprende una frequentazione di circoli liberali che lo indurranno a combattere sulle barricate nel maggio del ‘48. Arrestato per l’uccisione di un milite della guardia imperiale, si salva grazie all’intervento e alla protezione del suo maestro Pietro Ramaglia. Rientrerà così a
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figliuoli della vedova Già si stringono la mano Dove torbo scorre il Tevere. Di rimpetto al Vaticano, Dove possa esiziale Di anatèma li segnò. Ma l’anàtema fatale Sul suo capo ritornò. Sù cultor di eletti simboli Mano all’opra ed al lavoro Sopra pietra grezza e ruvida Incidiamo in segni d’oro: La famiglia Italiana Sorta appena a libertà I dolori di Mentana Vendicata appieno all’à. Sù quel vasto aurato Tempio De’ fantastici Leviti Dove impera la barbaria Coi più strani e ladri riti: Sul temuto tempio stesso Nostro Tempio sorgerà Sfavillante di progresso Di una eterna civiltà Muratori dell’Italia Noi d’Iram fratelli noi Deh! Facciam di nostra acacia La ghirlanda degli eroi. Fermi stretti in uno amplesso Camminiamo sempre più Nella via di quel progresso Che rischiara la virtù. Voci amiche per noi s’odono. Ospitali in ogni tetto; Tutti affanni si rinfrangono In un puro e casto affetto. Ristorare la sventura Speme fin de’nostri cor, E l’età l’età ventura Farà plauso al Murator. Come immobili piramidi Fermi stiamo al nostro patto In quest’era lagrimevole Che è pur l’era del riscatto, Solo un segno di abbandono Chi di noi di noi darà Non del popolo il perdono Né da Dio perdono avrà.
Nova Siri (all’epoca denominata ancora Bollita) e prenderà parte alla vendita carbonara dei Figliuoli della Giovane Italia. Latitante per sfuggire alle denunce di parte borbonica, verrà incluso nelle liste dei sorvegliati politici. Deputato della Salute Pubblica, Capitano della Guardia Nazionale, Consigliere provin-
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ciale, Regio Subeconomo dei benefici vacanti della diocesi di Anglona-Tursi, Regio delegato straordinario del Comune di Colobraro, dopo anni di militanza liberale Pietrantonio Battifarano sosterrà infine Garibaldi, dirigendosi verso Capua con alcuni volontari. Tra le sue carte, dunque, si ritrova il seguente componimento che, come appare scritto sul verso dell’ultima carta, ‘fu recitato nella solenne occasione dell’inaugurazione della Loggia Massonica nel dì 28 aprile 1872 in Roma da un libero muratore’ (Archivio Privato Battifarano di Nova Siri, 23, Manoscritti diversi, 10). Assai significativo e suggestivo è lo spirito profondamente anticlericale che pervade le rime in esame – a meno di due anni dalla Breccia di Porta Pia – in cui si auspica che gli strani e ladri riti cattolici vengano sostituiti da quelli, civili, di segno massonico. Crediamo sia un dovere intellettuale, in fondo, rendere onore a questo breve scritto riportandolo alla luce. [http://www.regione.basilicata.it/giunta/files/ docs/document_file_324272.pdf] P.50 e 51: Dipinti risorgimentali di G. Fattori, XIX sec.
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R.L. G. Garibaldi Oriente di Cosenza
l Fregio raffigura l’effigie del condottiero, dell’Eroe dei due Mondi, racchiusa da due delle tre Grandi Luci della Massoneria, ovvero la Squadra e il Compasso. Il primo simbolo dell’armonizzazione dell’uguaglianza con i principi della Rettitudine, della Giustizia, dell’Equilibrio e del Dovere. Il secondo, rappresentazione simbolica del cosmo e delle scienze esatte, la cui forma richiama sia il principio di tutte le cose che la forma dell’uomo posto in piedi dinanzi alla visione cosmologica dell’esistenza. I pregnanti significati di entrambi i simboli sono
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R.L. Giovanni Risi Oriente di Firenze
a medaglia raffigura due motivi dai pregnanti significati; il sito megalitico di Stonehenge e la Fenice. Possiamo vedere nel primo lo spirito di conoscenza dell’uomo che si misura col tempo e con lo spazio e crea monumenti con riferimenti ai pianeti ed al sistema solare; È la sete di eterno che infiamma l’animo di chi guarda il cielo e cerca di capire le regole che presiedono all’ordine del Creato, in una ricerca continua ed ispirata. L’uomo sa di essere piccolo e grande nello stesso momento. Piccolo perché di vita breve ed insicura, grande perché partecipa con la luce dell’intelletto alla
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stati “incarnati” nella vita da Giuseppe Garibaldi, tanto da essere non solo un grande condottiero, ma anche un uomo di pensiero, un valente scrittore e decoroso poeta, un ricercatore dell’uomo in ogni dimensione, un modello di altruismo e sensibilità sociale, un Iniziato dall’intuizione straordinaria nell’applicazione del Trinomio Libertà - Uguaglianza - Fratellanza e dei principi della Rettitudine e della Giustizia, dell’Equilibrio, del Dovere e dell’Amor di Patria.
ricerca dell’immenso mistero dell’essere. La Fenice, nella medaglia si posa sulle suggestive pietre, ordinate secondo un disegno astrale e misterico. La Fenice che risorge dalle proprie ceneri, antica e sempre nuova, simbolo di morte e di rinascita, dell’eterno fluire del tempo! I due simboli, cosi accostati esprimono bene sia un concetto di immutabilità dell’universo, sia un suo continuo divenire, tramite la distruzione e la creazione, nell’immenso crogiolo dell’universo in cui tutto si esprime in un continuo divenire.
R.L. Humanitas Oriente di Treviso
l simbolismo del Fregio racconta il sacro dell’uomo, il cui ‘genio’ si esprime nella capacità di misurare spazio ed idee. Humanitas esprime l’umanità come specie umana, come sentire umano, come benevolenza, come civiltà rappresentata dalle arti liberali, come veicolo della Tradizione. Il triangolo rettangolo rappresenta la squadra e anche l’Unità trina e l’Uno creatore. Il quadrato rappresenta il quaternario, i quattro elementi sono all’origine del maschile e del femminile, lo strumento della creazione. Inoltre nel quadrato è inscritto un secondo quadrato ruotato di 45 gradi. Questi formano otto punti di vertice che generano un ottagono. In tale figura è racchiuso il numero 8, simbolo del-
la rinascita; ottagonali sono infatti le piante di molti battisteri. Il cerchio che si ricostruisce con la sua parte nel retro, può rappresentare il sole, ma anche la perfezione, non ha inizio e non ha fine, esiste, è la proiezione del divino, l’aspirazione dell’Umanità. L’unità di misura adottata nel disegno non è il centimetro, ma il dito, chiaro riferimento alle dimensioni umane. All’interno di queste figure geometriche è la spada di San Galgano che, con i suoi due tagli, indica il dualismo dell’uomo: corpo e spirito, forza ed intelligenza che si raccordano nella punta che sa penetrare anche la roccia più dura qual’è la pietra grezza di ognuno di noi.
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eonardo, genio errante, fu tra i primi ad occuparsi del volo umano, ideando complicate macchine volanti, intuendo il principio del volo a reazione, studiando come permettere all’uomo di staccarsi da terra, librarsi verso il cielo, avvicinarsi alla Luce. Ebbene, noi operai della Loggia a lui intitolata intendiamo abbandonare la zavorra, i metalli e volare alto, il piu alto possibile! È questa la ragione per la quale abbiamo raffigurato nel nostro gioiello, quasi come manifesta epìtome dei
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a medaglia è costituita da due facciate. Sul recto, circondata dalla denominazione della nostra obbedienza, si trova l’effige del Falco eretto quale rappresentazione storica di Horus. Sotto il falco un libro aperto a significare la ricerca della conoscenza. Sul lato sinistro del libro è raffigurato un compasso attraversato dal filo a piombo, che parte dal vertice sovrastato da un triangolo inscritto in un cerchio e termi-
R.L. Leonardo da Vinci Oriente di Taranto
nostri auspici e dei nostri intenti, la Vite Aerea, una delle prime macchine insieme con l’apparecchio ad ala battente progettata dal Maestro per il volo meccanico e il nostro motto: non si volta chi a stella è fiso. In questo caso, poca dottrina s’asconde sotto ‘l velame de li versi strani, il significato della nostra scelta è chiaro, lampante: il distico del sommo poeta simboleggia al meglio la
nostra ferma intenzione di proseguire nel cammino iniziatico. Ecco perché Leonardo, ecco perché la Vite Aerea. Naturalmente, alzando talmente il tiro, scegliendo come muse ispiratrici simili giganti, abbiamo reso estremamente difficile il nostro compito ma si sa, per aspera ad astra.
R.L. Horus Oriente di Padova
na in basso sulla parola chao, il tutto sovrastato dalla lettera G. Sul lato destro è inciso I’albero della vita con i dieci seforah. Sul verso si trova il motto dell’Officina: undique venuti, in unum coacti, semper in opere versati (venuti da piu parti, ritrovati in una sola cosa, sempre dediti al lavoro), nel quale è inscritto il Sigillo di
Salomone o Esagramma, emblema del Macrocosmo. Del tutto opportunamente in questo esagono centrale viene inserito l’Occhio di Horus, e - in basso il Fiore di Loto, dal quale secondo l’antica cosmogonia egizia nacque Ra.
, ad oggi l elenco delle Logge già pubblicato... R\L\ Cartesio Or\di Firenze R\L\ Nino Bixio Or\di Trieste R\L\ Scaligera Or\di Verona R\L\ Minerva Or\di Torino R\L\ Sile Or\di Treviso R\L\ Luigi Spadini Or\di Macerata R\L\ Enrico Fermi Or\di Milano R\L\ Kipling Or\di Firenze R\L\ Pisacane Or\di Udine R\L\ Salomone Or\di Catanzaro R\L\ Teodorico Or\di Bologna R\L\ Fargnoli Or\di Viterbo R\L\ Minerva Or\di Cosenza R\L\ Giovanni Pascoli Or\di Forlì R\L\ Iter Virtutis Or\di Pisa R\L\ Triplice Alleanza Or\di Roma R\L\ Zenith Or\di Cosenza R\L\ Audere Semper Or\di Firenze R\L\ Federico II Or\di Jesi R\L\ Ad Justitiam Or\di Lucca R\L\ Horus Or\di Pinerolo R\L\ Mozart Or\di Roma R\L\ Jakin e Boaz Or\di Milano R\L\ Prometeo Or\di Lecce R\L\ Venetia Or\di Venezia R\L\ Garibaldi Or\di Castiglione R\L\ Petrarca Or\di Abano Terme R\L\ Delta Or\di Bologna R\L\ Eleuteria Or\di Catania R\L\ Anita Garibaldi Or\di Firenze R\L\ Eleuteria Or\di Pietra Ligure R\L\ La Fenice Or\di Forlì R\L\ Astrolabio Or\di Grosseto R\L\ Risorgimento Or\di Milano R\L\ Goldoni Or\di Londra R\L\ Augusta Or\di Torino R\L\ Horus Or\di R.Calabria R\L\ Voltaire Or\di Torino R\L\ Fidelitas Or\di Firenze
R\L\ Ermete Or\di Bologna R\L\ Athanor Or\di Cosenza R\L\ Monviso Or\di Torino R\L\ Cosmo Or\di Argentario Albinia R\L\ Trilussa Or\di Bordighera R\L\ Logos Or\di Milano R\L\ Concordia Or\di Asti R\L\ Ausonia Or\di Torino R\L\ San Giorgio Or\di Milano R\L\ Valli di Susa Or\di Susa R\L\ Cattaneo Or\di Firenze R\L\ Mozart Or\di Genova R\L\ Carlo Fajani Or\di Ancona R\L\ Aetruria Nova Or\di Versilia R\L\ Magistri Comacini Or\di Como R\L\ Uroboros Or\di Milano R\L\ Libertà e Progresso Or\di Livorno R\L\ Ugo Bassi Or\di Bologna R\L\ Navenna Or\di Ravenna R\L\ Hiram Or\di Sanremo R\L\ Cavour Or\di Vercelli R\L\ Per Aspera ad Astra Or\di Lucca R\L\ Dei Trecento Or\di Treviso R\L\ La Fenice Or\di Livorno R\L\ Aristotele II Or\di Bologna R\L\ La Prealpina Or\di Biella R\L\ Erasmo Or\di Torino R\L\ Fedeli d’Amore Or\di Vicenza R\L\ Ros Tau Or\di Verona R\L\ Giordano Bruno Or\di Firenze R\L\ Hiram Or\di Bologna R\L\ Garibaldi Or\di Toronto R\L\ Sagittario Or\di Prato R\L\ Giustizia e Libertà Or\di Roma R\L\ Le Melagrane Or\di Padova R\L\ Luigi Alberotanza Or\di Bari R\L\ Antares Or\di Firenze R\L\ Cidnea Or\di Brescia R\L\ Fratelli Cairoli Or\di Pavia
R\L\ Nazario Sauro Or\di Piombino R\L\ Antropos Or\di Forlì R\L\ Internazionale Or\di Sanremo R\L\ Giordano Bruno Or\di Catanzaro R\L\ Federico II Or\di Firenze R\L\ Pietro Micca Or\di Torino R\L\ Athanor Or\di Brescia R\L\ Chevaliers d’Orient Or\di Beirut R\L\ Giosuè Carducci Or\di Follonica R\L\ Orione Or\di Torino R\L\ Atlantide Or\di Pinerolo R\L\ Falesia Or\di Piombino R\L\ Alma Mater Or\di Arezzo R\L\ C. B.Conte di Cavour Or\di Arezzo R\L\ G.Biancheri Or\di Ventimiglia R\L\ Sibelius Or\di Vercelli R\L\ C. Rosen Kreutz Or\di Siena R\L\ Virgilio Or\di Mantova R\L\ Ausonia Or\di Siena R\L\ Mozart Or\di Torino R\L\ Vincenzo Sessa Or\di Lecce R\L\ Manfredi Or\di Taranto R\L\ Cavour Or\di Prato R\L\ Liguria Or\di Orspedaletti R\L\ Saverio Friscia Or\di Sciacca R\L\ Atanor Or\di Pinerolo R\L\ Ulisse Or\di Forlì R\L\ 14 Juillet Or\di Savona R\L\ Pitagora Or\di Cosenza R\L\ Alef Or\di Viareggio R\L\ Ibis Or\di Torino R\L\ReSalomoneeFront.Nuove Or\diMilano R\L\ Ab Initio Or\di Portoferraio R\L\ Emanuele De Deo Or\di Bari R\L\ Melagrana Or\di Torino R\L\ Aurora Or\di Genova R\L\ Silentium et Opus Or\di Val Bormida R\L\ Polaris Or\di Reggio Calabria R\L\ Athanor Or\di Rovigo
R\L\ G. Mazzini Or\di Parma R\L\ Giordano Bruno Or\di R.Calabria R\L\ Lux Or\di Firenze R\L\ Etruria Or\di Siena R\L\ Athena Or\di Pinerolo R\L\ Palermo Or\di Palermo R\L\ XX Settembre Or\di Torino R\L\ La Silenceuse Or\di Cuneo R\L\ Corona Ferrea Or\di Monza R\L\ Clara Vallis Or\di Como R\L\ Giovanni Bovio Or\di Bari R\L\ EOS Or\di Bari R\L\ G. Ghinazzi Or\di Roma R\L\ D.Di Marco Or\di Piedimonte Matese R\L\ Oltre il Cielo Or\di Lecco R\L\ San Giorgio Or\di Genova R\L\ G.Papini Or\di Roma R\L\ Anita Garibaldi/Alpi Giulie Or\di Livorno R\L\ Melagrana Or\di Cosenza R\L\ Il Nuovo Pensiero Or\di Catanzaro R\L\ M’’aat Or\di Barletta R\L\ Costantino Nigra Or\di Torino R\L\ Umanità e Progresso Or\di Sanremo R\L\ Fenice Or\di Spotorno R\L\ Ferd.Rodriguez y Baena Or\di Milano R\L\ G.Bruno - S.La Torre Or\di Roma R\L\ XI Settembre Or\di Pesaro R\L\ Il Cenacolo Or\di Pescara R\L\ Humanitas Or\di Pistoia R\L\ Gaspare Spontini Or\di Jesi R\L\ Vittoria Or\di Savona R\L\ Archita Or\di Taranto R\L\ Zodiaco Or\di Pinerolo R\L\ La Fenice Or\di Chieti R\L\ 4 Giugno 1270 R.G. Or\di Viterbo R\L\ La Fenice Or\di Pieve a Nievole R\L\ Excalibur Or\di Trieste R\L\ Omnium Matrix Or\di Milano R\L\ Themis Or\di Verona
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