Officinae 2015 Settembre

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Trimestrale internazionale di attualità , storia e cultura esoterica — Anno XXVII - Settembre 2015 - n.3


Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXVII - numero 3 - Settembre 2015 Direttore Editoriale

ANTONIO BINNI Direttore Responsabile LUIGI PRUNETI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Consulente Legale IVAN IURLO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI RENATO ARIANO hanno collaborato a questo numero ADRIANA ALESSANDRINI LUCIO ARTINI ANTONIO BINNI RICCARDO CECIONI VERONICA MESISCA ALDO ALESSANDRO MOLA ANTONELLA OREFICE LUIGI PRUNETI PAOLO ALDO ROSSI ANNALISA SANTINI ANTONINO ZARCONE progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO , Direzione, Redazione, Amministrazione: via S.Nicola de Cesarini, 3 ˛ 00186 Roma tel. 06.688.058.31 06.689.3249 fax 06.687.9840 www.granloggia.it of–cinae.granloggia.it of–cinae@granloggia.it direttore.of–cinae@granloggia.it redazione.of–cinae@granloggia.it Reg. Tribunale di Roma n° 155 del 24/3/1989; Autorizzazione postale 50% Finito di stampare nel mese di Settembre 2015 presso: Grafiche Zanini Srl √ Via Emilia 41, 40011 Anzola Dell»Emilia (BO) , Il materiale inviato anche se richiesto non si restituisce. Il materiale da pubblicare deve essere spedito all indirizzo della Redazione di Officinae. La Redazione informa che il contenuto degli articoli della rivista rispecchia le opinioni dei singoli autori. La Redazione di Officinae resta a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche di cui non si abbia la reperibilità. IN COPERTINA Pretiosissumum Donum Dei [1415] di Georges Aurach de Strasbourg; tavola XI: Rosa Alba. Laura De Santi 2012, formella smaltata a engobbi e cristallina, collezione privata.


22 - L.Pruneti: Mari d’autunno 24 - A.Binni: Lettera aperta 26 - A.Binni: Appunti sulla ritualità... 12 - Premessa allo studio della Massoneria italiana 14 - A.A.Mola: La Massoneria italiana 26 - A.Santini: Massoneria e teatro 34 - L.Pruneti: La sola guerra massonica della storia 44 - R.Cecioni: XXI Aprile: Natale di Roma 48 - A.Orefice: I Giustiziati di Napoli 54 - V.Mesisca: Male–dicere 56 - P.A.Rossi: Le metamorfosi di Pinocchio... 64 - A.Zarcone: Paolo Camillo Thaon de Revel 68 - L.Artini: Le nubi dell’intolleranza... 76 - In Biblioteca 79 - Fregi di Loggia


ra le quattro sorelle che presiedono la danza dei giorni, l’Autunno è la mia prediletta. Non vi è stagione che sia a par suo attenta e garbata, premurosa e suadente. L’Autunno, infatti, ti conduce per mano da un opposto all’altro con raffinato equilibrio, alternando spezzoni d’Estate a sprazzi d’inverno, pianti di pioggia a sorrisi di sole. Prodiga di doni, t’avvolge con i suoi manti dalle cromie sempre diverse, dettate dal bruno della terra arata, dall’ambra delle foglie smarrite, dalla madreperla dei cieli venati di cirri. Non manca nella veste dell’Autunno il verde tenero dell’erba ristorata, dei muschi antichi, delle felci incupite; tanto che a guardare i prati che scintillano nella prima mattina, ti sembrerebbe di trovarti in Primavera, se non fosse per il colchico che ora rosa, ora violetto s’apre stupito, quasi occhio della terra a rimirare le nuvole. Narra un’antica leggenda che un tempo sulle Alpi due clan di geni della montagna combattessero una guerra per il possesso di una valle; un giorno una fanciulla stanca di tanta violenza gettò sul suolo conteso un’ametista; la pietra si spaccò in tanti frammenti dai quali nacque il colchico che da allora fu chiamato “ametista fiammante”. L’Autunno, in effetti, è un momento di conflitto fra l’Estate che se ne va e l’Inverno che incede, fra il ricordo del passato e l’attesa dell’avvenire, fra i timori e le speranze, fra il sogno e la realtà, con la quale ogni giorno ci confrontiamo. L’Autunno è un momento di crisi e di crescita, di bilanci e di pro2

getti, è il momento di riprendere la via … è un presagio d’iniziazione. Scrive il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, citando il Convivio (1,3): “Il tempo è il battello dell’umana navigazione verso l’eterno. Non fatevi cogliere impreparati alle traversate come se foste – legno senza vela e senza governo -”. Il mare è una tavola di smeraldo e lapislazzulo, induce al sogno e dona conoscenza, custodisce tesori ... tuttavia, cela anche infiniti pericoli. Riprendiamo, dunque, il viaggio con la prudenza del IX Arcano, “cauto come chi avanza sul fiume gelato, ruvido come un tronco d’albero, umile come la neve che si scioglie, vuoto come la valle, semplice come l’acqua”. Solo così riusciremo a evitare le insidie delle sirene che dietro l’aspetto rassicurante, il volto gentile, il canto suadente nascondono il vuoto assoluto dell’abisso. Se riusciremo a evitare gli scogli antitradizionali e contro-iniziatici di quella banalità che spaccia ombra per luce, nero per bianco, ignoranza per saggezza, saremo in grado — come scrive il Serenissimo Gran Maestro — di scoprire “sempre nuovi mari e ogni orizzonte svelerà [ai nostri occhi] nuovi orizzonti”. In questa navigazione, che all’equinozio d’autunno conosce un nuovo abbrivio, Officinae sarà sempre accanto ad ogni argonauta, fidando di contribuire, almeno un po’, a un sereno approdo sull’isola felice della perenne aurora. P.2-3: Isola d’Elba 2015 (foto Paolo Del Freo).


Mari d’autunno Luigi Pruneti

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on perseguite onori troppo veloci! Con il lavoro nascosto, umile, paziente, silenzioso, gradualmente illuminante, culturalmente fecondo, siate piuttosto volti alla personale conoscenza, mai paghi dei risultati con dura fatica conseguiti, in una corsa perenne verso la Luce, come stella mai sazia di vagare nel cielo. Quanto più si naviga nel mare della conoscenza, tanto più si scoprono sempre nuovi mari. Ogni orizzonte svela sempre nuovi orizzonti. La domanda scavi il pozzo della conoscenza in cui salgono e scendono secchi, ora pieni, ora vuoti di risposte, che si sciolgono e si risolvono in altri e più complessi interrogativi. Trascinare il carico in salita; fallire per poi ricominciare sempre da capo in una lotta senza fine perché, come ammoniscono anche le Upanishad, “gli dei amano l’enigma e a essi ripugna ciò che è manifesto”. Da qui la ricerca, che si svolge nell’orizzonte aperto dalla curiosità, nata dalla meraviglia. Analisi dura, ricca di ferite, compiuta sempre per vie accidentate e difficili, aspre e solitarie, duramente operose. Pena e travaglio tuttavia inevitabili perché, come ha insegnato Eschilo, solo “quello che è divino è senza sforzo”. Bisogno, non scelta, imprescindibile necessità, perché questa è la natura, lo statuto dell’Uomo. Solo il suo interrogare decide l’appartenenza al suo Essere più autentico e profondo, consentendogli di tendere l’orecchio a lontani suoni perduti, dietro i quali si trova la nostra vera ed unica Patria. Il pensare è sempre un “oltrepas4

sare”, con la certezza che anche a rimuovere molte zolle di terra si trovano però solo poche pepite d’oro. La verità, interrogata, risponde contemporaneamente a tutti, anche se le domande sono diverse. Chiara è sempre la risposta. Anche se non tutti capiscono chiaramente. Né la risposta è sempre quella desiderata. Non lasciateVi sedurre dalla Persuasione ingannevole. Non intorpidite né banalizzate la coscienza. Persistete nell’interrogazione radicale: quella che investe il significato profondo della vita dell’uomo con le sue ineludibili aspirazioni, ma anche con i tanti suoi angoscianti problemi. Il tempo è il battello della umana navigazione verso l’eterno. Non fateVi cogliere impreparati alla traversata, come se foste “legno senza vela e senza governo” (Dante, Convivio I, 3 ). Siate sempre immersi nella luce splendente della libertà, dopo il velo del buio, senza mutare mai il bianco in nero. Ricercate la bilancia della Giustizia che “volge ben presto il suo sguardo su chi sta nella luce” (Eschilo, Coefore 60–63) perché la Luce “è seminata” solo “per i giusti’’ (Salmo 97, 11). Questo è l’insegnamento: l’utile dista dall’uguale come gli astri dalla terra e il fuoco dal mare. Non soffocate i cuori con il travaglio di mesti pensieri. Né abbiate orrore, o anche soltanto timore, del futuro. Rifiutate di trarre segni, sinistri o benevoli, dagli astri declinanti nel cielo. La Storia, come invece credeva Hegel, non è provvista di una sua “ragione” immanente. La Storia, pur con tutto il suo

fango, è piuttosto il frutto del caso e della concatenazione di fatali coincidenze, talora sorprendenti, spesso persino paradossali, oltre che della Dea bendata. Se, però, guardiamo a ritroso la Storia, troviamo che molte sono state le epoche che hanno posto l’uomo di fronte a un bivio fra un mondo che sta esaurendosi e un futuro che non si intravede ancora. La conclusione di un mondo e il preludio di una era nuova costituiscono, però, una felice occasione, se il travagliato momento diventa una opportunità di crescita alimentata dalla Speranza di contribuire alla nascita di un futuro migliore con al centro l’uomo, tutto l’uomo. Seguite allora l’imperiosa esigenza di sentirvi testimoni di una civiltà tramontata, ma, nello stesso tempo, compartecipi costruttori di una epoca nuova, non mortificata da utilitarismo, avulsa dai valori più significativi dell’essere umano. L’antichità è il modello sempre presente sul quale si innesta la modernità chiamata ad imprimere il suggello del tempo. Modernitas e antiquitas, lungi dall’opporsi, sono chiamate a saldarsi perché il ritorno al passato deve essere un andare incontro al futuro. In questo contesto, nello stesso tempo difficile, affascinante e suggestivo, stiamo tutti noi, cioè la Comunione in tutte le sue componenti, nessuna esclusa. Sono certo che non sprecheremo la felice evenienza che, ben al di là di tutti gli eventuali meriti di ciascuno di noi, Ci è stata offerta dalla Sorte. Vi abbraccio uno a uno con sincero affetto fraterno.


Gran Maestro

Lettera aperta alle dilettissime Sorelle e amatissimi Fratelli, immagini viventi della nostra prediletta Comunione

Il S\G\C\G\M\ Antonio Binni

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Appunti sulla ritualitĂ RitualitĂ profana e massonica

Antonio Binni

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I

l tema Proporre considerazioni attendibili sulla nozione di rito in generale e massonico in particolare; cogliere il suo intimus sensus nell’inesorabile fluire del tempo; presentare, comunque, spunti utili per approfondire ulteriormente l’argomento prescelto per la nostra riflessione, costituiscono altrettanti scopi di questo scritto. Considerazioni preliminari sulla vastità del tema Una ricognizione sul fattuale consente di appurare che l’estensione dei riti è universale e che la loro presenza attraversa i tempi. Non esistono, infatti, popoli, né periodi storici, che ignorino il fenomeno. Con il termine “rito”, in ogni luogo e in ogni tempo, si designa una azione eseguita secondo norme precettive, che prevedono e contemplano una scansione ordinata di passaggi; rigorosa fedeltà alle prescrizioni; loro meticolosa ripetizione in luoghi e in tempi determinati. Da qui, già in via di primissima approssimazione, il carattere della ripetitività del rito che assurge, pertanto, a elemento co-essenziale di quella nozione. Una considerazione del concreto, e sempre come introduzione al tema affrontato, permette, inoltre, di osservare che quella reiterata, ordinata successione di parole, gesti, comportamenti, dotati di una intrinseca forza più resistente di un tessuto cucito col filo della deduzione, può verificarsi, in ambito tanto pubblico, quanto privato, sul piano sia individuale, sia collettivo. I riti dal profilo soggettivo Senza alcuna pretesa di completezza, può essere utile un accenno alla materia dal profilo qui considerato. Anche per comprovare la prefata ampiezza dell’argomento trattato. Appartengono ai riti personali, per limitarsi a quelli più noti e più suggestivi, i riti di passaggio all’età adulta; i riti goliardici della matricola e/o della laurea; le feste di addio al celibato e, da ultimo, pure al nubilato; il matrimonio. Lo stesso “darsi la mano” appartiene a questa categoria di riti. Siamo, infatti, in presenza di un autentico atto rituale, rimandando, lo stesso, ai tempi, in cui, per mostrare di non avere intenzioni ostili all’avvicinarsi dell’altro, era importante ostentare, senza equivoci, la mano disarmata.

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Ai riti collettivi – anche qui l’esemplificazione vuole essere soltanto meramente indicativa – appartengono, invece, tutte le manifestazioni di massa, carnevali compresi; i cortei di protesta; le sfilate militari; il c.d. “nonnismo” che sancisce una forte distinzione di rango tra i nuovi arrivati e gli anziani; i tagli di nastri; i vari delle navi; le inaugurazioni delle discoteche; i concerti rock ecc. A quest’ultima categoria di riti appartiene anche la fondazione delle città, ritualmente celebrata, tracciata con un solco quadrangolare dall’identico significato del cerchio magico impenetrabile alle forze del male. Il rito, tanto individuale, quanto collettivo, come dimostra anche

l’ultimo esempio ricordato, ha una propria intrinseca funzione protettiva. Fra gli esempi significativi più diffusi, praticati dall’antichità alla modernità, che comprovano ulteriormente quella finalità, sarà sufficiente ricordare gli scongiuri; l’uso degli amuleti; i riti apotropaici di protezione, quali, a esempio, gli occhi disegnati sulle prore delle navi greche per evitare il naufragio sugli scogli. I riti dal profilo oggettivo Un’ulteriore ricognizione del reale permette di raggruppare i riti per categorie, sulla base delle loro intenzioni e occasioni. Tradizionalmente, i riti si suddividono, così, in: riti propiziatori, che mirano ad attivare, 7


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sul singolo o sulla collettività, la benevolenza di una entità superiore. La casistica di questi riti è estremamente ampia e disparata. Forse, l’esempio più noto e significativo è costituito dalla danza della pioggia, praticata da diverse popolazioni originarie dell’Africa e dell’America. Questi riti, oltre alla funzione di coesione sociale, hanno la singolare peculiarità di ambire ad un’azione manifesta; riti espiatori e di purificazione, che mirano a eliminare una colpa individuale o collettiva. E qui il richiamo all’opera di Girard (vd. bibliografia) è obbligatorio; riti funerari, che comprendono qualsiasi comportamento prescritto nei confronti della morte e dei morti; riti agrari, per molti aspetti apparentati ai riti propiziatori, dovendosi qui ricordare che proprio questi riti hanno poi costituito il fondamento dei “misteri eleusini”; riti di passaggio o di iniziazione mediante un rituale di morte e rinascita. E, anche a questo proposito, inevitabile diventa il richiamo all’opera di Van Gennep (citata in bibliografia). L’articolazione di tutti questi riti si esprime poi in uno schema tipico frequentemente ternario: azioni negative, che si risolvono nella separazione del luogo, degli oggetti e degli stessi partecipanti al rito dal piano della realtà profana; azioni che attuano la parte essenziale del rito, realizzate mediante persone e oggetti sacri, operanti in uno spazio-tempo inviolato e inviolabile; azioni che mirano a sospendere l’intervento del sacro, promosso temporane8

amente dal sacro, in quanto pericoloso o comunque inconciliabile con la sfera della realtà profana, con conseguente possibilità di rientrare nella sfera profana. Il rito nel linguaggio moderno Il termine “rito”, nel linguaggio moderno, ha assunto due significati ulteriori. Uno di carattere religioso, l’altro di natura giuridica. Da questo secondo angolo prospettico, è possibile richiamare il rito processuale, inteso come un complesso di norme che, nel rispetto del contradditorio, vagliate le prove, che suffragano le rispettive tesi fra loro in contesa, permettono al Giudicante di esprimere la propria opinione, con forza di sentenza vincolante perché la giurisdizione – ossia lo juris dicere – è divenuta prerogativa esclusiva dello Stato moderno. È, tuttavia, nel lessico della storia delle religioni che la parola “rito” ha finito per assumere una valenza preponderante. Il rito è, infatti, presente nella totalità delle religioni organizzate, dove, peraltro, tende a sopravvivere immutato, nonostante le metamorfosi delle Società. Rigidità che, come attesta la storia delle religioni, determina poi reazioni polemiche, cicliche, alimentando l’accusa che la inalterabilità del rito ne degrada l’essenza, finendo per far prevalere la parola sullo spirito, mortificando, così, la vitalità dell’esperienza religiosa, ridotta, al postutto, a ripetizione, abitudine e mero formalismo. Tesi, peraltro, non condivisa e pure, con fermezza, contrastata dall’obiezione secondo la quale il rito, anche nell’eventuale perdita del suo significato originario, consen-

te pur sempre di aprirsi a una religiosità più pura. Rito e mistica La natura volutamente circoscritta di questo studio non consente di affrontare funditus il profilo qui in esame, che merita, tuttavia, quantomeno, un accenno, anche perché abitualmente negletto tra i cultori della materia. Dopo un attento studio del fenomeno è del tutto legittimo sostenere la sostanziale ostilità del mistico nei confronti del rito. Il fatto che i mistici più radicali tendano, di norma, a rifiutare il rapporto fra religione e potere e, dunque, l’elemento di conservazione della autorità depositaria e custode del rito; l’inconciliabilità del comportamento individuale con quello collettivo proprio del rito religioso, posto che l’esperienza mistica, per definizione, si presenta come una via diretta all’ineffabile, insuscettibile, pertanto, di essere circoscritta dalla parola, dal gesto, dal tempo e dallo spazio, dunque, dagli elementi propri del rito, costituiscono altrettanti motivi – principali, anche se non unici – della richiamata avversione. Sulla struttura del rito Il rito si articola in parole, gesti, comportamenti, che si attuano nello spazio e nel tempo, con un particolare abbigliamento. Le parole si presentano, per lo più, sotto la veste di formule prestabilite. I gesti, di norma, coincidono con segni particolari predeterminati. I comportamenti consistono, di regola, in movimenti specifici ugualmente in precedenza fissati.


Lo spazio, per definizione, è la sede rituale, quanto dire altrimenti, il luogo dove si svolge il rito, per definizione, interdetto ai profani. Il che concorre a rinforzare l’intensità del vissuto. Il tempo coincide con una precisa delimitazione ritagliata nel flusso ininterrotto dello scorrere cronologico perché, per ogni rito, esiste un tempo propizio e un tempo proibito. Quanto, infine, all’abbigliamento – si pensi all’abito bianco della sposa o alla toga nera del giudice – lo stesso costituisce un ulteriore elemento che potenzia la densità dell’esperienza, intensificandola. Il rito e la psicologia analitica. Rito e mito Il rito è stato analizzato attraverso varie chiavi di lettura. Concezioni religiose, sociologiche, linguistiche sono state affermate con uguale rigore ed esuberante dovizia di argomenti e di testimonianze. In questo complesso e variegato contesto non può, tuttavia, sottacersi la griglia di lettura propria della psicologia analitica che, mettendo in luce il carattere universale del rito, e nel tempo e nello spazio, ne ha desunto la sua natura archetipa, in quanto il rito è dell’uomo, ma prima dell’uomo. In qualità di archetipo, il rito è categoria che struttura la vita di chi lo compie in tutto il suo mondo, non solo, dunque, come individuo isolato, ma pure come membro di una comunità. Profilo – codesto – che ha pure permesso di sostenere, con indubbio fondamento, che il rito costituisce, perciò, una occasione di rigenerazione periodica delle forze del gruppo, oltre che di rafforzamento dei vincoli all’interno del gruppo stesso. In questo senso, il rito, mentre argina il disorientamento esistenziale dell’uomo alla perenne ricerca di un senso, mira, nel contempo, ad attuare una solidarietà fra tutte le componenti del gruppo. Tanto più forte e tanto più sentita quando il rito viene collegato al numinosum, ossia al sacro/divino, solido cemento della organizzazione sociale. Ne consegue, conclusivamente, che il rito, proprio in conseguenza della sua natura archetipale, non appartiene all’uomo, ma possiede l’uomo, nel senso che, dall’esterno, cala sull’esperienza umana, ineluttabilmente, la propria ombra, con l’effetto, ultimo e finale, dell’impossibilità per l’uo-

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mo di sottrarsi all’esperienza rituale. Il che riporta alla luce l’inscindibile rapporto fra rito e mito, con questa immediata differenza: il mito viene detto, il rito viene fatto. Anche quando fosse, in ipotesi, prevalente l’aspetto verbale, il rito rimane, infatti, pur sempre una esperienza pratica, che si realizza in un contegno concreto: tema che il mito narra, invece, sempre e soltanto con parole. Per concludere il profilo preso qui in considerazione. I contributi dati allo scavo del tema dalla psicologia del profondo sono stati, invero, decisivi per comprendere l’essenza del rito, che, nella sua dinamicità, ha, per certo, un suo ulteriore tratto caratteristico. Nell’incontro dell’individuo con aspetti più grandi e potenti della realtà, gli analisti hanno, infatti, colto un punto centrale del fenomeno “rito”. Particolarmente quando hanno sottolineato che il rito è esperienza attraverso la quale l’inconscio si rende accessibile al conscio, costituendo, nel contempo, proficua occasione di rigenerazione periodica delle forze sacrali individuali e del gruppo.

Il rito e la Libera Muratoria Sembra sommessamente a chi scrive che, nella Libera Muratoria, il rito presenti alcune caratteristiche, se non esclusivamente proprie, quanto meno peculiari, in quanto tali, per certo, meritevoli di essere sottolineate singulatim. Alla loro illustrazione sono dedicate le successive considerazioni, dovendosi anticipare che quelle qualità riconducono al concetto di rito come ordine; come potere fecondante con capacità trasformativa; come strumento di memoria. Il rito come ordine Nella Libera Muratoria, il rito ha una valenza totalmente centrale, nel senso che ne costituisce, in assoluto, il tratto più saliente e caratterizzante. Il rito – summa di simboli in movimento – è, infatti, l’elemento che assicura e garantisce la trasmissione dell’influenza spirituale, che rende ciascun partecipante allo stesso parte attiva, integrante e integrata, della Tradizione, fonte inesauribile di un messaggio di vitalità e potenza trascendente. Il che integra una fratellanza che, per ciascuno dei partecipanti al rito, diviene l’anello di una catena che lega i vivi ai morti in un destino comune, tanto più forte, perché libe9


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ramente prescelto. Ciò che chiarisce e, soprattutto, motiva l’importanza della “catena d’unione”, che, proprio per questo, è uno dei momenti più importanti della ritualità Libero Muratoria. Nel Sacro – e solo nel Sacro –, inteso come la manifestazione più alta della totalità, può poi – e deve – essere individuato il principio superiore spirituale, logico e razionale, che consente, tanto al singolo, quanto alla collettività, di vivere, con la morte, quella esperienza uroborica, che è perenne rinascita. Il Sacro si presenta, così, come un principio ordinante che realizza un Cosmo ordinato da un atto creatore primordiale, archetipo, che manifesta l’onnipotenza del Grande Architetto dell’Universo. Il rito, attraverso la sua regolarità ripetitiva, tende allora a dare ordine a ciò che ordine non è. Quanto dire, altrimenti, che segna il ritorno all’unità originaria, che mira a ristabilire in quanto violata dal vento impetuoso che affligge il profano. II rito, conclusivamente, è ciò che è confor-me all'ordine, offrendo, appunto, stabilità nei flutti dell’esistenza. Il che, come non è inutile ancora rimarcare, è del tutto conforme all’origine etimolo10

gica della parola, derivando il vocabolo dal sanscrito rta che significa, appunto, “ciò che è conforme all’ordine, alla retta natura”. Il rito come potere fecondante Il rito, attingendo al Sacro, collegando, comunque, al Sacro, ha una funzione fecondativa, in quanto dotato di un potere trasformativo, stante la sua capacità di impregnare quanti al rito partecipano. Il rito, con questa sua forza penetrativa, ha, così, la capacità di creare l’homo novus, in tutta la sua essenza, potendogli assicurare l’acquisizione di una dimensione coscienziale superiore che lo rende sempre più libero e indipendente, conferendogli una visione del reale sostitutiva dell’altra sua precedente, del tutto ridotta. Il rito, dunque, feconda e trasforma. Feconda, perché il Sacro è come la pioggia benefica che irrora il campo prosciugato dal sole del Solstizio d’Estate, sempre a bocca aperta, in attesa anche di una sola goccia di vita, o, per dirla altrimenti, – laddove si faccia discendere la parola rito dal radicale sanscrito ri- che significa scorrere, fluire –, come il decorso di un flusso energetico che, come un sistema di irrigazione, incanala energie superiori.

Trasforma, perché immuta, sia pure lentamente, quanto, però, inesorabilmente, come goccia che cade sulla pietra, però, con voce fioca, a tal segno da non essere neppure subito avvertita, anche se sarà poi scoperta nel tempo. Delle trasformazioni causate dalla forza ordinante del rito quella forse più significativa è poi quella che ci riporta al concetto originario di natura, con il senso dei suoi ritmi circolari sui quali, in un’epoca che confina gli occhi al marciapiede sul quale si cammina per recarsi al lavoro, con pena già dal primo passo preavvertita, modellare poi – finalmente – le stagioni della vita che sfugge di mano. Altrimenti, non si comprenderebbe la solennità con la quale, in Massoneria, si celebrano i due Solstizi e i due Equinozi. La funzione rammemorativa del rito Nel rito, oggetti, persone, gesti, vengono trasfigurati perché sottratti alla loro collocazione quotidiana. I luoghi e i tempi vengono parimenti rivestiti di una irripetibile solennità, accentuata da suoni, profumi e, in generale, da tutto ciò che serve a conferire loro un’aura di eccezionalità. Ciò che, tuttavia, colpisce, in principalità, è il carattere ripetitivo che connota il rito, nel senso che non v’è rito senza una sua reiterazione, senza una sua fedele conformità ad un pregresso, pre-esistente modello/paradigma che si dipana, si articola e si sviluppa attraverso scansioni e passaggi consecutivamente ordinati. La meticolosa osservanza del rito è poi una condicio sine qua non della sua efficacia, che, come si è già in precedenza rammemorato, si risolve in una pioggia del Sacro in quanti partecipano al rito. Il che permette di dedure che il rito non si inventa, né si improvvisa e che, proprio con la sua fedele esecuzione, si ottiene il suo rea-le e concreto beneficio. La costante ripetizione del rito mostra, così, la sua natura di essere (anche) strumento di memoria del valore ordinante e trasformativo del rito. Funzione fondamentale e insostituibile per fare perennemente rivivere l’essenza del rito, che è ordine, ma anche trasporto nel mondo dell’illud tempus, il tempo ciclico dell’eterno ritorno, nel quale l’Uomo era una creatura innocente e sapiente senza affanno né dolore, anziché, come oggi, un essere colpevole (quanto meno, di vive-


re) ragione ragionante, pensiero calcolante, sempre con travaglio e patimento. Strumento di memoria – si diceva – che, però, è sostanzialmente un ri-cordare, ossia, un riportare il rito nel cuore di ciascuno che, allo stesso, partecipa; al cuore, come ricettacolo del profondo, prima ancora che alla mente, che pure è locus, decisivo perché è pur sempre la mente che dà consapevolezza, indispensabile perché, solo così il rito è in grado di intensificare e potenziare il vissuto. Il che consente un’ultima nota conclusiva. Il rito, come si impone di ripetere sia pure ad abundantiam, con la rigida osservanza delle sue scansioni, ha la capacità di attuare l’immediata immedesimazione del singolo individuo al divino, metafora della totalità. Tanto è fecondo nella sua essenza, quanto più è sterile nella sua degenerazione in ritualismo formale. Il rituale, sebbene si articoli e si dipani in un insieme di formule e gesti, non potrà, pertanto, mai essere verbalizzato in termini distratti o superficiali. Pena una sterile ripetitività che scade nella vuota, noiosa, formalità, del tutto inidonea ad attivare una esperienza psicologica particolarmente intensa. Si vuol dire, in via auspicabilmente conclusiva e definitiva, che il rituale – lungi dall’essere letto o, addirittura, recitato! - deve essere, all’opposto, autenticamente vissuto. Altrimenti, perde valore, non solo il rituale, ma la Libera Muratoria stessa che, una volta priva della ritualità, verrebbe a ridursi in una assurdità o, peggio ancora, come ha scritto Irène Mainguy (a pag.54 dell’opera citata nella bibliografia), in una “autentica carnevalata”. ________________

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I. Mainguy, Simbolica massonica del terzo millennio, a cura di P.Lucarelli, Edizioni Mediterranee, Roma, 2004. J. Ries, I riti di iniziazione e il sacro in I riti di iniziazione a cura di J.Ries, trad.it., Jaca Book, Milano, 1979. R. Otto, Il Sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1966. M. Eliade, La nascita mistica. Riti e simboli di iniziazione, trad. it., Morcelliana, Brescia, 1988. J. Careneuve, La sociologia del rito, trad.it., Il Saggiatore, Milano, 1974. E. Neumann, Il significato psicologico del rito in E.Neumann, A. Portmann, G. Scholem, Il Rito, quaderni di Eranos. E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, trad.it., Astrolabio, Roma, 1978. Th. Reik, Il rito religioso, trad.it., Torino, Einaudi, 1949. R. Barthes, Il mito, oggi, trad.it., in Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1974.

R. Girard, Il capro espiatorio, trad.it. Adelphi, Milano, 1987. Bibliografia: G. Van Der Leeuw, Fenomenologia della religione, trad.it., Bollati Boringhieri, Torino, Con più è vasta e aggiornata, e con più certifica e 1992. attesta la serietà e l’accuratezza, con le quali l’A. A. Van Gennep, I riti di passaggio, trad.it., Boha affrontato l’argomento trattato. Quando, però, ringhieri, Torino, 1988, 3° ed. i contributi allo scavo del tema affrontato sono ol- M. Leenhardt, La religion des peuples artremodo numerosi e particolarmente qualificati, chaïques in l’Histoire général des religions, se non si vuole fare sfoggio di una cultura spesso Quillet, Paris, 1948. meramente tralaticia, è doveroso limitarsi alla indicazione delle letture propedeutiche alla scrittura M. Segalen, Riti e rituali contemporanei, Bolodel saggio, operando richiami, comunque, utili, se gna, Il Mulino, 2002. non addirittura obbligati, in favore di chi, in ipote- C. G. Jung, La vita simbolica in Opere, vol. XV, si, fosse mai intenzionato ad approfondire l’argo- trad.it. Bollati Boringhieri, Torino, 1997, pagg. 192-193, opera nella quale si legge questa simento. Ciò premesso, si rimanda a:

gnificativa affermazione: “non si dovrebbe modificare in alcun modo un rituale, che deve essere compiuto secondo la tradizione e perché, se si altera anche solo un piccolo particolare, si compie un errore.” Molto utile si rivela, altresì, la lettura di: C. G. Jung, Gli architepi dell’inconscio collettivo, in Opere, vol.IX/I, Torino, Boringhieri, 1998, 3° ed. E, dello stesso celebre autore, Psicologia e religione, in Opere, vol. XI, Torino, Boringhieri 1979. Spunti molto interessanti sulla tematica trattata, altresì, nel classico R. Guenon, Sui riti iniziatici, in Considerazioni sull’iniziazione, Trento, Luni, 1995. In ordine al tema affrontato, nella pregevole opera di M. L. Bianca, Le colonne del Tempio. Principi e dottrina della Massoneria, Roma, Atanor, 2014, si possono leggere, con profitto, le pagg. 237-240. Condivisibile è poi l’assunto del Bianca, quando scrive che il rito massonico è un “processo teleologico perché si propone di raggiungere un obbiettivo” (op. cit. pag. 238), che coincide, appunto, con l’attingere al Sacro per poi far discendere dal Sacro il già ripetutamente indicato beneficio individuale e collettivo, in primis, il sentimento della fratellanza, che, come nota correttamente Bianca, è sentimento ben diverso “dall’amicizia” (op. cit. pag. 239). La fratellanza, come sempre puntualmente osserva il Bianca, a differenza dell’amicizia, si fonda, infatti, “su di una condivisione esoterica” (ivi). Condividiamo, infine, in toto il pensiero di questo acuto studioso quando scrive: “La ritualità può perdere significato se si oscura questo sentimento profondo [la fratellanza] che deve legare i fratelli nel tempio e nel mondo profano”, (op. cit. pagg. 239-240). P.6-11: Vari dettagli di abbigliamento massonico.

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N Storia

Premessa allo studio della Massoneria Italiana 12

el 90° del forzato autoscioglimento delle Comunità massoniche in Italia (novembre 1925), di cui “Officinae” si è occupata e tornerà a occuparsi, si avverte la necessità di ampliare l’orizzonte storico entro il quale collocarlo. Alcuni interrogativi, tuttora in attesa di risposta documentata, riguardano propriamente l’Ordine liberomuratòrio. In particolare, quale fu la condotta delle Istituzioni, dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra all’Associazione Massonica Internazionale (AMI), che faceva capo al Grande Oriente e alla Gran Loggia di Francia? E quale linea seguirono il Convento dei Supremi Consigli del Rito scozzese antico e accettato e i Consigli Supremi dei diversi Paesi dinnanzi alla legislazione liberticida sin dal 1924 avviata dal governo presieduto da Benito Mussolini? Proprio per non attizzare l’accusa di essere strumento di ingerenze straniere in Italia, i vertici delle Comunità massoniche sotto assedio non sollecitarono ufficialmente interventi da Oltralpe, ma per compierne chi vedeva e sapeva ne aveva davvero bisogno o agì per calcoli di altra natura? La controprova, allarmante, venne data nel 1938, quando i Rotary Club del regno d’Italia furono costretti a dissolversi nel silenzio di quelli esteri. La “catena d’unione” massonica aveva mostrato la sua debolezza tra il Congresso di Parigi delle massonerie dei Paesi dell’Intesa e neutrali (non tutti, invero), nel giugno 1917, e i trattati di pace (1919-1920). La stessa costituzione della Società delle Nazioni attuò solo in minima parte gli ideali dell’Ordine, che pur vantò di esserne l’origine. Le conseguenze si scontarono quindici anni dopo, con l’impotenza delle democrazie dinnanzi all’ascesa di Hitler e nell’anno dalla Conferenza di Monaco al Patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov tra la Germania e l’Unione sovietica (settembre 1938–agosto 1939). Lasciando per ora da canto tali quesiti, che Officinae approfondirà, una constatazione s’impone. Nel 1918 la Serenissima Gran Loggia d’Italia e il Grande Oriente non solo erano in piena espansione, ma furono destinatari di messaggi ufficiali di gratitudine da parte delle Istituzioni, a cominciare dal re, Vittorio Emanuele III, “organo supremo dello


Stato”, e dal governo, presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, per l’impegno profuso dai massoni nella Guerra nazionale. Appena sei anni dopo, nel 19241925, avvenne la catastrofe: in tempi così ravvicinati da suscitare una riflessione più attenta di quella sinora riservatale. I dati sulle iniziazioni ora disponibili mostrano che ancora nel 1922-23 le Obbedienze non erano affatto in declino. Il loro crollo, sopravvenuto dunque repentino, è stato studiato con prevalente riferimento al quadro politico-partitico, come capitolo secondario dell’avvento del regime di partito unico. Esso è stato molto meno approfondito, al di là dell’impiego della forza contro i massoni e dell’assalto squadrista alle logge, quale punto di arrivo della demonizzazione culturale e politica da molti anni scatenata da socialisti, clericali, nazionalisti e frange di sedicenti democratici, ai quali nel dopoguerra si aggiunsero la Terza Internazionale di Mosca, alcune correnti del “fascismo” (che dall’inizio alla fine fu un caleidoscopio di tendenze molto diverse e anche divaricate) e, infine, il groviglio di fanatismi che si condensò nella divulgazione dei Protocolli dei Savi anziani di Sion (ed. La Vita Italiana, 1921). Recentemente Luigi Pruneti in L’Eredità di Torquemada (Ed. Bonanno) ne ha tracciato un profilo documentato, frutto di decenni di ricerche. Il blocco nazional-fascista, va però osservato ulteriormente, prevalse perché lo “Stato” (la monarchia e le forze partitiche, economiche e culturali che vi si riconoscevano) decise che il Partito nazionale fascista gli assicurava gli stessi vantaggi precedentemente offerti dalla Massoneria, senza le remore dell’Ordine liberomuratorio sul nesso tra il patriottismo e le radici nazionali del Risorgimento, a suo tempo rivendicato da Adriano Lemmi e da Francesco Crispi, come documentato da Mola nei volumi su Lemmi (ed. Erasmo, 1985) e su Giosue Carducci (Bompiani, 2006). Sulla scorta di documenti inediti, il presente saggio indaga le radici profonde e remote della divaricazione tra lo Stato e le Comunità massoniche, in specie il Grande Oriente d’Italia, sin dalla sua costituzione a fine dicembre del 1861, dopo la proclamazione del regno e, più accen-

tuatamente, durante la Gran Maestranza di Ernesto Nathan (1896-1903) e, ancor più, di Ettore Ferrari (1904-1917). Mola non sottovaluta certo le difficoltà affrontate dalla Massoneria per radicarsi in un Paese dominato dal clericalismo integralistico di Pio IX (1846-1878), del Syllabus (1864), del Concilio ecumenico vaticano I (1869-1870), del “né eletti, né elettori” ribadito da Leone XIII (18781903). Va però al centro della questione domandandosi se il Grande Oriente abbia percorso la via più appropriata mantenendo riserve e distanze nei confronti delle Istituzioni, a cominciare dalla Corona. A differenza di quanto avvenne in Gran Bretagna, Germania, Olanda, Belgio, nei Paesi Baltici e nella Francia stessa, ove la Massoneria passò da napoleonica a orléanista, da repubblicana a bonapartista (con Napoleone III, quando accettò i Gran Maestri nominati dall’imperatore, a repubblicana), a parte il decennio del triangolo Lemmi-Crispi-Carducci quando volle e seppe essere “partito dello Stato”, in Italia la Massoneria aspirò a essere antesignana a e guida della Rivoluzione (mazziniani, radicali, protosocialisti e garibaldini dimentichi che dal 1857 alla morte il Generale rimase indefettibilmente fedele alla formula “Italia e Vittorio Emanuele”. Dalla ricerca qui condotta dal Mola si evince che il Grande Oriente rimase escluso dalle manifestazioni solenni. Due per tutte: i funerali di Stato di Umberto I e la celebrazione del Cinquantenario del regno all’Altare della Patria. Il discorso di Ernesto Nathan da sindaco di Roma per il XX Settembre 1910 accentuò il vulnus e accelerò l’isolamento politico-culturale del Grande Oriente scandito dall’offensiva dei nazionalisti (1910-12), dal modesto risultato nelle prime elezioni a suffragio universale maschile (1913), le cui prevedibili ripercussioni furono del tutto incomprese da parte di una organizzazione che contava circa 20.000 militanti attivi e quotizzanti concentrati in poche aree urbane e pressoché assente in intere regioni, l’espulsione dal Partito socialista italiano (aprile 1914). L’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo (28 giugno 1914)

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Ettore Ferrari

e la conflagrazione europea (luglio-agosto seguenti) offrirono al Grande Oriente l’occasione insperata di proporsi avanguardia dell’intimazione alla Corona: intervento o rivoluzione. La monarchia, infine, raccolse il guanto; ma chi si rafforzò davvero in 4 mesi di guerra? Mola ne parlerà il 9-12 settembre 2015 a Gijon (Oviedo) nell’ambito del Symposium del CEHME (Centro di studi sulla storia della Massoneria in Spagna). Qui si arresta al luglio 1914. Il saggio, che Officinae scandisce in più sezioni, è nato come relazione al LXVI Congresso dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano (Roma, Vittoriano, 23-25 ottobre 2913), i cui Atti saranno distribuiti al prossimo Congresso (Milano, ottobre). Presidente dell’Istituto, va sottolineato, è il prof. Romano Ugolini, docente emerito di Storia del Risorgimento, autore di opere magistrali su Garibaldi, Mazzini, lo Stato pontificio nell’età di Gregorio XVI e sull’amministrazione Capitolina ai tempi di Ernesto Nathan, la cui biografia politica pubblicò (Ernesto Nathan tra idealità e pragmatismo, Roma, Ed. dell’Ateneo, 2003), un saggio che ha aperto la via a molti studiosi, tra i quali Biagio Furiozzi (Massoneria e politica, Perugia, Morlacchi, 2012). Ora il Mola prosegue il cammino, evidenziando anche la distanza tra quella Massoneria e il mondo perlustrato da Pruneti in Gli iniziati (Milano, Mondadori, 2014). 13


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I parte

La Massoneria italiana tra iniziativa politica e conflitti interni Aldo A. Mola 14


P

remessa: tra questione nazionale e questione istituzionale. In Italia la massoneria rinacque con le assemblee di logge organizzate a Torino e a Firenze tra il dicembre 1861 e il maggio 1864, dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Sorse con la fusione di nuclei politico-culturali e corpi rituali dalla genesi e dalle prospettive molto diverse, talvolta divaricate. Quasi tutte le sue componenti anteposero la questione nazionale italiana ai principi originari dell’Ordine (denominazione usata dai Massoni per autodefinirsi), contenuti nella Costituzione detta di Anderson (Londra, 1723). Dalla rinascita la Massoneria italiana intrecciò le sue vicende con quelle dello Stato e dei governi che via via lo ressero. Dopo una lunga stagione di assestamento e consolidamento, non priva di traumi (le Gran Maestranze di Giuseppe Garibaldi, Francesco De Luca, Filippo Cordova, Ludovico Frapolli e Giuseppe Mazzoni, tra il 1864 e il 1880), con Giuseppe Petroni (18801885) il Grande Oriente d’Italia (GOdI)1 dal 1862 nome distintivo della maggiore organizzazione liberomuratòria italiana, riecheggiante quello del regno d’Italia, 1805-1814) conseguì stabilità e prestigio, soprattutto grazie all’opera di Adriano Lemmi (Gran Tesoriere dal 1877, Gran Maestro Aggiunto dal 1882 ed effettivo dal 1885 al 1896). Il ventennio seguente comprese due periodi ampi (18961906; 1906-1914), ciascuno ripartito in brevi segmenti, segnati da conflitti interni e da profondi contrasti tra l’Ordine e la vita pubblica e partitica: un percorso accidentato che vide la Massoneria (segnatamente il GOdI; dal 1908 anche la Gran Loggia d’Italia, GLdI) ora in posizione apparentemente egemonica ora ai margini, o quasi, della vita politica e culturale. La Massoneria rivendicò il ruolo di promotrice, e persino di matrice, della Nuova Italia, senza però accettare alcuna interferenza dei pubblici poteri al proprio interno: preclusione destinata a porla in conflitto con lo Stato. Anche con i Gran Maestri Lemmi, Ernesto Nathan (1896-1904) ed Ettore Ferrari (1904-1917) le aperture verso il “mondo profano” furono sempre accompagnate dalla rivendicazione del diritto al rigoroso segreto sui nomi degli appartenenti e sulla vita interna. Perciò nei settant’anni dalla sua

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Adriano Lemmi

riorganizzazione al dopoguerra, quando parve attingere il massimo consenso nell’opinione pubblica, essa fu conosciuta, ma non fu mai riconosciuta e infine, nel 1925-26, venne costretta a sciogliersi. Anche quando nel trentennio dal marzo 1876 al febbraio 1906 vi furono presidenti del Consiglio (Agostino Depretis, Francesco Crispi, Giuseppe Zanardelli e Alessandro Fortis), ministri di spicco e uomini di Stato (militari, magistrati scienziati, artisti, scrittori...) sicuramente affiliati all’Ordine, la Massoneria italiana non affrontò i due nodi fondamentali che dalle origini aveva dinnanzi e che avrebbe dovuto risolvere se davvero avesse voluto assumere il ruolo di “partito dello Stato” in

un Paese che non aveva partiti e nel cui ambito la classe politica nazionale ancora era e a lungo sarebbe stata in formazione. In primo luogo risultò vago e discontinuo il suo rapporto con le organizzazioni massoniche degli altri Paesi (non ottenne lo scambio di garanti d’amicizia con la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, depositaria del riconoscimento della legittimità, della regolarità e della sovranità delle altre Obbedienze nell’ambito dei paesi di insediamento, ed ebbe rapporti saltuari con il Grande Oriente di Francia e con le Grandi Logge di Germania e dell’Europa settentrionale). Giunta a conferirsi assetto unitario mentre il Regno d’Italia veniva lentamente accettato dalla Comu15


Giuseppe Mazzoni

Storia

Giuseppe Garibaldi

nità degli Stati (1861-1867), la Massoneria italiana rimase eminentemente nazionale nell’ambito di una “internazionale”, nel cui ambito faticò a farsi conoscere e accettare. Inoltre essa si identificò sempre più con le vicende politico-partitiche e socioeconomiche propriamente italiane, anziché con quelle “universali”. In secondo luogo, a differenza di quanto valeva per gli Stati nei quali la Massoneria era istituzione libera, prestigiosa e apprezzata, in Italia l’Ordine non si dichiarò mai esplicitamente leale nei confronti della forma dello Stato, nel caso specifico nei riguardi della monarchia, della Casa di Savoia, che tuttavia (secondo il giudizio quasi unanime della storiografia) era stata l’artefice dell’unificazione nazionale, sia pure nelle dimensioni raggiunte nel 1870 con l’annessione di Roma, ma sen16

za Trento e Trieste. Mentre in Gran Bretagna, Stati Uniti d’America, Francia (ove accettò tutti i possibili compromessi per ritrovarsi costantemente a fianco dello Stato, da Luigi XV a Napoleone I, da Luigi Filippo d’Orléans a Napoleone III e alla Terza Repubblica), Germania, Paesi baltici, Romania, Bulgaria,... la Massoneria fu tutt’uno con le istituzioni supreme, in Italia (con l’eccezione di Garibaldi, sempre fedele al motto “Italia e Vittorio Emanuele”, esteso anche a beneficio del successore, Umberto I) essa mantenne sempre una riserva nei confronti della Corona e tese invece la mano alla “rivoluzione”, a tutto vantaggio di chi ritenne che pertanto l’ordine (non quello massonico ma dello Stato, foriero di benessere economico e di progresso civile) richiedeva pertanto il concorso dei cattoli-

ci (e non solo quello tacito, mai mancato, ma anche in termini di voto politico). La contraddizione interna e internazionale della Massoneria italiana divenne palese nel ventennio dalle dimissioni di Lemmi da Gran Maestro (ottobre 1895) all’assunzione dell’avanguardia dell’interventismo nella Grande Guerra da parte del Grande Oriente d’Italia (31 luglio 1914). La riluttanza del GOdI ad accettare esplicitamente l’ordinamento statutario contenne l’inconfessato patrocinio del futuro cambio istituzionale, sia pure in tempi indeterminati. Però la sostituzione della monarchia (da tanti e autorevoli massoni considerata regime provvisorio) con la repubblica si sarebbe potuta verificare solo per effetto di una sconfitta in guerra o per una lacerante rivoluzione interna: due ipotesi parimenti inquietanti per la maggior parte di quanti erano pensosi delle sorti di un Paese giunto tardi e male all’unificazione. Questi pertanto stentarono a riconoscere alla Massoneria il ruolo, al quale nelle sue stagioni migliori essa ambì, di “partito dello Stato”. Ebbero anzi motivo di vedervi la quinta colonna di un disegno occulto, potenzialmente esiziale per l’Italia, che non aveva per fulcro la monarchia statutaria. I - Da Lemmi a Nathan (1895-1903) 1 - Le ripercussioni del regicidio di Umberto I L’alba del Novecento fu segnata da due eventi di grande rilievo per la Massoneria italiana: uno, interno, parve suggellarne il


Storia

successo pubblico; il secondo, esterno, ne mise in evidenza i limiti ed ebbe ripercussioni negative. Nel 1899-1900 il Grande Oriente d’Italia si trasferì dal già prestigioso Palazzo Borghese a Palazzo Giustiniani (affittato per nove anni dal dicembre 1898 e successivamente acquistato), affacciato su via della Dogana Vecchia, alle spalle di Palazzo Madama, sede del Senato: uno dei luoghi eminenti della Capitale. Per la sua solenne inaugurazione il Gran Maestro dell’Ordine, Ernesto Nathan, pronunciò il discorso La Massoneria. Sua azione. Suoi fini (21 aprile 1901): ampio affresco storico-programmatico diffuso anche all’esterno della Comunità, proprio per evidenziare l’interessenza con la vita del paese dell’Ordine dei Liberi Muratori, i cui affiliati appartenevano “alla classe degli Ordini cavallereschi” (art. 1 della Costituzione del GOdI), così descritti dagli articoli 14 e 15: “Buon padre, buon figlio, buon fratello, buon marito, buon cittadino”. Dai suoi avversari l’insediamento del GOdI nel cuore di Roma, a due passi dalla presidenza del Consiglio (Palazzo Braschi) e della Camera dei deputati, fu invece inteso quale ulteriore avvicinamento alla conquista dello Stato da parte del Serpente Verde, che dal canto proprio non aveva motivo di smentire o ridimensionare le leggende sulla sua onnipotenza. Il regicidio del 29 luglio 1900, invece, anche per la Massoneria costituì una grave sciagura. Infatti esso impose la verifica all’interno e verso l’esterno del grado effettivo di legame tra l’Ordine e la monarchia, tra la Fami-

glia liberomuratòria e lo Stato, tra l’istituzione che si proclamava parte di una comunità internazionale e il Regno d’Italia. Il 7 marzo 1878, nel suo primo discorso della Corona, Umberto I aveva dichiarato che “l’unità italiana e(ra) rinsaldata su basi incrollabili” e lo aveva mostrato assicurando la piena libertà del Conclave2. Le Logge ne dedussero non solo che per il Re Roma era “conquista intangibile”, ma che il suo possesso costituiva pegno di fronte comune contro il Vaticano. Il sovrano, invero, non affermò nulla di più rispetto a quanto era accettato dal concerto delle grandi potenze: la sovranità dell’Italia su Roma e sul Lazio. Non mise affatto in discussione la legge delle guarentigie, che riconosceva l’extraterritorialità dei “luoghi pontifici”, non Stato in sé, ma inviolabili. Né quello né i successivi discorsi di Umberto I comportarono alcun conflitto ulteriore con il Vicario di Cristo né, meno ancora, con la Chiesa, con il cristianesimo, con la religione. La Casa di Savoia e la monarchia italiana, per sé stessi, non ne avevano affatto. Anzi, quando opportuno, la dinastia enumerava le sue benemerenze verso la Chiesa e vantava persino un pontefice, Felice V “il Pacifico”. L’articolo 1 dello statuto affermava che la cattolica era la sola religione dello Stato, anche se erano liberi i culti ammessi. Serpeggiava tuttavia l’interrogativo se i sovrani fossero massoni, come quelli dei Paesi prevalentemente di confessione riformata ed evangelica e dell’anglicana Gran Bretagna, culla della Massoneria. Il regicidio di Monza spazzò l’ambiguità: Umberto I

non era affatto Massone. Con stupore di chi sospettava o asseriva legami segreti tra il sovrano e le Logge, ai solenni funerali del re, cerimonia di alto valore simbolico, il Grande Oriente d’Italia non intervenne. Si limitò a illuminare le finestre di Palazzo Giustiniani. La forzata assenza costituì sgradevole ammissione di separatezza tra la Massoneria e lo Stato e, conseguentemente, di debolezza da parte di chi si proponeva quale corpo fondatore del Regno e garante della sua stabilità. Perciò quella lontananza venne lasciata in ombra anche nella rivista ufficiosa dell’Ordine: una lettura opaca, comoda anche per chi, sull’opposto versante, insinuava che la sua connivenza con la Casa regnante fosse stata esibita con l’esposizione del labaro abbrunato dei “Maestri segreti della Valle dell’Arno”, quasi messaggio criptico. Mentre verso l’opinione pubblica nazionale l’interrogativo rimase senza risposta, il Gran Maestro Aggiunto del Grande Oriente d’Italia, Antonio Cefaly, senatore del Regno, informò riservatamente le Obbedienze affratellate che il re non era affiliato3. L’estraneità di Umberto I risulta inconfutabilmente confermata dalla lettera del 3 agosto 1900 inviata a Ettore Ferrari, membro della giunta esecutiva della Comunione, dal segretario del Gran Maestro, Ulisse Bacci, direttore e proprietario della Rivista della Massoneria Italiana (dal 1905 al 1926 Rivista massonica), notiziario ufficioso dell’Ordine: Caro Ferrari, vedo dai giornali che i Funerali del Re sono 17


Storia

Gaetano Bresci

il Re Umberto I

imminenti. Probabilmente avverranno lunedì o martedì. Il Gran Maestro (Ernesto Nathan, NdA) ha scritto che se le Loggie vogliono, possono partecipare alle esequie e che, se ad esse è concesso posto onorato, egli non ha difficoltà che la Bandiera del Grande Oriente partecipi e vada, come tributo al Capo dello Stato e come protesta contro lo stolto delitto. A questo proposito egli vuole naturalmente che sieno interrogati i membri della Giunta presenti a Roma. Quindi, parmi indispensabile convocare la Giunta per domani alle 3 ½. (...)4. Se ne evince che Bacci non aveva informazioni dirette dalla Corte e non era in 18

grado di procurarsene tramite confratelli. Le apprendeva dai quotidiani, come tanti cittadini. A conferma della sua distanza dalla Corona, alla vigilia dei funerali del re il Grande Oriente non sapeva se vi avrebbe avuto uno spazio dignitoso. Non solo. Nathan concedeva la partecipazione della bandiera quale omaggio non al re ma al capo dello Stato, non per il regicidio in sé ma per la stoltezza del “delitto”, che – egli aveva certo intuito – avrebbe chiamato il Paese a far quadrato attorno alla monarchia. Se anche avesse desiderato di parteciparvi, il Grande Oriente venne infine escluso dal corteggio fu-

nebre. Cerimonia rigorosamente militare e civile, esso contemplò la partecipazione delle istituzioni pubbliche (province, comuni, accademie, ecc.), non quella di “private” né, meno ancora, di associazioni “non riconosciute”, quale appunto era e rimase il GOdI. Il dibattito in Giunta e nelle file dell’Ordine fu lungo e più teso di quanto ne trasparì all’esterno. Il 12 agosto Bacci avvertì Ferrari: Anche per parlare della Corona (da inviare quale partecipazione al lutto NdA) alla quale ti accennai, secondo il desiderio del P..(otentissimo) G..(ran) M..(aestro), credo indispensabile convocare la Giunta per giovedì. Dimmi dunque se quel giorno sarai a Roma (AP) Al di là delle leggende di diverso segno, l’assenza ai funerali di Umberto I costituì dunque uno scacco, che non sfuggì agli osservatori perspicaci. Il regicidio ebbe altre conseguenze sulla Massoneria italiana, alcune dirette altre indirette, tutte importanti. In primo luogo esso impose la netta demarcazione tra i costituzionali e quanti continuavano a comprendere nel proprio ambito frange anti-istituzionali. Mentre nel maggio-giugno del 1898 la pesante repressione manu militari del dissenso aveva conferito dignità morale anche all’opposizione anti-statutaria (socialisti, repubblicani, radicali e clericali), l’assassinio del re capovolse le priorità. La Massoneria dovette mostrarsi lealista, anche se non tutti i suoi componenti né tutte le Logge lo erano né ebbero tempo e voglia di divenirlo davvero. La vasta e articolata area dei “costituzionali” esau-


rì quasi completamente le originarie differenziazioni tra liberali (dalle variegate matrici) e democratici e costrinse i radicali a prendere più nettamente le distanze dall’Estrema. Il regicidio accelerò il processo di riorganizzazione della Sinistra costituzionale, avviata dall’estate 1899, in risposta sia alla deriva antiparlamentare del governo Pelloux, sia all’ostruzionismo praticato in Aula dall’Estrema destra, sia, infine, alle tentazioni prospettate dalla Destra costituzionale ispirata dal Torniamo allo Statuto e dal Quid agendum? di Sidney Sonnino. Proprio per scongiurare qualsiasi ipotesi di “colpo di stato della borghesia”, pur nella varietà delle loro ascrizioni e tendenze, i Massoni attivi (come Giuseppe Zanardelli) o in sonno concorsero a decantare le posizioni estreme e a delineare l’alternativa liberaldemocratica tanto ai progetti involutivi quanto a quelli eversivi, infine prevalente, come bene si vide con l’esito delle elezioni del 1900, le dimissioni di Pelloux e l’insediamento del governo guidato dall’ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato, forte di un programma di riforme pacificatrici su sistema pensionistico (già approntato dal governo Pelloux), diritti dei lavoratori, tutela degli emigranti. Neppure in quel delicato passaggio, però, il GOdI chiarì la sua posizione verso la monarchia costituzionale. Nel già ricordato discorso del 21 aprile 1901 Nathan si diffuse sul programma sociale ed economico dell’Ordine, proponendo la “cooperazione, la unione di capitale e lavoro” per superare il “fatale contrasto fra le classi, fra i fattori della produzione”, ma non fece alcun cenno né al sovrano assassinato né al suo successore né al programma del governo in carica, presieduto dal “fratello” Zanardelli, con Giolitti all’Interno e molti massoni alla guida di ministeri strategici. La ripercussione più rilevante del regicidio riguardò il nuovo atteggiamento dei cattolici, che lo addebitarono a chi per troppo tempo aveva praticato il doppio binario: un piede nelle (o almeno accanto alle) istituzioni, uno nella rivoluzione, costantemente evocata non solo nelle balaustre e nelle circolari dei Gran Maestri ma anche nella rivista dell’Ordine. La massoneria fu messa sotto accusa. Tale linea venne esposta da Ermanno Gruber S. J. (i.e. Ildebrando Gerber) in Giuseppe Mazzini. Massoneria e

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il Re Umberto I

rivoluzione5, che riprese il magistero di papa Leone XIII (segnatamente l’enciclica Humanum genus del 1884) e ne spiegò la condotta con le parole stesse di Adriano Lemmi, Ernesto Nathan e di Ulisse Bacci, che dalla copiosa documentazione inedita risulta stretto collaboratore, interprete e talvolta persino suggeritore e quasi sostituto anziché mero segretario dei Gran Maestri. Di Lemmi Gruber ricordò la massima: “è necessario che gli uomini messi al governo degli Stati o sieno nostri fratelli o perdano il potere”, un precetto che alla luce del regicidio aveva un suono molto diverso rispetto a quando era stata formulata. Negli anni del Gran magistero Adriano Lemmi aveva predicato la rivoluzione quale essenza della Massoneria e aveva indicato nella debellatio di Pio IX la data veramente epocale nella storia dell’umanità, molto più del 1789. Se la rivoluzione francese era stata politica e giu-

ridica, quella italiana era etica. La prima aveva riguardato gli uomini e i cittadini, la seconda lo Spirito. Il Gran Maestro parlava la lingua di Giuseppe Mazzini. Cinque anni dopo le forzate dimissioni, il 5 maggio 1900, nel messaggio per l’accensione della loggia “Giuseppe Mazzini” in San Remo Lemmi unì la memoria della spedizione dei Mille da Quarto di Genova e l’Apostolo e si dichiarò “mazziniano convinto e devoto”. Se, a differenza dei Grandi Orienti del Belgio e di Francia, la Massoneria italiana aveva conservato l’intestazione iniziatica dei suoi atti “alla gloria del grande architetto dell’universo” (che Garibaldi scriveva di suo pugno nella corrispondenza di contenuto massonico), secondo Gruber per i “fratelli d’Italia” la formula era ormai una espressione “artistica”, meramente “grafica”, priva di contenuto sia pur vagamente religioso. Del resto proprio Lemmi il 18 ot19


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Giuseppe Zanardelli

tobre 1894 aveva solennemente affermato che le Logge erano precluse a quanti assumessero o consentissero fossero assunti dai figli e dai parenti di grado più stretto “vincoli solenni” con la religione cattolica, considerati incompatibili con il giuramento da pronunciare all’iniziazione massonica, anche perché “le tradizioni dell’Ordine – come ripetutamente detto e scritto - stanno tutte qui: combattere il Vaticano”, “l’odio è santo verso il clericalismo6 ”. La Massoneria doveva condurre una lotta senza quartiere non solo contro le interferenze del papato nella vita pubblica del Paese, ma contro la sua essenza, la chiesa cattolica: programma già indicato nel 20

congresso massonico milanese del 1882, “uno dei più importanti che siano stati tenuti dalla Massoneria italiana”, a giudizio di Gruber. Echeggiando voci ricorrenti tra le colonne dei templi massonici, Andrea Ceccherelli della “Alberico Gentile” di Parma nel 1892 ricordò l’obiettivo dell’Ordine: “cremare il papato”, bollato quale “Giuda moderno”, un proposito che forse sarebbe rimasto espressione di umori isolati, se non fosse stato pubblicato con rilievo dalla Rivista dell’Ordine (24 marzo). Il regicidio pose anche la Casa di Savoia (la dinastia, la monarchia, il Re) dinnanzi a scelte ineludibili. La massoneria aveva propugnato e chiedeva la piena secolarizzazione della vita pubblica, con

esclusione totale e definitiva della presenza di riti ecclesiastici e di sacerdoti dalle cerimonie pubbliche (inclusa la vita scolastica di ogni ordine e grado), la sostituzione degli eserciti permanenti (antico pilastro della monarchia) con la nazione armata e l’abolizione della legge delle guarentigie. La monarchia, invece, a prescindere dalle opinioni personali dei sovrani, era e rimaneva consustanziale all’art.1 dello Statuto e quindi prevedeva la celebrazione di funzioni religiose in tutte le cerimonie di Stato e nella vita di Corte e della Casa. 2 -Le forzate dimissioni di Adriano Lemmi e la prima Gran Maestranza di Ernesto Nathan Dopo l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891)7 e la fondazione del Partito dei Lavoratori italiani (1892), nel volgere di pochi anni l’anticlericalismo cessò di essere l’unico o il principale comune denominatore delle logge. Esso venne sopravanzato dalla “questione sociale”, alla quale il Grande Oriente dedicò documenti, inchieste e l’impegnativo congresso di Milano del settembre 1894. Dopo la rivolta dei “fasci” siciliani, la loro repressione, i moti di Lunigiana, lo scioglimento da parte del governo presieduto dal Massone Francesco Crispi di centinaia di associazioni e circoli di opposizione e la conseguente mobilitazione di molte officine massoniche su un terreno sempre più lontano dai suoi principi costitutivi, il governo dell’Ordine tentò di risolvere o almeno di esorcizzare le tensioni che ne derivavano all’interno delle logge, fonte di lacerazioni non componibili, come si vide nell’ultimo quinquennio dell’Ottocento. Nel 1890 Lemmi fu bersaglio di una prima bordata di accuse di implicazione in poco limpidi affari finanziari, connessi con la lucrosa vendita dei tabacchi. Le tempestose dimissioni di Crispi dalla presidenza del Consiglio per la taccia di bigamia resero però meno necessaria la continuazione dell’offensiva contro il Gran Maestro accreditato quale suo principale tramite con la sinistra di ascendenza garibaldina e mazziniana e quella protocialista del massone Andrea Costa, dall’ottobre 1882 deputato del partito socialista rivoluzionario di Romagna, proposto per l’iniziazione nella loggia “Rienzi” di Roma il 2 luglio 1883, approvato con procedura d’urgenza su pro-


Storia

Zanardelli nel viaggio in Basilicata del 1902

posta di Ettore Socci il 2 luglio 1883 e accolto il 25 settembre “con belle e convenienti parole” del Venerabile Temistocle Zona, come documentato da Furio Bacchini8: premessa del dialogo già in atto tra Grande Oriente e i socialisti che avevano deciso di accettare il confronto all’interno delle istituzioni. Ma dal 1893-94 la repressione dei “fasci” e lo scioglimento di centinaia di associazioni e circoli da parte del nuovo governo Crispi e la sua politica coloniale, in netto contrasto con la linea del Partito socialista (“né un uomo, né un soldo”) e della sinistra democratica dettero ala a una seconda e irriducibile campagna d’opinione contro Lemmi. Sorta dall’interno dei radicali e guidata da Matteo Renato Imbriani Poerio e da Felice Cavallotti, l’offensiva contro il presidente del Consiglio prese di mira il Gran Maestro, più vulnerabile. Per conseguire lo scopo con rapidità e con esito definitivo, essa non rimase circoscritta al terreno propriamente politico. Puntò ad annientarne l’onore e la credibilità. Secondo le voci messe

in circolo, il Gran Maestro che nel 1893 aveva indicato al presidente del Consiglio Giovanni Giolitti le misure opportune per superare la crisi economica senza ledere le libertà, che suggeriva a Crispi le linee del governo, che aveva percorso l’Italia da un capo all’altro esponendo il programma della Massoneria italiana quale manifesto del patto tra tutte le correnti liberali (radicali e socialisti “umanitari” inclusi) e che, soprattutto, si atteggiava a campione di moralità civile, altri non era che il figuro che nel 1844 si era reso colpevole di un furto ai danni di chi caritatevolmente lo ospitava a Marsiglia e pertanto era stato condannato a un anno e un giorno di carcere; questo con pregiudizio della sua onorabilità perché, appunto, era stato autore non già di un delitto politico, sanato da motivazioni patriottiche, ma di un reato comune. L’addebito ebbe ampio spazio non solo in fogli “democratici” ma soprattutto nei pamphlets del giornalista francese Léo Taxil9. Nel 1894 Domenico Margiotta, poi autore di libelli che stentarono a essere tradotti in Italia,

nei Souvenirs d’un Trente-Troisième (con prefazione del Docteur Bataille, i.e. Charles Hakcs, collaboratore ed emulo di Léo Taxil, e viatico del vescovo di Grenoble, mons. Amand-Joseph10) pubblicò la fotografia della sentenza a carico di Adriano Lemmi tratta dall’archivio della Corte Imperiale di Aix-en-Provence: documento in sé di inconfutabile autenticità, salvo conferma che il Gran Maestro fosse proprio il “ladro di Marsiglia” anziché un suo omonimo. Tutto calcolato (tempi lunghissimi di un eventuale processo per diffamazione a carico di un italiano oltre tutto residente all’estero, chiasso dei giornali, implicazioni interne ed estere facilmente manovrabili dalla Francia, a lui nettamente ostile proprio per la sua contiguità con Crispi, urgenza di pacificare la Famiglia con un pronunciamento autorevole e insindacabile) per scrollarsi di dosso l’addebito Lemmi non adì la giustizia ordinaria ma il “foro domestico”. Un giurì appositamente costituito dal Supremo consiglio del Rito scozzese antico e accettato, nucleo costitutivo dell’Or21


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Crispi e i suoi ministri al Quirinale nel capodanno 1888

dine, e composto da persone di rinomata rettitudine (Giuseppe Ceneri, Oreste Regnoli, Giosue Carducci, Luigi Orlando, Antonio Mordini e Giovanni Bovio) sentenziò che il Gran Maestro non era affatto “il ladro di Marsiglia”: una conclusione che non placò affatto una cerchia di logge numericamente esigua ma qualificata e irriducibile, capitanata da Malachia De Cristoforis, che non aveva di mira Lemmi per le chiacchiere scandalistiche ma quale puntello politico di Crispi. La contesa si era fatta più aspra da quando, nel settembre 1894, il presidente del Consiglio aveva invocato l’accordo delle autorità civili e religiose “per ricondurre le plebi traviate sulla via della giustizia e dell’amore” giacché “dalle più nere latebre della terra è sbucata una setta infame che scrisse sulla sua bandiera ‘né Dio, né Capo’. Uniti oggi nella festa di riconoscenza, stringiamoci insieme a combattere cotesto mostro e scriviamo sul nostro vessillo: Con Dio, col Re e per la Patria11”. L’offensiva contro Crispi, condotta con attacchi roventi contro Lemmi e Carducci (che ripetutamente disertò il festeg22

giamento del Venti settembre) sommava motivazioni politiche e rituali. A Lemmi venne chiesto ruvidamente di sottoporlo a processo massonico. Con argomento capzioso (erano pubblici, anzi da lui stesso evidenziati, i loro fraterni scambi epistolari e lo statista figurava tra i componenti del Supremo Consiglio), il Gran Maestro replicò che da tempo Crispi non era attivo e quotizzante. Pertanto non poteva essere sottoposto a processo massonico. Quando Cavallotti denunciò il presidente al procuratore del Re, Lemmi affermò che, pendente il processo profano, sarebbe stato iniquo avviarne uno massonico. Però la richiesta di chiarimento della posizione dell’Ordine nei confronti di Crispi venne infine condivisa non solo da massoni repubblicani e radicali ma anche da due membri autorevoli della Giunta esecutiva del GOdI, Ettore Ferrari ed Ernesto Nathan. Quando quest’ultimo dichiarò per scritto che non avrebbe più partecipato alle sedute del governo dell’Ordine sino a quando non fosse stato avviato il processo interno a carico di Crispi, il 21 ottobre 1895 Lemmi annunciò le dimissioni da Gran Maestro. Pre-

siedette la Giunta per l’ultima volta il 28 ottobre, presenti Achille Ballori, Luciano Morpurgo, Ferrari, Carlo Meyer (o Mayer) e Giacomo Sani. Deposto il supremo maglietto, rimase sovrano del Rito. In risposta, le logge di orientamento radicale, prevalentemente aderenti al Rito simbolico italiano (praticante i soli gradi di apprendista, compagno e maestro), disconobbero la sovranità del GOdI e, nel volgere di un biennio, si costituirono in Grande Oriente Italiano (GOI), subito riconosciuto dal Grande Oriente di Francia [ ... segue sui prossimi numeri]. _________________ Note: 1 Il primo Grande Oriente d’Italia fu costituito a Milano il 20 giugno 1805 dal Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato “en Italie” sorto a Parigi (non a Milano, come fu scritto e talora viene ripetuto) il 16 marzo 1805 ed ebbe giurisdizione solo sulle logge del “regno d’Italia” (cioè il Lombardo-Veneto). Le logge delle regioni italiane all’epoca incorporate nell’Impero francese o indirettamente dipendenti da Parigi furono all’obbedienza del Grande Oriente di Francia, mentre Giusep-


Domenico Margiotta

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pe Bonaparte e poi Gioacchino Murat furono grandi maestri del Grande Oriente di Napoli. Alla riorganizzazione (1859-1861) le logge si dettero diverse denominazioni. Nella carta intestata molte di esse usarono l’insegna Grande Oriente Italiano. Le “Costituzioni della Massoneria Italiana discusse e votate dalla prima assemblea costituente massonica italiana” (2731 dicembre 1861) recitano: “L’organizzazione della Massoneria italiana è costituita: a) da Società locali regolarmente costituite e denominate Loggie; b) da un potere centrale residente nella Capitale del regno, denominato il Grande Oriente d’Italia; c) da assemblee generali periodiche e straordinarie”. L’identificazione della Massoneria italiana come Grande Oriente d’Italia venne sancita nella Assemblea costituente di Firenze (maggio 1864). Da poco eletto Gran Maestro in contrapposizione a Giuseppe Garibaldi, il 9 marzo 1862 Filippo Cordova scrisse una tra le lettere più importanti della storia dell’Ordine in Italia su carta intesta “Grande Oriente Italiano” : (…) Intanto ho l’onore di annunziarvi che mi sono già messo in relazione coi G.. O.. stranieri, dai quali, son certo, verrà tra breve riconosciuto il G..O.. Italiano. Le Costituzioni dette di Anderson, Carta di fondazione della Massoneria moderna (o“speculativa” per contrapposizione alla “operativa”) rimasero pressoché ignorate in Italia negli anni della riorganizzazione delle Logge, basate soprattutto sugli Statuti del Rito scozzese antico e accettato (1801-1805) e sui rituali del rito francese, adottato dal nascente Grande Oriente Italiano (o d’Italia), perché più conosciuto e praticato. V. Le Costituzioni dei Liberi Muratori 1723, a cura di Giuseppe Lombardo, Cosenza, Edizioni Brenner 2000. 2 “I riti tradizionali” per l’elezione di papa Leone XIII – disse Umberto I - erano stati “liberamente osservati senza che ne venisse turbata la tranquillità dello Stato, la pace delle coscienze e la indipendenza del ministero spirituale”. 3 Lettera (in fotografia) di Antonio Cefaly, Gran Segretario del GOdI, al Gran Maestro

Pagina da ‘Ricordi di un Trentatre. Il Capo della Massoneria Universale’

del Grande Oriente Spagnolo, Roma, 8 agosto 1900, in Aldo A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani, 1992, p.860 (da Archivio Storico di Spagna, Sezione Guerra Civile, Salamanca). Sulla Massoneria spagnola di primo Novecento v. Josè A. Ferrer Benimeli, La Massoneria in Spagna dalle origini a oggi, Foggia, Bastogi 1985, e Pere Sanchez Ferré, La Masoneria y los masones espanoles del siglo XX. Los pasos perdidos, Barcellona, MRA 2012. Per inquadramento del tema v. Paolo Carusi, Massoneria in Bibliografia dell’età del Risorgimento, 19702001, I, Firenze, Olschki, 2003; J.A. Ferrer Benimeli-Susana Cuartero Escobes, Bibliografia de la Masoneria, Madrid, Fundacion Universitaria Espanola 2004, voll.3. 4 In Archivio Privato (d’ora in poi AP), in corso di ordinamento. Copia dei documenti citati nel presente lavoro verrà messa a disposizione di quanti lo chiedessero. L’autore è grato a Luigi Pruneti, Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia (Palazzo Vitelleschi), e al suo successore, Antonio Bin-

ni, che gli hanno propiziato la ricerca in carte inedite, su impulso dell’autore decenni addietro sottratte alla dispersione. 5 Ibidem. 6 Studio storico-critico, trad. di Eugenio Polidori, Roma, Desclée, 1901. Su p. Gruber S.J. (i.e. Ildebrando Gerber, v. Rosario F. Esposito, Le buone opere dei laicisti, degli anticlericali e dei frammassoni. Quodlibetale con documenti inediti, presentazione di Giordano Gamberini, Roma, Edizioni Paoline, 1970. Per il repertorio delle opere di don Esposito v. Enrico Simoni, Bibliografia della Massoneria in Italia, pref. di Giuliano Di Bernardo, Foggia, Bastogi,1992; ID., Bibliografia...., II, Appendice di aggiornamento (dicembre 1997), pref. di Aldo A. Mola, Foggia, Bastogi, 1998.Dello stesso v. anche Bibliografia della massoneria in Italia, III, Indici sistematici degli articoli della “Rivista della Massoneria Italiana” e della “Rivista Massonica” (1870-1926), pref. Di Gustavo Raffi, Foggia, Bastogi, 2006. Per l’interesse storiografico dei molti saggi contenutivi v. infine ID., Bibliografia..., III, Indici sistematici degli articoli del-

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Francesco Crispi

le Riviste massoniche del dopoguerra per titoli, autori, logge e temi trattati, pref. di A. A. Mola Foggia, Bastogi, 1993. 7. Lemmi fece battezzare con rito cattolico i tre figli avuti a Costantinopoli da Anna Perini (Antonio Attilio Emilio Bandiera, Emilio Spartaco e Aloisia Clara Ernestina). 8 Guglielmo Adilardi, Massoneria e chiesa cattolica. Dalla Humanum genus (1884) al dialogo, Firenze, Istituto Lino Salvini, Ed. Pontecorboli, 2014,con bibliografia. 9 Furio Bacchini, Un laico dell’Ottocento. Andrea Costa. Libero muratore, libero pensatore, socialista libertario, Imola, La Mandragora, 2001 (1^ ed. 1997). 10 Pseudonimo di Gabriel Jogand-Pagès (Marsiglia, 1854-Sceaux, 1907). Già militante del Club des Poignards, segretario della Lega anticlericale francese e sino al 1881 intrinseco di Giuseppe Garibaldi, dal 1885 autore di un profluvio di scritti contro la Massoneria, già a servizio del generale d’Espivent de la Villeboisnet e da sempre sospettato quale agente provocatore. Autore di Les amours secrets de Pie IX e di una scandalosa Vie de Jésus, iniziato nel

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1881 nella loggia Le Temple des amis de l’honneur français, Taxil ne era stato subito espulso per indegnità. La sua produzione antimassonica si esaurì dopo il Congresso antimassonico di Trento (1896) e la clamorosa ammissione di aver inventato le “rivelazioni” di miss Diana Vaughan, spacciata quale ex “palladista” (massona satanista) convertita in suor Raffaella. Alla supposta Vaughan nel 1895 Taxil attribuì Le 33 Crispi. Un palladiste homme d’Etat demasqué da sa naissance à sa deuxième mort, Parigi, Pierret, 1896. Finito di scrivere nel marzo, il libro uscì a giugno quando ormai Crispi aveva rassegnato le dimissioni. Il suo obiettivo (gettare discredito sul presidente del Consiglio colpendo i suoi principali sodali: Lemmi e Carducci) risultò dunque superato, come l’intera macchinazione ordita dal giornalista francese di concerto con i suoi mandanti. Su Taxil v. gli studi di Massimo Introvigne. 11 L’originale francese (Paris-Lyon, Delhomme & Briguet, 1894) fu subito tradotto in italiano (Ricordi di un Trentatre. Il Capo della Massoneria Universale. Per Domenico Margiotta fu Antonino) dal medesimo editore

(1895). Minore successo ebbero altre opere dello stesso autore (Le culte de la nature dans la Francmaçonnerie, Bruxelles, Societé Belge de Librairie,1895, e Le Palladisme: culte de Satan Lucifer dans les triangles maçonniques, Grenoble, Falque,1895) perché le dimissioni di Lemmi dalla Gran Maestranza e quelle di Crispi da presidente del Consiglio dopo la disfatta di Abba Garima (1 marzo 1896) le rese superflue sotto il profilo politico e minori su quello scandalistico rispetto ai libri di Léo Taxil. Va evidenziato che il documento pubblicato da Margiotta (seguito dal repertorio dei Lemmi nati a Firenze e battezzati nel Battistero di San Giovanni) è diverso da altra copia (in Archivio privato: sette facciate e 4 righe anziché cinque facciate e mezza), debitamente autenticata, su carta della Cour Impériale di Aix-en-Provence. Margiotta manipolò una copia dell’estratto autentico, ma rifece le righe iniziali della prima pagina e ne tagliò altre, forse per non mettere i lettori sulla traccia di chi gli aveva fornito l’originale, circolante in Italia dal 1860-1861, come da lui asserito e mai smentito. Il documento già era valso per escludere Lemmi da una importante e lucrosa impresa ferroviaria nel Mezzogiorno d’Italia. Sulla vicenda v. altresì Alessandro Luzio, Adriano Lemmi restauratore finanziario della Massoneria, in La Massoneria e il Risorgimento italiano. Saggio storico–critico, Bologna, Zanichelli, 1925, II, pp. 123 e ss. (in specie Appendice II, Documenti ufficiali toscani su A. Lemmi). Da quanto ne scrisse, consta che Luzio si poté valere solo della riproduzione pubblicata da Margiotta. Tra le severe riserve nei confronti della decisione del GOdI di affidare la valutazione del “caso” a un giurì interno (precisamente del Rito Scozzese Antico e Accettato) anziché alla Magistratura ordinaria viene citata quella di Domenico Farini. Questi, però, già membro del Consiglio dell’Ordine del GOdI, la confidò solo a se stesso, nel Diario, a differenza dei massoni “dissidenti” che obiettarono sul metodo e sul merito anche nei “giornali profani”. Va osservato che Lemmi fu più volte denominato “banchiere della rivoluzione”. Invero non possedette mai alcuna banca. Era regista di mezzi finanziari. Contrariamente alle leggende, morì in condizioni agiate, ma niente affatto opulente. La sua eredità risultò costituita dalla fattoria di Gabbiano Val di Pesa, dallo stabile di Firenze (gravato da ipoteca) e da 15.000 lire in contanti: patrimonio dal quale venne dedotto un debito di 23.475 lire.

Si vedano le didascalie sulle foto; p.23 Souvenirs d’un trentetroisième, Adriano Lemmi, chef suprême des francs-maçons / par Domenico Margiotta.


in Storia

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Massoneria e teatro Il ‘medico delle attrici’1 e l’ambulanza Ristori Annalisa Santini

Adelaide Ristori

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L

uminosa figura risorgimentale, Timotheo Jean-Marie Balthazar Riboli, nato a Colorno nel 1808, orfano e di umili origini, rivelò sentimenti e passioni patriottiche fin dai tempi dei suoi studi nell’università di Parma già pervasa da fermenti liberali e non esitò a unirsi ai moti rivoluzionari scoppiati nel 1831. Ciò non gli impedì comunque di terminare gli studi prima in filosofia e poi in medicina e chirurgia nel 18342. Esercitò inizialmente la professione medica nella città dei suoi studi, ma la passione politica lo condusse presto lontano e partecipando al primo congresso scientifico italiano che si tenne a Pisa nel 1839, alla presenza di molti scienziati di diversa provenienza e idee politiche, incontrò Vincenzo Gioberti che lo invitò a sostenere la causa dell’unione dei vari stati italiani col Piemonte. Alla morte della duchessa Maria Luisa d’Asburgo, moglie di Napoleone Bonaparte, il 17 dicembre 1847, il Ducato di Parma passò all’infante di Spagna Carlo Lodovico di Borbone, duca di Lucca, che assunse il nome di Carlo II; in un’Europa incendiata dalle aspirazioni nazionalistiche e liberali, neanche Parma fu esente da rivolte e quando molti giovani cittadini si recarono in massa a teatro vestiti con la cravatta blu e il gilet bianco, vale a dire con i colori di casa Savoia, il 20 marzo tutta Parma si sollevò. Fu proprio durante questa sommossa che campeggiò la figura di Riboli come organizzatore dell’insurrezione prima, e di sostenitore del governo provvisorio parmense poi, attraverso il giornale da lui fondato il 1 aprile 1848, “l’Indipendenza Nazionale”, di cui fu proprietario e direttore e fu lui a sventolare per primo il tricolore in piazza del Duomo. Secondo la moda del tempo, fu anche poeta, oltre che collaboratore dal 1836 al 1847 di molti giornali e riviste di varie città italiane, in particolare del “Ricoglitore Fiorentino”, cui contribuiva con scritti politici, filosofici, letterari e scientifici. Ricercato dagli Austriaci a seguito della sua attività liberale, si rifugiò a Torino, dove lavorò nell’ospedale militare; in seguito al suggerimento di Gioberti, nel 1849, ebbe il pericoloso incarico di Commissario Straordinario per convocare commissioni elettorali nel Ducato di Parma occupato dall’Austria. Chiese poi a re Vittorio Emanuele II la concessione della cittadinanza e la ottenne il 22 gennaio 1850 e da

Timotheo Jean-Marie Balthazar Riboli

Adelaide Ristori

in Storia

allora rese numerosi e rilevanti servizi alla città di Torino; oltre a essere membro della Commissione di Igiene, infatti, istituì una scuola serale per i giovani operai e fu vicepresidente della Società dell’Emigrazione Italiana, costituita appunto, oltre che da lui, da Antonio Litta, Giorgio Pallavicino, il generale Avezzana, l’attore massone Gustavo Modena e altri con propri mezzi e donazioni.3 Questo si rese necessario perché quando Vittorio Emanuele II, sul trono all’abdicazione del padre Carlo Alberto dopo la sconfitta di Novara, negoziando con l’Austria l’armistizio di Vignale del 26 marzo 1849, oltre a conservare lo statuto, ottenne l’amnistia per i lombardo-veneti e aprì lo stato a 200.000 esuli politici di tutta Italia, la maggior parte di modesta estrazione sociale, questi si riversarono in Piemonte. Fra gli altri incarichi fu anche nominato medico del teatro Rossini4 di Torino5, da qui il soprannome di “medico delle attrici”6, dove verosimilmente conobbe Adelaide Ristori, nata a Cividale del Friuli il 29 gennaio 1822 da una numerosa famiglia di comici che recitavano al seguito di una compagnia ambulante. Secondo l’usanza dell’epoca fu messa giovanissima sulle scene e ben presto ricevette delle offerte come Prima donna. In questo periodo alcuni regnanti costituirono delle

compagnie stabili, la più importante delle quali fu la Compagnia Reale Sarda di Torino, dove nel 1837 fu scritturata con il ruolo7 di amorosa ingenua per recitare al fianco di Carlotta Marchionni, l’attrice più famosa dell’epoca, amica di Silvio Pellico e del celebre egittologo di Napoleone I, Jean François Champollion. Proprio Pellico, al tempo istitutore in casa Porro Lambertenghi,8 scrisse la tragedia Francesca da Rimini che dopo essere stata il cavallo di battaglia della Marchionni nel ruolo di Francesca, lo sarà anche di Adelaide Ristori. Quest’ultima oltre a esserne stata allieva, rimarrà per sempre amica di Carlotta e di sua cugina Teresa Bartalozzi, la Gegia Marchionni della quale Silvio Pellico si innamorerà perdutamente nella primavera del 1820. Mentre Pellico corteggiava Teresa e le scriveva appassionate lettere d’amore9, il suo amico Piero Maroncelli, prima Massone e poi Carbonaro, corteggiava Carlotta senza troppe speranze. La polizia austriaca nell’ottobre del 1820 arrestò i due amici e pose fine quindi ai loro amori. La Ristori è descritta come una delle donne più belle del suo tempo e a ventitré anni incontrò quello che sarebbe stato il grande amore della sua vita, il marchese Giuliano Capranica del Grillo, figlio di un importante Patrizio romano della nobiltà nera papalina e della principessa Flaminia Odescalchi, imparentata con le più importanti famiglie europee. Giuliano aveva ere27


Adelaide Ristori

Storia

ditato a sette anni da una lontana cugina il titolo di marchese Del Grillo10 e di barone Scarlatti, nonché vasti possedimenti a Fabriano e a Gubbio che si aggiungevano alle altre proprietà della famiglia Capranica, fra le quali i teatri Capranica e Valle. Si narra11 che nel 1846 i due giovani si sposassero clandestinamente in uno sperduto paesino della Romagna. Per certo lei ri28

mane incinta e la situazione porta scompiglio nell’ambiente artistico dove lavora e mentre è da sola a Firenze, Giuliano subisce pressioni dalla famiglia per porre fine alla relazione. Quando però a Venezia il 10 gennaio 1848 nasce il bambino Virginio Pio, la famiglia Capranica perdona il figlio. Il bambino non vivrà a lungo, ma finalmente, con lei nuovamente incin-

ta, il 25 ottobre 1848 i due giovani regolarizzano il matrimonio. Dopo la nascita, a Firenze il 14 gennaio 1849, di Giorgio, che sarà in seguito un non mediocre pittore, la famiglia abbandonò ogni resistenza verso la nuora e le confessò che la situazione finanziaria del figlio era disastrosa e pur desiderando toglierla dal mestiere di attrice non avevano i soldi per farlo. Adelaide continuò a recitare con un discreto successo, rimase nuovamente incinta e il 3 agosto 1850 nacque a Torino una bambina, Elena. Datata Genova 15 luglio 1850, cioè poco prima del parto, scrive12 13 una curiosa lettera indirizzata a Riboli a Torino, collocata nel M.C.R.R.14: Signore tutt’altro che Illustrissimo, Sappia che ho avuto alta degnazione di prevenire il mio cognato a Parigi del suo arrivo; per cui quando Ella crederà, potrà alzare le sue zampe e andarsene colà che tutto è pronto. Avrà con ciò la disgrazia di riceverla sotto il mio tetto. Glielo avevo già fatto dire da Righetti, ma per eccesso di bontà glielo ripeto io. Non è quell’Io mitologico, sa, spieghiamoci bene, perché avendo Ella troppa familiarità con quelle persone, non facesse mai delle confusioni. Io spiegherò l’ali dorate lunedì o martedì. Si regoli con il suo al tuo criterio. Le sono, come sempre,


superbissima padrona e sovrana. Adelaide nei Grilli. Riporto questa strana lettera confidenziale assolutamente diversa dalle successive quando Adelaide, regina sulla scena e marchesa nella vita, e non marchesana, cioè popolana con qualche aria di nobiltà, come la diceva Gustavo Modena15, che, repubblicano, non le perdonerà mai la devozione per i Savoia, avrà sempre toni inappuntabili. Nel 1852 nasce l’ultima figlia, Bianca. Il marito fonda la compagnia Alberto Nota, Adelaide ne è la prima donna e a Firenze rimette in scena la Mirra di Alfieri, per la quale era stata fischiata anni prima. La tragedia debutta il 10 dicembre e il successo è enorme. Dal 1853 è la prima donna assoluta della Compagnia Reale Sarda con Enrico Rossi come primo attore; il suo contratto le garantisce oltre ad uno stipendio da favola pari a 30.000 lire all’anno da pagarsi in napoleoni d’oro di 20 franchi ciascuno, cinque sole recite settimanali, mezza serata di beneficio in ciascuna piazza, un terzo degli utili dell’impresa, inoltre ottiene la facoltà di rifiutare le parti che fossero giudicate a suo giudizio immorali, come la Signora delle Camelie di Dumas e quelle che prevedevano travestimenti in abiti maschili. Impone la sosta a Torino per due stagioni teatrali all’anno e una terza stagione da tenersi a Roma; venti giorni di permesso in caso di morte o di pericolo di vita di uno dei suoceri e lo scioglimento del contratto se fosse venuto a mancare il marito; la possibilità di scelta degli attori della compagnia, una assoluta libertà di recitare secondo la propria ispirazione al di là delle direttive del regista.16 I Capranica andranno poi in Francia e Giuliano sarà munito di lettere credenziali di numerose personalità del modo politico e culturale, fra le quali quella di Massimo d’Azeglio per suo cognato, Salvatore Pes di Villamarina, allora ministro plenipotenziario a Parigi, che gli garantiscono l’accesso ai salotti più esclusivi. Le rappresentazioni inizieranno nel maggio del 1855 con la Francesca da Rimini di Silvio Pellico, al cui debutto saranno presenti “l’Imperatore e l’Imperatrice, la principessa Matilde, Luciano Murat, il principe Carlo Bonaparte, il duca di Brunswick, il marchese di Villamarina, Fould, ministro di Stato, il barone Hiibner, ambasciatore d’Austria, il duca di Galliera”17. Reciterà poi la Mirra di Vittorio Alfieri che sarà un trionfo e che farà

incassare in nove sere fuori abbonamento 40.000 franchi e debutterà nella Maria Stuarda di Schiller. Il successo e gli incassi saranno favolosi. L’anno successivo i Capranica fondano la Compagnia Drammatica Italiana e pianificano una nuova tournée a Vienna, Parigi e Londra. Al repertorio sarà aggiunta la Medea di Legouvé con la quale debutterà a Parigi, dove verrà consacrata come una stella internazionale. I successi si ripetono a Londra, Napoli, Vienna, Spagna, Belgio, Germania, Olanda, S. Pietroburgo, dove Adelaide svolge anche una missione politica presso il ministro degli esteri russo, principe Aleksandr Gortchacoff, per conto di Cavour, al quale farà un resoconto scritto e che la ringrazierà con parole gentilissime: “[...] Se ella non ha convertito il principe Gorschacoff, convien dire che esso sia un peccatore impenitente, giacché gli argomenti ch’ella seppe con tanta abilità adoprare per sostegno della nostra causa mi paiono irresistibili [...]” 18 19. Partirà ancora nuovamente per Spagna e Portogallo e compirà anche un tour in varie città in un’Italia ormai prossima all’unificazione. Nel frattempo nel 1859 Riboli rispose all’appello di Garibaldi arruolandosi come volontario nell’Ambulanza del Corpo dei Cacciatori delle Alpi, partecipando alla Seconda Guerra d’Indipendenza. Quando questa s’interruppe con l’Armistizio di Villafranca, Riboli, a seguito della fusione del corpo garibaldino con l’esercito nazionale, rinunciò al suo grado di tenente colonnello e tornò a esercitare la professione medica a Torino, in accordo con Garibaldi, il quale lasciò “con dolore l’esercito valoroso”20. Quando, nel 1862, Garibaldi rimase ferito all’Aspromonte nello scontro con le truppe regie, Riboli corse in suo soccorso a La Spezia, dove, con la fregata Duca di Genova, era giunto il suo amico e provvide rapidamente a ordinare medicazioni per il ferito, che era sprovvisto di tutto e fu lui, insieme al famoso chirurgo Auguste Nélaton, a decidere in seguito di allargare la ferita per estrarne il proiettile che vi si era conficcato. Durante la guerra franco-prussiana del 1870, con l’intervento di Garibaldi nella campagna dei Vosgi, fu nominato Generale medico delle Ambulanze (Colonel Medecin en chef), carica che rivestì con passione ed entusiasmo. Riboli è anche il fondatore della Società Protettrice degli animali21, infatti

Gustavo Modena

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quando il 1 aprile del 1871 da Caprera, Garibaldi gli chiede di istituire un ente per la protezione degli animali: “Mio caro Riboli, Vi invio una lettera della Signora Winter. Vi prego di istituire tale Società annoverando la Signora come Presidente e io come socio”, si mette immediatamente all’opera e tiene a Torino nel 1880 questo indicativo discorso: “Fin dall’epoca della nostra fondazione (1871), si fissò che la nostra Società non si occuperebbe mai né di religione, né di politica, ma solo di proteggere gli animali contro mali trattamenti, come mezzo di educazione morale e di miti costumi”22. La Società, con Regio Decreto del 10 ottobre 1888, fu costituita in corpo reale, con il patrocinio della Casa Savoia e della Regina d’Inghilterra –Vittoria – a Torino, in Via della Rocca, 49; Timoteo Riboli ne fu Presidente a vita. Ritorniamo alla Ristori che il 13 maggio 1865 durante le celebrazioni fiorentine per il centenario dantesco recita con Tommaso Salvini ed Enrico Rossi la Francesca da Rimini di Silvio Pellico e subito dopo firma un contratto per gli Stati Uniti; alla fine del tour nel 1867, secondo il New York Times, avrà guadagnato almeno 270.000 dollari, una somma all’epoca assolutamente favolosa. Da Torino Riboli il 10 giugno 1866 le scrive: Mia cara Adelaide, Ieri ti scrissi di mandare oltre le filacce tende ecc.; per i feriti anche qualche biglietto da mille o di cento franchi. Oggi ti scrivo invece che il tuo nome può essere applicato a una ‘carrozza o ambulanza’ che unita a 29


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una barella potrà servire in campo per trasportare feriti in modo meraviglioso ed essere d’incitamento e primo esempio ad altri. Vuoi seguire un mio consiglio? Dammi autorità di disporre di un migliaio di franchi e in termine di quindici giorni presenterò a tuo nome al ministro, al Re e a Garibaldi “L’Ambulanza Ristori Del Grillo”, la quale farà epoca per il tuo nome e per l’inventore; autorizzami e la cosa è fatta. A guadagnar tempo avvisami con un dispaccio telegrafico. Animo deciditi e ama sempre il tuo Riboli23. Il 13 giugno successivo da Parigi, però, lei risponde: [...] Vorrei poter mandare le migliaia al comitato di soccorso. Ma con questi chiari di luna le offerte non ci possono fare che in merci[...] Ed io do, cioè offro la mia merce. Se a Torino nei due giorni che mi fermo, possono combinare un’accademia, una recita, approfittino di me in qualsiasi modo, solo che lo sappia a tempo24. Da Parigi ancora nel 15 giugno 1866 informa Riboli che in Francia negli ospedali già si usa una speciale garza: 30

Buon amico, Noi si lavora a corpo morto e tanta è la smania che le filacce aumentino a vapore, che ci sembra sempre che poco ci frutti il nostro lavoro. Ti accludo un genere di medicatura insegnate a me da una signora svizzera [...] dimmi tu di che lunghezza e larghezza debbono essere per prepararle25 26. Questa lettera fu addirittura pubblicata su il giornale “L’Italia”27. Rientrata in Italia, passando per Torino, la Ristori lascia presso il Comitato L’Amor Fraterno una cassa di materiale sanitario e ne scrive a Riboli il 10 luglio 1866, invitandolo a scegliervi tutto ciò che può occorrere Garibaldi. Il giorno seguente il medico le risponderà che, essendosi recato presso il Comitato per prendere alcune cose per il Generale, aveva aggiunto fra l’altro una vescica di gomma elastica per ghiaccio. Il materiale doveva essere inviato a Rocca d’Anfo, ma quando era ripassato per provvedere alla spedizione, non contento della legatura, aveva riaperto la cassetta e aveva trovato le bende e le compresse sostituite con altre più ordinarie e più scadenti e la vescica

perforata da tre colpi di forbice. Grande lo sdegno di Riboli che prende altro materiale inviato da Adelaide e lo spedisce personalmente. Chiede dunque consiglio all’attrice su cosa fare e accusa alcune componenti del Comitato che gli rispondono che “ai garibaldini ci deve pensare il Governo e non la pubblica beneficenza [...] come fossero reprobi o maledetti” e aggiunge “Pensa e adoperati all’istante. Vuoi pubblicare questa mia? Dì a Giuliano che la rivegga e la stampi. Intanto i tuoi carri ambulanza saranno costruiti e presentati al Generale[...]”28. La Ristori, che si trovava a Genova, risponde immediatamente e reclama una severa inchiesta verso le dame del comitato e conclude “[...] Ti raccomando l’Ambulanza. Darò credo anche qui una recita per i garibaldini[...]”29. Queste lettere continueranno e da Storo il 16 luglio 1866 il Generale scriverà “Caro Riboli, Ringrazio voi e la Ristori di quanto fate per i nostri feriti. Vi accludo un biglietto per la brava e patriottica artista. Credetemi Vostro sempre G. Garibaldi”30. Al termine della guerra del ‘66 Riboli scrive a Garibaldi che dal banchiere della Ristori riceverà 791 lire: [...] erano 1041 in tutto fissate per un carro ambulanza a cui voleva dare il suo nome, ma la cessione della Venezia alla Francia, caduta come fulmine sul campo italiano restrinse i nostri cuori e sospese ogni lavoro di guerra. Il carro incominciato, divenuto ora oggetto inutile ed inservibile, fu lasciato al suo nascere e si pagò lire 250; tolte queste dal totale rimane a Lei per i suoi feriti la somma già accennata. La destini, dunque, caro Generale, come meglio crede ai più valorosi ed impotenti ed a me per la Ristori, già partita per l’America, rivolga una sua parola, onde colà la faccia risuonare e benedire da quel popolo che lo guarda come modello di virtù e di coraggio per se stesso e per le generazioni future. La Ristori è a New York, passerà poscia all’Avana, poi farà ritorno in Italia; essa in ogni parte del mondo fa illustre il nome italiano31. Il Generale risponde: Mio caro Riboli, Ringraziate la Ristori della somma che mi ha inviato con il mezzo del sig. Malvano, suo banchiere a Torino. Vado ad unirla ad altre che mi furono inviate, e con le quali ho stabilito di fondare un capitale fruttifero a vantaggio dei mutilati e delle famiglie desti-


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tuite. Dite alla celebre artista, ricordi al popolo Americano il mio affetto e per riverbero all’italiano i suoi doveri. G. Garibaldi32. La carriera dell’attrice marchesa continuerà folgorante con un tour del giro del mondo per terra e per mare dal 1874 al 1876, fino al 1886 quando si ritirerà dalle scene e assumerà il suo ruolo di dama di corte della regina Margherita, in quanto i Capranica erano stati una delle pochissime famiglie della nobiltà romana ad accettare di avere relazione con la casa Savoia. La sua carriera era stata eccezionale, i suoi guadagni favolosi, come pure i gioielli che i re e le regine dei paesi nei quali si era recata le avevano donato. I suoi cavalli di battaglia sono stati “quattro tragiche regine Maria Stuarda, Elisabetta d’Inghilterra, Maria Antonietta e Medea; ciò in una ricerca di donne mondiali che esprimessero sentimenti e passioni tali da conquistare le corti e le platee di tutto il mondo e ponessero risalto la aristocraticità della sua arte. E dignità regale, almeno di Regina del teatro, la Ristori volle mantenere anche nelle manifestazioni esteriori valendosi per le sue tournée di una macchina organizzativa perfetta, culminata in occasione delle sue ultime recite negli Stati Uniti dal novembre 1884 al maggio 1885, con l’affitto per i suoi sposta-

menti di un vagone ferroviario, appositamente arredato”33. A mio parere il suo patriottismo era stato genuino, del resto nel Risorgimento la maggior parte del mondo culturale italiano aderì al progetto di libertà, Adelaide fu più vicina al progetto moderato di Cavour anche perché cominciò la sua missione di italianità a Parigi nei salotti aristocratici34. Il suo repertorio tendeva a mettere in risalto i principi di libertà e indipendenza, famosa fra tutte la Giuditta di Paolo Giacometti, poeta della Compagnia Reale “e Adelaide Ristori preparava gli italiani, precorrendo il vicino cinquantanove, con queste parole di Giuditta, belle di pensiero e di forma: Il mio nome ai fanciulli imparate: Sappian essi che santa è la guerra Se l’estranio minaccia la terra Che il Signore per patria ci diè.”35 Molte le rappresentazioni che fece a beneficio dei garibaldini, ma quando le fu chiesto del denaro fu piuttosto parsimoniosa e il carro-ambulanza Ristori progettato dall’ingegnere Predeval36non fu più realizzato. Mille lire per lei erano una somma men che modesta, anche se le spese che doveva sostenere per la numerosa famiglia d’origine e per quella Capranica

erano notevoli. I suoi vestiti erano costosissimi e lei stessa rivela che per mantenere la sua fama doveva tenere un tenore di vita elevatissimo. Indubbio è il ruolo politico e sociale assunto dal teatro nel Risorgimento; infatti oltre all’ovvio desiderio di aggregazione sociale, il mostrarsi durante spettacoli dal chiaro significato politico significava condividere l’idea unitaria anche di fronte alle autorità costituite. Il teatro, quindi, era anche un luogo politico sia per quello che si metteva in scena sia per la formazione del pubblico. I moti del 1821 in Piemonte scoppiano del resto l’11 gennaio dall’esibizione di quattro studenti universitari che vanno al teatro d’Angennes di Torino (sul palco c’era quella sera proprio Carlotta Marchionni della “Compagnia Reale Sarda”) con in capo un berretto frigio rosso con fiocco nero: i colori della Carboneria. Intervengono i Rea-li Carabinieri che arrestano i giovani. Il giorno seguente l’Università è occupata. Interviene l’esercito, scoppiano gli scontri e la protesta si diffonde in tutto il Regno. Le conoscenze e le amicizie teatrali celebri di Riboli non si limitano alla Ristori, oltre a quella con numerose attrici famose, conosciuta è la sua corrispondenza con Gustavo Modena (1803-1861), con certezza Masso31


unico Supremo Consiglio in Italia quello sedente a Torino. Riboli morì il 15 aprile 1895. “L’Illustrazione italiana” pubblicò: “A Torino il 16 aprile m. il dott. Timoteo Riboli, famoso prima come medico di Garibaldi in tutte le sue campagne, poi come Grande Oriente della Massoneria, infine come Presidente della Società protettrice degli animali. Era nato a Parma e giovanissimo cospirò per la Patria. Avea la bella età di 87 anni; è morto povero com’era nato; e, sempre originale, dispose di essere seppellito in divisa garibaldina e di mettergli nella bara fotografie di Garibaldi, Mazzini, Avezzana e Milbitz”46. _______________

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Note: 1 G. Costetti, Il medico delle attrici, in Nuova Antologia, a. XLV, 1910, fasc. 921, pp. 73-81. 2 E. Morelli, I fondi archivistici del Museo centrale del Risorgimento. XV. L’Archivio di Timoteo Riboli, in Rassegna Storica del Risorgimento, Anno XXVIII, Fascicolo IV, Luglio-Agosto 1941– XIX, Roma, 1941, pp. 522-526. 3 M.C.R.R., B494/17 (1), Appunto di Riboli sui doveri dell’emigrato.

Albert Pike

ne, anche se non se ne conosce la Loggia d’appartenenza37, ma Massoni sono anche “Ernesto Rossi38 e Tommaso Salvini che divisero il primato della scena italiana con la Ristori”39. Modena, repubblicano accanito, aborriva la monarchia e il papato, e, cultore di Mazzini, derideva Garibaldi chiamandolo Belisario40 41. Timoteo Riboli fu iniziato nella loggia “Dante Alighieri” di Torino nei primi anni ‘60 dell’Ottocento; fu poi Maestro Venerabile della loggia torinese “Cristoforo Colombo”. Nel 1870 fu Gran Segretario del Supremo Consiglio del R.S.A.A. di Torino e nel 1874 ideò, auspice Garibaldi, un patto di unione massonica a costituire un Fascio fra i Fratelli di Rito scozzese per eliminare gli attriti che esistevano fra i Supremi Consigli42. Alla morte di Aleksandr Izenschmid Milbitz, suo predecessore, divenne Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico Accettato sedente in Torino dal 1883 al 1887, anno in cui il Supremo Consiglio di Torino si fuse con quello di Roma con Decreto n. 57 del 15 febbra32

io 1887 con S.G.C. Giorgio Tamajo, che si dimise per permettere ad Adriano Lemmi di riunire i poteri con quelli di Gran Maestro. La fusione del Supremo Consiglio di Roma con quello torinese era stata sottoscritta il 23 agosto del 1875 per permettere alla Massoneria Italiana di presentarsi formalmente “unificata”, (con rappresentanti Timoteo Riboli, e Davide Levy), al Convento Mondiale di Losanna dei Supremi Consigli Confederati del R.S.A.A. svoltosi dal 6 al 22 settembre 1875 per deliberare un nuovo trattato di alleanza e confederazione tra le Potenze Massoniche Scozzesi”43. Parte della corrispondenza di questo periodo della vita di Riboli è conservata nel museo della Gran Loggia d’Italia44. Sono importantissime le prime lettere inviate da Albert Pike a Timoteo Riboli dopo la morte del Generale Alessandro Milbitz avvenuta il 17 giugno 188345 perché con questa corrispondenza il Supreme Council, Scottish Rite (Southern Jurisdiction, USA), noto come Mother Supreme Council of the World riconosceva come

4 Il teatro situato in via Po 31, ebbe molte vicissitudini e subì molti incendi; assunse il nome Rossini nel 1856, precedentemente era nominato Sutera, in quanto scena e platea erano nel sottosuolo. Da allora al momento del Risorgimento mise in scena opere patriottiche, cfr. P. Condulmer, Via Po, Torino, 1985, p. 74. 5 E. Bertini, Timoteo Riboli medico di Garibaldi, Roma, 1986, p. 350, nota 6. 6 G. Costetti, Il medico delle attrici...cit., p. 73. 7 T. Viziano, La Ristori. Vita romanzesca di una primadonna dell’Ottocento, S. Miniato, Pisa, 2013, p.12. 8 G. Costetti, Il teatro italiano nel 1800, Bologna 1978, ristampa dell’edizione del 1901, p. 54. 9 “Giovedì 22 giugno 1820, Mia adorata Amica, [...] sì, io t’amo! O era d’uopo ch’io non tel dicessi mai, o è forza che io tel ripeta ogni giorno. Se tu sapessi la febbre che ho nel cuore, se tu sapessi come la tua immagine, i tuoi sorrisi, i tuoi detti, sempre scolpiti nella mia mente, mi fanno continuamente palpitare; se tu sapessi come miei sogni sono turbati e brevi da che ho - non se debbo dire la fortuna o la sciagura di conoscerti - tu mi compiangeresti, o Gegia! [...]” in Silvio Pellico, Lettere d’amore all’attrice Teresa Marchionni (giugno–ottobre 1820), a cura di Cristina Contilli, Great Britain, 2012, p. 16. 10 Senza dilungarmi nella lunga genealogia dei Del Grillo voglio solo ricordare che Bernardino Giacinto nato nel 1674, Scrittore Apostolico, sposò nel 1710 Maria Virginia Possenti, nobile fabrianese. Dall’unione nacque Onofrio (1714 -1787) che ereditò dallo zio cugino Bernardo,


parente in quinto grado. Onofrio fu il III marchese Del Grillo e si sposò nel 1757 con Faustina Capranica. Da quest’unione nacque Virginia (1758-1831) IV marchesa Del Grillo che sposò nel 1783 il barone Augusto Scarlatti, il quale la lasciò per testamento erede del nome e del patrimonio Scarlatti. Virginia non ebbe figli e lasciò erede universale il nipote cugino Giuliano Capranica con l’obbligo di assumere il nome, l’arma e i titoli dei Del Grillo e degli Scarlatti. Fonte: www.iagiforum.info.

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11 Adelaide Ristori. Ricordi e studi artistici, a cura di Antonella Valoroso, Roma, 2005, p. 17. 12 E. Bertini, Timoteo Riboli medico di Garibaldi, cit., p. 327. 13 G. Costetti, Il medico delle attrici, cit., pp. 7381. 14 E. Bertini, Timoteo Riboli medico di Garibaldi, cit., p. 350, nota 10. 15 A. Felice, L’attrice marchesa. Verso nuove visioni di Adelaide Ristori, Venezia, 2006, p. 14. 16 L. Morabito, Le carte di Adelaide Ristori in Rassegna Storica del Risorgimento, Roma, 1980, p. 67. 17 Ibidem, p. 68. 18 La liberazione del mezzogiorno e la formazione del regno d’Italia - Carteggi di Camillo Cavour a cura della Commissione Editrice, V. IV, pp. 429-432; p. 447, Bologna, 1954. 19 G. Deabate, Il teatro e la guerra. Il patriottismo di una grande attrice, in La lettura, Rivista mensile del Corriere della Sera, Fasc. 12, Dic. 1914, p. 1110. 20 E. Bertini, Timoteo Riboli... cit., p. 179-180. 21 A. Santini, Timoteo Riboli e la fondazione della Società Protettrice degli Animali, in Un’etica per i viventi, Genova, 2012, pp. 31-42. 22 Ibidem, p. 150. 23 Ibidem, p. 330. 24 Ibidem. 25 Ibidem. 26 G. Costetti, Il medico delle attrici, cit., pp. 7381. 27 T. Viziano, La Ristori. Vita romanzesca di una primadonna dell’Ottocento...cit., p. 218. 28 Ibidem, pp. 331-334. 29 Ibidem. 30 Ibidem. 31 Ibidem, p. 335. 32 Ibidem. 33 L. Morabito, Le carte di Adelaide Ristori, cit., p. 70. 34 M. Cassisa-L. Naldini, Adelaide Ristori. La marchesa Del Grillo, un’attrice del Risorgimento, Pinerolo, 2000, p. 75.

37 G. Gamberini, Mille volti di massoni, Roma, 1975, p. 117. 38 Ernesto Rossi scrive il 9 febbraio 1867 una commovente lettera a Riboli nella quale mette a disposizione l’incasso suo e della sua compagnia a favore delle famiglie dei volontari, G. Costetti, Il medico delle attrici, cit., p. 76. 39 L. Polo Friz, La massoneria italiana nel decennio post unitario: Ludovico Frapolli, Milano, 1998, p. 320. 40 G. Costetti, Il teatro...cit., p. 115. 41 Belisario è stato un famoso generale bizantino che salvò molte volte l’impero di Giustiniano, la leggenda dice che il re lo facesse poi accecare e mandare mendico. Divenne di uso comune rievocare il nome di Belisario per condannare l’ingratitudine dei re.

35 G. Costetti, Il teatro italiano nel 1800, cit., p. 271.

42 Ibid., 496/5 (5), Circolare di Riboli da Torino in data 31/08/1884 alle varie Logge Massoniche per comunicare il patto d’unione del 1874.

36 T. Viziano, La Ristori. Vita romanzesca di una primadonna dell’Ottocento...cit., p. 222.

43 A. A. Mola, Dal trattato di Losanna del 1875 alla dichiarazione di Ginevra del 2005, in “Offi-

cinae”, anno XVII, 2005, n. 3. 44 Lettere manoscritte fra il Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio dei 33° della Svizzera, Jules Besançon S.G.C. del S.C. del R.S.A.A. della Svizzera, il Gran Segretario del Convento di Losanna, Jules Duchesne, Jules Le Batteux S.G.C. del S.C. del R.S.A.A. della Francia e Timoteo Riboli, contenenti comunicazioni riguardo al Convento di Losanna del 1875. Museo G.L.d.I. 45 N.d.A., Tre lettere manoscritte inviate dal S.G.C. del R.S.A.A. degli Stati Uniti (Giurisdizione Sud), Albert Pike a Timoteo Riboli il 24 marzo, il 6 aprile e il 2 giugno 1884. Museo G.L.d.I. 46 E. Bertini, Timoteo Riboli medico di Garibaldi, cit., p. 367.

P.28: Biglietto autografo di Adelaide Ristori; p.30: Biglietto autografo di Giuseppe Garibaldi a Timoteo Riboli; p.31: Lettera autografa di Timoteo Riboli a Giuseppe Garibaldi; p.32: Albert Pike; p.33: Lettera autografa di Albert Pike a Timoteo Riboli.

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Luigi Pruneti

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el giugno del 1914, quando i venti di guerra iniziarono a spirare sull’Europa, la Serenissima Gran Loggia Nazionale Italiana mantenne un atteggiamento prudente; infatti, mentre il Grande Oriente d’Italia sposò le tesi interventiste1, la Comunione di Piazza del Gesù palesò perplessità sull’opportunità di scendere in campo2. Le motivazioni erano diverse e andavano dai dubbi sulla preparazione dell’apparato militare3 ai timori delle conseguenze per il Paese, in caso di sconfitta; inoltre il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Saverio Fera era tendenzialmente un pacifista, tanto che in tempi non sospetti aveva pubblicato un manifesto antibellicista4. Le cose presero, però, una piega diversa nella primavera del 1915. Il 26 aprile a Londra il governo s’impegnò a entrare in guerra a fianco dell’Intesa; il patto rimase segreto ma le mosse successive del gabinetto Salandra furono eloquenti: il 3 maggio l’esecutivo denunciò il trattato d’alleanza con l’Austria-Ungheria: in altre parole il Regno d’Italia s’apprestava a cambiare campo. Intanto si stava appros-

simando un evento mediatico d’estrema importanza: il 5 maggio a Quarto sarebbe stato inaugurato un monumento celebrativo dell’impresa dei Mille: poteva essere per gli interventisti un’occasione ghiotta per galvanizzare l’opinione pubblica, tacitando il fronte dei neutralisti che comprendeva la stragrande maggioranza del paese e del parlamento. Il Consiglio dei Ministri, considerando la situazione politica, decise di disertare la manifestazione e il Re si adeguò a siffatta decisione; tuttavia inviò al sindaco di Genova, il generale Emilio Massone, un telegramma che suonava come un impegno alla guerra: “Se le cure di Stato, mutando il desiderio in rammarico, mi tolgono di partecipare alla cerimonia che si compie costà, non si allontana però oggi dallo Scoglio di Quarto il mio pensiero. A codesta fatale sponda del Mar Ligure, che vide nascere chi primo vaticinò l’unità della Patria e il Duce dei Mille salpare con immortale ardimento verso le immortali fortune, mando il mio commosso saluto. E, con lo stesso animoso fervore di affetti che guidò il mio Grande Avo, dalla concorde consacrazione delle memorie,

traggo la fede nel glorioso avvenire d’Italia”. La Corona, dunque, indicò chiaramente il proprio pensiero e a infiammare gli animi ci pensò Gabriele d’Annunzio, chiamato a tenere l’Orazione per la Sagra dei Mille. Il Poeta si rivolse al Re “assente presente”, al Popolo di Genova “Corpo del risorto San Giorgio” ai “Liguri delle due riviere e d’oltre giogo” e soprattutto agli Italiani “d’ogni generazione e di ogni confessione, nati dell’unica madre, gente nostra, sangue nostro, fratelli”; a loro era affidata la missione di completare l’epopea risorgimentale e di liberare i consanguinei che ancora soggiacevano sotto il giogo straniero: la guerra sarebbe stata opera di redenzione e d’unificazione. Mischiando abilmente volontà di potenza e reminiscenze classiche, l’Immaginifico ammantò l’allocuzione di un velo religioso e, parafrasando il Discorso della montagna5, si rivolse alla folla prospettando, con la guerra, il ritorno alla potenza di Roma imperiale, che avrebbe consentito a tutti di coronare un sogno di gloria: “O beati quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno arde35


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re. […] Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissipano la loro forza, ma la custodiscono nella disciplina del guerriero. Beati quelli che disdegnano gli amori sterili per essere vergini a questo primo e ultimo amore. Beati quelli che, avendo nel petto un odio radicato, se lo strapperanno con le loro proprie mani; e poi offriranno la loro offerta. […] Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore. Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte incoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia”. La guerra era evocata come una sorta di morte iniziatica che il Regno si apprestava ad affrontare per giungere a un livello più alto dell’essere e lo Scoglio di Quarto era l’immagine della sponda del Lete, della riva misteriosa dalla quale prendere l’abbrivio per approdare alla “vita dell’ol36

tre”. Il sacrificio era necessario per assurgere a una rigenerazione totale: “i resuscitanti eroi – declamava il Poeta – sollevano con uno sforzo titanico la gravezza della morte perché il loro creatore in piedi li foggi in immortalità”. Nei giorni seguenti vi fu un susseguirsi di manifestazioni a favore della guerra e di protesta nei confronti dei neutralisti: Giovanni Giolitti era definito “complice dello straniero e nemico della Patria”, mentre Gabriele d’Annunzio, ormai calatosi nella parte di vate, arringava le folle della Capitale dal balcone dell’Hotel Regina. Alea iacta est, la scelta ormai era stata fatta, vi era solo da attendere la dichiarazione di guerra; a questo punto perseverare nella neutralità avrebbe significato assumere posizioni antipatriottiche; pertanto anche Saverio Fera, pur continuando a dubitare sulla bontà del passo, si allineò sulle decisioni della Corona e del Governo. Di conseguenza il Gran Maestro con-

vocò per il 26 maggio il Supremo Consiglio, durante il quale fu letta la relazione a favore dell’intervento dell’onorevole Paolo Boselli e subito dopo Fera inviò a tutti i Supremi Consigli del mondo e alle potenze massoniche regolari la balaustra 0024, nella quale addossava la responsabilità dello scontro “allo spirito di conquista degli Imperi centrali […] aspiranti alla dominazione d’Europa”. L’Italia era scesa in campo, egli affermava, “in nome non soltanto dei suoi sacri diritti nazionali, ma della giustizia internazionale e dell’umanità”. Quindi auspicava la concordia di tutti i massoni italiani che “senza distinzione di Rito, di organizzazione, di tendenze” dovevano marciare uniti “sotto l’egida dei propri principi distintivi e dei rispettivi labari, all’ombra tutti del grande vessillo che su tutti sovrasta e sovrasterà sempre, la tricolore bandiera italiana”6. Fera mantenne, perciò, una posizione coerente: prima auspicò la pace ma, quando il paese optò per il conflitto, cercò di giustificarlo addossandone la responsabilità all’imperialismo austro-germanico e alla necessità dell’Italia di liberare le terre irredente; evitò tuttavia di precipitare nella retorica bellicistica tipica del momento. La situazione mutò quando, il 29 dicembre 1915, Saverio Fera passò a miglior vita7 e il suo posto fu preso da Leonardo Ricciardi. Subentrato immediatamente al predecessore quale Luogotenente Reggente, Ricciardi fu confermato alla guida dell’Obbedienza all’inizio del 19168 e già il 24 maggio, per l’anniversario dell’entrata in guerra, inviò al sovrano un telegramma nel quale esprimeva la necessità di una guerra totale: l’Italia doveva combattere anche contro la Germania9, perché unico era il nemico, unico era il fronte degli alleati e unica sarebbe stata la vittoria finale che avrebbe affratellato tutti i popoli liberi. Il Re fece rispondere da Salandra con un testo che esprimeva compiacimento per il messaggio ricevuto: “I sentimenti e i voti di cui Ella si è resa interprete sono giunti graditi a S. M. il Re, che ringrazia”10. Nello stesso periodo Leonardo Ricciardi incaricò il Gran Cancelliere, Vittorio Rao-ul Palermi, d’inviare una circolare alle potenze massoniche amiche per protestare contro “le atrocità tedesche e austriache nei paesi invasi, contro l’influen-


za economica germanica nei paesi alleati (a cominciare dall’Italia) e neutrali e per la partecipazione a questa guerra di liberazione de’ popoli di quante nazioni avessero per base fondamentale i diritti della Civiltà e dell’Umanità”11. Al documento risposero le Comunioni libero-muratorie d’Argentina, Brasile, Belgio, Cuba, Francia, Grecia, Portogallo e Scozia. Poco tempo dopo, essendosi conclusa la sesta battaglia dell’Isonzo con la conquista di Gorizia12, il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro inviò una balaustra a tutti i corpi dell’Obbedienza, premettendo che, pur desiderando la Massoneria “pace, […] amore fra gli uomini, [… e] fratellanza fra i popoli”, non era possibile “ascoltare la voce dei banditori di pace affinché questa debba essere la pace vittoriosa dei nostri nemici. Essi la vogliano oggi, e si comprende, in quanto dovrebbe consacrare i risultati militari strappati alle Nazioni che […] erano impreparate al formidabile urto. Ma oggi che la preparazione si va completando e il giorno della riscossa del Diritto non appare lontano, i popoli coscienti – e la Massoneria in prima linea – non possono auspicare se non una pace che scongiuri nuove stragi future, una pace solida e durevole la quale sorgerà dalla sconfitta soltanto del militarismo e della barbarie”. Il documento si concludeva con la dichiarazione che l’Italia, “indomita, ammirata nel mondo”, dopo aver conquistato Gorizia, avrebbe liberato Trento, Trieste “ed altre città dell’Adriatico nostro”13. Nel dicembre dello stesso anno Ricciardi fu costretto a fronteggiare una gravissima crisi interna e, per rafforzare la propria posizione, organizzò un simposio internazionale dei Supremi Consigli. Nel corso della riunione il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro14 pronunciò un lungo e articolato discorso nel quale ribadì la sua contrarietà ad avventurismi diplomatici che prendessero in considerazione le proposte di pace dei Tedeschi: uscire dal conflitto per firmare accordi separati avrebbe rappresentato un suicidio ed era proprio a questo che miravano i nemici con le loro ingannevoli offerte. Inoltre, il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro, giustificò la posizione prudenziale tenuta dalla Gran Loggia fino al 1915 con la lealtà dell’istituzione

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verso il governo e con motivazioni di opportunità politica: “Noi Massoni scozzesi abbiamo giurato di essere fedeli osservatori delle leggi dello Stato; dobbiamo quindi secondare l’opera, non ostacolarla. Perciò l’Ordine al quale presiedo, dallo scoppiare del conflitto europeo sino all’entrata in guerra dell’Italia, si affermò palesemente seguace della neutralità dichiarata dal Governo. Non dovevasi, infatti, lasciare dire agli avversari che la Massoneria spingeva il Governo alla guerra, la quale era invece nel cuore degli italiani tutti, mentre dovevano maturare gli eventi. Ma l’indomani della dichiarazione di guerra dell’Italia furono diramate le Circolari che spiegavano perché la Massoneria di Rito Scozzese […] sorgeva a propugnatrice di essa per il raggiungimento di una vittoria che non poteva essere soltanto dell’Italia, ma di tutti i suoi alleati, perché unica è la causa che difendono: l’indipendenza e la libertà dei popoli e il trionfo del principio di nazionalità”15.

L’anno successivo Leonardo Ricciardi pubblicò numerosi documenti a sostegno della guerra. Il primo fu stilato in aprile per celebrare la scesa in campo degli Stati Uniti: il contributo della “liberissima America” sarebbe stato fondamentale e avrebbe abbreviato il corso delle ostilità, la vittoria era ormai dietro l’angolo di conseguenza, egli invitava i fratelli e i concittadini a porre “in alto i cuori nella fede sublime della Patria italiana e dal grande ideale compendiato nel trinomio Libertà – Fratellanza – Uguaglianza”; concludeva con un canonico “Evviva l’Italia ed i suoi alleati! Viva la Libera America nostra nuova alleata!”16. L’intervento più emblematico del Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro si ebbe, tuttavia, il 24 maggio, in occasione dell’anniversario dell’entrata in guerra del Paese. Quel giorno, oltre a inviare al Re il solito telegramma, Ricciardi pubblicò una circolare, nota come “discorso sugli stati–caserma”. In esso, esasperando i 37


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toni, ribadiva l’opposizione fra democrazie e autocrazie, fra libertà e tirannide, inoltre esaltava la figura di Vittorio Emanuele III, additato quale esempio di sovrano libertario e democratico; infine accennava al pericolo del terzo fronte, quello interno, artatamente aperto da un nemico che mirava, attraverso il complotto, la corruzione, il sabotaggio, il disfattismo a colpire alle spalle la Nazione, invitta sui campi di battaglia: “Combattere strenuamente per la Vittoria sugli Austrotedeschi ed i loro vassalli significa combattere per la Civiltà, per la Libertà. Il proletariato del mondo civile bene ha compreso che questa non è la guerra di Governi ma di popoli che difendono il sacro diritto alla vita contro quegli altri popoli che in pieno consenso con i loro Governi vollero la guerra e in essa accanitamente perseverano. Siano bandite le illusioni ingan38

natrici e le insidie, le quali tenderebbero a separare le responsabilità fra le autocrazie nemiche […] e i loro popoli. E’ doveroso continuare a combattere contro le nazioni-caserme per imporre loro una pace che strappi le armi al militarismo nemico, che sottragga per sempre l’Italia e gli altri paesi civili alla penetrazione commerciale e industriale degli austro-tedeschi, i quali succhiavano come vampiri il denaro delle altre nazioni per trasformarlo in armi da volgere contro i liberi popoli. Le stragi immani imposte all’umanità da Vienna e Berlino non debbono più ripetersi nell’avvenire. […] Sia dunque lotta inesorabile contro i nemici di fuori e quelli di dentro che ovunque si annidano e moltiplicano sotto svariati travestimenti, or tentando invano l’insidia dello sconforto e della divisione o del pacifismo ingannatore or meditando i delitti più obbrobriosi e atro-

ci contro la Patria e le sue forze. […] Italiani! Procediamo ancora innanzi, tutti uniti senza differenza alcuna di partiti e di classi, stretti nel pensiero della patria nostra e della Libertà del mondo, intorno al Duce Supremo della Nazione, il Re patriota e soldato, democratico e popolare. Italiani! Lieti e orgogliosi delle nuove vittorie delle nostre armi in questo radioso maggio di guerra, volgiamo il pensiero riconoscente all’Esercito, all’Armata, ai nostri Eroi, ai nostri Martiri, affrettando anche all’interno, con salda anima di guerra ed una sempre maggiore efficienza del nostro apparecchio militare, il compimento del programma onde l’Italia il 24 maggio 1915 impugnava le armi: Trento, Trieste, Adriatico nostro!”17. Purtroppo al radioso maggio seguì un fosco ottobre: il 24 di quel mese iniziò l’offensiva austro-tedesca che portò allo


sfondamento del fronte italiano e alla rotta di Caporetto, la cui responsabilità fu attribuita al generale Luigi Capello18. Solo nel mese di novembre l’avanzata nemica fu arginata sulla linea del Piave. In tali drammatiche circostanze la Comunione rimase silente, solo a dicembre si fece di nuovo sentire con un telegramma inviato dal Gran Segretario Generale Vittorio Raoul Palermi all’ambasciatore americano a Roma19, al quale seguì il 27 una riunione d’urgenza del Supremo Consiglio per deliberare l’intensificazione della “opera di propaganda a favore della guerra che non può finire senza il raggiungimento degli ideali per i quali la nazione ha affrontato con slancio e abnegazione qualunque sacrificio”20. Pochi giorni dopo, il 12 gennaio 1918, William Burgess sostituì Ricciardi alla guida della Comunione, mentre Vittorio Raoul Palermi fu eletto Luogotenente Sovrano Gran Commendatore21. Il mandato dell’ormai anziano22 Burgess durò pochissimo egli, infatti, nel mese di aprile rassegnò le dimissioni e, il 28, fu eletto alla suprema carica Palermi che, agli inizi di settembre, firmò un manifesto celebrativo della Breccia di Porta Pia. Si trattò di un documento importante, perché per la prima volta si accennò ai futuri assetti territoriali dell’Europa, dalla quale doveva essere cancellato l’Impero asburgico: “I nemici della Civiltà i quali scatenarono la guerra per bieco spirito di dominazione, dopo aver straziato il Belgio, la Serbia, il Montenegro e nobilissime terre francesi, piombarono su noi in ottobre scorso con la parola d’ordine Nach Rom. Arrestati dagli eroici figli d’Italia, ritentarono testé la prova, respinti dal valore dei soldati italiani e alleati […]. Come l’Italia rispose con prodigiosa vittoria sul Piave23 e gli alleati con le magnifiche vittorie di Francia24, così alle ripetute offensive pacifiste che tendono a garantire agl’imperi centrali e ai loro vassalli di Bulgaria e di Turchia il maltolto, Noi sempre più risoluti nel rivendicare all’Italia i suoi diritti nazionali in terra e in mare, alla Francia la sua Alsazia e la sua Lorena, alle piccole seviziate nazioni la restaurazione e le giuste riparazioni, rispondiamo proclamando altamente la necessità della disgregazione dell’impero austro-ungarico e la scomparsa di qualsiasi dispotismo in Europa, con la libertà e l’indipendenza di tutti i popoli oggi violenta-

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ti da austriaci, tedeschi, bulgari e ottomani”25. Di lì a poco gli imperi centrali crollarono: il 24 ottobre iniziò la battaglia di Vittorio Veneto, il 3 novembre l’Austria-Ungheria firmò l’armistizio di Villa Giusti e il giorno dopo il generale Armando Diaz diffuse il Bollettino della vittoria. Ormai la guerra era finita e l’11 novembre si concluse ufficialmente con la firma a Compiègne dell’armistizio fra le potenze vincitrici e l’impero germanico. Terminata la guerra, “Era Nuova” del novembre – dicembre 1918 uscì riportando in prima pagina il messaggio di saluto del Fratello Paolo Thaon di Revel26, capo di Stato Maggiore della Marina: “L’opera patriottica della Massoneria Italiana di Rito Scozzese – egli scriveva – contribuì ad affermare i nazionali diritti sulla opposta

sponda. Oggi che auspicato vaticinio sta per compiersi vada a loro tutti il commosso saluto dei Marinai d’Italia fidenti nella grandezza della Patria”27. Seguiva il redazionale, dove si definiva il conflitto appena concluso “massonico”: “Giacché questa che da quattro anni si è combattuta è la sola guerra massonica della storia, sostenuta per il raggiungimento di idealità che furono e sono la base precipua del programma degli antichi e accettati massoni nel mondo. Onde massonica sarà la pace della vittoria, con il riconoscimento del diritto di tutte le nazionalità all’indipendenza, con l’instaurazione della libertà politica per i popoli, con la società delle nazioni”28. Il periodico riportava, inoltre, la circolare del Gran Maestro, intitolata Dopo la vittoria, seguita dai telegrammi di saluto 39


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inoltrati da Palermi al Re e ad Armando Diaz. Il primo fece rispondere dal ministro Sonnino che ringraziava a nome di Sua Maestà29, mentre più articolata fu la risposta del generale: “In questo giorno radioso che segna il trionfo dei più alti ideali di giustizia e di libertà, l’Esercito vitto40

rioso ricambia con riconoscenza il vibrante saluto”30. Infine la rivista, dopo aver elencato le iniziative della Comunione a sostegno della Patria nei quattro anni di sangue, citava alcuni confratelli periti in combattimento. Venne ricordato il tenente di vascello

Carlo Della Rocca 18°, attivo e quotizzante nella R. L. Madre “XX Settembre 1870” all’Oriente di Roma. Della Rocca era comandante di una stazione di idrovolanti ed era stato decorato con due medaglie d’argento al valor militare; era deceduto a seguito di un incidente di volo31.


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Fra gli eroi della Comunione, “Era Nuova” celebrò Francesco Baracca. L’asso dell’aviazione italiana appartenne probabilmente alla loggia di Lugo di Romagna “Dovere e Diritto”, all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia32 e conseguì il 18° del Rito Scozzese. Sulla sua appartenenza massonica, tuttavia, non vi sono documenti e il nome di Baracca non compare nei libri di matricola del Grande Oriente, né in quelli della Gran Loggia. Secondo Antonino Zarcone egli fu probabilmente iniziato a Reims nel 1912 dove frequentò il corso di pilotaggio o a Parigi nel 1915 quando si addestrò a volare sul Nieuport 1033. “Era Nuova” ricordò Francesco Baracca in modo ambiguo; non rivendicò, infatti, la sua appartenenza alla Comunione di Piazza del Gesù, ma la fece intendere, ponendolo fra “i nostri eroi” e riportando che l’aviatore fu commemorato “dalla “R. L. Alto Adige all’obbedienza della nostra Serenissima Gran Loggia”, proseguì affermando che alla cerimonia “erano presenti, oltre al Governo dell’Ordine, numerosi ufficiali italiani e alleati” e che “Sedeva al banco dell’oratore un altro fratello, militare, scrittore e poeta il quale pronunciò una commovente, alata orazione”34. Le celebrazioni per la vittoria non si limitarono al 1918, ma proseguirono negli anni successivi. Sul numero 11 di “Era Nuova” del novembre 1921 si legge che la R. L. “3 novembre 1918 all’Oriente di Roma indisse una solenne tornata per celebrare la vittoria, nel corso della quale fu proclamato per acclamazione Maestro Libero Muratore il milite Ignoto”35. Nello stesso numero fu riportato che la R.

L. “Veritas” all’Oriente di Napoli organizzò una tornata funebre per commemorare il Milite Ignoto. Il periodico relazionò su ogni fase del rito e riservò un ampio spazio al discorso dell’oratore che riassunse i temi più cari alla retorica bellicistica: il conflitto come prosecuzione dell’epopea risorgimentale e come trionfo dei valori massonici, l’eroismo dell’esercito italiano costretto a combattere contro un nemico superiore per numero e mezzi, la tirannia barbarica degli imperi centrali e infine il sorgere di un’età nuova “di pace serena e consolatrice”36 destinata a unire e affratellare tutti gli uomini. Mai vi fu peggior profeta: già da tempo le squadre fasciste erano operative37 e di lì a poco l’intera Europa avrebbe conosciuto gli anni più oscuri dell’età contemporanea.

Bibliografia: S. Bertoldi, Camicia nera. Fatti e misfatti di un ventennio italiano, Milano 1994. G. Bandini, La Massoneria per la guerra nazionale (1914 – 1915), Roma 1914. O. Bovio, Storia dell’Esercito Italiano (1861 – 2000), Roma 2010. R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919 – 1925, Firenze 1972. “Era Nuova. Rassegna Massonica”, a. VIII, n. 1, novembre – dicembre 1918. “Era Nuova. Rassegna Massonica”, a. XI, n. 11, novembre 1921. S. Fera, Il patriottismo e l’Evangelo, Firenze 1898. M. Isastia, La Massoneria al contrattacco: “L’Idea democratica di Gino Bandini (1913 – 1919), in Dall’erudizione alla politica. Giornali, gior-

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A. Zarcone, Generali e massoneria tra Risorgimento e fascismo. Indagine su un rapporto inesistente, in Risorgimento & Massoneria, a. c. di A. A. Mola e L. Pruneti, Roma 2013. A. Zarcone, I precursori. Volontariato democratico italiano nella guerra contro l’Austria: repubblicani, radicali, socialisti riformisti, anarchici e massoni, Roma 2014.

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Note: 1 G. Bandini, La Massoneria per la guerra nazionale (1914-1915), Roma 1914, p. 13 e segg; A. Zarcone, I precursori. Volontariato democratico italiano nella guerra contro l’Austria: repubblicani, radicali, socialisti riformisti, anarchici e massoni, Roma 2014, p. 21. Cfr. A. M. Isastia, La Massoneria al contrattacco: “L’Idea democratica di Gino Bandini (1913-1919), in Dall’erudizione alla politica. Giornali, giornalisti ed editori a Roma tra il XVII e il XX secolo, a. c. di M. Cafiero e G. Monsagrati, Milano 1997. 2 L. Pruneti, La Comunione di Piazza del Gesù di fronte al primo conflitto mondiale, in “Officinae”, a. XXVI, dicembre 2014, n. 4, pp. 72-73. 3 Cfr. O. Bovio, Storia dell’Esercito Italiano (1861-2000), Roma 2010, p. 217. 4 Cfr. S. Fera, Il patriottismo e l’Evangelo, Firenze 1898. 5 Matteo 5, 1 – 12. 6 L. Pruneti, Annales. Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. 1908-2012. Cronologia di storia della Massoneria italiana e internazionale, a. c. di A. A. Mola, Roma 2013, pp. 67-68. 7 L. Pruneti, La Tradizione Massonica Scozzese in Italia. Storia del Supremo Consiglio e della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. Obbedienza di Piazza del Gesù dal 1805 ad oggi, Roma 1994, pp. 94-96.

nalisti ed editori a Roma tra il XVII e il XX secolo, a. c. di M. Cafiero e G. Monsagrati, Milano 1997. “La Catena d’Unione (miscellanea massonica) Organo dell’Unione Massonica di Rito Scozzese Antico ed Accettato. Documenti per la storia della Massoneria Italiana (1908-1946)”, Fasc. I, novembre 1946. B. H. Liddell Hart, La prima guerra mondiale, Milano 1968. A. Marcolin, Firenze in camicia nera, Firenze 1993. A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano 1992. A. A. Mola, Un secolo di vita continua, in L. Pruneti, Annales. Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. 1908-2012. Cronologia di storia della Massoneria italiana e internazionale, a. c. di A. A. Mola, Roma 2013. L. Pruneti, Annales. Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. 1908-2012. Cronologia di storia della Massoneria italiana e internazionale, a. c. di A.

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A. Mola, Roma 2013. L. Pruneti, Aquile e corone. L’Italia il Montenegro e la Massoneria dalle nozze di Vittorio Emanuele III ed Elena al governo Mussolini, Firenze 2012. L. Pruneti, Il “golpe” della riunificazione in un documento del 27 dicembre del 1916, in “Officinae”, a. XVIII, n. 1 marzo 2006. L. Pruneti, La Comunione di Piazza del Gesù di fronte al primo conflitto mondiale, in “Officinae”, a. XXVI, dicembre 2014, n. 4. L. Pruneti, La Tradizione Massonica Scozzese in Italia. Storia del Supremo Consiglio e della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. Obbedienza di Piazza del Gesù dal 1805 ad oggi, Roma 1994. G. Salotti, Breve storia del fascismo, Milano 1998. J. M. Willmott, La prima guerra mondiale, Milano 2006. A. Zarcone, Francesco Baracca. Documenti su massoni in divisa, in “Officinae”, a. XXV, settembre 2013, n. 3.

8 “La Catena d’Unione (miscellanea massonica) Organo dell’Unione Massonica di Rito Scozzese Antico ed Accettato. Documenti per la storia della Massoneria Italiana (1908-1946)”, Fasc. I, novembre 1946, p. 54. 9 L’Italia dichiarò guerra all’Impero tedesco il 27 agosto 1916. Cfr. J. M. Willmott, La prima guerra mondiale, Milano 2006; B. H. Liddell Hart, La prima guerra mondiale, Milano 1968. 10 “Era Nuova. Rassegna Massonica”, a. VIII, n. 1, novembre – dicembre 1918, p. 15 11 Ibidem, p. 14. 12 17 agosto 1916. 13 “Era Nuova. Rassegna Massonica”, a. VIII, n. 1, novembre – dicembre 1918, p. 15. 14 Nel dicembre del 1916 Giovanni Francica Nava, Giovanni Camera e Dario Cossutto, cercarono con un colpo di mano di far conflui-re la Comunione di Piazza del Gesù nel Grande Oriente d’Italia, l’operazione fallì ma la Serenissima Gran Loggia subì una notevole emorragia di fratelli. L. Pruneti, Il “golpe” della riunificazione in un documento del 27 dicembre del


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1916, in “Officinae”, a. XVIII, n. 1 marzo 2006; L. Pruneti, Aquile e corone. L’Italia il Montenegro e la Massoneria dalle nozze di Vittorio Emanuele III ed Elena al governo Mussolini, Firenze 2012, nota p. 118. 15 “Era Nuova. Rassegna Massonica”, a. VIII, n. 1, novembre – dicembre 1918, p. 16. 16 Ibidem, p. 17. 17 Ibidem, pp. 17-18. 18 A. Zarcone, Generali e massoneria tra Risorgimento e fascismo. Indagine su un rapporto inesistente, in Risorgimento & Massoneria, a. c. di A. A. Mola e L. Pruneti, Roma 2013, p. 131. 19 Il telegramma, datato Roma 9 dicembre, ebbe risposta il giorno 18 con una nota del Segretario d’ambasciata B. Reath Riggs che, a nome dell’ambasciatore esprimeva apprezzamento per i “sentimenti di fratellanza e di solidarietà gentilmente espressi dal loro illustre Ordine all’indirizzo degli Stati Uniti d’America”. “Era Nuova. Rassegna Massonica”, a. VIII, n. 1, novembre – dicembre 1918, p. 19. 20 Ibidem, p. 20. 21 L. Pruneti, Annales … cit, p. 72. 22 Burgess era nato nel 1845. 23 Ci si riferisce alla Battaglia del solstizio (15 – 22 giugno 1918) che vide fallire l’ultima offensiva austro-ungarica sul Piave.

Inoltre l’ammiraglio è indicato, sempre come membro attivo, in una convocazione del Supremo Consiglio del 24 giugno 1922. L. Pruneti, Annales … cit, p. 81 e p. 83; cfr. A. A. Mola, Un secolo di vita continua, in L. Pruneti, Annales … cit, p. 27. 27 In “Era Nuova. Rassegna Massonica”, a. VIII, n. 1, novembre – dicembre 1918, p. 1. 28 Ibidem, pp. 1 -2.

24 L’8 agosto iniziò la Battaglia dei cento giorni con la quale gli alleati passarono all’offensiva su tutto il fronte occidentale.

29 Ibidem, p. 4.

25 In “Era Nuova. Rassegna Massonica”, a. VIII, n. 1, novembre – dicembre 1918, p. 23.

32 L. Pruneti, Annales … cit, p. 73. A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano 1992, p. 719.

26 L’appartenenza dell’ammiraglio Paolo Thaon de Revel alla Comunione di Piazza del Gesù è pressoché certa. Il suo nome è, infatti, presente nell’elenco dei Membri Attivi del Supremo Consiglio, pubblicato negli Annali 19211922 della Gran Segreteria Piazza del Gesù 47, Federazione Universale del Rito Scozzese Antico ed Accettato, Supremo Consiglio del 33° ed Ultimo Grado per l’Italia sue dipendenze e colonie.

30 Ibidem, p. 4. 31 Ibidem, p. 27.

33 A. Zarcone, Francesco Baracca. Documenti su massoni in divisa, in “Officinae”, a. XXV, settembre 2013, n. 3, p. 53. 34 In “Era Nuova. Rassegna Massonica”, a. VIII, n. 1, novembre – dicembre 1918, p. 27. 35 In “Era Nuova. Rassegna Massonica”, a. XI, n. 11, novembre 1921, p. 1 e 9.

36 Ibidem, p. 13. 37 Già alla fine di febbraio vi erano stati gravissimi tumulti a Firenze che terminarono dopo quattro giorni di guerriglia urbana con un bilancio di 18 morti e quasi cinquecento feriti. Il 21 novembre poi, i fascisti assalirono a Bologna Palazzo d’Accursio, i disordini costarono undici vittime e sessanta feriti. L. Pruneti, Aquile e corone. L’Italia il Montenegro e la Massoneria dalle nozze di Vittorio Emanuele III ed Elena al governo Mussolini,… cit, pp. 89 – 92; A. Marcolin, Firenze in camicia nera, Firenze 1993, pp. 26 – 34; S. Bertoldi, Camicia nera. Fatti e misfatti di un ventennio italiano, Milano 1994, p. 35; R. Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919 – 1925, Firenze 1972, p. 35; G. Salotti, Breve storia del fascismo, Milano 1998, p. 122. P.35: Trincea in quota; p.36-37: Manifesto di propaganda e Ritratto di Saverio Fera; p.38-39: Arditi nelle retrovie e cartolina postale del periodo bellico; p.40-41: Pagina del Popolo d’Italia, Vittorio Emanuele III con re Alberto I del Belgio e ritratto di Luigi Cadorna; p.42-43: Diploma di idoneità del generale Diaz, ritratto fotografico dello stesso e lapide celebrante la vittoria della I Guerra mondiale.

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XXI Aprile: Storia Natale di Roma Riccardo Cecioni

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i è capitato per caso di ascoltare l’Inno a Roma, scritto nel 1919 da Fausto Salvatori e musicato da Giacomo Puccini, meraviglioso inno richiesto, certo con bramosia, da una nazione appena uscita da una guerra tremenda e disperata anche se vittoriosa. Un inno che voleva essere un incitamento alla gioia e all’orgoglio di appartenere a una terra piccola, ma con migliaia di anni di storia e di civiltà, che l’avevano resa grande anche contro la volontà straniera. Salvatori aveva letto il Carmen Saeculare di Orazio, un inno e un’invocazione alle divinità su cui si era retta Roma nel suo grandioso divenire: l’aveva letto e ne aveva tratto l’ispirazione per il suo inno, incentrando tutto su una sola strofa, da utilizzare a ritornello, e divenuta subito famosa. Poi la follia politica ha travolto anche questa magnifica esplosione di sentimenti italici fusi in un felice connubio di parole e musica: e l’Italia, con l’usuale e congenita paura per i suoi fantasmi, l’ha scioccamente relegata al buio per destinarla all’oblio o alla mercé di minoranze partigiane. Le parole dell’Inno a Roma mi hanno risvegliato un’antica curiosità e una torma di ricordi scolastici mi si sono ripresenta-

ti con risposte, forse vaghe, e interrogativi certi. Ho ricercato il testo di Orazio, per rileggerlo con quella calma che non avevo certo avuto da studente del Ginnasio o del Liceo. Mi si è aperto un mondo che non avevo certamente trovato allora, ai tempi delle interrogazioni: ma oggi, quando le interrogazioni le dirigo io a me stesso, mi vengono in soccorso anni di militanza nella Libera Muratoria che mi hanno portato a percepire, “a naso”, riferimenti iniziatici nelle immagini rese vive dalla maestria del vate. Dalle sue parole, dalle sue immagini, i colori si muovono fluidi e illustrano figure perse nella magnanima calma di una realtà antica che ancora vive nel ricordo: vive nella Tradizione che ha forgiato un popolo di mille popoli; vive nello spirito e nel tempo in cui stranamente non vi sono guerre e Roma e il suo mondo è in pace. Anno 736 ab Urbe condita. È un inno, un’invocazione agli Dei Padri, agli Dei latini, agli Dei etruschi, agli Dei delle famiglie, agli Dei delle genti; un inno che invoca la sacralità per il tempo concesso dall’auspicio di Sibilla ai Giuochi Secolari. È un inno che unisce l’attualità all’antica origine, attraverso il mito e la Tradizione, attraverso il culto della Tra-

dizione. Allora si rianimano Ilizia, Lucina e Genitalis mai veramente assopite nell’oblio ma sostenute dalla saggezza popolare; risplende Febo Apollo e riluce Diana Selene, sicuri alleati per l’opera di Cerere. Dalle parole auliche e talvolta oscure il pensiero vola alle fatiche per la fondazione della città e mi sovvengono tutte le descrizioni lasciate dagli scrittori della latinità, ma soprattutto una raccolta di dotte e acute monografie a corredo di una mostra allestita alle Terme di Diocleziano nel 2000 con tema Roma. Innanzi tutto, pur da appassionato, non essendo un addetto ai lavori, devo fare costantemente riferimento al pensiero di chi sull’argomento è più informato di me, cioè devo rivolgermi alla critica storica e all’archeologia. “Orbene, gli storici romani della nostra epoca hanno negato ogni valore alla saga di Romolo e quindi anche alla stessa fondazione di Roma nell’VIII secolo a.C. Da una parte Roma sarebbe un abitato più antico dell’età romulea e dall’altra Roma sarebbe diventata una città più tardi del VI secolo a.C. [...] È la stessa critica storica e archeologica a farmi risalire dal VI all’VIII secolo, e da un’idea di ‘formazione’ della città all’idea di una ‘fondazione’, cioè al rito del famoso solco 45


primigenio che Romolo avrebbe tracciato intorno al Palatino.”1 L’archeologia, con l’ausilio dello studio stratigrafico, è pervenuta a rintracciare e identificare alla base del Palatino le antiche mura romulee e la Porta Mugorua datate al terzo quarto dell’VIII secolo a.C.

Storia Anche se il complesso dei colli romani ha avuto presenza di villaggi in tutto il periodo dal 1700 al 900 a.C., con queste nuove conoscenze può essere ridata fiducia agli scrittori latini sulla storia della loro città e riaccordato rispetto alla Tradizione del popolo romano, cui gli scrittori si erano affidati. Riconosciuta la validità della memoria tramandata e del conseguente utilizzo di scrittori e artigiani, passiamo all’esame delle due figure di Romolo e Remo. Vengono tramandati come gemelli figli di Marte e di Rea Silvia, figlia di Numitore, che per ordine dello zio Amulio, usurpatore del trono di Alba Longa, diviene vestale. Il primo fattore che indica la straordinarietà dei personaggi non è tanto la discendenza divina, piuttosto frequente nell’antichità, ma la gemellarità. Cosa questa che per i Latini era più bestiale che umana, essendo più normale per le bestie il parto plurimo: da questo concetto di bestialità sorge il mito della lupa, unica possibile prima nutrice di una prole umana nata bestialmente. Naturalmente essa deve poi essere sostituita da un’umana: ed ecco Acca Larenzia, moglie di Faustolo, che provvede allo svezzamento e ad allevare i due fanciulli. La bestialità non scompare, ma si trasforma in ferocia: e decidendo di “fondare” la loro città, uno dei due deve necessariamente lasciare all’altro il comando. Essendo fallito l’affidamento al volere divino richiesto tramite l’arte aruspicina (di chiara origine etrusca), Romolo con prepotenza traccia il solco sacro intorno alla sua zona del Palatino senza esserne autorizzato: Remo in segno di disprezzo compie l’unica azione che in tale circostanza non ammette dubbi, cioè scavalca il solco verso l’esterno in segno di opposizione. La morte di quest’ultimo è inevitabile. Ho accennato al solco per tracciare il limite dell’area sacra che individua la città o la costruzione pubblica dedicate a una divinità tute46

latrice. Secondo Varrone, Cicerone, Macrobio, Plinio e molti altri scrittori latini, i Romani per la definizione dell’area sacra si affidavano in tutto a cerimonie di rito etrusco. Rito che, essendo al di fuori delle loro conoscenze, essi adottarono e fecero proprio. Questo prevedeva la individuazione del templum majus nel cielo, dove leggervi gli auspici, e tracciarne quindi il riflesso in terra, templum minus. Medesimo rito era applicato anche per la limitatio, cioè per la definizione del territorio destinato alla città. Determinata la posizione del centro sacro, ove scavare un pozzo, il mundus, legame tra i morti e i vivi, lo si copriva con un lastrone di pietra e si procedeva a fissare le due grandi vie principali (cardo asse nord-sud e decumano asse est-ovest) intersecantisi ad angolo retto sul pozzo stesso. “Una volta stabilito il perimetro urbano, esso veniva tracciato con un aratro dal vomere bronzeo aggiogato ad un toro bianco a destra e una vacca bianca a sinistra; l’aratore faceva attenzione, muovendosi in senso antiorario con la vacca bianca all’interno del confine definito, che il vomere fosse obliquo e che quindi la terra sollevata ricadesse verso l’interno a simboleggiare le future mura. Quando si giungeva alle porte, l’aratro doveva essere sollevato, giacché solo le mura erano sacre (e quindi inviolabili) mentre le porte erano profane e dunque percorribili senza incorrere nell’ira divina. [...] Il sulcus primigenius delimitava dunque sulla città il templum dove avevano la loro sfera di azione gli dei, legando uomini e divinità ad una stessa area definita che – quale loro sede – avrebbero entrambi difeso. Così, ad esempio, i civili stranieri non venivano volutamente ammessi all’interno di questo magico recinto, come ne sarebbero stati respinti dai nemici. Perché questi limiti cittadini (detti pomerium) fossero sempre nella mente e nella benevolenza degli dei, si teneva periodicamente una processione lungo di essi, di valenza purificale detta lustratio (Catone, r.r. 141)”2. Non solo gli scrittori si rifanno alla Tradizione nel comporre le loro opere, ma anche gli artigiani, gli orafi, i fonditori, i ceramisti. Fra i manufatti pervenutici, interessanti per l’argomento qui trattato, si trova un carrello cerimoniale, quello cosiddetto “da Bisenzio” (seconda metà dell’VIII secolo a.C.), in bronzo, con raffigu-

razioni di uomini e animali. Una di queste rappresenta un aratore, senza dubbio in veste rituale, con un aratro aggiogato proprio ad una coppia di bovini: toro a destra, dalla parte esterna del carrello, e vacca a sinistra, dalla parte interna dello strumento cerimoniale. Proprio come indicato più sopra, con le parole del dott. Martinelli dedotte dagli autori sunnominati. Ecco quindi la forza della Tradizione che, pure attraverso i corsi e i ricorsi della critica storica, pure attraverso l’oblio o la confusione portati dalle vicende umane, ha mantenuto inalterata fino ai giorni d’oggi la memoria del nascere di Roma e continua a festeggiarla alla medesima data, come ha sempre fatto. Ecco quindi la forza della Tradizione che mantiene vivi usanze e riti che fin dalla propria origine ha fatto suoi. Mi domando però: si sarebbero trasmesse nel tempo quelle conoscenze se non fossero state congenite? Se non fossero state autoctone? Si sarebbero trasmessi quei ricordi vivi fino a oggi se avessero attinto a Tradizioni aliene? A Tradizioni estranee? Mi sovviene una storiella che circolava tanti anni fa e che raccontava come nelle scuole di Tunisia o Algeria (colonie francofone) veniva insegnato, e gli scolari lo imparavano, che i loro antenati erano i Galli. Nel 1957 la Tunisia, con al-Hbib Bu Rqyba, si proclamò Repubblica Indipendente, con antenati Berberi, seguita nel 1962 dall’Algeria. _______________ Bibliografia: Orazio Flacco, Le odi, il carme secolare, gli epodi a cura di G. Vitale, Bologna 1944. AA.VV. Roma - Romolo, Remo e la fondazione della città, catalogo della mostra alle Terme di Diocleziano, Roma 2000. M. Martinelli: Gli Etruschi, magia e religione., Firenze 1992. Note: 1 A. Carandini, Della fondazione di Roma. Considerazioni di un archeologo Ed. Electa, Roma 2000. 2 M. Martinelli, Gli Etruschi, magia e religione. Nardini Editore 1992. P.44: Scorcio di Roma; p.45: Roma, copia della Lupa capitolina; p.47: Genova, Lupa capitolina.


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I Giustiziati di Napoli dai VicerĂŠ ai Borbone

Antonella Orefice

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l ‘nessuno tocchi Caino’ è una legge divina che non è mai stata contemplata dalla legge dei potenti. La condanna capitale è una pratica antica come il mondo e ancora oggi 58 Paesi, tra cui Stati Uniti ed il Giappone, continuano ad applicarla nei loro ordinamenti, uccidendo in nome della umana giustizia. La pena di morte in Italia è stata usata in vari modi e in varie epoche, dai tempi dell’antica Roma fino al 1948. Il primo Stato al mondo ad abolirla legalmente fu il Granducato di Toscana il 30 novembre 1786 con l’emanazione del nuovo Codice Penale Toscano firmato dal granduca Pietro Leopoldo, influenzato dalle idee di pensatori come Cesare Beccaria, che nel suo trattato Dei delitti e delle Pene, in particolare nel capitolo XXVII, si era espresso contro di essa, argomentando che con questa pena lo Stato, per punire un delitto, ne commetteva uno a sua volta. L’Italia Unita, per opera del ministro liberale Giuseppe Zanardelli, l’abolì nel 1889, tranne per i crimini di guerra e il regicidio. La pena fu reintrodotta dal regime fascista con il codice Rocco nel 1930, poi abolita nel 1944 e ripristinata l’anno seguente; con l’avvento della Repubblica nel 1946 è stata espressamente vietata. Il rapporto dell’uomo con la propria sentenza di morte rappresenta uno studio da cui molto spesso si rifugge, specialmente quando si tratta di considerare persone che non hanno fatto la storia, ma che l’hanno subita nei suoi aspetti più crudeli e controversi. Dai registri della Compagnia Napoletana dei Bianchi della Giustizia è stato possibile identificare oltre 4000 anime che furono condannate alla pena capitale nel regno di Napoli tra l’epoca vicereale e quella borbonica, una cifra che comunque va presa come un dato statistico, perché tantissimi giustiziati non beneficiarono nemmeno del conforto religioso. Il sodalizio della Compagnia Napoletana dei Bianchi della Giustizia, così chiamati dal colore del saio dei confratelli, risale probabilmente agli inizi del XVI sec. Nella tradizione napoletana, le confraternite erano delle istituzioni impegnate in diverse attività che andavano

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dal semplice culto a iniziative rivolte al sociale. Quella dei Bianchi fu particolarmente impegnata soprattutto per la missione verso i condannati a morte. I registri della Compagnia in cui venivano annotate le notizie relative ai giustiziati furono redatti, anno per anno, da 226 confratelli scrivani che si sono succeduti dal 1556 al 1862, anno in cui, con la caduta dei Borbone e l’unificazione dell’Italia sotto l’egida dei Savoia, le esecuzioni, che comunque proseguirono con più discrezione, non furono più spettacolarizzate nelle pubbliche piazze, onde evitare di dare un’immagine negativa del nuovo Stato unitario e, di conseguenza, anche ai Bianchi fu chiesto di concludere la loro secolare missione. Era il 20 dicembre del 1862 quando alle sette e un quarto nel fortino di Vigliena fu fucilato un ragazzo di venti anni, Salvatore Gravagno, soldato del II Granatieri de’ Piemontesi. Fu l’ultimo condannato

confortato dai Bianchi. Custodita fin dagli inizi del XVI sec. presso l’ospedale napoletano di S.Maria del popolo degli Incurabili, negli archivi della cappella intitolata a S. Maria Succurrere Miseris, la documentazione prodotta dai confratelli, dal 1996, ha trovato una più adeguata collocazione presso l’Archivio Storico Diocesano di Napoli, dove il direttore, Antonio Illibato, lui stesso confratello dei Bianchi, ha provveduto a inventariarla eccellentemente e a metterla a disposizione di tutti gli studiosi. I ‘notamenti’ dei giustiziati iniziano a comparire nei registri degli scrivani dal terzo volume datato 1556 e proseguono fino al duecentosettantottesimo. Fu lo scrivano Prospero Vitaliano nel 1556 ad affidare alla storia il nome del primo giustiziato, Marco Giovanni Francesco del Balzo, un gentiluomo del quale i Bianchi non ci forniscono ulteriori notizie, ma dal cognome non è poi così pe49


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regrina l’ipotesi che possa trattarsi di un reo di lesa maestà, di famiglia nobile, appartenente al lignaggio di quei Del Balzo che alla fine del XV secolo avevano partecipato a un noto movimento rivoluzionario, meglio conosciuto come ‘la congiura dei Baroni’, sorto in reazione agli Aragonesi che si erano insediati sul trono di Napoli, attuando una riforma organica dello Stato che andava contro il potere delle grandi dinastie baronali che controllavano più terre del Re. I Del Balzo, condannati a morte a seguito della congiura dei Baroni, erano stati duchi di Andria e avevano abitato nello stesso palazzo che sarebbe poi appartenuto ai Carafa duchi di Andria. È curioso notare come a volte il destino possa accomunare persone vissute anche a secoli di distanza: nello stesso palazzo appartenuto ai Del Balzo, nel 1767 50

vi nacque Ettore Carafa, il conte di Ruvo, uno dei più famosi protagonisti della Repubblica Napoletana del 1799, che finì anch’egli decapitato in piazza Mercato il 4 settembre del 1799. Ovviamente l’accusa fu la medesima: lesa maestà. Talvolta gli scrivani dei Bianchi si adoperavano in vere e proprie cronache delle esecuzioni, quando queste si erano svolte con un rituale molto più macabro dell’ordinario. Non sono rare alcune dettagliate descrizioni di elevata crudeltà da parte del boia, le reazioni del popolo, particolari momenti vissuti dal ‘paziente’ nell’ ‘anticamera della morte’, e soprattutto annotamenti di giustizia, ‘ingiusta’ a carico di persone innocenti. Rassegnati e impotenti di fronte a una condanna ordinata dal sovrano di turno, i confratelli non potevano far altro che esprimere in sordina la loro desola-

zione, consolandosi con l’aver almeno aiutato ‘quell’infelice a ben morire’. Purtroppo è risaputo che le corti di giustizia di quei tempi giudicavano spesso sulla base di false testimonianze, supposizioni e confessioni ottenute con varie forme di tortura. Tra queste la ‘corda’ era considerata la regina e consisteva nel legare il presunto colpevole con le braccia dietro la schiena e sollevarlo poi con una fune fissata ai polsi che scorreva in una carrucola posta in alto. In questo modo il peso del corpo gravava sulla giuntura della spalla, provocando un dolore insopportabile, a seguito del quale si estorcevano le confessioni, il più delle volte false. Nei registri dei Bianchi si fa menzione della pratica della tortura fino alla metà del Settecento. Il Seicento fu un secolo di disordine e di instabilità, di guerre e di rivoluzioni, di assolutismo e di eversione. Nei primi anni del XVI secolo, a causa delle Guerre d’Italia (14941557), il Regno di Napoli aveva perso la sua indipendenza e fu sottoposto, fino al 1734, a diverse potenze straniere che ne affidavano il governo a un viceré. Considerate le migliaia di condanne capitali inferte durante l’epoca vicereale risulta difficile stabilire quale dei viceré abbia esercitato maggiormente il suo potere di morte sui sudditi. A tal proposito il giudizio pronunciato da Benedetto Croce nella Storia del Regno di Napoli sull’operato del viceré Don Pedro da Toledo si rivela molto significativo: “Il viceré tenne a essere non già amato, ma temuto, facendo sentire il suo pugno pesante sui patrizi, la città e il popolo”. Non da meno furono i successori di Don Pedro da Toledo che, ben consapevoli di non essere amati, sia per il governo avido e corrotto, sia perché stranieri, allo scopo di esercitare un massiccio controllo sulla popolazione cercarono di rendere la capitale sempre più asserragliata nelle mura perimetrali, per cui, durante il secolo XVII, molti edifici crebbero in altezza, seppellendo i resti archeologici della Napoli greco-romana. Nel corso del Seicento malattie e carestie impedirono una crescita del trend demografico generale. A falcidiare le popolazioni non erano solo le epidemie, sintomo peraltro di alimentazione insufficiente e igiene precaria, ma le guerre su vari fronti e le rivolte interne segui-


te dalle giustizie. Durante il periodo vicereale durato fino al 1734, la condanna a morte veniva dispensata con una facilità impressionante e i reati per i quali era prevista erano l’omicidio, il tentato omicidio, il furto, la pedofilia e l’omosessualità, le dichiarazioni diffamatorie, la falsificazione di monete e di titoli bancari, il proferimento di bestemmie contro immagini sacre, il possesso di armi e ovviamente il tradimento alla fede giurata, le nuove ribellioni, la congiura e la lesa maestà. Per i soldati era prevista anche per la diserzione, e inoltre, quando tra loro si era verificato un episodio ritenuto delittuoso e non si riusciva a trovare il colpevole, tra gli indiziati si procedeva per sorteggio. La macabra usanza fece decine di vittime soprattutto durante la reggenza di Carlo di Borbone. Durante quell’epoca si giustiziava talvolta nei luoghi dove era stato commesso il reato, questo a maggior soddisfazione per le famiglie delle vittime, ma la piazza della morte più tristemente famosa era quella del Mercato che nei secoli ha visto migliaia di esecuzioni, tra cui la più ricordata fu quella del giovanissimo Corradino di Svevia il 29 ottobre 1268. Il popolo accorreva sempre numeroso, mosso da curiosità, talvolta impietosito, altre ancora per schernirsi del morente. Quando si eseguivano le giustizie ‘repentine’, diremmo oggi, ‘per direttissima’, i confratelli dei Bianchi non avevano nemmeno il tempo di annotare qualche notizia e di esercitare il loro rituale conforto, che i condannati erano già stati appiccati sulla facciata principale del Castel Capuano e lì lasciati esposti al pubblico lubridio per giorni. Questa forma di macabra spettacolarizzazione è costantemente citata nei registri per tutta l’epoca vicereale e anche per quella borbonica. Dal decennio francese in poi (18051815) con l’introduzione della ghigliottina, le esecuzioni, pur continuando a essere pubbliche, avvenivano con rituali meno aberranti. Sia i viceré che successivamente i Borbone applicavano i gradi di pubblico esempio, secondo i quali più efferato era stato il delitto, più dolorosa doveva essere la tortura e il monito per il popolo. Quando la giustizia usciva dal tribunale della Vicaria il condannato era circondato

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da una processione di guardie e sacerdoti. Molto spesso veniva ‘strascinato’ per tutta la città, un’immagine che rimanda alla mitologia greca, quando nell’Iliade Achille uccise Ettore trascinandone per nove giorni il cadavere dietro al suo carro. Il trascinamento usato dai viceré, e in seguito dai Borbone, avveniva in due diverse modalità: o su tavole di legno legate ad un carro, oppure ‘a coda di cavallo’; in questo caso il condannato giungeva al patibolo con il corpo lacerato dal diretto strofinamento col suolo. In taluni casi si procedeva alla recisione delle mani o della lingua, prima dell’esecuzione finale. Uso comune dei pezzi recisi era l’esposizione a tempo indeterminato in gabbie di ferro sospese alle mura del tribunale o nei luoghi dove era stato commesso il crimine. I patiboli erano allestiti per praticare la forca o la mannaia e non era raro che quest’ultima, dalla lama dritta e non obliqua come la

ghigliottina, falliva nel colpo mortale. In questi casi il boia provvedeva allo straziante taglio della testa con un coltello. Alcuni subivano il supplizio della ruota, che consisteva nel legare il reo per i polsi e le caviglie ad una ruota e con una mazza gli venivano rotte le ossa fino alla morte. Una morte, questa, che comportava anche una lunga agonia. Molto spesso i confratelli dei Bianchi non potevano procedere con il funerale perché, non soddisfatta dalla morte atroce, la giustizia doveva infierire anche sul cadavere, ordinando che venisse ‘squartato’, ‘smembrato’ o ‘abbrugiato’. Se tutta questa disumanità esercitata dai viceré e in seguito dai Borbone, doveva essere di monito per il popolo, considerate le cifre crescenti dei condannati, dobbiamo constatare che essa servì solo a spargere morte e a far accrescere un legittimo rancore verso quelle monarchie sanguinarie. Evidentemente le carestie, 51


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le pestilenze e l’autorità schiacciante e asfissiante dei sovrani che imponevano tasse e obblighi dall’alto di una corruzione dilagante avevano esasperato così tanto la gente da porla in una sfida continua con la morte in cerca di libertà. Durante tutta l’epoca vicereale, ai reati cosiddetti ‘comuni’ quali il furto e l’omicidio ricorrevano talvolta quelli per ‘nuove ribellioni’ e ‘lesa maestà’. Ciò dimostra quanto potesse essere considerevole il malcontento sociale verso la politica degli Spagnoli che, per stroncare sul nascere qualsiasi nuova rivolta, dispensavano condanne a morte con una dovizia terrificante. Bastava essere scoperti in possesso di armi, o di intrattenere della corrispondenza con qualcuno ritenuto nemico della corona per finire sul patibolo e spesso vi si giungeva anche con accuse fittizie pur di mettere a tacere 52

persone ritenute pericolose, non solo per il governo, ma anche per l’istituzione religiosa. Dalle persecuzioni dei seguaci di Tommaso Campanella fino alla rivolta di Masaniello, il Seicento vide migliaia di condannati per ‘lesa Maestà’ e ‘nuove ribellioni’ e il nuovo secolo si aprì con i giustiziati della ‘Congiura di Macchia’, una cospirazione ordita da diversi nobili napoletani allo scopo di destabilizzare il viceré spagnolo, Luigi della Zerda, duca di Medinaceli, e fargli subentrare l’arciduca Carlo d’Austria, figlio dell’imperatore Leopoldo. Questo episodio che sconvolse la città di Napoli, e la cui cronaca è riportata nei registri dei Bianchi della Giustiza, fu narrato, in lingua latina anche da Giambattista Vico nel De coniuratione partenopea, che, pur essendo uno scritto minore del grande filosofo, rimane la più

ampia narrazione di quegli avvenimenti fatta da un intellettuale contemporaneo chiamato, peraltro, a pronunciarsi prima contro con un’orazione di condanna ordinatagli dal viceré, poi, all’avvento degli Austriaci, a stilare una difesa a favore dei congiurati. Nel 1734, durante la guerra di successione polacca, Carlo di Borbone, primogenito delle seconde nozze di Filippo V di Spagna con Elisabetta Farnese, al comando delle armate spagnole, conquistò i regni di Napoli e di Sicilia mettendo fine al periodo vicereale. Il suo arrivo nella capitale il 10 maggio del 1734 segnò l’inizio della rifondazione istituzionale del Regno. La proporzione numerica dei condannati crollò vertiginosamente, in maniera direttamente proporzionale ai reati per i quali era prevista la pena di morte. Con la Prammatica del 14 marzo 1738, Carlo di Borbone proibì la tortura e l’uso di pozzi sotterranei per l’isolamento dei detenuti, ma la Lex Julia majestatis, introdotta dal suo successore Ferdinando IV, come legge dello Stato, riprese ad infliggere pene severissime e torture per chiunque partecipasse a una congiura. Il Codice per lo Regno delle due Sicilie, promulgato per editto da Ferdinando I di Borbone nel 1819, persisteva in tratti ancora profondamente reazionari adottati nelle prammatiche sanzioni dei precedenti anni di reggenza. Pur riducendosi il numero dei reati per i quali era prevista la pena di morte, le modalità nell’esecuzione rimasero invariate rispetto all’epoca vicereale. Quello dei Borbone fu un cambiamento solo di facciata, una simulata emancipazione, insomma, con molte leggi ad personam, specie sull’omosessualità e i rapporti promiscui, considerata la vita dissoluta della corte soprattutto durante la reggenza di Ferdinando IV e Maria Carolina. È vero che rispetto all’epoca vicereale, con i Borbone il Regno conobbe un relativo periodo di crescita, ma bisogna anche considerare la persistenza di una stratificazione sociale che, soprattutto nelle province, languiva di stenti e miserie. La politica dell’immagine adottata dai cinque regnanti di casa Borbone che si successero tra il 1734 ed il 1862 aveva attirato verso la capitale viaggiatori da tutta Europa, richiamati dallo splendore delle nuove regge, dei palazzi


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nobiliari, dalla sfarzosa vita dei regnanti. La crescita demografica, se da una parte dimostrava un miglioramento delle condizioni di vita, che nel Seicento erano state ridotte ai limiti della sopravvivenza da pestilenze e carestie, dall’altra segnava un tasso di analfabetismo altissimo e la conseguente degenerazione di un’ampia stratificazione sociale. La cultura illuministica aveva generato persone pericolose, menti capaci di distinguere, considerare e giudicare oltre le apparenze, e soprattutto capaci di interfacciarsi con la politica di monarchi assolutisti che, se da un lato fingevano di concedere, dall’altro reprimevano allo scopo di mantenere in equilibrio miserie e nobiltà di un regno. Il primo grande scossone alla politica dei Borbone arrivò nel 1799 con la Rivoluzione Napoletana, allorquando le idee nate in seno alla rivoluzione francese penetrarono tra gli intellettuali napoletani. La congiura giacobina del 1794 segnò l’inizio di un periodo intriso di fermenti rivoluzionari che raggiunsero il loro culmine cinque anni dopo, con la fuga di Ferdi-

nando di Borbone e la corte a Palermo e la proclamazione a Napoli della Repubblica ad opera delle migliori menti illuminate del sud. Era trascorso oltre un secolo e mezzo dalla rivolta di Masaniello, e stavolta la rivoluzione non era frutto di una sollevazione popolare, bensì di un esiguo numero di intellettuali che, però, con il loro esempio, dimostrarono di essere capaci di realizzare, pur se in soli sei mesi, un governo democratico. Fu un sogno di modernizzazione che cambiò le coscienze di molti, tanto che, pur se soffocato nel sangue col ritorno dei Borbone, seguitò e crebbe con fattezze diverse, per tutto il periodo del Risorgimento, oltrepassando la fase napoleonica e la nuova repressione sancita dalla restaurazione. Furono centinaia le condanne a morte per lesa maestà inflitte da Ferdinando IV e i suoi successori, tra la fine del Settecento e per tutto il periodo del Risorgimento. Sono tantissimi i nomi dei patrioti giustiziati per mano dei Borbone che emergono dai registri dei Bianchi redatti durante quegli anni, dai martiri

del 1799 a quelli risorgimentali. Le loro memorie rappresentano la storia del sacrificio umano su cui è stata fondata la nostra Repubblica Italiana. ________________ Bibliografia: A. Illibato, La Compagnia Napoletana dei Bianchi della Giustizia, Note storico-critiche e inventario dell’archivio, Napoli, 2004. B.Croce, Storia del regno di Napoli , Bari, 1924. A. Orefice, Delitti e Condannati nel Regno di Napoli (1734-1862) nella documentazione dei Bianchi della Giustizia, Napoli, 2014. A. Orefice, I Giustiziati di Napoli (1556-1862), Napoli, 2015. Fondo archivistico: Archivio Storico Diocesano di Napoli, Scrivani dei Bianchi della Giustizia, dal vol. 1 al vol. 278.

P.48: Mappa dell’Italia meridionale, sec XVI; p.49: Napoli, Tribunale della Vicaria; p.50: ‘Tavola dei giustiziati’; p.51-53: Documenti d’epoca della Repubblica napoletana e un autografo di Eleonora De Fonseca Pimentel.

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A Simbolismo

Male–dicere La maldicenza come violazione della Creazione Veronica Mesisca

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in Soph. Prima dell’Albero, prima indi del Verbo e della Vita… quel soffio non emesso, che sarebbe già creazione, ma inspirato… quell’atto prima di pronunciare in cui si prende fiato. In questo Ain Soph che è prima senza tempo, “dalla profonda oscurità in cui [Victor si] trovava, una luce improvvisa brillò”. Con tali parole Mary Shelley dà principio alla vita della Creatura del celebre protagonista ottocentesco, sovente confuso alla sua opera nel nome di Frankenstein. Giovane come la sua ideatrice, che a soli diciannove anni era già capace di comporre opere mostruose non meno del suo personaggio letterario, Victor, nel suo essere scienziato tedesco appassionato allo studio dei testi di Paracelso come di Galvani, è emblema di un disagio dovuto a una società inglese moderna che “sostitu[iva] chimere di incalcolabile ricchezza con realtà di poco valore”1… studioso pallidamente imbarazzato da una scienza che si prendeva l’onere di distruggere i sogni di un elixir di lunga vita, ostentando tale atto di cieca derisione a onore di autentica conoscenza. Victor e Mary hanno osato, almeno in un libro, riunire sapere antico e moderno in un laborem scientiam di Oxford per “riportare la vita dove la morte sembrava avere già consegnato il corpo alla corruzione”, ri-ponendo emet su quel gigante di creta qabbalistico, derivante e destinato a met, ben prima dell’ultima pagina del romanzo. Intento sacro, ispirato al libro dello Sefer Yetzirah, quello di Frankenstein, poiché definito non dai limiti invalicabili che l’adolescenziale scienza londinese predicava, ma da barriere sacralmente vigili. Compitare doveva essere l’imperativo di quel Victor iniziato ai Misteri Naturali dai testi di Agrippa, come era imperativo perentorio nei datati rituali dei Liberi Muratori, ove si esplicitava sempre e in ogni grado che all’apertura e alla chiusura dei lavori “il primo D si avvicina al MV che gli trasmette la prima sillaba della parola sacra, la porta al primo S e ne riceve la seconda. Il secondo D si avvicina al primo S che gli trasmette la seconda sillaba, la porta al secondo S e ne riceve la terza. I due DD portano la sillaba ricevuta al MV”, quanto unico capace di ri-assemblare con saggezza.


Parole spezzate e simbolicamente tramandate in tre lettere: beth, ain, zain… jod, cap, nun… mem, ain, beth… mai tutte sulle labbra dello stesso Diacono o Sorvegliante, mai tutte le membra nelle mani di un Victor ancora mancante della giusta sapienza edificante. Pena, appunto, la creazione del mostro. Compitare dunque sempre e in ogni grado, perché è nel silenzio definito dal suono che risiede il sacro in genere, come ben esprime il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein (seguace contemporaneo di Bertrand Russell e, come lui, profondo conoscitore della logica matematica) nel concetto di parola sbriciolata, valorizzata dal vuoto della discontinuità. Vocaboli ritualmente posti all’Apprendista, composti dal Compagno, per essere dal Maestro decomposti e ricomposti… ricomposti nel nostro Oriente da Minerva come nella Terra dei Faraoni da Iside, o a Gerusalemme dal Sacerdote del Sancta Sanctorum, per limitarci in tal sede al solo accostamento delle due tradizioni bibliche separate dalla acque grazie al “forte vento d’Oriente”, che rese il mare asciutto… Miti frutto di uomini di Egitto e d’Israele, credenti nella ricomposizione e resurrezione dei morti, ma incapaci di riconoscersi figli smembrati dello stesso divino, pertanto oggi come ieri necessariamente divisi dalla biblica “nube tenebrosa”3 che la sapienza divina ancora detiene, nell’attesa di una rinascita, unica e sacra, che pare, nello specifico caso, stia ancora tardando… Il verbo in principio, il verbo che crea, che edifica e che è quindi lavoro… quel lavoro sacro, unico e duplice quanto condanna e salvezza dell’uomo… quel lavoro di cui si perde il senso se incapaci di riceverlo come dono divino alla richiesta di Adamo di poter conquistare un Paradiso di cui non si sentiva degno. Lavoro sacro, indi, poiché dono di dignità divina. Lavoro sacro come la parola che in Tempio lo apre e lo chiude. Verbo generativo, rivelante all’uomo il suo ruolo di co-creatore, è segreto del Sacerdote invocato giorno di Yom Kippur come in quello della rinascita osirica… parole innominabili, non per impossibilità, ma per monito: una maldicenza darebbe luogo alla Creatura di Fran-

kenstein, a quell’essere animato per nobili scopi, ma di fatto, poiché non animato nel sacro, diventa irrimediabilmente profano ... e profana l’umanità, tutta, nella sua disperata avidità. Victor, simbolico elemento di una scienza violata, non può che generare il mostro della volgarità comune, la mummia sconsacrata. Eppure il personaggio di Mary Shelley, sguarnito di saggezza, bastevole di conoscenza, inevitabilmente ossessionato da “l’impulso irresistibile e quasi frenetico” di dare origine a “una nuova specie [che lo] avrebbe salutato come suo creatore e signore”, accorpa le membra della sua opera con galvanici precetti, e – parafrasando in chiave modera lo Zohar – con “una fiamma troppo oscura per essere vista” accende l’essere. D’ora in poi non avrà più modo di tornare indietro. L’atto è compiuto. Il Golem di Frankenstein ha vita propria. Il verbo male-detto è pronunciato. In chiave chassidica, si direbbe forse che le piume sono state emesse… quelle piume d’oca, di corvo o di colomba… magari di pellicano, ma fossero anche piume d’aquila, d’angelo o d’Icaro poco importa nello specifico, poiché tutte comunque simbolico elemento di elevazione che, se disperso al vento, non è possibile recuperare per la salvezza dal meandro terreno. Da ciò, forse, il monito sotteso nel noto racconto giudaico – che, per attualità e universalità degli insegnamenti, merita di essere riportato – dell’uomo che, dopo aver proferito cose negative sul conto del maestro, sentendosi in colpa, chiede perdono al rabbino. Egli risponde all’uomo di andare a casa, tagliare un cuscino e gettare le piume al vento. Tornato, poi, dal maestro per l’ammenda, il saggio dice all’uomo che, ora, per rimediare al verbo malevolmente espresso, deve tornare indietro e raccogliere tutte le singole piume disperse. Come le piume, nessuno può recuperare le sue parole male-dette. Nessuno può annullarne gli esiti, tornare sui propri passi, ravvedersi e cancellare gli effetti prodotti da ciò che è stato volgarmente sparso. Non solo in un Tempio ogni parola pronunciata dovrebbe essere sacra e soggetta alla Saggezza. Da ciò anche il precetto giudaico di non pronun-

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ciare un Lashon Hara, ovvero nulla di negativo riguardo a un altro, attenendosi al divieto anche nel caso in cui il discorso corrisponda a verità, con unica e specifica eccezione di scongiurare un evidente male peggiore. Antichi insegnamenti, ma noi continuiamo a male-dicere fuori e dentro al Tempio, gettando tutti i pezzi della parola sacra all’orecchio di Diaconi e Sorveglianti, togliendo indi ai sette gradini della saggezza l’unicità di poter comporre il dio osirico. E così, come Victor, quasi inconsapevolmente – ma non incolpevolmente –, ci ritroviamo un Golem che apre e chiude i nostri sacrileghi lavori ... forse non maligno, solo mal posto, l’essere gira per il Tempio chiedendo ai suoi artefici di adempiere “l’unico dovere di un creatore nei confronti della sua creatura”, ovvero ascoltarlo ... ascoltarlo mentre chiede: dove si è perduto il sacro? ________________ Bibliografia: Frankenstein. Mary Shelley, Ed. Oscar Mondadori, 2012. Lapis Reprobatus Secretum Custoditum, Ed. Libreria Pardes, 2014. La Sacra Bibbia, Esodo 14:20-21. P.54-55: 1931, Boris Karloff, nome d’arte dell’anglo-canadese William Henry Pratt (1887-1969), interpreta Frankenstein.

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Le metamorfosi di Pinocchio e la Fata turchina Paolo Aldo Rossi

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C’

era una volta...— Un re! — diranno subito i miei piccoli lettori.— No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno… di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze. Mai una fiaba aveva avuto come suo protagonista un avanzo di legname, oltretutto non di pregio, ma un semplice pezzo da catasta; eppure solo il legno è il materiale vivo per eccellenza, acquisisce le fisionomie e i lineamenti più vari, col tempo si altera e muta, cambia il colore con nuove gradazioni … cioè campa e sopravvive anche quando ha perso la vita vegetale ossia biologica. Quando poi prende la sagoma e l’apparenza di un burattino senza fili che si muove come un automa1, una sagoma umana mobile, parlante e pensante, allora la storia (la testimonianza percepita) può diventare fiaba (fabula o favola fantastica e immaginaria). I primi 15 capitoli dell’originaria versione di Pinocchio (a partire dal 7 luglio 1881 sul quotidiano Il giornale per i bambini di Ferdinando Martini) terminavano, il 27 ottobre 1881, con il protagonista

inconfutabilmente strozzato dagli Assassini: «Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito», esattamente come può essere un burattino impiccato. Carlo Lorenzini (Firenze, 1826-1890), in arte Collodi, nome del paese della madre, fu sicuramente un curioso amante dell’esoterismo e un massone (una lettera al libero muratore Pietro Barbera termina: «In ogni modo mi creda, il fratello Collodi»)2. Della sua iniziazione non esistono documenti ufficiali (ed è naturale essendo una società segreta e, oltretutto, scomunicata3), ma vi sono delle ‘dicerie’ come quella creduta dalla madre di Lorenzini che, afflitta per queste, lo vorrebbe far atto di presenza alla messa di mezzogiorno così da togliere queste maldicenze.4 In aggiunta Collodi aveva abbracciato le idee mazziniane fin dal 1848-49 per le quali «Dio esiste perche noi esistiamo»5 (sapendo bene che questo Dio non è quello della tradizione cattolica perché il progresso è «la sola rivelazione di Dio sugli uomini» [G. Mazzini, Lettera a Pio IX nel 1865]. La creazione nel 1848 di una Rivista, Il Lampione, «Ha illuminato — dice il Lo-

renzini — tutti coloro che erano in bilico nelle tenebre», ma poco dopo il periodico incorse negli strali della censura e venne chiuso. Fu Ferdinando Martini6, giornalista-editore fiorentino, che pubblicò a puntate la favola di Collodi (alla quale manca del tutto l’elemento costitutivo di tipo cattolico-ecclesiale7), dato che la massoneria dopo l’unità d’Italia era cresciuta e le logge fiorentine Nuovo Campidoglio e Concordia investivano tutte le loro forze nella rifondazione laica della pedagogia e per di più della letteratura per l’infanzia («togliere i fanciulli dalle ugne del clero», Rivista Massonica, 1873). L’ispirazione massonica di Pinocchio va rintracciata nelle parole e nei gesti che si trovano nell’intero testo: una sorta di percorso iniziatico, la cui razionalità filosofica s’intesse agli ideali massonici ottocenteschi, ma è impensabile e inimmaginabile usare lo spazio accordatomi per fare ciò … Un Pinocchio scritto da un ‘libero muratore’ ottocentesco senza idea di completezza speculativa, ma come un esercizio creativo della ragionevolezza del filosofare in una fabula che narra la vicenda di ‘un segreto misterioso’ come quella di un burattino che si trasforma in 57


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asino e quindi in giovane uomo. Non è per altro un caso isolato. La Favola del Serpente Verde8 (pubblicata nel 1795 dall’amico e ‘fratello’ Friedrich Schiller) di Johann Wolfgang Goethe, che fu massone (iniziato il 23 giugno 1780, a Weimar, nella Loggia Amalia), per il suo carattere ermetico è pensabile interpretarla con rifermenti al sapere delle Logge. Ma in una lettera a Friedrich Schiller9, egli si limita a dire: «Poiché i 18 personaggi implicati nell’azione sono altrettanti enigmi, gli amanti di enigmi devono trovare il loro significato».10 Enigma è un segreto palese. Un segreto è un segreto solo se può essere svelato. Il noto, l’evidente, l’ovvio … non hanno bisogno di qualcuno che li appalesi o che li faccia conoscere perché qualsiasi persona sa che il notorio non può essere divulgato. Il termine ‘segreto’, secretum, cioè il participio passato del verbo secernere = separare (se-cerno), vuole dire distinguere e quindi fare uso del giudizio, dell’intelletto, ossia del raziocinio. Il verbo greco è krino, che sta per scelta, facoltà propria dell’uomo di pensare, di collegare fra loro concetti e idee secondo rapporti logici e di decidere per il meglio (secondo la propria opinione o doxa), da cui crisi e critico. La favola di Goethe è un continuo di significati simbolici enigmatici, «piena di significato e priva di spie58

gazione» [zugleich bedeutend und deutungslos]. E giustamente scrive Wirth11: «Innanzitutto conviene domandarsi se il Goethe non si sia divertito a scrivere un racconto enigmatico, per l’unico piacere di incuriosire i contemporanei, e di far loro cercare un esoterismo del quale egli non aveva alcuna intenzione. Goethe si è orientato a lasciar credere che così fosse. Nessuno ha mai potuto ottenere da lui la minima chiarificazione sul significato del racconto.» Il racconto tende a gettare un ponte su un fiume, che raffigura la separazione fra la durata estrinseca dei sensi e le aspirazioni ideali intrinseche dell’umano. Vale anche per Pinocchio che, come tutte le storie o i racconti, può essere letto in molti modi, dalla favola con morale alla morale senza fiaba. Collodi introduce la storia di un Serpente «che aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntata, che gli fumava come una cappa di camino» e che muore dal ridere vedendo Pinocchio finito a testa in giù: «restò col capo conficcato nel fango della strada e con le gambe ritte su in aria». Non è una storia esoterica, ma solo una farsa. Comica, burlesca e leggendaria è la storia di Carlo Lorenzini, il quale aveva scritto il libro — i primi quindici capitoli — in una notte per pagare certi debiti di gioco, men-

tre è veritiera e attendibile la vicenda che i piccoli lettori (ma anche chi gestiva e dirigeva il giornale) lo abbiano indotto a finire la storia … sapendo che «Per un ragazzo gli manca qualcosa, per un burattino c’è qualcosa più del bisogno». La vicenda è, a grandi linee, la seguente: con una lettera del 12 dicembre 1880 Collodi scrive al responsabile di redazione, Guido Biagi: «Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma se la stampi, pagamela bene per farmi venir la voglia di seguitarla». Il giornalista lo ringrazia: «Il burattino va benissimo e aspetto il resto con curiosità» e Collodi riceve il pagamento, 20 centesimi per riga. Biagi, però, invia a Collodi un biglietto il 5 luglio 1881: «Io mi raccomando a te per il seguito. Di cui abbiamo un bisogno orribile perché i ragazzi non si possono lasciare a denti secchi. A quando questo burattino dunque?» Infatti, i primi due capitoli sono pubblicati il 7 luglio 1881 col titolo La storia di un burattino nel primo numero del Giornale per i bambini e la settimana susseguente arriva il terzo capitolo, che finisce in questo modo: «Quello che accadde dopo, è una storia da non potersi credere, e ve la racconterò un’altra volta». La pubblicazione va avanti fino al 27 ottobre 1881, quando esce il capitolo dove gli assassini impiccano Pinocchio a un ramo della quercia grande; secondo l’autore è la fine del racconto: il burattino sente giungere la sua ora e pensa al padre: «Oh babbo mio! Se tu fossi qui…». Due settimane più tardi, quando ormai i piccoli lettori sono persuasi, a malincuore, che Pinocchio sia morto impiccato, nella rubrica La posta dei bambini esce l’annuncio nientedimeno del redattore capo, Ferdinando Martini: «Una buona notizia. Il signor C. Collodi mi scrive che il suo amico Pinocchio è sempre vivo, e che sul suo conto potrà raccontarvene ancora delle belline. Era naturale: un burattino, un coso di legno come Pinocchio ha le ossa dure, e non è tanto facile mandarlo all’altro mondo. Dunque i nostri lettori sono avvisati: presto presto cominceremo con la seconda parte della Storia d’un burattino intitolata Le avventure di Pinocchio.» [Giornale per i bambini, 10 novembre 1881]. Però si deve attendere fino al febbraio


del 1882 affinché torni sul Giornale dei bambini il Pinocchio non morto, ma vivissimo, fatto rinvenire da una fata dai capelli turchini (che precedentemente era una bambina e che però quasi subito muore). Le puntate successive sono pubblicate regolarmente, ma a un certo punto Collodi non sa più come andare avanti. Dopo qualche settimana Pinocchio vuole diventare un vero bambino ed è sulla strada giusta: «Agli esami delle vacanze, ebbe l’onore di essere il più bravo della scuola; e i suoi portamenti, in generale, furono giudicati così lodevoli e soddisfacenti che la Fata, tutta contenta, gli disse: – Domani finalmente il tuo desiderio sarà appagato! — Cioè? — Domani finirai di essere un burattino di legno, e diventerai un ragazzo per bene.» Ma la narrazione s’interrompe ancora, per cui non c’è più traccia del burattino che sta per diventare un ragazzo. Dopo più di sei mesi e infinite richieste da parte dei piccoli lettori del Giornale, il 23 novembre 1882 Pinocchio torna sul settimanale, ma invece di trasformarsi in bambino si lascia convincere da Lucignolo a seguirlo nel Paese dei Balocchi. «Lí non vi sono scuole: lí non vi sono maestri: lí non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedí non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedí e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!...». I due amici, come si sa, arrivarono felicemente nel Paese dei balocchi: «Questo paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano 14 anni: i più giovani appena 8. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! Branchi di monelli da per tutto: chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra un cavallino di legno: questi facevano a mosca cieca, quegli altri si rincorrevano: altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in

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terra e colle gambe in aria: chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi.» Infine esce sul Giornale per i bambini l’ultima puntata di Pinocchio: il burattino ora si è trasformato in bambino. Pinocchio, ormai bravo ragazzo, scorge sé stesso: «Un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.»12 Chiaro è che la storia di Collodi non è massonica13, sia a livello di filosofia esoterica di fondo sia a livello pedagogicodidattico (una fiaba — Mürchen — idonea a diffondere i principi di fratellanza universale attraverso l’insegnamento

iniziatico) ma, visto come sono andate le cose a Lorenzini durante la controversa stesura delle puntate, Pinocchio è l’opera di un libero muratore che ha preso dalla massoneria moltissimi dei simbolismi latomistici inserendoli in un racconto dove tutti i personaggi fanno parte degli episodi della narrazione a fini educativi e quasi automaticamente, dato che gli ideali del “cattolicesimo dei preti” ne erano ben distanti. Le uniche due volte che si riferisce di un sentimento religioso popolare è quando si parla di rispetto per Geppetto creduto affogato: «Pover’omo — dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia; e brontolando sottovoce una preghiera, si mossero per tornarsene alle loro case…» e quando Pinocchio, appena salvo dal diventare una pelle di tamburo, dichiara: «Che vergogna fu quella per me!... Una vergogna, caro padrone, che Sant’Antonio benedetto non la faccia provare neppure a voi! Portato a vendere sul mercato degli asini.»Veramente molto, ma molto poco, per farne un’opera cattolica: una preghiera brontolata a chissà chi e 59


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il nome del santo degli animali pronunciato da un burattino ch’era appena stato asino. Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino sono anzitutto un inno alla miseria, alla povertà, all’analfabetismo, alle ristrettezze e, fondamentalmente, alla fame tipica dell’Italia post unitaria: «Oh! che brutta malattia che è la fame! … l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si convertì in una fame da lupi, in una fame da tagliarsi col coltello …» Nei capitoli dal V al VII la fame è la vera protagonista; il termine compare ben 16 volte e altre 28 volte nel prosieguo della sfortunata e sventurata storia del burattino … In ogni caso vorrei, per ora, soltanto leggere le due storie: quella con e quella senza la Fata Turchina, cioè dal I al XV e dal XVI al XXXVI capitolo, ovvero quella con la morte rituale e quella del risorgere definitivamente alla vita. Le prime metamorfosi: dal legno al burattino 60

Un vecchio falegname, Mastro Antonio, che trovò un pezzo di legname che sembrava piangere e ridere come un bambino, Ciliegia e Polendina che litigano per un’inezia, cioè il loro sopranome, e fatta pace l’uno ottiene dall’altro il pezzo di legno con il quale Geppetto aveva immaginato: «di fabbricarmi da me un bel burattino di legno: ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino …». Il racconto inizia da qui: una storia di sopravvivenza e d’indigenza nella quale nasce da un pezzo di legno (sarebbe stato la gamba di un tavolino) il burattino (la ‘marionetta senza fili’) Pinocchio. «La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuo-

co era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero.» E’ appunto in questa casa che viene al mondo ed è ‘battezzato’ o denominato: «Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.» Più tardi Pinocchio risponde a Mangiafoco che gli chiede «Come si chiama tuo padre?— Geppetto.— E che mestiere fa?— Il povero.— Guadagna molto? — Guadagna tanto quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca.» Con questi esempi d’indigenza lavoratrice e di operosità che ti lascia nella miseria —che nel prosieguo del racconto aumenteranno a dismisura, come il suo naso14 — è chiaro che il povero Burattino odia e disdegna la fatica, sia essa l’onere studentesco che la sfacchinata del lavoratore di braccia. Il naso in crescita è diventato la caratteristica peculiare del burattino e lo sanno tutti i bambini che raccontano una bugia, la quale, diversamente, è una menzogna per gli adulti. «La menzogna — diceva Italo Calvino — non è nel discorso, è nelle cose»; quando invece è un prodotto della fantasia o dell’immaginazione è una bugia e «vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo». È chiaro che il bambino, a forza di raccontare una bugia15, finisce col crederla vera e una bugia tira l’altra, ma è solo nella ciarla o nella chiacchiera … e il bimbo diventa rosso per la vergogna, per il pudore, per l’imbarazzo. Arrossire e vergognarsi è il tipico comportamento del bambino e a Pinocchio, che è di legno e non di carne, si allunga il naso non potendo essere affetto da eritrofobia (l’ imbarazzo o la paura morbosa di arrossire). È vero che le monellerie di Pinocchio sono rilevate e giudicate dal Grillo Parlante da quando quel pover’uomo di Geppetto finisce in prigione, ma la colpa non è del burattino, il quale appena nato


ha, secondo natura, una gran voglia di muoversi per il mondo e difatti «cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dètte a scappare». La responsabilità è dei curiosi bighelloni che fanno capannello e criticano tutto e tutti e del carabiniere «che sentendo tutto quello schiamazzo, e credendo si trattasse di un puledro che avesse levata la mano al padrone, si piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada, coll’animo risoluto di fermarlo e d’impedire il caso di maggiori disgrazie.» Ed è qui che il burattino — dopo il predicozzo del Grillo Parlante che però rimane lì stecchito e appiccicato alla parete colpito da Pinocchio con un martello di legno (o la mazzuola del falegname o dell’intagliatore). … «forse non credeva nemmeno di colpirlo» - incomincia a sentire la fame: «Allora si dètte a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari un po’ di pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po’ di polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla.» Infine trova un uovo che rompendosi lascia uscire un pulcino che lo ringrazia e vola via … poi, nella notte fredda e tempestosa, va a chiedere l’elemosina di un pezzo di pane al solito vecchino che invece dalla finestra lo inonda con bacinella piena d’acqua … tornato a casa tutto inzuppato cerca di asciugarsi sopra un caldano pieno di brace accesa, ma si addormenta e si carbonizza e incenerisce i piedi … basterebbero e sarebbero sufficienti tali disgrazie per un burattino esclusivamente irrequieto e vivace? Assolutamente no … siamo solo al settimo capitolo. A quel punto ritorna Geppetto, che gli ripara i piedi e gli regala da mangiare tre pere, e Pinocchio per ricompensarlo di tutto gli promette che andrà a scuola … il vecchio falegname gli fabbrica allora «un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di scorza d’albero e un berrettino di midolla di pane» e vende la sua casacca, rimanendo al gelo in maniche di camicia, per comperare un abbece-

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dario che, come sappiamo, il burattino monello vende in cambio di un posto al teatrino delle marionette dove i sui fratelli di legno gli fanno una grandissima festa mettendo scompiglio nel teatro … il burattinaio Mangiafoco, per punizione di avergli rovinata la recita, lo attacca a un chiodo dicendo «un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima fiammata all’arrosto». Il burattinaio, «un omone cosí brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a ter-

ra … ma nel fondo poi non era un cattiv’uomo.» Anzi è l’unico personaggio a considerare e a trattare Pinocchio da ragazzino e «ogni volta che s’inteneriva davvero aveva il vizio di starnutire. Era un modo come un altro, per dare a conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore. … Aprí affettuosamente le braccia e disse a Pinocchio: Tu sei un gran bravo ragazzo!» Ed è l’unico che lo dice. «Vieni qua da me e dammi un bacio. - Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio sulla punta del naso.» 61


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L’altra volta che il burattino «saltò al collo di Geppetto e cominciò a baciarlo per tutto il viso» è quando il vecchio vende la sua casacca rimanendo al freddo … E poi, Mangiafuco, saputo dello stato misero di Geppetto: «Ecco qui cinque monete d’oro. Va’ subito a portargliele e salutalo tanto da parte mia». A questo punto Pinocchio sta risolutamente tornando dal babbo, proponendosi addirittura di andare a scuola, quando compaiono il Gatto e la Volpe che gli propongono di andare con loro nel Paese dei Barbagianni nel luogo in cui c’è il Campo dei Miracoli dove, seminati e annaffiati, i suoi cinque scudi diventeranno duemilacinquecento … il Merlo bianco e l’ombra del Grillo-parlante cercano di dissuaderlo ma invano: «come siamo disgraziati noi altri poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci dànno dei consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri; tutti: anche i Grilli-parlanti. Ecco 62

qui: perché io non ho voluto dar retta a quell’uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini!» Prima di essere strangolato dagli Assassini che lo stanno inseguendo Pinocchio bussa alla porta della “casina candida come la neve”: «Allora si affacciò alla finestra una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale, senza muover punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo: — In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti. — Aprimi almeno tu! — gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi. — Sono morta anch’io. — Morta? e allora che cosa fai così alla finestra? — Aspetto la bara che venga a portarmi via. — Appena detto così, la Bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore.»

E così Pinocchio viene lasciato nelle mani degli Assassini. Qui termina il primigenio racconto con la morte della Bambina e del burattino … non ha importanza se «Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lí come intirizzito», tanto si sa che «i burattini di legno hanno il privilegio di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo», ma come in tutte le storie dei miserabili, anche in quella di Pinocchio la Grande Consolatrice non ha una parte attiva … i poveracci non muoiono dicendo una frase celebre ed esalando con dignità l’ultimo respiro … e Pinocchio è uno sventurato che «balbettò quasi moribondo: — Oh babbo mio! Se tu fossi qui!». Fin qui nulla di straordinario e di fantastico; è una storia di cronaca nera dove alla fine c’è un Grillo Parlante stecchito per via di una martellata colposa, un Merlo Bianco sbranato da un felino, con le penne e tutto, un pulcino che si salva volando via e, naturalmente, il Gatto finto cieco e la Volpe falsa zoppa ai quali Collodi non solo ha dato l’aspetto di animali scaltri, ladri, truffatori e falsi invalidi, ma li ha resi bipedi e umani, infagottati in panni da vagabondo o da briccone, personaggi picareschi e naturalmente loquaci e razionali quanto un farabutto e per di più assassini, dato che vogliono impadronirsi delle monete d’oro di Pinocchio usando tutta la delinquenza criminale. «E così, da che sono al mondo, non ho mai avuto un quarto d’ora di bene!» Pinocchio non lo dice per lamentarsi, ma perché è la pura e nuda verità. Come fa a credere all’eroismo della bontà, alla forza della giustizia, al valore della scuola e del lavoro … se il mondo si presenta per quello che è: un’Italia misera e affamata, piena di malandrini, di ladri, di canaglie, di approfittatori. E chi erano i ricchi? Coloro che non appaiono ‘quasi’ mai nella storia, ma sono sempre presenti accanto, non a fianco ma al disopra, ai giudici ufficiali sancenti dello Stato e dei carabinieri, persone autoritarie con i deboli e i miseri … e quindi ricchi che non hanno bisogno d’altri. Un accenno al loro mondo, per confrontare la favola con la realtà … l’unica volta che appaiono, quasi di straforo, è in carrozze signorili e sono «qualche Volpe, o qual-


che Gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina» [ ... segue sul prossimo numero]. ________________ Note: 1 In verità sarebbe una marionetta, una “bambola di Maria”, che il marionettista muove attraverso fili collegati a tutto il corpo di questo pupazzo. Il burattino, invece, è un tipo di fantoccio con il corpo di pezza e la testa di legno compare in scena a mezzo busto ed è mosso dal basso dalle dita del burattinaio che lo infila come un guanto. Il nome deriva da “bura”, la stoffa rada dei setacci; son detti ancora oggi in Toscana “buratti” cioè gli “abburattatori” di farina per i loro gesti cadenzati e monotoni. 2 Tempesti F. Introduzione a Collodi, Pinocchio, Feltrinelli, Milano 1972. 3 Ben diverse erano le cose in America dove, negli stessi anni di Collodi, Mark Twain (l’autore di Tom Sawyer e di Huchleberry Finn), scriveva «Il giudice mostrò agli stranieri il nuovo cimitero, il carcere, le abitazioni dei cittadini più ricchi, la loggia massonica, la chiesa metodista nonché quella presbiteriana …» Pudd’head Wilson, cap, VIII. E i fatti che si raccontano si svolgono fra gli anni ’30 ed ’80 sulla riva missouriana del Mississipi dove fra i protagonisti vi sono due conti – Angelo e Luigi Capello – fiorentini che quasi subito fanno parte della Società dei Liberi Pensatori. 4 «Non sono un miscredente — Lorenzini disse un giorno alla madre. — A Dio ci credo. Stia tranquilla che ci credo». Aveva studiato presso il Seminario di Val d’Elsa e poi dai Padri Scolopi di Firenze ed era profondamente mazziniano, quindi né ateo né agnostico, ma in questioni di religione la pensava un poco ‘a modo suo’. 5 Mazzini G., Doveri dell’uomo, intr. di Giano Accame, ASEFI Editoriale Srl, Pubblicazioni Terziaria, Milano 1995, cap. 2. 6 «Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani» è probabilmente una frase di Ferdinando Martini e non di Massimo d’Azeglio: cfr. Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, a cura di S. Soldani e G. Turi, Il Mulino, Bologna 1993, vol. I, p. 17. Anche l’idea della Enciclopedia Italiana Treccani fu del Martini (e non del Gentile): massone conclamato, deputato dal 1876 e amico e condirettore del Il giornale per i bambini con Collodi: cfr. Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 71 (2008). Era estimatore del Carducci al quale scrisse una lettera da Libero Muratore «ad un fratello» e fu collega del Gran Maestro Lemmi, uno degli autentici promotori del Grande Oriente Italiano. 7 G. Biffi, (Cardinale della Chiesa Cattolica Romana) Le verità fondamentali di «Pinocchio» da Contro maestro Ciliegia. Commento teologico a Le avventure di Pinocchio, Jaca Book, Milano 1977: «Pinocchio è un libro “cattolico”? Se con questo termine si intende alludere alla letteratu-

Simbolismo

ra edificante o apologetica o catechetica che così viene talvolta denominata, bisogna rispondere senza esitazione di no» e prima aveva scritto «E non è certo una latitanza casuale: descrivere nell’Italia dell’Ottocento le borgate, il paesaggio, la vita associata, senza che nel racconto compaia mai nemmeno incidentalmente un campanile, un parroco, un rito, non poteva che essere il risultato di una intenzionalità». 8 Goethe J. W., Favola, Adelphi, Milano 1990, Collana Piccola Biblioteca, 251; cfr. la traduzione inglese The Fairy Tale of the Green Snake and the Beautiful Lily, Translated by Tho Schiller mas Carlyle, 1832. 9 Schiller, J. C. Friedrich, Sulla formazione estetica dell’uomo: in serie di lettere, ed. e traduzione di Wilkinson, Elizabeth M. e L.A. Willoughby, Clarendon Press, 1967. 10 «Nella favola si danno da fare più di venti personaggi. / “Già, e che cosa fanno tutti quanti?”. “Amico mio, la favola”». «Das Mürchen Mehr als zwanzig Personen sind in dem Mürchen beschiiftigt Nun und was machen sie denn alle? Das Mürchen, mein Freund». Epigramma del ciclo di Xenie di Goethe-Schiller. 11 Il Serpente Verde, Roma, Editrice Atanòr, Roma 1979, pp. 84-85; 121, commento di O. Wirth. 12 «Quella che l’adulto vede qui, è l’immagine della propria infanzia — e già non riesce più a riconoscerla» [D. Richter, Pinocchio o il romanzo d’infanzia, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2002]; cfr. F. Tempesi, Chi era Collodi? Com’è fatto Pinocchio, in C. Collodi, Pinocchio, a cura di F. Tempesti, Feltrinelli, Milano 1980. 13 «Ci sono due modi di leggere Le avventure di Pinocchio — scrive Giovanni Malevolti sulla Rivista web Pietre Sones http://www.freemasons-freemasonry.com/pinocchio.html —. La prima è quella che chiamerei ‘profana’ con cui il lettore, molto probabilmente un bambino, impara a conoscere le disavventure del burattino di legno. La seconda è una lettura in chiave massonica.» 14 «Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo;

ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo». Il naso sembra il tratto distintivo di Pinocchio: il carabiniere, lo acciuffò per il naso e quando lui ritorna a casa e non trova niente da mangiare anzi una pentola dipinta sul muro e «il suo naso, che era già lungo, gli diventò più lungo almeno quattro dita», la notte che va al Campo dei Miracoli alcuni uccellacci notturni sbattevano le ali sul naso di Pinocchio, «uno dei due Assassini lo prese per la punta del naso», il medico corvo tastò il polso a Pinocchio, «poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: vi ficcò dentro la punta del naso».: nella medicina della Fata «poi se l’accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci la punta del naso». Appena detta la bugia «il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito due dita di più. A questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo così straordinario, che il povero Pinocchio non poteva più girarsi da nessuna parte. Vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo». «Il suo naso era cresciuto tanto, che non passava più dalla porta. Un migliaio di grossi uccelli chiamati Picchi, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio, cominciarono a beccarglielo tanto e poi tanto, che in pochi minuti quel naso enorme e spropositato si trovò ridotto alla sua grandezza naturale». Messa fuori la punta del naso dalla buca del casotto … e uno dei suoi compagni, “più impertinente degli altri, allungò la mano coll’idea di prendere il burattino per la punta del naso, battendosi coll’indice sulla punta del naso, in segno di canzonatura”. «A un vecchietto che stava sulla porta a scaldarsi al sole si toccò il naso e si accòrse che il naso gli era allungato più d’un palmo». 15 Una bollicina bianca sul naso così chiamata perché si usa dire per scherzo che quelle macchioline o pipite vengono a chi dice bugie.

P.56-57: Due burattini in legno, collez. privata; p.58-63: Illustrazioni di Pinocchio da un volume dei primi del ‘900.

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Paolo Camillo Thaon de Revel Antonino Zarcone

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aolo Camillo Thaon di Revel, nasce a Torino il 10 giugno 1850 da Ottavio e Carolina De Chermont di Vars. Ufficiale di carriera. Allievo dell’Accademia Navale dal 3 luglio 1873, viene imbarcato per i brevi periodi delle crociere estive sulla fregata “Vittorio Emanuele”. Nominato Guardiamarina nello Stato Maggiore della Marina il 1 novembre 1877, è assegnato in forza al I dipartimento Marittimo. Si tratta di una assegnazione a terra poco duratura dato che due settimane dopo prende la via del mare. Imbarcato su nave “Affondatore” dal 16 dicembre 1877, poi

sulla Corazzata “Principe Amedeo” dal 30 giugno 1878 e sulla Fregata “Garibaldi” dal 1 aprile 1879. Promosso Sottotenente di Vascello il 1 luglio 1880, il 20 novembre 1882 viene imbarcato sulla Corazzata “Venezia”. Dopo circa due anni in mare viene designato per incarichi di rappresentanza come Ufficiale d’Ordinanza del Principe di Savoia Carignano dal 1 giugno 1884. Promosso Tenente di Vascello il 1 gennaio 1886. Terminato il servizio al seguito del Principe di Savoia Carignano il 18 giugno 1888, gli è attribuito la nomina a Ufficiale d’Ordinanza Onorario dello stesso ufficiale. Il 3 luglio 1888 riprende la via del mare. Imbarcato prima sul Torpediniere “Bauzan”, poi sul Trasporto “Città di Genova” dal 21 novembre 1888. Ufficiale in 2^ dell’Incrociatore “Montebello” dall’11 agosto 1889, Comandante del rimorchiatore “Atlante” dal 13 maggio 1892, dello “Sparviero” dal 21 aprile 1893, della Goletta “Palermo” dal 16 febbraio 1894. Ottenuta la promozione a Capitano di Corvetta il 1 marzo 1895, dopo circa sei mesi lascia il comando e assume l’incarico di Responsabile della Nave ausiliaria “Savoia” dal 13 ottobre 1895 ed il mese dopo quello di Ufficiale in 2^ del Battello “Piemonte”. Designato ancora per incarichi di rappresentanza, il 16 agosto 1896 è nominato Aiu-

tante di Campo effettivo del Re. Il 5 maggio 1898, ottenuta l’autorizzazione sovrana, sposa la signorina Irene Martini di Cigala. Promosso Capitano di Fregata il 1 gennaio 1900. Concluso il periodo al seguito del Re, il 1 novembre 1900 è nominato Aiutante di Campo Onorario del re e il mese successivo riprende la vita a bordo. Ufficiale in 2^ della nave da battaglia “San Bon” dal 5 dicembre 1900, della nave scuola “Caracciolo” dal 6 dicembre 1902 e del “Vespucci” dal 16 novembre 1903. Promosso Capitano di Vascello il 1° marzo 1904, lo stesso anno inizia a prestare servizio presso istituti formativi della Regia Marina. Comandante della Scuola Macchinisti dal 10 agosto 1904, Comandante in 2^ con funzioni di Comandante in 1^ dell’Accademia Navale dall’11 novembre 1905. Comandante del “Vespucci” dal 1 luglio 1906, della Nave “Etna” dal 6 luglio al 12 novembre 1907, della Corazzata “Vittorio Emanuele” dal 27 novembre 1907. In occasione del dal terremoto calabro-siculo del 28 dicembre 1908 partecipa alle Operazioni di soccorso alle popolazioni colpite dal sima, per cui è autorizzato a fregiarsi della relativa Medaglia Commemorativa ed è decorato della Medaglia d’Argento di benemerenza successivamente commutata in quella d’Oro. Promosso Contrammiraglio il 16 65


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aprile 1910. Aiutante di Campo Generale effettivo del Re dal 1 febbraio 1911, rimane nell’incarico per otto mesi e viene nominato Aiutante di Campo Generale Onorario. Comandante della Corazzata “Re Umberto” dal 10 settembre 1911 poi dell’Incrociatore “Giuseppe Garibaldi” dal 23 settembre 1911. Partecipa alle operazioni militari contro l’Impero ottomano per la Sovranità sulla Cirenaica e Tripolitania con l’incarico di Comandante della 2^ Divisione della 2^ Squadra Navale, per cui ottiene la Croce di Commendatore dell’Ordine Militare di Savoia “Per la costante attività, il coraggio e la perizia dimostrata al comando di una di66

visione navale durante tutta la guerra distinguendosi in particolare modo nell’attacco alle forti posizioni dei Dardanelli, ma più ancora nella azione compiuta a Beirut, che egli personalmente comandò e diresse, nella quale in circostanze difficili di ordine internazionale affondò le due navi da guerra turche rifugiate nel porto, con esecuzione piena degli ordini avuti e con intero successo. Mediterraneo 1911-1912”. Capo di Stato Maggiore della Marina dal 1 aprile 1913, promuove lo sviluppo di navigli leggeri e la costituzione di un’aviazione navale. Promosso Viceammiraglio il 1 luglio 1913. Mobilitato per la prima guerra mon-

diale, il 12 ottobre 1915 è nominato Comandante in Capo del Dipartimento della Piazza Marittima di Venezia. Incarico nel quale sostiene l’impiego dei treni armati e dei MAS per la difesa del litorale e che gli fa ottenere la Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia “Per distinti servizi resi durante la campagna di guerra 1915-1916”. Capo di Stato Maggiore della Marina e Comandante in Capo delle Forze Navali dall’8 febbraio 1917, quindici giorni è nominato Senatore del Regno (categoria 14^: Ammiragli). Tra i sostenitori della necessità di mantenere la linea di difesa sul Piave. Durante la guerra è decorato di due Croci al Merito di Guerra, poi commutate in Croce al Valore Militare perché “Mentre si recava a Cortellazzo precedentemente bombardata da navi nemiche, venne fatto segno a tiro di batterie nemiche e, malgrado fosse sconsigliato a proseguire, continuò il suo cammino imperturbabile noncurante del pericolo, destando l’ammirazione dei marinai del battaglione Monfalcone che si stava preparando all’assalto. Cortellazzo, 19 novembre 1917” e perché quale “Capo di Stato Maggiore della Marina, si assumeva l’alto incarico della delicata impresa di bombardamento di Durazzo, prendendone personalmente la Direzione e bordo della regia Nave Dante Alighieri e raggiungendo brillantemente l’obiettivo prefisso”. Promosso Ammiraglio per Merito di Guerra il 6 novembre 1918, è decorato di Gran Croce dell’Ordine Militare di Savoia perché quale “Capo di Stato Maggiore della Marina e Comandante in Capo delle Forze Navali mobilitate dal febbraio 1917, nella suprema direzione della guerra Marina in Adriatico e dell’azione bellica ovunque esercitata dai mezzi della Regia Marina, ha dato alta prova di singolare perizia, somma energia perspicuo apprezzamento delle situazioni belliche. Nonostante la gravità e la persistenza delle insidie nemiche, mercé i provvedimenti da lui ordinati e le mirabili virtù delle nostre genti di mare, i traffici marittimi hanno potuto svolgersi, così da assicurare in ogni tempo al Paese gli indispensabili rifornimenti. Con fervore e tenacia ha provveduto all’apprestamento di mezzi complementari di offesa e di difesa che meglio convenivano alle peculiari caratteristiche della guerra combattuta in Adriatico, ed


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alla preparazione degli uomini che con l’impiego di essi hanno inflitto al nemico perdite gravissime circonfuso di gloria imperitura la marina italiana. Sotto il suo alto comando la regia Marina ha portato contributo alla vittoria”. Ispettore Generale della Marina dal 24 novembre 1919, Presidente del Comitato degli Ammiragli dal 20 maggio 1920. Ministro della Marina nel primo Governo Mussolini, il 9 maggio 1925 si dimette dopo la riforma con cui viene istituita la carica di Capo di Stato Maggiore Generale, poi affidata al generale Badoglio. Promosso Grande Ammiraglio il 4 novembre 1924. Nel dopo guerra riceve numerosi riconoscimenti, il più importante dei quali il 4 novembre 1919 il Collare di Cavaliere dell’Ordine della SS. Annunziata che lo eleva al rango di cugino del Re, il Titolo di Duca del Mare il 24 maggio 1923, e la nomina a Socio Onorario dell’Accademia dei Lincei. Collocato in quiescenza dopo le dimissioni da Ministro della Marina, svolge incarichi onorifici come quello di Primo Segretario dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, di Cancelliere dell’Ordine della Corona d’Italia Consigliere dell’Ordine Mauriziano, Socio Onorario dell’Accademia di san Luca, dell’accademia di Modena, della Società Geografica, della Società Veterani e reduci e Fratellanza Militare “Umberto I” di Roma. Vice Presidente del Comitato Nazionale per la Storia del Risorgimento. Presidente della Delegazione Italiana nella Commissione Internazionale per l’Esplorazione del Mediterraneo. Socio perpetuo

della “Dante Alighieri”. Cittadino Onorario di Fiume, Roma, Venezia e Brindisi, muore a Roma il 23 aprile 1948. Riconosciuto come Massone, appartenete alla Gran Loggia d’Italia – Piazza del Gesù ed al Rito Scozzese Antico ed Accettato, non è certa la data della sua iniziazione. Il suo nome figura al primo posto in un elenco di 33 nomi “elenco alfabetico dei membri attivi del Supremo Consiglio.”, non datato ma che il professor Aldo Alessandro Mola data intorno al 1916, perché vi figura un personaggio radiato nel 1917. La matricola della Gran Loggia, attualmente in fase di studio per la realizzazione di un opera relativa ai militari non ne riporta il nome. La presenza di alcune pagine con la dicitura “Segreto” e prive di dati potrebbe indicare la volontà di celare l’affiliazione di un personaggio così importante, anche se in realtà nelle stesse rubriche vi compaiono nomi di deputati o alti funzionari dello stato privi di ogni forma di riservatezza. Di certo, c’è il riconoscimento da parte della comunità scientifica della sua affiliazione libero-muratoria. Thaon Di Revel risulta decorato an-

che delle seguenti onorificenze e decorazioni: Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia, Cavaliere di Gran Croce decorato del Gran Cordone dell’Ordine dei SS Maurizio e Lazzaro, Gran Cordone dell’Ordine Coloniale della Stella d’Italia, Bali di Gran Croce dell’Ordine Militare di Malta, Cavaliere dell’Ordine Civile di Savoia, Medaglia Commemorativa della guerra Italo-turca 1911 – 1912, Medaglia Commemorativa Nazionale della Guerra 1915/18 con le fascette per gli anni 1915, 1916, 1917 e 1918, Medaglia Inter-alleata della Vittoria, Medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia, Medaglia Mauriziana al Merito Militare di dieci lustri di servizio, Medaglia d’Oro per Lunga Navigazione, Croce d’Oro con Corona per Anzianità di Servizio.

P.64: Sestri Ponente, il varo della ‘Giulio Cesare’; p.65: L’incrociatore corazzato Amalfi e sotto un ritratto di Paolo Emilio Thaon di Revel; p.66: Gli ammiragli Camillo Corsi e P.E.Thaon di Revel sul dirigibile P4; p.67: La ‘Vittorio Emanuele’ durante la I Guerra mondiale; sotto, un MAS.

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Le nubi dell’intolleranza e il vento della libertà Lucio Artini

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a circostanza delle scuse avanzate da Papa Francesco per i comportamenti tenuti da alcuni settori della Chiesa Cattolica nei confronti dei Pentecostali e dei Valdesi può apparire strana nel mondo di oggi dove ognuno può liberamente professare il proprio credo religioso. In passato però il dialogo interconfessionale era osteggiato: “eretici” erano chiamati coloro che si aprivano a un credo “diverso”. Con il Concilio Vaticano II e grazie all’opera del grande Pontefice Giovanni Paolo II la Chiesa si è aperta al mondo e al dialogo con le altre confessioni religiose, con i non credenti e persino con la Massoneria, che ha sempre permesso la presenza e una comunicazione paritetica fra credenti di tutte le confessioni religiose. Anche Benedetto XVI ha continuato sulle orme di Papa Woytila, consolidando tale apertura. Le scuse di Papa Francesco scaturiscono da un’intolleranza che ha contraddistinto la storia della Chiesa di Roma per un lunghissimo periodo di tempo e che è stata debellata anche grazie al lavoro della Massoneria, sia in Italia che nel resto del mondo. Il conflitto fra la chiesa e la Massoneria sin dalla prima scomunica del 1737 ha varie motivazioni: il ruolo del Papa principe temporale che intendeva difendere i propri possedimenti territoriali; il ruolo del Papa quale tutore dei principi temporali, fonte della legittimazione dell’Ancien regime; ma anche la pretesa di essere l’unica religione vera e l’unica ammessa sul territorio italiano. Mi spiego meglio: l’idea che una religione rappresenti la Fede espressa nella maniera più vera rispetto alle altre, il credere fermamente nella propria Fede e nella propria confessione religiosa, di per sé non è una cosa sbagliata; lo è però quando si utilizza il potere temporale per convertire e per escludere, lo è quando impedisce il dialogo con gli altri percorsi religiosi, differenti, ma eguali nella ricerca di una dimensione spirituale della vita umana, nella ricerca di Dio. I patrioti del risorgimento italiano hanno combattuto contro il Papa/Re di un territorio, hanno combattuto contro i prìncipi che invocavano la propria legittimazione nella religione e nella protezione del Pontefice, per raggiungere l’unità Nazionale, ma fino al Vaticano II, hanno anche contrastato la pretesa che la proprie convinzioni impedissero il dialogo con


chi seguiva lo stesso percorso di ricerca anche se con modalità diverse. Mi è capitata fra le mani la rivista della Massoneria New Age del maggio 1950 in cui vi è un articolo che spiega in maniera esatta quale fosse la ragione culturale del contrasto fra Chiesa di Roma e Massoneria: il 18 marzo del 1950 un articolo dell’Osservatore Romano, il quotidiano ufficiale della Santa Sede, sostenne che i cattolici che fossero entrati nell’Ordine Massonico sarebbero stati scomunicati, concludendo che la Massoneria sia ostile alla religione. Per la Chiesa di Roma c’è un unica vera religione e è la propria, viene citato il Cardinale Manninger: “equalizes all religions and gives equal rights to truth and error”, la Chiesa Cattolica insegna che c’è un’unica vera religione e che le altre sono false, “are false”. Di contro la Massoneria “has never taught thats its members must believe the theological doctrines of any denomination. Masonry requires a belief in a Supreme Being. Masonry is not a religion, but is religiuos character [...]” L’autore poi ricorda una recente celebrazione avvenuta in Egitto dove sull’altare della Masonic Lodge room, c’erano: “The King James version of the Bible, the Talmud of the Jewish faith, the Koran of the Muslims, the Veda of the Hindus - signifying the universality of belief in a Supreme Being”. Molte confessioni religiose o persino alcune sette – lo vediamo anche al giorno d’oggi – cercano di affermarsi quali uniche e lo fanno attraverso gli strumenti del potere temporale, utilizzando la spada; è quanto oggi sta accadendo in Medio oriente con le guerre, la violenza e il fondamentalismo. Come abbiamo cercato di dimostrare con il nostro viaggio a Istanbul del gennaio 2015, il nostro compito è invece quello di affermare la libertà di ricerca e il dialogo tollerante contro la violenza e le tendenze totalizzanti. Anche nella storia della Chiesa di Roma ci sono percorsi di sopraffazione e di intolleranza, di confusione fra il potere civile e la religione, contro cui in tanti hanno lottato e fra questi la Massoneria e se c’è libertà di culto in Italia lo si deve in gran parte alla Massoneria. Le radici della commistione fra potere secolare e potere spirituale sono antiche. Nello studio della vita, del pensiero e delle opere di Beato Gregorio X, un altro aspetto che appare evidente, oltre a quello delle relazioni con i Templari, è quello del rapporto fra chie-

Massoneria

sa e potere politico, chiesa e Impero. Mi è stato richiesto come questi avvenimenti abbiano inciso nella storia della Massoneria italiana, cosa che ritengo sia sicuramente avvenuta proprio per le considerazioni che cercherò di seguito di riassumere, riprendendo il filo del discorso iniziato con il libro Beato Gregorio X, il Papa Crociato: il Papa templare?1. Proveremo poi a individuare quelle che poi furono anche le conseguenze concrete, soprattutto sul territorio italiano, in particolare nell’Italia meridionale. La “riconquista” da parte degli Altavilla, che sconfiggeranno musulmani e bizantini unificando sotto il loro dominio i territori dell’Italia meridionale, li porterà a governare popolazioni in maggioranza ortodosse e musulmane: una molteplicità che era un fattore di ricchezza per quelle popolazioni, sia economica che culturale, per gli scambi di conoscenze ma anche commerciali che riuscivano a intessere con l’impero d’oriente e gli Emirati del nord Africa. Nel 1300 nell’Italia meridionale i musulmani scompariranno quasi del tutto e gli ortodossi saranno ridotti a una minoranza trascurabile. Così come nel centro nord la sconfitta della parte ghibellina e il venir meno dell’Impero porterà da una parte alla frammentazione del territorio italiano (sino all’intervento congiunto dei Savoia e dei democratici mazziniani e garibaldini) e dall’altra alla legittimazione delle varie potenze territoriali che emergeranno dal rap-

porto stretto con la Chiesa cattolica. È interessante vedere questo percorso dalla parte dei sostenitori della “Riforma”, cioè dalla parte di chi sosteneva un approccio diverso al Vangelo e alla Bibbia rispetto a quello della Chiesa Cattolica. È dal loro punto di vista che appare evidente il sostegno reciproco fra chiesa e governi aristocratici. Fondamentale sarà il ruolo della Massoneria nella rottura di questo potere secolare/religioso, così come un sostanziale passo “indietro” rispetto alla laicizzazione dello Stato verrà fatto dal fascismo che ristabilirà un asse privilegiato con la Chiesa di Roma, bloccando allo stesso tempo l’espansione della massoneria “regolare” e delle religioni riformate in Italia e parlo di religioni riformate come pluralità di gruppi, perché erano e sono gruppi che accettano la molteplicità degli approcci religiosi in maniera, se vogliamo, a un tempo dialogante e competitiva, non ci furono scomuniche se un pastore o un fedele passò dai valdesi ai metodisti o dagli episcopali ai valdesi, o da un ramo a un altro delle chiese metodiste. Non dimentichiamoci che la pluralità religiosa era una caratteristica dei regni in oriente, dell’impero bizantino, ma anche dei regni musulmani. I conflitti fra musulmani bizantini e armeni non comportavano la conversione forzosa dei sudditi alla religione del “dominante” di turno, se un territorio o una città passavano da un regno a un altro, almeno sino a quando l’Islam non arriverà a controlla69


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re l’intero oriente. Non esisteva il principio che si affermerà in Europa alla fine delle guerre di religione per cui tale era la religione del Principe, tale era la religione dei sudditi. La pluralità era fonte di ricchezza economica e culturale, due furono le tregue concluse fra latini e musulmani e entrambe affermarono la libertà di raggiungere Gerusalemme come luogo di tutti i culti e furono quelle di Federico II con il sultano Al Kamil del 1229 e quella successiva fra Gregorio e Edoardo d’Inghilterra e il sultano Baibiras. Agostino, Federico II, Tommaso d’Aquino, Gregorio X e Guillame de Nogaret La diversa idea del rapporto fra Chiesa e potere politica implica anche un’idea di Chiesa. La Chiesa “spirituale” tendeva a enfatizzare il ruolo spirituale della Chiesa che voleva anche dire la purezza della compagine ecclesiastica, la forza dell’esempio e la conversione attraverso il logos, la Chiesa che si sovrapponeva al potere temporale utilizzava delle “risorse” del potere secolare per affermarsi e affermare la propria presenza, utilizzava la legge degli stati, l’inqui70

sizione, la spada. Una sorta di comoda scorciatoia che poneva in secondo piano l’impegno individuale e collettivo nella conversione dello spirito. Vediamo brevemente le concezioni di Sant’Agostino, Federico II, Gregorio X e dei Francesi dell’epoca di Filippo il Bello. Il rapporto di potere fra chiesa e corone regie che si consoliderà nel 1300 verrà interrotto drammaticamente con la rivoluzione francese del 1789 e la presa di Roma nel 1870, difesa dalle truppe di Napoleone III sino alla sconfitta nella guerra Franco/ Prussiana. La visione medioevale della vita è dominata dalla concezione di Sant’Agostino circa il peccato originale e la redenzione. Il peccato originale è come un’infezione che si propaga e conseguenza di questa colpa originaria è il disordine spirituale e temporale: gli uomini eredi della colpa dei progenitori scatenarono nel mondo l’invidia, la cupidigia, la guerra. Si contesero con la violenza il possesso particolare e egoistico della terra. Per necessità, ma anche per “disegno provvidenziale”, sorsero i Principi della terra affinché tenessero a freno gli istinti umani peggiori e tentassero

di ricostruire quell’ordine naturale turbato dal peccato originale. Così ebbero il compito e il dovere a un tempo di garantire la giustizia, la pace, il possesso pacifico dei propri beni, nonché la difesa della Chiesa. Per Federico però, sotto l’influsso della corrente arabo-aristotelica, lo Stato è a un tempo un fatto naturale e necessario, e un fatto divino. Ma Impero e Chiesa non sono l’uno subordinato all’altra, lo Stato opera attraverso le conoscenze filosofiche “naturali”, la Chiesa mediante la rivelazione. Elabora così la teoria delle “due spade”, da cui trae forza e vigore l’idea dello Stato laico: l’Imperium ha il dominio del mondo sensibile, materiale, il Sacerdotium si rivolge al mondo spirituale. È un pensiero che si evolve rispetto a quello agostiniano, affermando la separatezza delle due “spade”, nelle aree di competenza, se vogliamo, esclusiva. San Tommaso trae motivo di riflessione da Aristotele: per cui lo Stato, come forma organizzativa delle cose “terrene” (rapporti e relazioni) è connesso alla stessa natura umana. A questa constatazione San Tommaso lega una riflessione di tipo teologico: il potere temporale e quello spirituale derivano entrambi da Dio e la società terrena deve preparare alla vita celeste, ma la salvezza si ottiene tramite la Chiesa per cui lo Stato quale organo della convivenza civile è subordinato alla Chiesa. Per quanto riguarda lo studio di Agostino, Federico e Tommaso le mie riflessioni traggono spunto dal testo del Professor Antonino De Stefano, “L’idea imperiale di Federico II”. Vediamo ora la posizione di Gre-


gorio X e quella della “scuola francese” che successivamente affermerà il proprio controllo sulla Chiesa romana. Vedremo poi gli effetti pratici di questa “vittoria” francese. Anche Gregorio come lo stesso Federico II ha una visione complessiva della realtà dell’epoca, era presente a Acri durante la trattativa che porterà alla tregua con le forze musulmane, dialoga con gli ebrei (li difende con una apposita Bolla) e con gli ortodossi sino a unificare le due chiese. Invia messaggi in Cina attraverso i fratelli Polo, tratta con i Khan tartari sino a progettare una spedizione di francescani e domenicani al fine di evangelizzare i popoli dell’oriente. Un complesso quadro culturale, religioso e politico in cui si muove con abilità e grande sapienza. La sua concezione appare chiara dalla lettere che scrive a Rodolfo d’Asburgo, personaggio che ha sostenuto nell’elezione imperiale scontentando molti: “[A Rodolfo, illustre re dei Romani]. La scienza civile (o: politica, il diritto civile) ha affermato che non differiscono molto il sacerdozio dal potere politico (l’impero) nel merito. Se è vero che l’identità dell’origine li unisce, come i doni più alti (grandi) di Dio messi insieme dalla benignità celeste (divina); e come con aiuti reciproci sulle cose (questioni, problemi) che necessitano di approvazione, li riunisce la necessità con l’alternare tra di loro le rispettive funzioni, istituite per giunta allo scopo del perfetto governo del mondo, affinché l’una (il sacerdozio) si occupi naturalmente delle cose (faccende) spirituali, mentre l’altro (l’impero) sovrintenda alle cose umane (agli interessi umani), l’unica e medesima causa finale dell’istituzione destina la stessa (istituzione) in modo inseparabile, sebbene sotto la diversità delle funzioni. Inoltre la carenza ponderata dell’una e dell’altra (istituzione) introduce chiaramente la necessaria unione di esse rende evidenti le differenze che emergono. L’ Impero, durante l’assenza (la vacanza) della sede apostolica viene privata della guida della sua salvezza (sue directore salutis). La Chiesa invece in caso di mancanza (vacanza) del trono di Cesare è esposta agli attacchi degli oppressori, finché resta privo del suo difensore... Ama la pace, imitando (avendo a modello) un re pacifico (il Re dei pacifici, Cristo). Plasma il tuo trono, con la giustizia, ricercala; infatti la pace è il frutto della giusti-

zia. Se essa cammina davanti a te, ponendo i tuoi passi sulla (sua) strada, ti eviterà i luoghi impraticabili. E non lasciarti abbandonare dalla clemenza la quale, moltiplicando amici e devoti, aumenta la stabilità dell’impero (del potere politico). Comportati (agisci) coraggiosamente (con forza, con coraggio) e il tuo cuore (il tuo spirito) sia sempre confortato (rinfrancato, oppure: si consoli) nel Signore (in Dio). Lione, 15 febbraio, anno terzo del nostro pontificato”. L’Impero sovrintende alle cose umane e la Chiesa a quelle spirituali, c’è una origine comune in Dio, ma sono due entità che interagiscono, sono anche separate. Non sono proprio le “due spade” di Federico, ma con Gregorio ci si avvicina molto. Dei progetti della Corona di Francia e della elaborazioni del gruppo di intellettuali che le si stringevano attorno ci parlano sia la nota studiosa Barbara Frale che lo storico Francese Demurger. La Frale ci racconta dello scontro con Bonifacio VIII che, rivendicando il ruolo della Chiesa, si oppose con forza al Consiglio di Francia che:“ [...] stava elaborando una sua visione politica agli antipodi, che metteva il paese al centro e mirava a conferirgli la leadership in seno alla società cristiana. Il monarca francese discendeva dalla stirpe benedetta di Clodoveo, il quale secondo la tradizione era stato consacrato con un crisma miracoloso [...] Dunque i re di Francia derivavano la loro sovranità direttamente dalla volontà di Dio e la loro dignità era spiritualmente superiore a quella di tutti gli altri regnanti: perciò secondo gli ideologi di Filippo il Bello era giusto che il sovrano raggiungesse il primato anche politico sulla cristianità, poiché egli, il re cristianissimo avrebbe potuto guidarla in salvo guarendola dai suoi mali. Papa Caetani osteggiava la costruzione politica che gli avvocati francesi tentavano di far prevalere [...]”. Prosegue la Frale: “[...] Da questo singolare incrocio di idee politiche antichissime, sincere convinzioni religiose e interessi politico-finanziari, i giuristi di Filippo il Bello derivarono una teoria che faceva del sovrano il salvatore della società cristiana, un pastore del gregge di Cristo in concorrenza con l’usurpatore del trono di Pietro.” E l’usurpatore era Papa Caetani. Una concezione “eurocentrica” che poneva al centro della sua riflessione i Regni europei e al centro

del centro la Corona di Francia. Andiamo al Demurger e alla sua opera sui templari ove questi ribadisce quanto già descritto dalla Frale: i partigiani del Re di Francia sostenevano che questi è collocato nella sua posizione da Dio e ha il dovere di difendere la Chiesa, anche se poi questa dife-

Massoneria sa, guarda caso, coincide con gli interessi della monarchia. Demurger a pag. 501 riferisce che: “Il re, Nogaret, l’inquisitore Guillame de Paris si credono i soldati di Cristo che combattono il demonio <<Noi nella funzione di re ove il Signore ci ha posto abbiamo l’obbligo di vigilare per difendere la libertà della fede e della chiesa>>, è scritto nell’ordine d’arresto dei templari. Guillame de Plaisians, nel maggio 1308, così giustifica l’azione di Filippo: <<un principe così grande e cattolico, ministro di Cristo in questa vicenda>>”. Sono questi argomenti utilizzati anche contro Bonifacio gli uomini di Filippo elaborano la visione “... di un mondo unitario, opera di Dio e cementato dalla fede, organizzato secondo logica, ordinato dalla ragione... all’idea tradizionale dei due poteri universali si sostituisce quella di una cristianità che forma un corpo naturale, suddiviso in altri corpi più piccoli, ma altrettanto naturali. La monarchia di Francia è uno di tali corpi naturali, retto dal “re cristianissimo”, successore di Cristo. Con i loro crimini i templari hanno spezzato l’unità della creazione..”. E più avanti sempre prosegue il Demurger: “Filippo il Bello ritiene che sia un suo dovere mantenere le chiese e l’istituzione religiosa nel loro stato di purezza. Egli è il garante della fede e della morale nel regno, divenuto nuova Terra Santa per un nuovo popolo eletto.”. Dietro a tutto quanto accadde Guillame de Nogaret l’uomo che tentò di arrestare Bonifacio, che distrusse l’ordine Templare che dipendeva direttamente dal Papa, ma che ne era anche garante dell’indipendenza dai poteri temporali, anche militarmente. L’effetto dell’affermazione del “controllo” francese sulla Chiesa è il tentativo, con alcuni pontefici riuscito, di subordinare le funzioni dei Papi agli interessi della Casa regnante in Francia2. Cosa che avrà tre effetti diretti sulla realtà politica europea e sulla situazione italia71


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na: si stringe una stretta alleanza fra pontefici e sovrani che si sostengono reciprocamente, le leggi dello Stato definiscono l’unicità della Chiesa di Roma e il clero difende l’ordine basato su Re e nobili; verrà meno qualsiasi ipotesi di evangelizzazione dell’oriente e come pure il dialogo con ebrei, ortodossi, armeni e musulmani. Infine si realizza una omogeneità da un punto di vista religioso delle aree del nostro Paese che vedevano felicemente convivere cattolici, ebrei, ortodossi e musulmani. Così come le correnti culturali ghibelline, le due spade di Federico, saranno definitivamente marginalizzate. Questo assetto rimarrà sostanzialmente intatto in Francia sino alla rivoluzione del 1879 e in Italia sino al Risorgimento, per arrivare alle riforme di Crispi, in parte annullate dalle contro-riforme del fascismo che riaffermerà il meccanismo della Chiesa di Stato. Il ruolo della Massoneria di Piazza del Gesù 72

sarà fondamentale nella rottura definitiva dell’alleanza fra Chiesa di Roma e Stati pre-risorgimentali, non solo per le vittorie militari che unificheranno sotto i Savoia le corone del Nord e quelle del Sud Italia, ma anche perché, con l’ortodosso Francesco Crispi, romperanno il controllo diretto della Chiesa sulle opere di beneficenza, gli ospedali e i cimiteri, affermando il pluralismo confessionale con il codice Zanardelli. Nei moti del 1848 sarà in parte coinvolto anche Pio IX. Con la sconfitta del 1848 anche numerosi ecclesiastici emigreranno in Gran Bretagna e in America, dove supereranno la contraddizione fra Fede e impegno sociale a favore dell’unità d’Italia trovando altri canali per l’affermazione della propria fede cristiana nelle religioni riformate: la Chiesa di Scozia e quella d’Inghilterra, i presbiteriani, le chiese metodiste e quelle dei fratelli. In un ottica che, si badi bene, era comunque pluralista rispet-

to al monolitismo dottrinale e organizzativo della Chiesa di Roma. Così come i garibaldini erano in gran parte ferventi mazziniani (anche repubblicani) e come tali legati a una concezione che vedeva nelle fedi religiose una componente non secondaria. Leggendo la storia d’Italia dal punto di vista di luterani e dei riformati possiamo veder quanto fosse stretto il rapporto fra i poteri politici (regni, ducati e granducati) e la Chiesa di Roma. Con Roma capitale si andrà affermando sia da un punto di vista legislativo che sociale il pluralismo religioso e la separazione fra Stato e Chiesa, processo che ebbe però una forte battuta d’arresto con il fascismo e il suo rinnovato rapporto con la Chiesa di Roma. Pluralismo delle confessioni religiose e rapporto con il potere pubblico sono percorsi che andranno di pari passo nella storia d’Italia. L’eredita’ nella storia della Massoneria italiana: dalla parte dei “riformati” Il ruolo concreto del rapporto fra potere secolare, regio o ducale e potere ecclesiastico appare evidente dalla storia del movimento evangelico in Italia: lo si comprende dal loro punto di vista. C’entra la Massoneria! Veniamo al rapporto fra chiesa e potere politico: con la sconfitta della Chiesa Spirituale, si consolida il rapporto fra le monarchie e i Pontefici, anzi la “cattività avignonese” li rende quasi subalterni ai voleri della monarchia francese. Un corpo ecclesiale povero di “spirito”, privo di forza, di esempio e conversione ha finito con l’appoggiarsi a poteri temporali, a usare strumenti come l’inquisizione e le polizie dei vari regni. In Francia il triste connubio viene interrotto prima dalla corrente illuminista, poi con il sangue dalla rivoluzione del 1789. In Italia la chiave di svolta, nel paese dove il Papa era anche Re, sovrano di un territorio, è rappresentata da Garibaldi e dai suoi uomini che andranno al Governo con la sinistra storica: nel nord la monarchia sabauda aveva unificato l’Italia settentrionale, al centro c’era lo stato del pontefice al sud il Regno di Napoli e a lungo, dopo la sconfitta militare dei Borboni e del Papa/Re rimarrà la paura di una possibile rivincita di entrambi. Il movimento evangelico si diffonde in Italia con lo sforzo dei patrioti convertitisi negli anni dell’esilio che mano a mano rientrano, finanziati da inglesi, scozzesi, tedeschi e americani. Ma le persecuzioni continueranno anche


nell’Italia unita: persino lo Statuto Albertino lascia dei margini interpretativi utilizzabili da sbirri e da magistrati, da coloro che intendono fermarli: infatti alcuni magistrati vedono la previsione dei culti ammessi come rivolta dei soli ebrei e valdesi, quindi nuovi processi vengono avviati contro i riformati. Sul libro di Giorgio Spini L’evangelo e il berretto frigio. Storia della Chiesa Cristiana Libera in Italia, così come sulla rivista “L’Italia Evangelica” troviamo riportati continui episodi, anche successivi al 1870, di ostilità contro la presenza dei cristiani riformati e volti comunque a affermare il controllo degli ecclesiastici della Chiesa di Roma su ospedali, cimiteri, opere di beneficenza, comunità locali: si impedivano i conforti religiosi agli infermi, si cercava la conversione sin sul letto di morte, si impediva di seppellire gli evangelici nei cimiteri (su terra consacrata), si organizzavano veri e propri boicottaggi nei confronti di coloro che aderivano o semplicemente aiutavano gli esponenti delle chiese riformate. Questo avveniva dopo l’unità d’Italia; prima si rischiava l’arresto e prima ancora la denuncia all’inquisizione. Tutto ciò continuò a avvenire sino alle riforme di Crispi: il Codice Zanardelli e la riforma delle amministrazioni locali. Non a caso Crispi era proveniente da una famiglia di religione ortodossa, un massone amico di Fera, troviamo pubblicate le sue lettere al pastore evangelico sulla rivista “Era Nuova”; gran parte dei dirigenti della Massoneria feriana sono e saranno, sino al secondo dopoguerra, esponenti di religioni riformate. Gay (pastore episcopale e valdese) e Fera (pastore metodista, della Chiesa libera e infine Wesleyano), rappresenteranno la massoneria scozzese a Bruxelles nel 1907, a Washington nel 1912 troviamo Fera e Burgess (responsabile metodista per l’Italia), a Losanna nel 1922 accanto a Palermi sarà sempre Burgess, suo predecessore venuto appositamente dagli Stati Uniti dove era andato a vivere. Sempre Fera nel suo libro “Italia Libera con Cristo, mai più coi gesuiti”, (Palermo 20 settembre 1886, Edizioni Giannitrapani) stigmatizzerà con forza il pervasivo controllo effettuato dalla Compagnia di Gesù sulla società italiana. Saverio Fera, correttamente, rivendicò una continuità fra coloro che hanno sconfitto militarmente il Papa/Re e i Borboni e coloro che hanno combattuto nei secoli per la riforma della Chiesa Italiana, perché il

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presupposto dell’azione militare è il percorso culturale che ha creato le condizioni per avere un Pontefice non più Re, per separare la chiesa dalla politica. Padre Rosario Esposito nella sua Storia della Massoneria Italiana ricorda un importante discorso di Crispi: “In occasione dello scoprimento del monumento eretto a Garibaldi sul Gianicolo, il gran giorno settembrino del 1895, Crispi pronunciò alla presenza del Re Umberto, della Regina e del Principe di Napoli, un discorso in cui, pur riaffermando i motivi oramai tradizionali della politica italiana in merito ai suoi rapporti con la Chiesa, non si abbassò alle ingiurie che quella data faceva pullulare ovunque. Egli affermò che solo i nemici dell’unità italiana potevano ancora interpretare la celebrazione autunnale come un affronto all’autorità del Sommo Pontefice, e che se “... il Cristianesimo, con la parola di Paolo e di Crisostomo poté senza l’aiuto delle armi temporali, conquistare il mondo, non si comprende perché

il Vaticano debba ancora ambire il principato civile per l’esercizio delle sue funzioni spirituali. Se il Vangelo, siccome noi crediamo, è la verità, se col solo apostolato potrà mantenersi e vivere... Il Papa è soggetto solamente a Dio, e nessuna forza umana può giungere sino a lui ... Principe civile sarebbe menomato d’autorità... La Cattolicità dovrebbe essere riconoscente all’Italia per i servigi resi al Pontefice Romano. Prima del 20 settembre 1870, questo doveva cedere ai principi della terra... Fu soltanto dappoi, quando fu discaricato dalle pesanti suppellettili temporali che Pio IX poté battersi contro Ottone di Bismarck e far sentire al forte uomo quanto sia la virtù delle armi spirituali.” Segue il commento di Padre Rosario Esposito alle affermazioni di Crispi: “La Massoneria reagì apertamente a queste espressioni che a distanza di cinquant’anni, appaiono non prive di buon senso e di dignità, ma che in quel momento ferivano profondamente la parte credente. Allo73


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ra e soprattutto quando la stella dello statista siciliano cominciò a appannarsi, i massoni gli rimproverarono queste espressioni come segno evidente di tradimento della causa anticlericale e di una mano tesa al Vaticano che non poteva assolutamente essere tollerata”. La forza della Chiesa è nello Spirito e non nella coercizione del potere civile, non è nella conversione utilizzando la “spada”, di cui ha parlato recentemente anche Papa Ratzinger nel suo discorse a Ratisbona. La commistione fra potere politico, arma e strumento di tutela della Chiesa, risale, nella fase più conclamata proprio alla seconda metà del 1200 e ai primi del 1300. La Chiesa perdendo il potere “terreno”, ritrova nella spiritualità la propria stessa ragione di esistere, ha ragione Crispi! Saverio Fera nei suoi vari testi individua il percorso che in Italia ha portato alla rottura prima culturale, poi politica del connubio, ne ricordiamo alcuni: “Pietro Carnesecchi, gentiluomo fiorentino arso in Roma dall’inquisizione il 3 ottobre 1507, Firenze 1898”, “Pro patria e ecclesia - ai liberali e ai liberi pensatori, Palermo 1882”, “Italia Libera con Cristo, mai più coi gesuiti”, Palermo 1886. Ci vorranno quei mille gari74

baldini mazziniani, in gran parte cristiani, ma non cattolici, mazziniani e repubblicani che però per amore di Patria si adatteranno a accettare la monarchia dei Savoia, che unificheranno il nord al sud, sconfiggendo anche il Papa/Re. Vediamo il solo testo sul Carnesecchi: in questo scritto Fera pone l’accento sul ruolo dell’inquisizione e della tortura, si tratta della rievocazione della sorte toccata a un Gentiluomo Fiorentino, ex dignitario della curia papale e poi avvicinatosi agli evangelici, è uno scritto del 1898, edito a Firenze. Anche in questo caso viene evidenziato il tentativo di utilizzare la violenza al fine di convertire e di coartare le coscienze da una parte e la decadenza di un clero intimamente correlato con il potere politico. Ed alla decadenza della Chiesa Romana sempre si opponeva un qualche riformatore: “Dopo il turbolento pontificato di Innocenzo II [...] sorse Arnaldo da Brescia; contro Bonifazio VIII, Dante; contro i Papi d’Avignone, Boccaccio, Petrarca e Cola da Rienzi; contro Clemente VII, Ferruccio e Benedetto da Fojano; contro Nicolò V, Stefano Porcari; contro Alessandro VI, Savonarola [...]”. Segue poi citando il Machiavelli: “Abbia-

mo con la Chiesa e con i preti, noi italiani, questo primo obbligo, d’esser diventati senza religione cattivi [...] ”. Il Papa Re sembrava aver scavato un fossato incolmabile con coloro che avevano lottato e voluto una Italia unita. La chiesa apparato nel momento in cui “dimentica” il proprio compito principale che è quello di convertire, di trasformare le coscienze attraverso la conoscenza del messaggio evangelico, della Bibbia e si è confusa con il potere politico e temporale diventando un diretto supporto di alcune case regnanti, ha finito, oltre che a attribuire un eccessivo peso al proprio stesso apparato, per divenire strumento di questo o quel potere secolare, custode di questo o quel sistema politico e culturale, perdendo di vista la sua essenza ultima. Anzi ha finito, a volte, con l’esserne controllata e resa subalterna, potere temporale fra gli altri poteri temporali, Re e non Papa così come lo erano gli altri Signori e Monarchi nazionali, potere territoriale per cui si poteva combattere, per la cui successione potevano esserci contrasti e complotti, come per tutti i Re “terreni”. Fera ripercorre la storia dell’ecclesiastico fiorentino proveniente da una famiglia fiorentina da sempre fedele alla famiglia dei Medici, legato a Cosimo e al Papa Clemente VII appartenente alla stessa famiglia, viene nominato prima segretario poi protonotario della sede apostolica venendo “investito” di ben due abbazie. Le critiche alla curia sono oramai note: si muove più come un organismo politico che religioso. Alla morte di Clemente VII Carnesecchi va a Napoli dove entra in contatto con una vasta cerchia di intellettuali e letterati, fra questi troviamo il segretario del Vice Re spagnolo Valdez e da questo incontro nasce l’idea di una religione diversa, ribadisce il pastore metodista che: “Il bisogno di una riforma religiosa nasce [...] quando i vescovi si arrogarono il supremo potere della religione; e crebbe allorché i pontefici, unendo al pastorale la spada, e al sacro il temporale dominio, trascurarono le cure evangeliche per dedicarsi alle profane”. Al diffondersi delle opinioni evangeliche si fa più severo il controllo dell’inquisizione e il Carnesecchi per ben due volte finisce sotto processo nel 1546, assolto si allontana dall’Italia, chiamato a processo e non presentatosi viene scomunicato nel 1559.


Poi processato sotto Papa Pio IV, legato alla famiglia Medici, viene nuovamente assolto grazie alla protezione di Cosimo. Papa Pio V poi si accorda con Cosimo sotto la cui protezione si trovava il Carnesecchi che viene arrestato e condotto a Roma. Sottoposto a nuovo processo e rifiutando di abiurare le proprie idee, viene condannato a morte il 26 agosto 1567 e arso il 3 ottobre successivo. Fera commenta che a nulla serviranno tante violenze dato che la chiesa Evangelica è presente e forte nel territorio del nuovo Regno d’Italia e in Campo de’ Fiori è stata eretta una statua a Giordano Bruno. L’Italia del 1200 era un Paese in cui esisteva una pluralità religiosa in cui il rapporto fra religione e potere politico non era ancora strettamente correlato, anche perché convivevano in molte aree territoriali cittadini/sudditi che professavano religioni diverse, così che il potere pubblico non poteva essere collaterale a questa o a quella confessione religiosa, non a caso sia gli Altavilla che Federico II per tenere insieme i loro Regni elaborarono delle Costituzioni scritte. La Massoneria da sempre come tale ha sempre affermato la pluralità dei percorsi per raggiungere Verità e Conoscenza; per questo la Massoneria italiana nella formazione dello Stato nazionale ha dato un contributo alla laicità dello Stato e al pluralismo religioso che nemmeno la collateralità fra Chiesa di Roma e fascismo riusciranno più a sradicare.

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________________ Bibliografia: Alain Demurger, I Templari - un ordine cavalleresco e cristiano nel medioevo, Milano 2009. Barbara Frale, I Templari, Bologna 2010.

cordanze fra Chiesa e massoneria, Firenze 1987.

J. Guiraud, Les Registres de Gregoire X, Parigi 1892-1906.

Note:

Padre Rosario F. Esposito, La Massoneria e l’Italia dal 1800 ai giorni nostri Roma 1957. Giorgio Spini, L’evangelo e il berretto frigio. Storia della Chiesa Cristiana Libera in Italia, Torino, 1971. Saverio Fera, Italia Libera con Cristo, mai più coi gesuiti, Palermo 1886. Saverio Fera, Pietro Carnesecchi, gentiluomo fiorentino arso in Roma dall’inquisizione il 3 ottobre 1507, Firenze 1898. Antonino De Stefano, L’idea imperiale di Federico II. Padre Esposito Rosario Franco, Le grandi con-

1 merlo.esidesign@gmail.com 2 Lo stesso padre paolino Rosario Esposito Franco in un suo saggio dal titolo “Le grandi concordanze fra Chiesa e massoneria”, testo in cui cerca di ristabilire un dialogo fra Chiesa Cattolica e Massoneria, nella ricerca costante di avvicinare e far dialogare chi a suo tempo è stato lontano, ammette che “Redigere un catalogo delle indegnità ecclesiali è molto facile. Leone XIII quando nel 1882 aprì gli archivi segreti vaticani agli studiosi facilitò assai questo compito. Papa Formoso, Benedetto XI - Teofilatto,

Marozia, i Papi di Avignone, umiliatisi a fare i cappellani di corte del re di Francia, i Papi del Rinascimento, ai quali della Chiesa non gliene importava di molto, e Alessandro VI, Giulio II, Donna Olimpia Maidalchini. I processi ingiusti contro Savonarola, Giordano Bruno, Galilei, le stragi delle streghe e della notte di San Bartolomeo. Guai a puntare l’indice accusatore in maniera indiscriminata: la chiesa non va giudicata da queste gigantesche scivolate, bensì dal complesso della sua storia, e soprattutto, dal Vangelo e dai documenti costituzionali, tradizionali, autentici. Ma grave illusione sarebbe il pensare che questi fatti non abbiano ripercussioni nella successiva storia ecclesiastica, e che gli “altri” siano disposti a cancellarli dagli Annali dell’umanità”.

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Storia dell’Oriente di Nuoro. La Massoneria di Palazzo Vitelleschi in Barbagia Raffaele Serra, Nuoro 2015, pp. 79.

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na cosa è ormai nota a tutti, italiani e stranieri: il nostro paese, l’Italia, è straordinario e speciale perché ci offre una varietà socio-culturale ineguagliabili; ogni suo insediamento, dalle grandi città ai paesini di poche centinaia di abitanti, ha peculiarità intellettuali, storiche, artistiche e antropologiche che lo rendono unico e diverso da tutti gli altri. Pertanto non stupirà come anche nelle nostre isole, che in apparenza risultano più lontane e staccate dal mondo peninsulare, la Massoneria abbia avuto una portata culturale e sociale che a oggi non è ancora stata del tutto indagata. In occasione della costruzione della nuova casa massonica in via La Maddalena nella città sarda di Nuoro, aperta nel mese di settembre 2014, Raffaele Serra ha voluto raccontare una storia rimasta un po’ nell’ombra ma che meritava di essere esposta a tutti i Fratelli, insulari e della terraferma. Nuoro è infatti caratteriz-

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zata, come spiega bene l’autore, da una “lunga storia civile, culturale che spesso mostra imprevedibili risvolti massonici. Fin dalla seconda metà degli anni Sessanta dell’Ottocento”. L’Autore, attraverso la lettura di documenti di archivi pubblici e privati, di libri, articoli e dall’ascolto di testimonianze sepolte nella memoria di molti protagonisti, tenta di ricostruire la storia e le vicende che hanno caratterizzato la fondazione e lo sviluppo di Logge massoniche nel territorio di Nuoro, appartenenti tutte al filone scozzese, prima di Palazzo Giustiniani e poi anche di Palazzo Vitelleschi. Di ogni Officina l’Autore rivela le caratteristiche e l’operatività, ne ricostruisce i “piè di lista”, elencando i Fratelli che con certezza più o meno confermata dalla documentazione sopravvissuta sono stati parte integrante delle Logge menzionate. La storia che viene mostrata al lettore è sicuramente contraddistinta da risvolti a volte o talora negativi, ma come sempre la costanza e la dedizione ai valori massonici hanno avuto una giusta vittoria sancita, per la nostra Obbedienza, dall’istituzione della Provincia di Nuoro l’11 gennaio 2000 e, per il Rito, il 21 gennaio 2015. La scrittura scorrevole, ma non certo priva di contenuti, la presenza di un ampio corredo di fotografie e illustrazioni, una bibliografia adeguata e l’elenco delle fonti citate rende la lettura di questo breve volumetto agevole e istruttiva per qualsiasi Fratello e Sorella che abbia la curiosità e il desiderio di esplorare realtà della nostra Obbedienza ancora tutte o in parte da scoprire. Adriana Alessandrini

Riflessioni di Libera Muratoria. Manuale per l’uomo libero e di buoni costumi Michelangelo Trebastoni, Assoro (EN) 2013, pp. 271, € 18,00.

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l termine “manuale”, nella sua qualità di sostantivo, trae origine dal neutro dell’aggettivo manualis, del latino tardo, dal quale

ha assunto il significato di “libro che espone le notizie fondamentali di un determinato argomento in modo sistematico ed esauriente” (vocabolario Treccani). Chiunque desideri scrivere un manuale, qualsiasi sia la materia trattata, dovrebbe sempre attenersi a criteri di esaustività e di chiarezza, poiché lo scopo è esporre tematiche che possano essere comprensibili anche a un pubblico di “non addetti ai lavori”. Capita sovente di dover affrontare la lettura di cosiddetti “manuali” che in realtà offrono lavori di scarso valore scientifico e privi di contenuti nuovi o sfoggiano un’erudizione al limite della comprensibilità. Non è questo il caso del volume di Michelangelo Trebastoni Riflessioni di Libera Muratoria. Manuale per l’uomo libero e di buoni costumi. Come si legge nella presentazione di Sergio Ciannella “Un’opera diversa dalle altre che, grazie alla sua completezza, può svolgere una funzione divulgativa e, nello stesso tempo, offrire materia di studio”. Ecco raggiunto lo scopo della realizzazione di un manuale: essere divulgativo, per rivolgersi anche a lettori che conoscono poco o niente degli argomenti trattati e offrire argomenti nuovi o spunti di riflessione che possano approfondire conoscenze già acquisite da studiosi del settore. La comprensione di questo testo è agevolata dal-


le due Presentazioni poste in apertura del volume, curate rispettivamente da Sergio Ciannella (già Luogotenente Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro Aggiunto Vicario della Gran Loggia d’Italia) e Gabriele Carnemolla (Grande Ispettore Provinciale della Provincia Massonica di Siracusa, Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M.), e dalla Prefazione dello stesso Autore: sono tutte di grande ausilio poiché forniscono la giusta chiave di lettura per comprendere la struttura e gli scopi sottesi alla realizzazione di questa opera. Anche se il testo si sviluppa secondo una semplice suddivisione in capitoli, scorrendo i titoli elencati nell’indice si può evincere una ripartizione in due grandi sezioni: i primi dieci capitoli sono infatti dedicati all’esposizione di tematiche di carattere più generale, come Esoterismo, “pillole” di Libera Muratoria, riti, rituali, cerimonie massoniche, etc.; gli ultimi dodici entrano sempre più nel particolare, soffermandosi sulla descrizione di specifici argomenti, quali, il Silenzio, l’Agape rituale, i Codici Massonici, le Costituzioni di Anderson. Ancora, arricchiscono il volume una lunga lista di nomi di Massoni famosi, un glossario dei più importanti termini massonici e un buon corredo iconografico; forse, per completezza, e data la natura del testo, le cui caratteristiche costanti sono chiarezza e esaustività, a chiusura del volume avrebbe dovuto trovar posto una bibliografia generale, strumento imprescindibile per qualsiasi lettore e studioso che per mera curiosità o specifico desiderio di approfondimento voglia attingere ulteriori conoscenze sugli argomenti trattati. Adriana Alessandrini

to che la sezione principale dell’elaborato sia interamente dedicata alla presentazione e all’analisi dell’Unione Massonica del Mediterraneo: come recita il titolo stesso della tesi “Cooperazione nel Mediterraneo: l’Unione per il Mediterraneo e l’Unione Massonica del Mediterraneo” la dottoressa Parisi ha compreso l’importanza che riveste questa istituzione massonica ai fini di un dialogo serio tra i vari paesi del Mare Nostrum e come la cooperazione si possa concretizzare ancor più con una collaborazione forte tra queste due Unioni. Il merito della nascita dell’Unione Massonica del Mediterraneo è da ascriversi all’illuminante perspicacia di Franco Franchi, già Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia: egli ebbe chiaro come sarebbe stato necessario riunire le potenze massoniche mediterranee al fine di riscoprire le radici comuni del sapere, della Tradizione, della storia e della cultura, che, sorte da civiltà del passato, sopravvivono nel mondo occidentale odierno e che dovranno necessariamente essere tramandate alle generazioni future. Questo invito, espresso per la prima volta nel 1999 a Roma dallo stesso Franchi, ebbe in seguito una felice accoglienza da parte delle varie Obbedienze mediterranee e dopo lunghi lavori preparatori, ha trovato una sua realizzazione nel

quivocabile quale sia “l’intento della Fratellanza massonica mediterranea: fedeli alla nostra idealità, contribuire a riscoprire le nostre comuni radici per realizzare quella pace e quel progresso che sono la massima aspirazione dei popoli civilizzati”. Adriana Alessandrini

Massoneria e Mediterraneo con la tesi di Laurea della dott.ssa Francesca Parisi

1914-1915: Il liberalismo italiano alla prova, l’anno delle scelte

a cura di Luigi Danesin, Treviso, pp. 205, € 18,00.

S

icuramente è stata una brillante intuizione quella della dott. Francesca Parisi di dedicare la propria tesi di Laurea allo studio della tematica della cooperazione tra i paesi bagnati dalle acque del Mediterraneo, cooperazione che ha trovato una sua manifestazione concreta e reale con il Summit di Parigi del 13 luglio del 2008 prima, e con la successiva conferenza di Marsiglia, tenutasi il 3 e 4 novembre 2008, durante la quale è definitivamente sorta l’Unione per il Mediterraneo. Ma è ancor più rilevante il fat-

eventi storici di cui queste acque sono state palcoscenico per millenni, alla descrizione dell’espansione massonica nell’euro-mediterraneo) che fanno sperare, anche grazie al pensiero di Claudio Nobbio, in un Mare nostrum che possa divenire concretamente “il mare che unisce e non il mare che divide”. Ritengo doveroso chiudere questo mio contributo con le parole di Luigi Danesin (già Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Gran Loggia d’Italia) tratte dalla sua Prefazione al volume Massoneria e Mediterraneo e che esprimono in modo ine-

a cura di Aldo A.Mola, Cuneo, pp. 260.

2003, a Beirut, con la costituzione dell’atto fondativo dell’Unione, il cui coordinamento è stato affidato alla Gran Loggia d’Italia. Il volume Massoneria e Mediterraneo oltre al pregio di divulgare al vasto pubblico il lavoro della dottoressa Parisi, propone una serie di contributi nuovi (da un escursus sugli

I

n Italia 1915. In guerra contro Giolitti (Soveria Mannelli, Rubbettino) Luigi Compagna, politico e storico di alto valore, ha spiegato che l’intervento dell’Italia nella Grande guerra venne sì presentato come Quarta guerra del Risorgimento per liberare gli “irredenti” dagli artigli dell’aquila bicipite asburgica e come ultima lotta come

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guerra contro il militarismo teutonico, ma il suo vero inconfessato obiettivo fu “interno”: il regolamento di conti tra i conservatori, capitanati da Salandra e Sonnino, due antichi seguaci di Francesco Crispi, e Giovanni Giolitti, lo statista esecrato perché aveva conciliato liberalismo e democrazia, sviluppo industriale e miglioramento delle condizioni delle masse urbane e contadine, attraverso la liberalizzazione degli scioperi economici e la promozione di innumerevoli istituzioni civili e sociali, inclusi la scolarizzazione e il diritto di voto dei maschi maggiorenni (1912-11913). Al tema il Centro europeo Giovanni Giolitti per lo studio dello Stato, diretto dal nostro collaboratore Aldo A. Mola, dedicò due convegni negli scorsi anni (gli atti sono disponibili, a richiesta). Nel 2014 la ricerca è proseguita con due ulteriori incontri scientifici, il convegno promosso dal Consiglio Regionale del Piemonte (Torino, 24 ottobre 2014) su “1914:il liberalismo italiano alla prova” e la XVII Scuola del Centro Giolitti (1915: l’anno delle scelte, Cuneo-Cavour).

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In entrambi ritroviamo i temi poi affrontati da Luigi Compagna. Il volume comprende saggi di Guido Pescosolido (Cavour e i caratteri fondanti del liberalismo italiano), Tito Lucrezio Rizzo (I poteri istituzionali), Valerio Castronovo, Antonino Zarcone (L’esercito da Pollio a Cadorna), Cosimo Ceccuti (Giolittiani e antigiolittiani), Giovanni Scirocco (Intransigenti e riformisti nel periodo della neutralità) Romano Ugolini (Roma nell’età dei blocchi popolari), Mario Caligiuri (Le politiche delle classi dirigenti liberali). Mola vi passa in rassegna i poteri della Corona, in parte dimenticati, ancorché decisivi per consentire al re il massimo di libertà di scelta nell’ora decisiva, in forza dell’art. 5 dello Statuto che gli conferiva il potere di dichiarare la guerra. È vero che questo era subordinato al benestare del Parlamento, ma in modo ambiguo. Nel 1915 Corona e governo fecero da sé. La Camera votò una carta in bianco: si rimise all’esecutivo. Fu un colpo di Stato? Se ne parlerà nella XVII Scuola (Saluzzo-Cuneo, 24-25 settembre 2015). Nella seconda parte il volume

è affrontato da un ventaglio di relazioni di studiosi anche esteri, come Fernando Garcia Sanz e Jean-Yves Frétigné. Federico Lucarini analizza i governi Salandra, André Combes ripercorre la condotta del Grande Oriente di Francia, subito a fianco di Marianne, costi quel che costi, Aldo Ricci indaga partiti e movimenti (di sinistra) alla vigilia dell’intervento e Mola i tentativi di Giolitti di fermare la guerra. Luigi Pruneti, infine, documenta con inediti la condotta della Massoneria italiana con speciale attenzione per la Gran Loggia d’Italia. Nell’insieme ne viene fuori un ritratto nuovo e importante, tanto più che il 98% delle opere uscite e in corso sulla Grande Guerra tacciono sul ruolo che vi ebbe la Massoneria: strabismo dell’Accademia ordinaria. \ Il volume viene inviato in omaggio ai primi cento lettori che ne facciano richiesta. Va chiesto al Centro studi Giovanni Giolitti per lo studio dello Stato o al suo direttore, Aldo A. Mola.


R.L. Metamorphosis Oriente di Udine

C

on tutti questi segni il Gioiello di Loggia non può che ra ppresentare l’iniziale, e quindi l’INIZIO, della Metamorphosis (M), e al contempo il suo FINE (Π). Come ogni medaglia, come l’uomo, il gioiello ha due facce, l’una BIANCA e l’altra NERA. La faccia NERA rappresenta il mondo esterno, visto dall’interno del Tempio, l’inizio del nostro cammino. Le due gambe (I) della M sono le colonne - diverse - posizionate come all’ingresso del Tempio guardando dall’interno all’esterno: a sinistra J quella dorica (la più “lavorata” e leggermente più sottile) che rappresenta la bellezza, a destra B la colonna ionica (quella più “semplice”) che rappresenta la forza. L’architrave, iniziale M, è appesantita dal mondo profano, piegata verso il basso dal nostro lato oscuro, gravata dagli inquinanti e dalle contaminazioni. Un cerchio completo simboleggia l’unione dei fratelli - chiusi all’interno del Tempio - in difesa dall’oscurità: il ventre della madre, il grembo. Spicca il Bianco su sfondo Nero. La faccia BIANCA, rappresenta il Tempio perfetto, visto dal mondo profano, il momento in cui si dispiegano le a li, il punto di decollo per il viaggio che porta alla Luce: la nostra meta. Qui le due colonne (I) sono posizionate come all’ingresso del Tempio guardando dall’esterno all’interno: a sinistra B la colonna ionica (quella più “semplice” e leggermente più spessa) che rappresenta la forza, a destra J quella dorica (la più “lavorata”) che rappresenta la bellezza. Un fine che si è liberato dal peso che per troppo tempo ha piegato l’architrave verso il basso (V) sul lato Nero, che ora, sul lato Bianco, si mantiene orizzontalmente equilibrata per unire le diverse colonne che costituiscono il Tempio, tutte diverse ma allo stesso tempo uguali, contrapponendo la tensione verso l’alto al peso verso il basso. Quindi partendo da M, attraverso la prima parte del nostro tragitto iniziatico acquisiremo gli strumenti (le ali), e arriveremo a una Π (un architrave che non teme più di cedere): consci che el camino es la meta ...

R.L. Corda Fratres Oriente di Padova

I

l gioiello di Loggia ritrae, sul “fronte” due mani tra loro agganciate a pugno, il cui profilo configura una doppia spirale, contornate da una fascia circolare con la scritta “R:.L:. CORDA FRATRES - OR:. di PADOVA”. Le mani agganciate rappresentano visivamente la stretta e fortissima relazione tra i Fratelli mentre la doppia spirale rappresenta il ciclo alterno del divenire, il solve et coagula, ed è soprattutto simbolo dell’equilibrio raggiunto dall’armonizzazione degli opposti (analogo al simbolo del Tao). Sul “retro” del gioiello è rappresentato un “nodo d’amore” circondato da una fascia circolare con la scritta “G\L\D\I\ - A\L\A\M\ Il “nodo d’amore” rappresenta ancora una volta il legame tra i Fratelli ed è analogo al simbolo dell’“infinito”. Tradizionalmente simboleggia il legame del creatore con il creato e taluni vi ravvisano la rappresentazione del ciclo di morte e rinascita, dell’eterno ritorno, che lo avvicina al simbolismo della doppia spirale.

R.L.L’AuroredeLombardie Oriente di Milano

I

l tema del simbolo è rappresentato dall’eterna contrapposizione tra luce e tenebre. La luce, bianca e pura ricca di speranza; le tenebre nere, la parte oscura e misteriosa.. Si incontrano, senza

mai unirsi. Convivono in una piramide, un triangolo tagliato ad un terzo della sua altezza, emblema dell’aria, ovvero del vento solare, dell’atmosfera in cui ha origine il fenomeno dell’aurora che albeggia. Il bianco e il nero, il bene e il male, ovvero l’oscurità necessaria per poter riconoscere la luce nel mondo e la speranza nell’uomo. Si giunge quindi alla completezza del simbolo: l’aurora. Scientifica perché generata dall’interazione di particelle cariche di origine solare che sembrerebbero non avere una logica ma che in realtà costituiscono un evento spettacolare ordinato. La geometria obbligata del Fregio rappresenta l’uomo, l’architetto , il regista che unisce e raccorda tutti questi archetipi essenziali in un’operazione ordinata ed equilibrata in grado di trasformare l’oscurità in un’esplosione di raggi luminosi, e dunque, in una nuova grande energia vitale: la Vera Luce A. G. D. G. A. D .U. Questa è “ L’Aurore de Lombardie”.

R.L. Fratelli Bandiera Oriente di Cosenza

I

l simbolo della R:.L:. Fratelli Bandiera ovviamente raffigura le effigi di Attilio ed Emilio. Le immagini derivano, probabilmente, da quelle raffigurazioni all’epoca del processo tenutosi nello storico Tribunale Borbonico di Cosenza, che fu operativo come Palazzo di Giustizia e contestuale Casa Circondariale fino al 1982, oggi sede della Galleria Nazionale. Dai tratti è facile notare la cura di barba e capelli, testimonianza delle origini nobiliari degli stessi (erano baroni veneti) e dalla vita borghese (Ufficiali della Marina da Guerra Austriaca e figli di un Ammiraglio). Nel centro, alla base dei loro volti, Squadra e Compasso, in Grado di Apprendista, completano l’immagine ad attestare l’identità massonica (pare che fossero stati iniziati a Corfù, nella Loggia FENICE). A completamento di tutto la cornice circolare, oltre alla Scritta dell’Obbedienza, presenta i rami di Acacia della Maestranza. Si tratta di due Personaggi ancora vivi nella memoria popolare calabrese e cosentina, tanto esoterica quanto profana, in termini di ricordo avventuroso, di ardimento e di martirio.

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I Fregi ad oggi pubblicati La sequenza dei Fregi è in ordine alfabetico per denominazione di Loggia e successivamente per Oriente.

R∴L∴ 14 Juillet Or∴di Savona R∴L∴ 4 Giugno 1270 R.G. Or∴di Viterbo R∴L∴ Ab Initio Or∴di Portoferraio R∴L∴ Ad Justitiam Or∴di Lucca R∴L∴ Aetruria Nova Or∴di Versilia R∴L∴ Alef Or∴di Viareggio R∴L∴ Aleph Or∴di Lecce R∴L∴ Aletheia Or∴di Roma R∴L∴ Alma Mater Or∴di Arezzo R∴L∴ Anita Garibaldi Or∴di Firenze R∴L∴ A.Garibaldi/A.Giulie Or∴di Livorno R∴L∴ Antares Or∴di Firenze R∴L∴ A.Toscano Or∴di Corigliano Calabro R∴L∴ Antropos Or∴di Forlì R∴L∴ Araba Fenice Or∴di Vibo Valentia R∴L∴ Archita Or∴di Taranto R∴L∴ Aristotele II Or∴di Bologna R∴L∴ Astrolabio Or∴di Grosseto R∴L∴ Athanor Or∴di Brescia R∴L∴ Athanor Or∴di Cosenza R∴L∴ Athanor Or∴di Pinerolo R∴L∴ Athanor Or∴di Rovigo R∴L∴ Athena Or∴di Pinerolo R∴L∴ Atlantide Or∴di Pinerolo R∴L∴ Audere Semper Or∴di Firenze R∴L∴ Augusta Or∴di Torino R∴L∴ Aurora Or∴di Genova R∴L∴ Ausonia Or∴di Siena R∴L∴ Ausonia Or∴di Torino R∴L∴ Bereshit Or∴di Sanremo R∴L∴ C. B.Conte di Cavour Or∴di Arezzo R∴L∴ C. Rosen Kreutz Or∴di Siena R∴L∴ Carlo Fajani Or∴di Ancona R∴L∴ Cartesio Or∴di Firenze R∴L∴ Cattaneo Or∴di Firenze R∴L∴ Cavalieri del Tempio Or∴di Roma R∴L∴ Cav.dell’Ord.S.Andrea Or∴di Roma R∴L∴ Cavour Or∴di Prato R∴L∴ Cavour Or∴di Vercelli R∴L∴ Chevaliers d’Orient Or∴di Beirut R∴L∴ Cidnea Or∴di Brescia R∴L∴ Clara Vallis Or∴di Como R∴L∴ Concordia Or∴di Asti R∴L∴ Corda Fratres Or∴di Padova R∴L∴ Corona Ferrea Or∴di Monza R∴L∴ Cosmo Or∴di Argentario Albinia R∴L∴ Costantino Nigra Or∴di Torino R∴L∴ Dalmatia Or∴di Spalato R∴L∴ D.Di Marco Or∴di Piedim.Matese R∴L∴ Dei Trecento Or∴di Treviso R∴L∴ Delta Or∴di Bologna R∴L∴ Eleuteria Or∴di Catania R∴L∴ Eleuteria Or∴di Pietra Ligure R∴L∴ Emanuele De Deo Or∴di Bari R∴L∴ Enrico Fermi Or∴di Milano R∴L∴ Eos Or∴di Bari

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R∴L∴ Epidamnus Or∴di Durazzo R∴L∴ Erasmo Or∴di Torino R∴L∴ Ermete Or∴di Bologna R∴L∴ Etruria Or∴di Siena R∴L∴ Excalibur Or∴di Trieste R∴L∴ Falesia Or∴di Piombino R∴L∴ Fargnoli Or∴di Viterbo R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Torino R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Vicenza R∴L∴ Federico II Or∴di Catania R∴L∴ Federico II Or∴di Firenze R∴L∴ Federico II Or∴di Jesi R∴L∴ Fenice Or∴di Massa Marittima R∴L∴ Fenice Or∴di Roma R∴L∴ Fenice Or∴di Spotorno R∴L∴ Ferdinando Palasciano Or∴di Roma R∴L∴ Francesco Nullo Or∴di Varsavia R∴L∴ F.Rodriguez y Baena Or∴di Milano R∴L∴ Fidelitas Or∴di Firenze R∴L∴ Filistor Or∴di San Severo R∴L∴ Fra Pantaleo Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Fratelli Bandiera Or∴di Cosenza R∴L∴ Fratelli Cairoli Or∴di Pavia R∴L∴ Fratelli d’Italia Or∴di Piombino R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Roma R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Vibo Valentia R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Livorno R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Parma R∴L∴ G.Biancheri Or∴di Ventimiglia R∴L∴ G.Bruno - S.La Torre Or∴di Roma R∴L∴ G.Papini Or∴di Roma R∴L∴ Galahad Or∴di Roma R∴L∴ Garibaldi Or∴di Castiglione R∴L∴ Garibaldi Or∴di Cosenza R∴L∴ Garibaldi Or∴di Mazara del Vallo R∴L∴ Garibaldi Or∴di Toronto R∴L∴ Gaspare Spontini Or∴di Jesi R∴L∴ Gianni Cazzani Or∴di Pavia R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Bari R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Catanzaro R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Firenze R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di R.Calabria R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Follonica R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Partanna R∴L∴ Giovanni Bovio Or∴di Bari R∴L∴ Giovanni Pascoli Or∴di Forlì R∴L∴ Giovanni Risi Or∴di Firenze R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Piombino R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Roma R∴L∴ Goldoni Or∴di Londra R∴L∴ Graal Or∴di Livorno R∴L∴ Hercules Or∴di Cagliari R∴L∴ Herdonea Or∴di Foggia R∴L∴ Heredom Or∴di Torino R∴L∴ Hiram Or∴di Bologna R∴L∴ Hiram Or∴di Sanremo

R∴L∴ Hispaniola Or∴di Santo Domingo R∴L∴ Horus Or∴di Padova R∴L∴ Horus Or∴di Pinerolo R∴L∴ Horus Or∴di R.Calabria R∴L∴ Humanitas Or∴di Pistoia R∴L∴ Humanitas Or∴di Treviso R∴L∴ Ibis Or∴di Torino R∴L∴ Il Cenacolo Or∴di Pescara R∴L∴ Il Nuovo Pensiero Or∴di Catanzaro R∴L∴ Iliria Or∴di Fiume R∴L∴ Internazionale Or∴di Sanremo R∴L∴ Ipazia Or∴di Genova R∴L∴ Iter Virtutis Or∴di Pisa R∴L∴ Jakin e Boaz Or∴di Milano R∴L∴ Janua Coeli Or∴di Napoli R∴L∴ Kipling Or∴di Firenze R∴L∴ L’Aurore de Lombardie Or∴di Milano R∴L∴ La Fenice Or∴di Bari R∴L∴ La Fenice Or∴di Chieti R∴L∴ La Fenice Or∴di Forlì R∴L∴ La Fenice Or∴di Livorno R∴L∴ La Fenice Or∴di Pieve a Nievole R∴L∴ La Fenice Or∴di Rovato R∴L∴ La Prealpina Or∴di Biella R∴L∴ La Silenceuse Or∴di Cuneo R∴L∴ Le Melagrane Or∴di Padova R∴L∴ Leonardo da Vinci Or∴di Taranto R∴L∴ Les 9 Soeurs Or∴di Pinerolo R∴L∴ Libertà e Progresso Or∴di Livorno R∴L∴ Liburnia Or∴di Fiume R∴L∴ Liguria Or∴di Orspedaletti R∴L∴ Logos Or∴di Milano R∴L∴ Luce e Libertà Or∴di Potenza R∴L∴ Luigi Alberotanza Or∴di Bari R∴L∴ Luigi Spadini Or∴di Macerata R∴L∴ Lux Or∴di Firenze R∴L∴ Lux Solis Or∴di Cosenza R∴L∴ M’’aat Or∴di Barletta R∴L∴ Magistri Comacini Or∴di Como R∴L∴ Manfredi Or∴di Taranto R∴L∴ Melagrana Or∴di Cosenza R∴L∴ Melagrana Or∴di Torino R∴L∴ Metamorphosis Or∴di Udine R∴L∴ Minerva Or∴di Cosenza R∴L∴ Minerva Or∴di Torino R∴L∴ Monviso Or∴di Torino R∴L∴ Mozart Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Mozart Or∴di Genova R∴L∴ Mozart Or∴di Roma R∴L∴ Mozart Or∴di Torino R∴L∴ Navenna Or∴di Ravenna R∴L∴ Nazario Sauro Or∴di Piombino R∴L∴ Nigredo Or∴di Torino R∴L∴ Nino Bixio Or∴di Trieste R∴L∴ Oltre il Cielo Or∴di Lecco R∴L∴ Omnium Matrix Or∴di Milano

R∴L∴ Orione Or∴di Torino R∴L∴ Palermo Or∴di Palermo R∴L∴ Paolo Ventura Or∴di Lamezia Terme R∴L∴ Parmenide Or∴di Salerno R∴L∴ Per Aspera ad Astra Or∴di Lucca R∴L∴ Petrarca Or∴di Abano Terme R∴L∴ Pietro Micca Or∴di Torino R∴L∴ Pisacane Or∴di Udine R∴L∴ Pitagora Or∴di Cosenza R∴L∴ Pitagora Or∴di Guidonia R∴L∴ Polaris Or∴di Livorno R∴L∴ Polaris Or∴di Reggio Calabria R∴L∴ Principe A.DeCurtis Or∴di Rovato R∴L∴ Principi RosaCroce Or∴di Milano R∴L∴ Prometeo Or∴di Lecce R∴L∴ Re Salomone /F.Nuove Or∴di Milano R∴L∴ Rinascita Or∴di Crotone R∴L∴ Risorgimento Or∴di Milano R∴L∴ Ros Tau Or∴di Verona R∴L∴ S.Giovanni Or∴di Bass.d.Grappa R∴L∴ Sagittario Or∴di Prato R∴L∴ Salomone Or∴di Catanzaro R∴L∴ Salomone III Or∴di Siena R∴L∴ San Giorgio Or∴di Genova R∴L∴ San Giorgio Or∴di Milano R∴L∴ Saverio Friscia Or∴di Sciacca R∴L∴ Scaligera Or∴di Verona R∴L∴ Sibelius Or∴di Vercelli R∴L∴ Sile Or∴di Treviso R∴L∴ Silentium et Opus Or∴di Val Bormida R∴L∴ SmiDe Or∴di Stra R∴L∴ Stupor Mundi Or∴di Taranto R∴L∴ Teodorico Or∴di Bologna R∴L∴ Themis Or∴di Verona R∴L∴ Trilussa Or∴di Bordighera R∴L∴ Triplice Alleanza Or∴di Roma R∴L∴ Ugo Bassi Or∴di Bologna R∴L∴ Ulisse Or∴di Bergamo R∴L∴ Ulisse Or∴di Forlì R∴L∴ Umanità e Progresso Or∴di Sanremo R∴L∴ Uroboros Or∴di Milano R∴L∴ Valli di Susa Or∴di Susa R∴L∴ Venetia Or∴di Venezia R∴L∴ Verum Quærere Or∴di Prato R∴L∴ Vincenzo Sessa Or∴di Lecce R∴L∴ Virgilio Or∴di Brescia R∴L∴ Virgo Or∴di Roma R∴L∴ Vittoria Or∴di Savona R∴L∴ Voltaire Or∴di Torino R∴L∴ XI Settembre Or∴di Pesaro R∴L∴ XX Settembre Or∴di Torino R∴L∴ Zenith Or∴di Cosenza R∴L∴ Zodiaco Or∴di Pinerolo



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