Officinae 2014 Dicembre

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Trimestrale internazionale di attualità , storia e cultura esoterica — Anno XXVI - Dicembre 2014 - n.4


Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXVI - numero 4 - Dicembre 2014 Direttore Editoriale

ANTONIO BINNI Direttore Responsabile LUIGI PRUNETI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Consulente Legale IVAN IURLO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI RENATO ARIANO

hanno collaborato a questo numero ADRIANA ALESSANDRINI GLAUCO BERRETTONI ANTONIO BINNI GHERARDO DEL LUNGO MARCO GHIONE ANNALIA INCORONATO IVAN LANTOS ALDO ALESSANDRO MOLA LUIGI PRUNETI ITO RUSCIGNI ANNALISA SANTINI JEAN MARC SCHIVO ANTONINO ZARCONE ISABELLA ZOLFINO progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO


A.Binni - Voti augurali... — 2

Sommario

L.Pruneti - Bianco Natale — 4

A.A.Mola - La riscossa dei Templari — 6

I.Zolfino - L’Elba francese di Pierre Joseph Briot — 18

A.Incoronato - Filadelfia — 24

I.Lantos - Bakunin, Massone e anarchico — 28

J.M.Schivo - Giardini massonici — 34

A.Santini - Incroci pericolosi — 38

G.Berrettoni - Il profeta Salomone nell’esoterismo islamico — 46

M.Ghione - La vita del cosmo — 54

A.Zarcone - Il Maresciallo d’Italia Giovanni Messe — 66

L.Pruneti - La Comunione di Piazza del Gesù di fronte al Primo Conflitto mondiale — 70

In Biblioteca — 74

Fregi di Loggia — 79


Gran Maestro

Voti augurali in occasione del Solstizio d’Inverno 2014 E\V\ Il S \ G\ C\ G\ M\ Antonio Binni

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arissimi, anche per ricordarci la caducità del vivere e la pochezza del mondo – come canta Virgilio (in Georgiche, Libro III, v. 284) – fugit irreparabile tempus, con la sua perenne circolarità, che non abolisce la libertà del viaggiatore in-

Gran Maestro quieto e mutevole nel suo evolversi. Il movimento in cerchio provoca un continuo “eterno” ritorno dell’identico. Per prima, incede, pertanto, leggiadra, primavera di fiori multicolori vestita, sospinta da Zefiro, danzando la musica universale della vita. Poi s’avanza estate, che rallegra il contadino col giallo del grano maturo adagiato sull’aia, che già profuma di pane. Ma ecco autunno con i suoi colori dell’oro e le sue piogge che irrorano i campi feriti dal vomero: un mare – a chi guarda da lontano – di onde nere. Poi si incammina inverno, con il suo gelo e le notti buie, screziate dai fuochi accesi dagli uomini – impauriti – per imprimere forza e sostegno al Sole esausto dalla sua lunga corsa. Un cammino sul quale noi tutti esempliamo la nostra vita: una ascesi spirituale che non può arrestarsi. Pena la catastrofe. Così come avverrebbe per il Sole, se mai cessasse il suo percorso. Una stella – solitaria – danza nel cielo per ricordarci la certezza che, alla morte del seme, seguirà la nascita della spiga, con un ulteriore prodigio, opulenta. Immancabile seguirà, dunque, la Luce e, nello splendore ritrovato, sarà ulteriormente rafforzata la Fratellanza, impegnati – tutti – a renderla sempre più intimamente avvertita e, soprattutto, profondamente vissuta come il valore più importante della Comunione. Nel segno di questo vincolo – dolce e forte – nato per elezione, prima ancora perché Figli dell’unico Cielo, porgo a ciascuno i miei voti augurali più affettuosi per un Solstizio speciale, prologo di un Anno Nuovo, pregno di ogni autentico Bene anche per Chi Vi è caro. P.2-3: I cacciatori nella neve, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio, 1565, Kunsthistorisches Museum, Vienna, Austria; p.3: Battente in ferro a forma di serpente (foto P.Del Freo).

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ra qualche giorno i bambini di tut- tatio benevolentiae dell’abbondanza e della forto il mondo canteranno White Chri- tuna, perseguita “con la magia imitativa insita stmas, lo faranno radunati attorno all’al- nei banchetti, nel divertimento, nello scambio di bero di Natale e poco importerà se auguri, nelle strenne”2. Durante lo strappo spaquell’abete sarà di plastica e la colonna del zio-temporale del dodekaemeron alla dimenmercurio segnerà i trentacinque gradi all’om- sione umana si sovrapponeva quella ultraterrebra: la magia di questo giorno, doverosamente na, per questo i morti tornavano, si mischiavano ai vivi, entravano nelle case, partecipavano bianco di neve, interesserà ogni latitudine. Nel nostro paese la crisi imperversa e da anni alla vita domestica. Erano presenze auspicate elargisce ansia e miseria, nega al giovane il la- “nell’ambito di un complesso culturale che attrivoro e all’anziano giorni sereni; per questo vi buiva loro il ruolo di numi tutelari e che risacralizzava un senso di ricomsaranno meno luminaposizione familiare”3. Il rie, tanta gente intaseclan si reintegrava, risaliva rà le strade e poca entrealle origini, attualizzanrà nei negozi. Per moldo e rinforzando il senti sarà un Natale povero, so di appartenenza, come solo un’ombra sbiadita di avviene nel Tempio con la come veniva vissuto alcuCatena di unione. La preni anni fa. senza dei defunti aveva, Questa festa, comunque, tuttavia, una valenza “di rimane una pietra miliare alterità, di ambiguità”, essi nel calendario, un giorno rappresentavano “il treatteso e da tutti, seppur inmendum, il malefico, il neconsciamente, laicamente, gativo”, proprio della loro profanamente, ritualizzacondizione di trapassato. Sono riti, infatti, l’invio ti. Da qui i riti di espulsiodi auguri, il ritrovarsi con ne, peculiari del 6 gennaamici e parenti, il pranzo io, quando la porta sull’al e la noia mortale dei podi là veniva chiusa. meriggi oziosi, ingannaVi è in tutto ciò la possibiti o con la tombola o con lità di una lettura simbouna scappata al cinema, lica che si attaglia alla noper vedere un film spazstra condizione di Liberi zatura, confezionato per la Muratori. ricorrenza. Echi di liturUmberto Saba Il Solstizio d’Inverno e i gie ancestrali, antecedenti giorni che lo accompagnala nascita di Cristo e di Mitra, di Shamach e di no indicano la necessità di ritornare alla TradiUto, di Tamuz e di Dioniso, di Bacab e di Wi- zione, di riconsiderare il nostro ruolo di iniziaracocha. La sacralità di questi giorni, che prima ti e di liberarci delle scorie del passato, di espeldella depressione erano orge di consumismo e lere i frammenti residuali di profanità, come il di spreco, sono un’eco del dodekaemeron, del seme, sotto la neve, riprogetta una pianta nuo“tempo fuori dal tempo”, di quando si percepiva va che non conosca le offese del gelo e la furia uno strappo nel continuum spazio-temporale e del vento. si avvertiva la necessità di una nuova creazione, “Se i giorni più brevi – narra il Guardiano dell’obbligo di sacrificare ritualmente il tempo af- la Soglia – saranno ben compresi, la primavera finché fosse rigenerato1. donerà profondità d’azzurro e abbondanza di Per far ciò erano necessari procedure apotro- verde che l’estate muterà in oro per ogni nato di paiche, processi di purificazione, culti di rin- donna, il cui cuore sia capace di amare”. novamento, da questo bisogno scaturiva la cap-

Come debole e dolce il suon dell’ore!/ Forse il bene invocato oggi m’aspetta./ Una serenità quasi perfetta/ calma i battiti ardenti del mio cuore./ Notte fredda e stellata di Natale,/ sai dirmi la fonte onde zampilla/ improvvisa la mia speranza buona?

1 F. Cardini, I giorni del sacro. Il libro delle feste, Milano 1983, p. 34.

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2 E. Baldini, G. Bellosi, Tenebroso Natale. Il lato oscuro della Grande Festa, Roma – Bari 2012, p. 41. 3 Ibidem, p. 93.


Bianco Natale Luigi Pruneti

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Dall’Illuminismo al Risorgimento: contorsionismi interpretativi, l’emblematico “caso Salvemini” Aldo A. Mola

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La riscossa dei Templari


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a civiltà è affidata alle élites; vi sono società umane di massa. Non c’è alcuna civiltà di massa’. Lo osservò il sociologo e storico belga Léo Moulin (Bruxelles, 1906-1996) nel saggio Vita e governo degli Ordini religiosi (Milano, 1965). Docente nella massonica Université Libre di Bruxelles e nella cattolica Università di Lovanio, Moulin apprezzava in pari grado regole e vita degli ordini ecclesiastici (in specie dei Benedettini) e di quelli Liberomuratori: convinzione che non era frutto di fascinazione ma di lunga osservazione storiografica. Le élites sono depositarie dei capisaldi delle civiltà e li trasmettono di generazione in generazione, da una all’altra età, anche per migrazione geografica. La loro vicenda fa tutt’uno con quella dei simboli. È il caso della famosa e discussa croce uncinata, lo (non la) svastica, perlustrata da Thomas Wilson in Svastica del 1973. In quell’ambito va inquadrata la vicenda dei Templari: complessa, perché unitaria e al tempo stesso diversificata secondo epoche e paesi, sovrani ed ecclesiastici, poteri civili e giurisdizioni religiose e, infine, atteggiamenti degli altri Ordini: alcuni pronti a profittare della loro sventura, altri preoccupati che la loro catastrofe potesse preludere a quella di tutti i monaci-cavalieri. Poiché di quando in quando vengono avanzati dubbi sui modi nei quali il loro Ordine venne costretto a capitolare, in via preliminare un punto va ribadito al di là di ogni possibile confutazione: se è vero che in molte terre i Templari non vennero perseguitati o quanto meno, se inquisiti e arrestati, non furono sottoposti a processo, in Francia (e non lì solo) essi subirono le torture efferate che erano un complemento ordinario degli interrogatori. “Moralmente – scrisse Gaetano Salvemini a conclusione del lungo studio sui Templari - l’abolizione dell’Ordine [dei Templari] fu un delitto e come tale la nostra coscienza deve notarlo di eterna infamia”. Del tutto refrattario al fascino della Tradizione, egli però aggiunse: “Minato da tutte le parti, costituito in forma di associazione internazionale indipendente dai singoli Stati, nei quali pur viveva, l’Ordine difficilmente avrebbe potuto sopravvivere alla rovina del

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Medioevo e salvarsi dall’assalto degli stati moderni. Filippo il Bello, seguendo l’impulso della sua cupidigia, e Clemente V secondando supinamente il re nella sua perfidia, furono gli inconsapevoli esecutori di una sentenza storica, alla quale prima o poi doveva soggiacere […] Storicamente parlando, possiamo affermare che l’Ordine era destinato, comunque fosse, a sparire, perché diventava ogni giorno più incompatibile con tutto l’ambiente religioso e politico che dal secolo dodicesimo in poi era venuto formandosi in Francia e in Europa”. Quando indagò sui Templari, Salvemini era ancora molto condizionato dal determinismo: la “storia” va come deve andare, ovvero se essa ha avuto corso

vuol dire che ve ne erano le condizioni ineluttabili. Impregnato di razionalismo o fatalismo (due forme di fideismo) lo storico accozza gli eventi sino a spiegare perché l’accaduto non poteva non accadere: una filosofia che concatena Hegel ai suoi discepoli (inclusa la sinistra, sino a Karl Marx) e a Benedetto Croce, secondo il quale la storia non è giustiziera, non dice ciò che è bene e ciò che è male perché quanto è avvenuto riposa nel passato, ma giustificatrice, “spiega” sommando cause e concause. Per quanto faccia, però, non arriverà mai a dire perché si sia verificato proprio quell’evento tra la miriade di quanti possibili. La filosofia doveva ancora a Eraclito più che al principio d’indeterminazione di Heisenberg. 7


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I Templari, quei Templari, vennero annientati. Ma il Templarismo sopravvisse, non solo per continuità tra i Cavalieri e gli Ordini nei quali quasi tutti confluirono, ma per la continuità della loro missio: i papi da Avignone tornarono più decisi di prima a svolgere il loro ruolo universale e la Francia tornò al rango di protagonista planetario quando alzò la bandiera dei diritti dell’uomo e del cittadino, l’opposto di quanto si prefisse Filippo il Bello. Ma non esiste alcun nesso logicocronologico tra i due “momenti”. Il cammino proseguì a zig-zag, per segmenti discontinui. Lì è il fascino suo, che infine si condensa in un unico supremo interrogativo: l’uomo. Nei riguardi dell’ancipite giudizio di Salvemini e di quanti rimangono convinti che la storia sia la civetta che si leva al tramonto, vale dunque il motto “Timeo Danaos et dona ferentes”. Se da un canto marchiò d’infamia la loro 8

distruzione, egli asserì infatti che i Templari erano comunque “condannati”, non tanto da Filippo IV (accreditato quale campione del mitico nascente Stato moderno) e dal papa ma dalla “storia”: una condanna, questa, ancora più severa, definitiva, rispetto a quelle pronunziate su istigazione del re, nell’inerzia colpevole di un pontefice ridotto a cappellano. Non per caso, sulla base degli identici argomenti metodologici, sia Salvemini sia Croce, condannarono i Massoni, ai loro occhi impasto di ideali (e/o oscure trame) sovrannazionali e di umanitarismo pacifistico. Con Eraclito ripetevano l’“essere è guerra”, senza immaginare che il Novecento lo sarebbe stato appieno. È con i loro giudizi che anche oggi bisogna fare i conti, molto più che con quelli dei templarofagi e dei massonofagi, facilmente identificabili e circoscritti nel tempo.

Grazie e disgrazie del Tempio: da cospiratori a custodi della Sacra Sindone Sino a pochi anni or sono i Templari erano un tema sconveniente per almeno due motivi. In primo luogo l’Ordine venne sciolto da un papa (il francese Clemente V) e fu condannato da un re (Filippo IV di Francia). Secondo l’opinione corrente, o erano davvero colpevoli o se l’erano cercata: troppo ricchi, superbi, esclusivi. Quando poi Giovanni Paolo II (1978-2003) chiese scusa per il sangue sparso dai crociati, i Templari, che erano stati la punta di diamante della sicurezza dei pellegrini e della resistenza cristiana alla riconquista islamica della Terra Santa, scivolarono ancora di più nel buio di un passato da dimenticare (o da condannare nuovamente). Inoltre, dagli Anni Ottanta del secolo scorso qui e là venivano rialzate insegne Templari, accolte con sospetto anziché con entusiasmo, anche perché poco ci voleva a constatare che erano fantasiose, abusive, persino truffaldine: pretesto per spaccio di manti e diplomi anziché insegna di virtù tradizionali. Tuttavia poco a poco la revisione del caso dei Templari guadagnò terreno, con le opere di Alain Demurger, Peter Partner e altri, sino alle opere rigorose di Helen Nicholson (medievalista inglese in Italia tuttora pressoché sconosciuta). In Italia le acque vennero smosse dalle generose ricerche orchestrate da Bianca Capone (Quando in Italia c’erano i Templari). Dal 1981 si registrò una recrudescenza contro il Templarismo. La confusione tra iniziatismo, esoterismo (spesso confusi uno con l’altro), società segrete (di varia denominazione e vocazione) e persino culti misterici o addirittura satanici prese a pretesto il falso “scandalo” sintetizzato con il nome distintivo della loggia Propaganda massonica n. 2 (o P2), regolarmente all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia. Il Templarismo tornò improvvisamente imbarazzante. In Italia non se ne poteva né scrivere né parlare per non finire bersaglio di irrisioni. Il Dossier Templari, 1118-1990 di Maria Lo Mastro (Roma, pp. 500) in un primo tempo fu accolto con freddezza. Ebbe una seconda edizione, presentata in coincidenza con un omaggio a chi si era speso per riscoprire il tema: Miche-


le Torre, già direttore della “Gazzetta del Popolo” poi di “Stampa Sera”, il giovane Antonio Padellaro, e una terza. I Templari poco a poco uscivano dalle tenebre? Renato Besana e Marcello Staglieno vi concorsero con un romanzo di successo, Il Crociato. Tra altri, all’inizio del Terzo Millennio Barbara Frale, “ufficiale dell’Archivio Segreto Vaticano”, pubblicò vari saggi per documentare sia la “innocenza” dei Cavalieri sia (molto discutibile) l’estraneità del papa alla loro condanna: L’ultima battaglia dei Templari (2001) e Il papato e il processo ai Templari (2003), editi da Viella; I Templari (2004) edito da il Mulino e subito tradotto in sei lingue (dunque una operazione preparata con cura). Non solo: in I Templari e la Sindone di Cristo, pubblicato nel 2009 dal Mulino a ridosso di un’importante ostensione del Sacro Lino, visitata da papa Bendetto XVI, Frale elevò i Cavalieri a custodi originari della Sindone. Ne nacquero dispute e polemiche che forse torneranno in coincidenza con quella in programma a Torino nella primavera 2015: una disputa che non contrappone i credenti agli increduli (del tutto indifferenti a qualsiasi culto di qualsivoglia reliquia e quindi alle superstizioni, se non fanno male) ma i cattolici stessi: gli uni corrivi a condividere qualunque atto e detto dei pontefici nel corso di duemila anni, gli altri consci che il passato va contestualizzato, senza indulgere né a “scandali” né a opportunismi. La storia è quella che è. Va studiata. Documentare non significa né assolvere né condannare, perché la storiografia si limita a conoscere, a com-prendere (cioè a contenere). È il caso, appunto, dei Templari. Pareva fosse tutto chiaro sin da quando Fulvio Bramato scrisse la Storia dell’Ordine Templare in Italia (Roma, 1990); e invece no. Come nel gioco dell’oca, la ricerca della verità torna spesso alla casella di partenza. I Templari: un paradigma. L’Italia è un immenso giacimento di reliquie templari. Perciò i Milites Christi meriterebbero una mappa aggiornata della loro diffusione nel Bel Paese. Sono un Mito al di sopra del tempo. Molti dicono che proprio oggi v’è bisogno di Cavalierimonaci, di un Ordine iniziatico militare, per superare le crisi più difficili. Ma secondo altri, i Templari sono più o meno

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stregoni collusi col Baphomet. Chi furono davvero? E ve ne sono ancora? Domande destinate a rimanere senza risposte precise, anche perché la forza della Tradizione sta nella sua vaghezza, che non è vacuità ma sconfina nel sogno. La cronaca sfuma in leggenda e il mito diviene Storia. Epoca dopo epoca anche la favola (rosea o nera che sia all’origine) può divenire buona novella. E’ il caso dei Cavalieri che – come Giovanna d’Arco, la Pulcella, e altri “soggetti pericolosi” o scabrosi – attraversano i secoli come un fiume carsico. Tornare anche in Italia al centro dell’attenzione, ma libero dalle demonizzazioni d’antan, con l’inizio del Terzo Millennio per il Tempio era solo questione di... tempo. Chi aveva titolo per giudicarlo in terra e in cielo? Papa Clemente V, succubo del re di Francia, il 3 aprile 1312 con la bolla Vox in excelso abolì l’Ordine dei Templari su pressione di Filippo IV il Bello, lo stesso che aveva mandato Guglielmo di Nogaret a incarcerare Bonifacio VIII. Secondo la tradizione, Nogaret alzò la mano sul Pontefice: una profanazione applaudita dagli anticlericali fatui, deprecata da chiunque abbia senso del Sacro e dell’Ordine e sa bene che chi semina vento raccoglie tempesta. Ieri, oggi. Sempre. Chi erano dunque i Templari? Perché la persecuzione? Perché la condanna? E quale fu la loro sorte dopo il rogo del Gran Maestro? Poveri Cavalieri del Tempio Avido dei loro beni, il 13 ottobre 1307 Filippo il Bello ne ordinò l’arresto con accuse infamanti. I Cavalieri si votavano alla morte in combattimento sul campo e sapevano che, alla peggio, sarebbero stati suppliziati dal nemico, impalati o scorticati vivi. Non immaginavano, invece, di finire torturati per mano dei cristiani stessi. Avevano creato la prima “banca euro-mediterranea”, familiarizzato l’uso della “cambiale” (già largamente praticata dalle comunità israelitiche e da mercanti e banchieri italiani, all’estero genericamente denominati “lombardi”). Erano la prima grande organizzazione transnazionale. Pensavano in europeo. Condividevano la “favola dei tre anelli”, secondo la quale ogni religione contiene verità e tutte possono coesistere, fatta propria da Boccaccio nel Decameron ma già largamente diffusa nel mondo


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islamico. Se alcuni suoi alti dignitari la condivisero, dai verbali degli interrogatori ai quali furono sottoposti emerge la certezza che la generalità dei Milites Templi aveva un’unica granitica fede: in Gesù Cristo, figlio di Dio. “Spesso gli uomini credono quello che vogliono”, scrisse Tacito: non la verità, ma il pregiudizio, le chiacchiere. Lo sanno bene i manipolatori dell’informazione: “al popolo, questo eterno fanciullone, bisogna proprio contarle grosse perché le beva più facilmente” osservò il già citato Gaetano Salvemini. Soprattutto bisogna contarle “all’ingrosso”. I molti tempi della rinascita dei Templari: ... Lumi e Massoneria ... Per secoli i Templari, annientati, uscirono dalla storia. Gli altri Ordini cavalleresco-religiosi tacquero, sia perché ne accolsero alcuni e, ciò che più conta, furono beneficiari dei loro immensi beni, sia perché, dopo quel rogo, l’Europa cattolica non ebbe più in programma il riscatto della Terra Santa. La Peste Nera, la guerra dei Cento Anni (che riportò quasi all’anno zero la Francia di Filippo IV),

l’eclissi del Sacro Romano Impero con la morte di Enrico (o Arrigo) VII, la lunga riconquista della Spagna dal dominio dei “Mori”, la polverizzazione dell’Italia, i quasi settant’anni di permanenza dei papi ad Avignone, succubi dei re di Francia, spesso di tragica pochezza, imposero altre priorità. A riproporne il mito fu la Massoneria franco-tedesca nella seconda metà del Settecento. Ma la loro riscoperta avvenne in un contesto spirituale e culturale largamente innovato e dissodato da profondi mutamenti. Nel 1628 P. Dessubré pubblicò la Bibliographie de l’Ordre des Templiers (Parigi), seguito nel 1655 dall’Historie du différend entre Boniface VIII et Philippe le Bel, roi de France di Pierre Dupuy. Erano gli anni di Port Royal, di una nuova lettura del sacrificio, dell’ “imitazione di Cristo”, di una spiritualità che conosceva le persecuzioni e sapeva cogliere nel passato i segni della radicale contrapposizione tra la fede e l’uso politico del potere ecclesiale. Un secolo dopo la feroce repressione degli Ugonotti il potere del sovrano cozzava contro la Fronda. I Tem-

plari non apparivano più come il Male Assoluto. Erano una pagina da riscoprire criticamente. La Gran Loggia di Londra, costituita il 24 giugno 1717, e le Costituzioni della Massoneria del 1723 ignorarono del tutto i Templari. Ma nel 1737, nel “discorso” mai pronunciato il sedicente cavaliere Michel (de) Ramsay asserì che gli antesignani dei Massoni erano stati i cavalieri crociati. La nuova Muratoria ne riprendeva la missione: la “liberazione”, non tanto della Terra Santa dal dominio islamico, come luogo materiale, ma della spiritualità dall’ignoranza e dal pregiudizio, attraverso una lingua universale e l’enciclopedia delle scienze. La via dei Lumi era spianata. Trent’anni dopo fu istituito il Rito massonico della Stretta Osservanza Templare (in Italia, ma non solo per il “caso italiano”, ne scrisse a lungo Pericle Maruzzi in opere tuttora valide). I suoi membri intendevano attuare l’unione dei cristiani, divisi tra cattolici, evangelici (valdesi, calvinisti, ecc.) e riformati (luterani di varia osservanza), a tacere di anglicani, purita11


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ni, metodisti e altre denominazioni. V’era poi il problema dei problemi, la ricomposizione dello scisma tra la Chiesa di Roma e quella d’Oriente, che nel frattempo aveva meglio definito la sua identità: la autocefalia dei Patriarcati, sommersi dall’islamizzazione. La Stretta Osservanza conquistò rapidamente terreno nell’alta cultura anche per il discredito nel quale affondava il papato, sempre più chiuso in una dimensione romana, curiale, alla retroguardia rispetto al movimento dei Lumi. I papi ebbero anche il torto di non difendere la Compagnia di Gesù, investita da polemiche in massima parte pretestuose e interessate (fu il caso delle “riduzioni” del Paraguay, ma anche del largo “possesso” di negri in schiavitù in diverse città dell’America meridionale, a cominciare da Buenos Ayres ove i Gesuiti avevano “a servizio” il 50% degli schiavi importativi). Pensare “in grande” risultò più facile nelle logge della Stretta Osservanza che nei presbitèri. Ma davvero i nuovi Equites avevano radici “diplomatiche” nei Templari? Era certifi12

cata la continuità storica tra gli uni e gli altri? Agitato per anni, in specie dall’inglese George Frederick Jhonson e dai tedeschi Karl Gotthelf von Hund e Samuel Rosa, il mito dilagò. Per scioglierlo venne indetto il Convento (cioè “adunata” o “accampamento”) di Wilhelmsbad. I migliori talenti si misero all’opera ed elaborarono “tesi” su origine e natura della Massoneria. Tra questi vi fu Joseph de Maistre, che caracollava nella Stretta Osservanza col nome di Eques a Floribus. Scrisse il trattatello sulla Massoneria che ancora si legge con profitto, sia per capire la sua personalità, sia per cogliere quali convinzioni ne avessero molti tra i suoi adepti più fervidi. La ricerca delle radici templari della Massoneria ebbe esito catastrofico. Non se ne cavò alcuna prova. Il neo-templarismo cadde nella polvere. Forse era solo parto di fantasia e anche di scrocconi che vendevano titoli a chi amava collezionarne: erano i tempi di Giacomo Casanova, di Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro e di altri venturieri, intelligenti e spregiudi-

cati, come Johann August Starck (inventore di un rito templare che mescolava frammenti di sapienza persiana, mesopotamica, egizia) e Friedrich Nicolai che rivendicò il Baphomet quale simbolo cristiano e asserì la continuità fra templarismo e gnosticismo. Negli stessi anni iniziò lo straordinario tiro alla fune tra chi accusava l’Ordine e chi lo esaltava: per motivi solo apparentemente contrapposti, in realtà convergenti sino a risultare identici. I papi ebbero altre priorità: lo scioglimento della Compagnia di Gesù (Militia Christi anch’essa, organizzata come internazionale dall’assetto militare, con alta vocazione al martirio per la fede e capacità di presidiare i territori evangelizzati anche attraverso la mimetica della simbologia: fu il caso delle presenze in Giappone e in Cina, prima della loro capitolazione: una vicenda dalle forti analogie con quella templare); il contrasto con Giuseppe II d’Asburgo, il conflitto con i giansenisti, la strenua difesa dell’Inquisizione, travolta dal successo di opere storiografiche come quella, subi-


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to celebre, del giansenista Pietro Tamburini, che narrò come venissero estorte le confessioni nelle camere di tortura. Nell’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (1756) a sostegno della memoria dei Templari scese in campo Voltaire, che della persecuzione e condanne loro inflitte fece un capitolo dell’oscurantismo. Jean-Marie Arouet non fu mai nemico del potere in quanto tale. Aveva da poco scritto Il secolo di Luigi XIV, che costituisce un implicito elogio del potere quale volano del progresso civile. Deprecava però - e lo fece sempre – quello volto a reprimere anziché a liberare. Perciò anche per lui la somma di papa e re nel complotto contro i Templari (accusati non per caso di congiura e di eresia) risultò paradigmatico. Agostino Barruel: Templari e logge nascoste ... Appena sconfessato proprio dai Massoni che l’avevano riesumato, il Templarismo conobbe una seconda stagione di straordinaria fortuna, non per forza propria ma per la leggenda che nuovamente lo investì. Nel 1797 Agostino Barruel, già novizio nella Compagnia di Gesù, testimone degli orrori dell’anticlericalismo ai tempi del Terrore e rifugiato in Gran

Bretagna (terra madre della Massoneria), pubblicò i Mémoires pour servir à l’historie du Jacobinisme. Vi spiegò che i Massoni non erano affatto i crociati bensì l’anello di una lugubre catena: gli illuministi ateisti, i cromwelliani, i luterani, i catari, i bogomili e via risalendo sarebbero all’origine del dualismo. Erano manichei. Sacerdoti delle Tenebre contro la Luce, della Morte contro la vita. Avevano l’obiettivo di consumare la vendetta dei Templari contro la regalità e contro il papato. La loro prima vittoria era sotto gli occhi di tutti: le teste ghigliottinate di Luigi XVI e di Maria Antonietta, la triste fine di Luigi XVII. Nel 1798 l’estromissione di papa Pio VI da Roma, ove venne proclamata la Repubblica, dette ragione a Barruel, secondo il quale la Massoneria era dominata dalle “arrières loges”, le logge segrete che preparavano eresie e rivoluzioni: 1517 Lutero, 1618 Guerra dei Trent’anni, 1717 nascita della Massone-

ria ... Come noto, il colpo di stato del 18 brumaio chiuse dieci anni di rivoluzioni convulse e, con l’avvento del Consolato e a seguire dell’Impero di Napoleone I, volse in nuovo ordine la forza propulsiva scatenata dall’Ottantanove, dalla Convenzione repubblicana, dal Termidoro, dal Direttorio e persino dalla Congiura degli Uguali di Caio Gracco Babeuf: a sua volta società segreta destinata ad alimentare un secolo di altre cospirazioni rivoluzionarie, fondate su iniziazioni e rituali, catechismi e settarismi. A fine Settecento, però, non fu solo Barruel ad arzigogolare sui misteri templari. Lo fece anche Gassicourt, convinto che i Milites erano una metastasi della rivoluzione permanente e che di sicuro avevano stretto intese con gli Assassini, seguaci del Vecchio della Montagna. Napoleone neotemplare? Nel 1799 Napoleone Bonaparte, reduce dalla culturalmente seducente e militar13


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mente catastrofica spedizione in Egitto, grazie al sangue freddo di suo fratello Luciano conquistò il potere con il colpo di Stato del 18 brumaio, primo passo verso l’edificazione dell’Impero piramidale: non un capriccio personale, ma una costruzione filosofica, maturata nel tempo, come attestano varie testimonianze (come ha documentato François Collaveri in Napoleone imperatore e massone, ed. Nardini, 1989), inclusa la Piramide da lui fatta erigere a Marengo per ricordare la vittoria del giugno 1800, ora ripristinata dal Centro Studi Urbano Rattazzi di Alessandria. Neoclassico e neoegizio divennero i pilastri portanti non solo della cultura accademica ma anche del costume. Passaggio obbligato fu la rivalutazione dei Templari. Per affermare l’Ordine Nuovo Napoleone dovette abbattere il precedente sin dalle fondamenta. Il suo impero venne fondato sulla doppia consacrazione: a Notre-Dame in Parigi e nel Duomo di Milano. Imperatore e Re d’Italia, Bonaparte segnò il solco netto e definitivo tra la sua e le età precedenti con un crimine spettacolare: la cattura, del tutto illegale, del Duca d’Enghien, processato, condannato a morte e fucilato sulla base di accuse false o comunque non dimostrate. Da 14

giovane generale aveva sparato ad alzo zero sui monarchici. Ora doveva completare l’Opera uccidendo un Borbone. Il secondo tempo della sconsacrazione/ risacralizzazione fu la debellatio dello Stato pontificio e la deportazione di Pio VII nei confini dell’Impero, da Nizza a Savona, a evidenziare che Liguria e Piemonte ne erano parte integrante e perpetua. A chi gli rinfacciò quei crimini l’Imperatore rispose con la riesumazione dei Templari, un capo d’accusa permanente contro i predecessori di Ugo Capeto e di Pio VII. La forma più adatta fu la drammatizzazione: romanzi, novelle, cerimonie religiose e storiografia. A questa provvide Raynourd con i Monuments historiques relatifs à la comdamnation des Chevaliers du Temple (Parigi, 1813): il “brodo di cultura” di una seconda rinascita del Tempio destinata a durare due secoli. Il 28 marzo 1808 nella chiesa di San Paolo e San Luigi, a Parigi, Pietro Romano e il canonico di Notre-Dame di Coutances in Normandia, abate Clouet, officiarono una messa in memoria di Jacques de Molay. Il Gran Maestro fu “assolto” dalle imputazioni e l’Ordine venne solennemente riscattato dalle indebite accuse, presente uno schieramento di alti dignitari dell’Impero, vestiti con i paramenti

dei Cavalieri. Il 10 giugno dell’anno seguente la bandiera del papa fu ammainata da Castel Sant’Angelo. Pio VII venne prelevato dal generale napoleonico Radet e tradotto nei confini dell’Impero. Due anni dopo Napoleone conferì al figlio, Francesco Carlo Napoleone, il titolo di Re di Roma. Agostino Barruel, rientrato in Francia dall’esilio, viveva nell’ombra, beneficato con una pensione dall’Imperatore. Dopotutto aveva concorso a ingigantire il mito del Templarismo. Cavalieri Kadosh? Nel 1801 a Charleston (Louisiana, all’epoca ancora francese: nel suo miope eurocentrismo Napoleone ebbe poi la pessima idea di venderla agli Stati Uniti d’America per far dispetto alla Gran Bretagna) il “conte” Augusto de Grasse-Tilly istituì il Rito scozzese antico e accettato in 33 gradi. Il 30° è il Cavaliere Kadosh, che pronuncia il giuramento “templare”: vendicare il Tempio abbattendo troni e altari. Da rigagnolo carsico il neotemplarismo divenne un fiume in piena. Come poi scrisse Henri Corbin, “la tragedia dell’Ordine storico del Tempio viene elevata al rango di parabola … tipizza l’intero dramma dell’uomo” e la continuità tra i Cavalieri dell’età di de Molay e quelli di nuova


Storia invenzione non richiede basi documentarie, “diplomatiche”: “queste tradizioni ci istruiscono su ciò che accade alla confluenza tra i due mari, là dove si compie realmente ogni trasmissione spirituale...” come insegnano anche Henri Guénon, Julius Evola, Mircea Eliade ... Iniziato o no, Dante Alighieri vendica il Tempio Qual era dunque la verità sul complotto contro i Templari? Ne scrissero romanzieri come Walter Scott, inventori di riti neotemplari come Raymond-Fabré-Palaprat, Ledru (artefice di documenti apocrifi sulla trasmissione dei poteri della Gran Maestranza a John Mark Larmenius...), Ferdinand Chatel. Del resto l’Europa aveva sete di Templarismo. Ne fu interprete anche Gabriele Rossetti, al quale tanto dovette Giovanni Pascoli. Il Divino poeta già aveva detto tutto. A ferro caldo Dante Alighieri nella Divina Commedia chiamò a giudizio e condannò i persecutori del Tempio: il papa e il re. Nel canto XIX dell’Inferno bollò Filippo IV con endecasillabi memorabili. Vi marchiò a fuoco “Simon Mago” e i simoniaci, papa Niccolo III e tutti i pontefici corrotti, meritevoli delle peggiori pene eterne, compreso il “pastor sanza legge”, Clemente V, “uomo cupido di moneta e simoniaco, che ogni beneficio di denari s’avea in sua corte”, come scrisse il cronista Villani. E sferzò il suo complice, che “Francia regge”. Nel Purgatorio rincarò la dose. Nel VII canto liquidò Filippo il Bello e tutta la sua famiglia: “Padre e suocero son del mal di Francia (cioè Filippo IV):/ sanno la vita sua viziata e lorda,/ e quindi viene il duol che lì si lancia...”. Nel XX tornò all’assalto: “Veggio il novo Pilato sì crudele,/ che ciò nol sazia, ma sanza decreto/portar nel Tempio le cupide vele./ O segnor mio, quando sarò io lieto/ a veder la vendetta che, nascosa,/fa

dolce l’ira tua nel tuo secreto?” Nel canto XXXII del Purgatorio Dante denunciò l’incesto tra il re e il papa, tra “la meretrice” (la Santa Sede) e il gigante (Filippo il Bello): “vidi di costa a lei dritto un gigante;/ e baciavansi insieme alcuna volta”. Sferzò “la puttana” (la Chiesa) e “la nova belva” (il re di Francia). Lo ripeté nel XXXIII e ultimo canto, ove auspicò che finisse la tresca tra la “fuia” (o foia) del pontefice e “quel gigante che con lei delinque”. Tutto fa ritenere che Dante abbia scritto quando ormai sia Clemente V sia Filippo IV erano morti. La sua era una profezia del passato. Però non si placava la sua ira nei confronti dello scempio ordito da chi aveva inscenato il processo per appropriarsi dei beni dei Templari.

Asceso in Paradiso Dante non scordò affatto il “mal di Francia”. Quasi se lo fosse segnato in un calepino, tornò a martellarlo nel XIX canto, controcanto a quello dell’Inferno. Lo collocò nella lordura dei sovrani dell’epoca, uno più inetto dell’altro, una visione della pochezza dell’ “Europa”: Alberto d’Asburgo, Edoardo II di Inghilterra, Robert Bruce di Scozia, Ferdinando IV di Castiglia, Carlo II d’Angiò (“ciotto”, cioè zoppo), re di Napoli, Federico II di Aragona re di Sicilia, Giacomo di Maiorca ..., una sequela di nullità. Ma peggiore di tutti, come sempre, fu “il duol che sovra Senna/induce, falseggiando la moneta,/ quel che morrà di colpo di cotenna”: Filippo il Bello ucciso da un cinghiale (“colpo di cotenna”) mentre era 15


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a caccia. Per lui non v’era Paradiso. Era all’inferno con i papi suoi complici: Bonifacio VIII, Niccolò III ... Le invettive contro i distruttori del Tempio furono tra le ragioni principali del silenzio che per secoli circondò la Comedia. Anche “padre Dante” era scomodo. Nel 1846 Luigi Cibrario pubblicò la Descrizione storica degli Ordini cavallereschi, che precorse le regie patenti sulla libertà di stampa e l’elezione degli amministratori pubblici e la promulgazione dello Statuto albertino. Nel 1868 lo stesso Cibrario, massone, ne estrasse il grandioso volume Dei Tempieri, che precorse il conferimento dell’Ordine della Santissima Annunziata anche a chi non era né cattolico né nobile: una visione universale dell’Iniziazione. Come Giosue Carducci 33\ Leggenda vuole che tra le fiamme Jacques 16

de Molay abbia chiamato a sé il papa e il re, subito dopo morti tragicamente. Comunque sia, il suo rogo invita a riflettere sull’amministrazione della giustizia nei tempi moderni. Come insegnò Giosue Carducci, “Quando porge la man Cesare a Piero,/ da quella stretta sangue umano stilla:/ quando il bacio si dan Chiesa ed Impero/ un astro di martirio in ciel sfavilla”. Templarismo oggi V’è bisogno di Templari? Anzitutto v’è bisogno di conoscenza del passato, di cognizione del mondo d’oggi. Rasate o capellute, occorrono teste di uomini liberi, senza retorica, capaci di ideali, com’erano i Milites Christi: stole disadorne, calzari semplici, un cavallo per due, il Beaussant in una mano, la spada nell’altra e la divisa: “Non a me, Signore, ma a Te dài

gloria”, anticipatrice di quella dei Gesuiti, “Ad maiorem Dei gloriam”. Animati dal sogno sintetizzato nel motto “Ut unum sint”, che fu dei Templari prima che dei Gesuiti: pacificazione dei conflitti nella fratellanza universale. Di certo i Templari hanno lasciato in eredità tre lezioni fondamentali: il “lavoro” è collegiale; si fonda sulla fratellanza e reciproca fiducia (due guerrieri montano un solo cavallo solo se si fidano pienamente uno dell’altro); ogni Grande Opera ha una facciata verso l’esterno (essoterica), una all’interno (esoterica) e la struttura portante. Le facciate nel tempo si scrostano. Se ben costrutto il muro dura. Come fu del Tempio. Non solo pietra, ma Idea. \ Aldo Alessandro Mola è autore di Alla ricerca del Tempio perduto, in I personaggi della storia medievale, Milano, Marzorati, 1986, poi Templari e Templarismo. Nello spazio di un articolo è qui sintetizzata la ricerca in parte presentata al Convegno “La Spada e la Croce” organizzato dalla Gran Loggia d’Italia (Roma, 24 maggio 2014).

P.6: Monumento equestre templare, Portogallo (foto P.Del Freo); p.7: Ricostruzione artistica in 3D di Jacques de Molay; p.8/9: Clemente V, Filippo il Bello e Jacques de Molay; p.10: Roghi templari in due miniature, sec. XV; p.11: Graffiti di prigionieri templari in una prigione; p.12/13: Affreschi raffiguranti cavalieri templari; p.13: Croce patente Templare e, in basso, sigillo dell’Ordine; p.14/17: Miniature templari; p.16: Chiave di volta templare e a destra una spada templare.


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parte II

L’Elba francese di Pierre Joseph Briot Isabella Zolfino

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I

l progetto di Briot per l’Elba prevedeva l’organizzazione e la regolamentazione di tutti gli aspetti sociali dell’Isola1: l’istituzione di un vero Tribunale, di una Corte Criminale e la nomina di quattro Giudici di pace. Non sarebbero mancate Scuole pubbliche primarie gratuite per porre un freno al pauroso analfabetismo e, essendo l’Elba direttamente agli ordini di Parigi, l’istruzione sarebbe stata impartita rigorosamente in lingua francese. Nel progetto era incluso la costruzione di un nuovo e più moderno ospedale a Portoferraio, il potenziamento degli scali marittimi e la razionalizzazione di un sistema postale centralizzato i cui ritardi gli erano costati il primo mandato. Un grande impulso sarebbe stato dato alle opere pubbliche di cui l’Elba era in pesantissimo ritardo; strade e collegamenti interni avrebbero unito i paesi sostituendo le vecchie e scomode mulattiere. L’Arreté del 22 nivose anno XI prevedeva che all’Elba ci fosse un Consiglio d’Amministrazione2 composto da cinque membri scelti dal Primo Console da una lista di dieci candidati presentati da un collegio elettorale presieduto dal Commissario Generale. L’Elba sarebbe stata divisa in sette municipalità, ciascuna dotata di un Consiglio Municipale: Portoferraio, Portolongone, Capraia, Marciana, Campo, Rio e Capoliveri e solo il Maire di Portoferraio e i suoi due Aggiunti sarebbero stati nominati direttamente dal Primo Console. Portoferraio e Longone avrebbero avuto un vero Tribunale con competenza in materia criminale, civile e di commercio per i casi che esulavano la autorità dei Giudici di pace. Il Tribunale sarebbe stato composto da un Presidente, sei Giudici, quattro supplenti, un Commissario del Governo, un Cancelliere nominati dal Primo Console. Dal punto di vista finanziario l’Elba sarebbe stata sottoposta alle imposte Indirette come Registro, Timbro e Ipoteche, e a quelle Dirette della sola Contribuzione Fondiaria. Gli incassi e le spese sarebbero stati iscritti al Bilancio Generale dello Stato, i porti sarebbero stati franchi da diritti di dogana e, su proposta del Commissario Generale, le città avrebbero potuto autorizzare delle concessioni.

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Per quanto riguardava l’istruzione, ogni municipalità avrebbe avuto una scuola primaria, mentre una scuola secondaria sarebbe stata costituita in una località che avrebbe scelto il Commissario. Inoltre, secondo l’arreté del Primo Console, nel corso dell’anno XI dieci giovani elbani di età inferiore a dodici anni sarebbero stati accolti nei licei o prytanées della Repubblica. Anche le questioni inerenti la gestione del culto religioso erano state contemplate e l’Elba, così come le Dipendenze, sarebbe stata parte della Diocesi di Ajaccio con un Vicario generale nominato

dal Vescovo presente sul territorio. Ogni municipalità avrebbe comunque avuto una parrocchia con un curato. Ci sarebbe stata la coscrizione militare e marittima conformemente alle leggi della Repubblica di cui l’Elba faceva parte e l’istituzione di un lazzaretto a Portoferraio. Insomma, questo era il progetto organizzativo di Briot e questo fu quello che Napoleone controfirmò incondizionatamente senza introdurre alcuna modifica. E così il giorno 23 Germinal dell’anno XI della Repubblica, Pierre Joseph Briot fa ritorno a Portoferraio e si mette subi19


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to a lavoro: informa immediatamente i vari maires dell’Elba e Dipendenze delle nuove disposizioni a seguito dell’arretè del Primo Console del 22 Nivose e convoca tutti i notabili dell’Elba e Capraia a Portoferraio per la domenica successiva, giorno 27 alle 10 precise del mattino, dove, durante una la solenne cerimonia, sarebbero state comunicate le intenzioni e i piani del Governo per assicurare prosperità e buona amministrazione a tutto il paese. Briot rivolse personalmente l’invito anche il cittadino Lelievre non solo per il suo ruolo di ex Commissario del Governo e Membro dell’Istituto Nazionale del Consiglio delle Miniere, ma perché nutriva nei confronti di un uomo così pregevole sentimenti di stima e rispetto. Il 26 Germinal dell’anno XI della Repubblica (16 aprile 1803)3 Scrive infatti così: Una importante Cerimonia riunirà, domani mattina i funzionari e i notabili di questo paese; le funzioni che voi avete ricoperto nella la vostra qualità di membro dell’Istituto Nazionale e di una Amministrazione così importante fanno desiderare a tutti noi di avervi presente in questa circostanza; se voi mancaste ci sarebbe un vuoto e i funzionari e gli abitanti non vedrebbero quello che essi hanno tanto amato e rispettato e al quale desiderano 20

esternare la loro riconoscenza e il loro dispiacere. Vogliate perciò unirvi a noi non soltanto come cittadino ma come illustre studioso e agente del Governo. Permettetemi quindi che io vi passi a prendere quando mi recherò alla cerimonia affinché possiate occupare, al mio fianco, una piazza tanto affezionata non solo al vostro carattere, ma a tutta la vostra persona e possiate riconoscere i sentimenti di stima e di affetto che abbiamo nei vostri riguardi. Il 18 Messidor dell’Anno XI viene nominato il Consiglio Municipale della città di Portoferraio e il sindaco Vantini ne è presidente di diritto; i membri sono uomini come Pellegro Senno, Cristino Lapi, Candido Bigeschi, Frediano Coppi, Joseph Traditi, Joseph Squarci e altri i cui nomi avranno un peso notevole nel futuro dell’Isola. L’istallazione è fissata solennemente per il giorno della festa del 14 luglio e il nuovo Consiglio Municipale terrà la sua prima riunione il giorno 1er Termifero Anno XI. Il Commissario Briot introduce la seduta con queste parole4: La Legge vi ha confidato delle funzioni importanti, cittadini membri del Consiglio Municipale, essa vi chiama ad esercitare una fatica per gli interessi e l’amministrazione della vostra città e a dirigere e secondare gli sforzi e i travagli del Maire,

ad istruire il Commissario Generale sopra ciò che l’Autorità o il Governo propone di fare d’utile ai vostri concittadini. Voi potete sopra tutto fare molto bene nelle circostanze attuali, assicurare e consolidare col vostro esempio e le vostre osservazioni l’unione pubblica ed il successo di una buona organizzazione. Io posso presagire che voi corrisponderete in tutto all’incarico che vi è stata affidato. Prosegue dispensando consigli e suggerimenti su come condurre una buona amministrazione, invitando ad esaminare tutto e con attenzione, a distinguere le spese ordinarie da quelle straordinarie ed a vedere se si potesse d’aver luogo a delle riduzioni e ad organizzare gli impieghi con un modo meno dispendioso, ad organizzarsi su come ridurre le spese di bilancio badando a non far mancare nulla ai bisogni dei cittadini e ripetendo più volte che potevano rivolgersi a lui in qualunque momento e per qualunque dubbio, sempre disposto ad accogliere le loro osservazioni. Il tono è quello di un buon padre di famiglia, paziente e fiducioso, ma è anche quello di un convinto democratico: voi sarete giudici migliori di me dei bisogni dei cittadini. Da tutte le sue parole si percepisce, senza ombra di dubbio, che quest’uomo ama profondamente questa terra e i suoi abitanti.


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Ma i problemi sono sempre in agguato: Rusca è ancora il Governatore militare dell’Isola e fra i due non c’è proprio un gran feeling. Questi due uomini, pur grandi nei loro rispettivi campi, avevano entrambi un brutto carattere: i loro scontri erano continui. Briot era continuamente preso da problemi che andavano dal porre un freno alle mille speculazioni che scopriva ad esempio sul prezzo del grano e, di conseguenza, del pane5, alle forniture per il Bagno Penale e per i detenuti6, alle pretese degli impiegati pubblici di riscuotere denaro straordinario per la presenza, in quell’anno, del sesto giorno complementaire7 o alla ricerca disperata di posti-letto8 per gli ufficiali e i soldati che continuavano ad arrivare vista la situazione di continuo preallarme con gli Inglesi. Secondo il Commissario, il generale Rusca dava un’importanza esagerata ai rapporti di polizia, continuava a cambiare le sue decisioni e, per le sue continue minacce, si attirava l’animosità della municipalità e della popolazione9, d’altro canto Briot, nonostante Rusca avesse più volte cercato di scavalcarlo richiedendo gli edifici direttamente al maire10 si sforzava di essere disponibile verso le esigenze del Generale mettendogli a disposizione tutti gli edifici pubblici che gli aveva richiesto,

arrivando persino ad allontanare i padri Zecolets dal loro convento di Portoferraio per dare alloggio alle truppe11 e, cosa non da poco, anticipando con la Cassa civile il pagamento delle fortificazioni spettanti al Genio12. Proprio a causa di questa loro continua insofferenza e preveggendo che questo non avrebbe portato a niente di buono, Bonaparte si raccomanda che abbiano buon senso e trovino un accordo reciproco e così gli scrive il 19 prairial an XI (8 giugno 1803) tramite il citoyen Chaptal, Ministro degli Interni13: Le Premier Consul me charge, Citoyen Ministre, de vous inviter à écrire au citoyen Briot, commissaire du Gouvernement, de ne contrarier en aucune manière les opérations du général Rusca, et, au contraire, de le seconder de tous vos moyens dans les mesures qu’il prendra pour la défense de l’Ile d’Elbe. D’altra parte, attraverso il Generale Berthier, il 6 Thermidor (25 luglio 1803) Napoleone si era lamentato anche di Rusca14 Sono sorpreso che non sia stato ancora stabilito un consiglio militare per l’Elba ma non sono meno sorpreso di apprendere che le truppe dormono sul pavimento delle caserme e che non dispongono né di paglia né di rifornimenti.

Non capisco come il generale Rusca abbia incorporato polacchi e disertori stranieri nei battaglioni francesi. Mi sembrava che fosse stato dato l’ordine di completare i battaglioni polacchi che incorporavano gli stranieri e di incorporare nelle semi-brigate di linea quelli che sarebbero venuti dai depositi coloniali Ma poiché questo è successo, non si può più a tornare indietro. Raccomandategli di non incorporare più disertori nelle nostre truppe ma di formare, invece, due piccoli corpi, uno a Portoferraio, uno a Porto Longone. Dategli l’ordine di disarmare e di formare in compagnie di pionieri, che adopererà per i lavori del posto, tutte le compagnie di disertori stranieri che arriveranno all’isola di Elba e di cui non è sicuro. Per quanto riguarda le sue difficoltà con il Commissario del Governo, deve dimenticarle e consultarsi con lui per la difesa dell’isola. Questo era il quadro. Questi due uomini, con il loro carattere così difficile, erano arrivati, anche per futili pretesti, ad una lotta aperta e senza tanti preamboli. La querelle si infiammò quando Briot emanò un arreté con il quale si proponeva di aprire una sottoscrizione per costruire una nave tutta elbana da offrire al Governo per la lotta contro gli Inglesi15 e diventò molto più acuta quando Rusca avvertì 21


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Briot che, per ordine del Ministro della Guerra, tutto ciò che riguardava la polizia doveva essere sottoposto all’autorità militare16. Briot, secondo quanto afferma Maurice Dayet, dichiara senza mezzi termini che il Generale Rusca ha oltrepassato i suoi poteri visto che lui, dal Governo, non aveva ricevuto alcun ordine in proposito. Si rifiuta pertanto di sottomettersi a quello che ritiene una imposizione aggiungendo che se avesse perseverato con la sua prepotenza avrebbe preferito abbandonare il suo incarico di Amministratore. A niente valsero gli interventi dei Mini22

stri Chaptal e Berthier per calmare gli animi dei due contendenti, sempre secondo Dayet la rottura fra loro fu pubblica e ufficiale. Bonaparte si rese conto che non ci poteva essere rimedio alla situazione e che per loro non era più possibile continuare su quella linea. L’8 Fructidor anno XI, cioè il 26 agosto 1803, Napoleone emanò un arreté con il quale Briot veniva destituito e rimpiazzato con il corso Galeazzini, sindaco di Bastia e vecchio prefetto di Liamone: magari due corsi sarebbero stati in grado di andare d’accordo e avere un po’ di reciproco rispetto! Benché le comunicazioni fra Francia e Elba fossero interrotte dal 23 Thermidor e Briot non avesse ricevuto alcun avviso di una possibile azione nei suoi confronti, Rusca annunciò pubblicamente di aver ottenuto la destituzione di Briot17 e ordinò a tutte le autorità locali che quest’ultimo non aveva più alcun potere e quindi non doveva più essere riconosciuto come Commissario Generale. Briot, comunque, ricevette ufficialmente l’annuncio della sua destituzione solo a metà del mese di brumaire dell’anno XII della repubblica, cioè dopo circa due mesi e non gli restò altro che ritornare

definitivamente in Francia. E il generale Rusca? Sicuramente nessuno può negare che gli Elbani avessero apprezzato Briot e non Rusca tanto è vero che, al momento della sua partenza, decisero di consegnare all’ex Commissario, esprimendo il loro rammarico e la loro gratitudine, una medaglia d’oro raffigurante due mani che tengono un nodo con inciso il motto: en s’éloignant elles le resserrent18. Si, è vero, il Generale Rusca aveva ottenuto le sue soddisfazioni a spese di Briot ma la sua fortuna con Napoleone non fu eterna19. Cadde anche lui in disgrazia e venne sollevato dal suo incarico all’Elba già alla fine del 1805. Rimase inattivo fino al 1809, quando poté partecipare all’apertura della Campagna di Italia, sotto il viceré Eugenio Beauharnais. Nel breve periodo durante il quale Briot visse all’Elba ebbero luogo, grazie a lui e alla sua illuminata amministrazione, molti cambiamenti che ebbero importanti ripercussioni sul futuro sociale e politico dell’Isola e non solo. Briot fu, fra l’altro, uno dei fondatori20 della Loggia massonica Les Amis de l’Honneur Français, fondazione che avvenne a Portoferraio proprio durante il periodo del suo secondo incarico come


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Commissario del Governo francese. Vi parteciparono molti militari francesi di stanza all’Elba o di passaggio per motivi di servizio: i nomi di molti di loro appartengono ormai alla Storia. I verbali di Loggia sono un fiume ininterrotto di proposte, iniziazioni, affiliazioni e arrivo di visitatori. La Loggia, frequentatissima, aveva continui scambi e relazioni non solo con la Corsica e la Francia, ma con il Continente e persino con paesi stranieri situati oltre oceano. Ma a differenza delle Logge che venivano fondate dalle truppe di occupazione, questa non era né itinerante né prettamente militare e, del resto, lo stesso Briot, ex deputato al Consiglio dei Cinquecento, non era un militare. Fin dall’inizio, furono presenti i migliori nomi della società civile sia elbana che francese residente all’Elba: Vincent Vantini, sindaco della città di Portoferraio, il Comandante della Marina Lacoudraye, l’Ispettore della Marina Giraud o monsieur Pierre Pieche, Comandante della Marina ma inizialmente Segretario Generale di Briot, funzionario che rimase all’Elba fino al momento della sua morte avvenuta in condizione di miseria estrema. Anche il Generale Rusca, una volta sparito Briot, tentò di farne parte. Non si sa chi potesse aver proposto il suo nominativo all’attenzione della Loggia (Briot era già partito da 4 mesi) ma, di sicuro, la sua candidatura non fu gradita: durante la Tornata del 30° giorno del 1° mese dell’anno 5804 di Vera Luce (30 Germinal anno XII del-

la Repubblica), al primo, e per lui ultimo scrutinio, il nominativo di Rusca collezionò ben dieci palle nere di rifiuto su ventitre votanti, con un verdetto che fece rimandare di tre anni la sua candidatura di probabile Fratello della Les Amis di Portoferraio. Purtroppo l’ultimo verbale di Loggia presente a Portoferraio porta la data del 19° giorno del 5° mese dell’anno 5805 di Vera Luce, cioè del 7 agosto 1805. ______________ Note: 1 Code administratif ou recueil par ordre alphabetique de matieres de toutes les lois nouvelles et anciennes……….. jusque 1 april 1809 – tome deuxieme - Réglement sur l’administràtion de l’ile d’Elbe. Arrêté de 22 Nivose an 11 (B. 240). 2 Code administratif ou recueil par ordre alphabetique de matieres de toutes les lois nouvelles et anciennes……….. jusque 1 april 1809 – tome deuxieme - Réglement sur l’administràtion de l’ile d’Elbe. Arrêté de 22 Nivose an 11 (B. 240) 3 Nota del 26 Germinal an XI - Registre n. 1 Corrispondance 13 Germinal an X – 24 Brumaire an XII - A.S.C.Pf. – Coll. I 2 4 Registro degli atti del consiglio municipale dal p.mo Termifero anno xi a tutto . A.S.C.Pf. – Coll. E6 5 Nota del 4° complem. an XI e del 6 vendemiaire an XII - Registre n. 1 Corrispondance 13 Germinal an X – 24 Brumaire an XII A.S.C.Pf. – Coll. I 2 6 Nota del 30 thermidor an XI - Registre n. 1 Corrispondance 13 Germinal an X – 24 Brumaire an XII - A.S.C.Pf. – Coll. I 2 7 Nota del 6 Vendemiaire an XII - Registre n.

1 Corrispondance 13 Germinal an X – 24 Brumaire an XII - A.S.C.Pf. – Coll. I 2 8 Nota del 23 Fructidor an XI - Registre n. 1 Corrispondance 13 Germinal an X – 24 Brumaire an XII - A.S.C.Pf. – Coll. I 2 9 Nota del 1 Messidor an XI - Registre n. 1 Corrispondance 13 Germinal an X – 24 Brumaire an XII - A.S.C.Pf. – Coll. I 2 10 Nota del 12 Messidor an XI - Registre n. 1 Corrispondance 13 Germinal an X – 24 Brumaire an XII - A.S.C.Pf. – Coll. I 2 11 Nota n.110 e 114 - Registre des arreté du 3 Floreal an x jusque au 29 Germinal an xi A.S.C.Pf. – Coll. F1 12 Nota n.108 - Registre des arreté du 3 Floreal an x jusque au 29 Germinal an xi - A.S.C.Pf. – Coll. F1 13 Corrispondance de Napoleon I (tome 8) nota 6803 14 Corrispondance de Napoleon I (tome 8) nota 6939 15 Nota 120 del 25 messidor an XI- Registre des arreté du 3 floreal an x jusque au 29 germinal an xi - A.S.C.Pf. – Coll. F1 e nota del 27 messidor an XI - Registre n. 1 Corrispondance 13 Germinal an X – 24 Brumaire an XII A.S.C.Pf. – Coll. I 2 16 Nota 2 pag. 44 17 Vedi Nota 21 18 Allontanandosi lo stringono di più 19 Biographie universelle ou dictionnaire de tous les hommes depuis le commencement du monde jusqu’a ce jour - tome 17 20 La Loggia francese les amis de l’honneur français rivissuta attraverso i suoi verbali di loggia di Isabella Zolfino – Editrice l’Arco e la Corte - Bari

P.18/19: Dipinti di epoca napoleonica; p.20/23: Villa San Martino, Isola d’Elba (foto P.Del Freo).

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Massoneria

Filadelfia Annalia Incoronato

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C’

è un particolare rapporto tra il piccolo paese di Filadelfia, in Calabria, e la più grande città di Philadelphia in Pennsylvania. È un legame affettuoso e delicato, che si desume dal nome stesso delle due municipalità, alla lettera “amore fraterno” (dal greco filòs adelfòs). È palese che il disegno urbanistico della Filadelfia calabrese abbia ricalcato il piano ideato nel XVII secolo dall’architetto William Penn con la suddivisione del territorio in quattro quadranti mediante l’incrocio di due grandi arterie che formano una croce greca. Dietro alla concezione della città americana, fondata ufficialmente nel 1682, c’era la forte spinta ai valori della tolleranza; quel centro fu protagonista nella Rivoluzione Americana e nel processo che portò alla Dichiarazione d’Indipendenza (1976) e alla Costituzione degli Stati Uniti (1787). La propulsione verso gli ideali di Libertà, Uguaglianza tra gli uomini e Fratellanza tra i popoli, in un mondo che ancora tollerava la schiavitù e che praticava la pena di morte, è derivata notoriamente in ampia parte da celebri massoni come Benjamin Franklin e George Washington, padri della moderna Costituzione statunitense. In particolare Benjamin Franklin aveva strettissimi rapporti con personaggi di grande cultura italiani; nel novero delle sue frequentazioni intellettuali rientrano i due amici Gaetano Filangieri e il vescovo Andrea Giovanni Serrao. Il primo, giurista e filosofo napoletano, certamente massone, intraprese con lo statista americano una fitta corrispondenza epistolare nel periodo in cui Franklin era ospite a Parigi, nel 1767 e nel 1769. Al centro delle discussioni tra i due esperti della materia giuridica c’erano le idee moderne e originali di Filangieri, innanzitutto il diritto alla felicità dei popoli di cui uno Stato illuminato e riformatore si deve fare garante e promotore, che diventeranno oggetto della Scienza della Legislazione, pubblicata qualche anno più tardi, nel 1780, e tradotta in francese, tedesco e spagnolo. Non è improbabile, allora, che l’ispirazione di uno degli autori della moderna Costituzione degli Stati Uniti d’America derivi proprio dall’opera del luminare italiano. Gaetano Filangieri entrò nella Corte borbonica a 24 anni come accompagnatore ufficiale del re; lo stesso ambiente era frequentato dal vescovo Giovanni

Massoneria

Andrea Serrao, originario del centro calabrese di Filadelfia, molto apprezzato per la sua profonda cultura umanistica. Quella del prelato è una figura particolare. Le sue idee libertarie e a favore della democrazia lo portarono a essere malvisto dalla curia romana, al punto che la sua nomina a Vescovo di Potenza arrivò dopo un anno di dure opposizioni e fu ottenuta grazie a Carlo V di Borbone e Maria Carolina che avevano la prerogativa di fare nomine dirette in ventisei chiese episcopali. Tuttavia il rapporto con la Corte napoletana si incrinò dopo qualche anno, a causa dell’influsso che gli ideali repubblicani emanati durante la Rivoluzione Francese esercitarono anche su Serrao. Nel 1799 il Ve-

scovo di Potenza partecipò alla cerimonia d’innalzamento dell’Albero della Libertà. Il discorso pronunciato in pubblico scatenò nei suoi confronti l’accusa di giacobinismo: da “buon pastore” raccomandò la “temperanza, la sottomissione alle leggi ed il rispetto dovuto alla vita ed alla proprietà”; spiegò che l’uguaglianza dei cittadini si misura sui diritti e non sulle loro sostanze; e concluse sostenendo che la libertà non può reggere senza la religione. Il 24 febbraio 1799 l’esercito dei Sanfedisti, diretti dal cardinale Ruffo (anche lui calabrese), lo uccise decapitandolo e la sua testa venne impalata e mostrata come monito a tutti. Forges Davanzati nel chiudere la biografia di Andrea Giovanni Serrao 25


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scrive: “Un barbaro può ben spegnere la vita di un uomo virtuoso, ma non la stima pubblica che a lui è dovuta”. Non è documentata l’appartenenza di Giovanni Andrea Serrao alla Massoneria, i suoi contatti con la Libera Muratoria furono però tantissimi come dimostra la sua amicizia con Filangieri e con l’abate Antonio Jerocades (originario di Parghelia, oggi in provincia di Vibo Valentia), fondatore di numerose logge in Calabria, di cui lo stesso Serrao fu Maestro durante il periodo di formazione al seminario di Tropea. Una Officina fondata a Filadelfia e rimasta attiva fino a Ottocento inoltrato portava il nome del vescovo illuminato e la cittadina deve proprio a lui la rifondazione dopo il terribile sisma del 1783. Prima di quel tragico momento esisteva il comune di Castelmonardo. Elia Serrao racconta così il sisma nella Historia del Tremuoto scritta su incarico della Reale Accademia delle Scienze di Napoli: “Ne cominciarono le sventure al dì cinque, e sette di febbraio; crebbero nel primo dì di marzo, giunsero all’estremo nel dì ventotto, e i casamenti si ridussero in un confuso sfasciume”. Dopo la tragedia, gli abitanti di prima e seconda classe – vennero esclusi i contadini - si riunirono e scelsero un nuovo luogo dove far risorgere il centro urbano, che venne individuato in Piano della Gorna. Alla ricostruzione partecipò attivamente il vescovo Giovanni Andrea Serrao, tornato nella sua terra natia immediatamente, che suggerì che la nuova cittadina assumesse il nome “dolce” di Filadelfia “affinché gli abi26

tanti ricordassero sempre della loro origine greca e rammentassero e imitassero le virtù dei loro antenati, e soprattutto si amassero come fratelli ed amici, non solo fra di loro, ma nutrissero lo stesso sentimento per tutti gli uomini”. La pianta urbanistica della nuova città fu affidata ai due architetti Francesco Antonio Serrao, fratello del vescovo, e Biagio Stillitani e ripropose lo schema urbanistico della Philadelphia americana: agli angoli dei quattro quadranti vennero costruite quattro chiese (mentre nella città della Pennsylvania si trovavano parchi verdi); ogni strada era larga 17 metri, una misura decisamente inusuale rispetto alla media di un paesino del sud Italia; le altre strade erano nominate da un numero e la direzione con riferimento alla croce di base, veniva così applicato un sistema unico per l’epoca. Secondo alcuni studiosi – ma il dato non è certo – anche il vescovo ebbe contatti diretti con Franklin oltre al suo amico Gaetano Filangieri; in ogni caso è evidente l’influenza che la concezione urbanistica e filosofica del massone William Penn esercitò nella ricostruzione del comune calabrese. Di richiamo massonico evidentissimo è lo stemma della municipalità: due mani che si stringono, una delle quali guantata; col tempo, però, alla mano guantata è stata sostituita una mano nuda. Il simbolo tuttora è adottato dal Comune


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di Filadelfia e riprodotto anche all’esterno della sede della Società operaia di mutuo soccorso. In occasione dell’anniversario del primo secolo dalla ricostruzione, nel 1883, venne eretto un monumento che raffigura il globo con un serpente verde, simbolo della conoscenza. Nei primissimi anni del ‘900, la Chiesa intese “ammorbidire” il significato di quella istallazione e i missionari vi posero una croce a simboleggiare la cristianità sul mondo, l’opera è conosciuta con il nome di Crocella. Simboli esoterici si trovano anche su una fontana che si incontra lungo la strada che porta al centro, pure in questo caso sono raffigurati due serpenti che si intrecciano. Nonostante Filadelfia si trovasse nell’entroterra di una regione meridionale, lontana geograficamente dalla grande città di Napoli dove si formavano le idee libertarie, molti concittadini hanno partecipato ai moti del Risorgimento e animato un acceso fermento politico. Nel 1870 accadde una vicenda singolare che vide la partecipazione di Ricciotti Garibaldi, figlio dell’Eroe dei due mondi. Il raggiungimento dell’Unità nazionale non bastava e continuava l’impulso verso la costruzione della Repubblica, così Ricciotti si mise a capo di una sollevazione popolare che partì dalla vicina Curinga, dove venne proclamato il governo provvisorio repubblicano, e raccolse altri volontari a Cortale e Maida. Arrivati a Filadelfia, venne proclamata la Repubblica Universale ma la rivolta durò solo quaranta ore perché nel frattempo le truppe regie si attivarono e vi posero fine. Ricciotti Garibaldi riuscì a sfuggire alla cattura nascondendosi in una palazzina della famiglia Serrao, solo successivamente fu catturato e rinchiuso nel castello Murat a Pizzo. La Massoneria ha sempre avuto un ruolo di primissimo piano nella municipalità di Filadelfia; risultano iniziati alla Libe-

ra Muratoria diversi personaggi pubblici che hanno ricoperto cariche amministrative e politiche tra il Settecento e il primo Novecento tra cui parecchi sindaci e il prefetto Giovanni Gemelli, liberale moderato, autore di illuminati scritti sul sistema carcerario come Punizione che corregge e migliori, non già che infingardisca o peggiori pubblicato nel 1844. Quando, nel 1908, il pastore evangelico Saverio Fera, pure lui calabrese originario di Petrizzi, promosse la scissione dell’Obbedienza, la Loggia “Serrao” di Filadelfia espresse solidarietà al Grande Oriente d’Italia e difese il Gran Maestro Achille Ballori. Il fratello Tommaso Falcone, di quella Officina, l’anno precedente era stato autorizzato a iscriversi anche alla Loggia “Sicilia Risorta” all’Oriente di Palermo che, invece, seguì il vento della divisione. Nel 1909 Falcone fu espulso dal Goi e, più tardi, si fece promotore dell’erezione di una nuova Officina. Un altro episodio dimostra il doppio filo che legava la politica locale alla Massoneria. Nel 1910 il fratello Rosario Servello venne eletto in consiglio comunale ma la sua nomina fu osteggiata da tale Bartucca, si correva il rischio di perdere la maggioranza e così il Maestro Venerabile Apostoliti (che fu eletto sindaco di Filadelfia nella tornata elettorale successiva) chiese aiuto ai fratelli di Catanzaro affinché supportassero l’elezione del consigliere. In cambio, la Loggia “Tommaso Campanella” chiese il riconoscimento di una Loggia femminile e fu così che il 25 aprile 1912 la Loggia “Andrea Giovanni Serrao” all’Oriente di Filadelfia si espresse con cinque voti favorevoli e quattro contrari al riconoscimento di quella

che probabilmente è la prima Loggia femminile in Calabria. ______________ Bibliografia: E.Cuomo, Filangieri e il sogno di Philadelphia. M.Barone, Massoneria, istituzioni ed ‘elites politiche nella storia di Filadelfia di Calabria (1783/1920). Benjamin Franklin e l’Italia (www.comune.filadelfia.vv.it). I fautori della Repubblica universale di Filadelfia, a cura di Archeoclub d’Italia. L.Troccoli, Il vescovo Serrao e la nuova Filadelfia. C.Ruperto, Il Vescovo fondatore di Filadelfia e l’albero della libertà. Dè tremuoti e della nuova Filadelfia in Calabria, di Elia Serrao, Napoli, 1785. P.24: L’effigie di William Penn svetta sullo Skyline di Philadelphia; p.25: La fontana di Filadelfia; in basso pianta di Philadelphia; p.26/27: Benjamin Franklin, Ricciotti Garibaldi e Saverio Fera; le altre foto di Filaldelfia sono dell’autrice.

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Bakunin, massone e anarchico Giuseppe Ivan Lantos 28

II parte


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on pochi anarchici, poi, appartenevano all’allora crescente movimento per il Libero Pensiero. Scrive Pedro Alvarez Lazaro: “Il travaso ideologico fra Libero Pensiero e Massoneria si canalizzò in due direzioni: da un lato molti nuclei liberopensatori non erano in realtà che emanazioni profane di talune Logge e Obbedienze; su un altro versante le Massonerie di ispirazione razionalistica andavano ingrossando le proprie fila con liberopensatori militanti”1. Marco Novarini sostiene che “fosse difficile per un anarchico, fondamentalmente refrattario al concetto di trascendenza e alla struttura gerarchica, trovarsi in sintonia con la spiritualità e l’organizzazione ritualistica massonica, pur se i principi di Libertà, Fratellanza e Uguaglianza erano condivisi.2” Ma l’ipotesi di un’intolleranza degli anarchici per la “trascendenza” e per la “struttura gerarchica” contraddice la fedele e totale adesione alla Massoneria di illustri pensatori e agitatori anarchici tra i quali Elisee Reclus, Louise Michel, Andrea Costa e Francisco Ferrer y Guardia. Fu, piuttosto, la maggioranza dei Fratelli i quali non accettarono che l’Istituzione si trasformasse in strumento per scopi e con i mezzi perseguiti dalla minoranza degli anarchici. Esemplare fu, da questo punto di vista, il caso di Michail Bakunin che ebbe frequentazioni ad alto livello nell’ambiente massonico italiano. Frapolli aveva il controllo di una parte consistente del Rito Scozzese Antico e Accettato e Garibaldi ne era il Gran Maestro Onorario a vita. Certamente, la comune appartenenza contribuì favorevolmente all’atmosfera dei colloqui di Caprera, incrementando l’entusiasmo che il russo provava per l’Eroe dei Due Mondi. Pochi mesi dopo Bakunin fu delegato all’Assemblea Massonica di Firenze come rappresentante del Conclave. A queste Tornate erano ammessi gli insigniti dei Gradi dal Diciottesimo al Trentesimo. Da quel momento, tuttavia, i suoi progressi nell’ascesa dei successivi gradini della Piramide Scozzese subirono un rallentamento sui motivi del quale è possibile soltanto formulare delle ipotesi. È verosimile che, a poco a poco, fosse iniziato quel processo di distacco che più tardi si manifestò più palesemente. Tut-

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tavia l’allontanamento non fu traumatico perché, anche dopo, Bakunin continuò a intrattenere una corrispondenza cordiale con alcuni massoni autorevoli, come Giuseppe Dolfi. Di più, in partenza per Napoli, ricevette credenziali ufficiali dal Gran Concistoro della Valle dell’Arno. D’altra parte, in quel 1864, la Massoneria italiana non si presentava come un organismo solidale e unitario coagulato attorno all’apparato dottrinario andersoniano. Una profonda frattura s’era aperta tra il Rito Simbolico e quello Scozzese Antico e Accettato. Il Grande Oriente Italiano, che aveva adottato il Rito Simbolico, etichettato come filo-governativo, cominciò a mostrare segni di decadimento, mentre, sotto l’oculata guida di Ludovico Frapolli, cresceva lo Scozzesismo, che avrebbe dato vita al Grande Oriente d’Italia costituito in prevalenza da Fratelli di ispirazione libertaria e democratica. Nel resto dell’Italia da poco unificata la situazione non era migliore; tendenze centrifughe si manifestavano un po’ dovunque. In Sicilia c’erano due Obbedienze entrambe praticanti il Rito Scozzese Antico e Accettato. Una non era del tutto aliena a mettersi all’ordine di Ludovico Frapolli, l’altra, alla quale aderivano anche alcune Logge del napoletano, che pretendeva non meglio documentate primogeniture, attribuiva a Garibaldi la legittima Gran Maestranza. A Milano, Ausonio Franchi rivendicava l’autonomia di un gruppo di Logge del Rito Simbolico che ebbero fra i loro membri uomini della levatura di Giosuè Carducci e Luigi Cremona. Se è vero, com’è vero, che il trasferimen-

to della capitale del Regno da Torino a Firenze e con esso il trasloco della sede magistrale massonica nel capoluogo toscano non servì a migliorare la situazione, è altrettanto vero che i Fratelli di matrice torinese-fiorentina si prodigavano per far ritornare le Logge agli Antichi Doveri. Bakunin si stabilì a Firenze proprio mentre la Massoneria italiana tentava di darsi un assetto unitario, cercando di individuare elementi di convergenza. Non erano certamente queste le condizioni ideali perché il russo potesse avervi una partecipazione importante, al di là della silenziosa, se pur costante, presenza fisica all’Assemblea di Firenze. D’altro canto non si può dire che in questo periodo Bakunin formulasse idee as29


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similabili ai precetti espressi nelle Costituzioni di Anderson. I “frammenti” sulla Massoneria riportati da Max Nettlau3 sono illuminanti riguardo all’interpretazione del tutto personale che il russo dava circa il modo di “levigare la pietra”. Per il suo biografo i “frammenti” sono importanti perché costituiscono la prima espressione che ci sia rimasta delle idee antireligiose, antistatali e socialiste di Bakunin. In verità Silvio Furlani ricorda che “lo stesso giorno della partenza di Bakunin da Stoccolma, dopo la seconda permanenza in Svezia, il 12 ottobre 1864, appariva sul giornale Aftonbladet un suo articolo con un violento attacco contro il cristianesimo e contro il sentimento religioso in generale4”. E, forse, non è una coincidenza che contemporaneamente Bakunin avesse lavorato per preparare la nascita della Prima 30

Internazionale, che il 28 settembre 1864 aveva tenuto a Londra il suo congresso fondativo con il quale nasceva la Prima Internazionale socialista dei Lavoratori alla quale aderirono inizialmente tutte le correnti della Sinistra europea, da Karl Marx agli anarchici e Giuseppe Mazzini. Non credo che sia illogico e irriverente supporre che Bakunin avesse pensato, in buonafede, di servirsi della Massoneria per la realizzazione del suo progetto politico, ma appare evidente che ciò sarebbe stato difficile, per non dire impossibile, nell’ambito di Logge regolari per quanto d’ispirazione liberale e adogmatica. Come scrisse il massone Andrea Giannelli all’anarchico Nettlau, “Bakunin aveva fiducia nella Massoneria in genere, era esso stesso massone, ma s’ingannava ritenendo che codesta Istituzione, guidata allora in Italia da Frapolli, po-

tesse neppure minimamente accettare o appoggiare le sue idee nichiliste”5. In questo senso siamo confortati da una testimonianza di Alberto Tucci a Nettlau, secondo cui “Bakunin avrebbe scritto, appena arrivato a Napoli [...] un manuale sulla massoneria come egli desiderava vederla interpretata”6. Nel primo degli scritti di quello che avrebbe voluto essere il suo Catechismo della Massoneria, Michail dà vita a una feroce polemica antireligiosa fondata sulla denuncia della schiavitù che può derivare dalla credenza del Dio cristiano. “Che cosa pretende di poter fare la Massoneria per servire l’Umanità? Proteggere gli innocenti e i deboli, curare gli ammalati, vestire i poveri, dare un’istruzione ai bambini indigenti? Tutte queste opere sono infinitamente rispettabili”7, anzi, “come applicazione pratica del principio dell’umana fraternità, esse sono elargite più o meno, nella misura della capacità [...] di ogni uomo che non è estraneo al principio della carità”8. E allora “se la Massoneria non avesse altro scopo che esercitarli, non ci sarebbe alcuna differenza tra essa e le innumerevoli corporazioni religiose che non altro fine che l’esercizio della carità”9. E ancora: “L’immensa differenza che la separa da tutte queste istituzioni religiose si manifesta unicamente per lo spirito diverso con il quale la Massoneria da una parte e le corporazioni cristiane dall’altra elargiscono la loro istruzione e il loro aiuto. Queste ultime hanno come fine assoluto e finale più la gloria di Dio che il sollievo delle umane sofferenze, il trionfo dello spirito religioso, la sottomissione dell’uomo al giogo divino e, di conseguenza, a quello della Chiesa […] e come risultato necessario la sconfitta e l’abdicazione della ragione umana, della volontà umana, la negazione della libertà, la schiavitù. La Massoneria, al contrario, per poco che intenda restare fedele ai suoi principi, deve volere l’emancipazione completa dell’uomo, la costruzione dell’umanità tramite la libertà sulle rovine di ogni forma di autorità”10. Infine dopo altri attacchi alla Chiesa e allo Stato, Bakunin conclude: “E adesso cerchiamo di dare un catechismo alla Massoneria, lasciando da parte la questione del trascendente e quella, probabilmente, irrisolvibile per l’umanità dell’As-


soluto e dell’esistenza o della non esistenza di un Dio ‘extra mondiale’ ed ‘extra umano’, prendendo in seria considerazione l’abolizione di tutte le teologie. La Massoneria deve tener conto del fatto che l’esistenza di un Dio personale ed ‘extra mondiale’, Creatore e supremo Signore di tutte le cose, è incompatibile con la ragione e la libertà dell’uomo […] la Massoneria moderna rimpiazza, quindi, il culto del Grande Architetto dell’Universo con quello dell’Umanità”11. L’allontanamento di Bakunin dalle impostazioni tradizionali della Libera Muratoria è espressa anche in quello che scriveva ai compagni dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori del Lode e della Chaux-de-Fonds: “La Massoneria oggi s’è abbassata al triste ruolo di una vecchia intrigante e rimbambita [...] non vale nulla essendo inutile, qualche volta nociva e sempre ridicola, mentre prima del 1830 e, soprattutto, prima del 1793, avendo riunito nel suo seno, con poche eccezioni, tutti gli spiriti elevati, i cuori più ardenti, le volontà più fiere, i caratteri più audaci, aveva costituito un’organizzazione attiva, potente e benefica e aveva rappresentato l’incarnazione energica e la messa in pratica dell’idea umanitaria del XVIII secolo”12. L’impossibilità di rifondare la Massoneria a “immagine e somiglianza” delle proprie idee non spinse, tuttavia, Bakunin a mettersi “in sonno”; egli continuò a frequentare diverse Logge come “convitato di pietra”. D’altra parte, l’attività politica ne assorbiva il tempo e le energie. Nel 1865 Bakunin si trasferì da Firenze a Napoli. L’impatto con l’ambiente politico del capoluogo partenopeo diffusamente reazionario fu per Michail a dir poco deludente. Tuttavia un incontro lo persuase a rimanere: quello con la principessa Zoe Obolenskaja. L’aristocratica russa, che possedeva un patrimonio cospicuo, non soltanto finanziava generosamente gli amici, ma manifestava idee rivoluzionarie che le calamitavano attorno sovversivi italiani e stranieri. Bakunin divenne il favorito e questo gli consentì di non avere problemi economici. Per Zoe si trattò di un investimento che, grazie al prestigio del nuovo amico, le permise di accreditarsi come “musa della rivoluzione”. Neppure tanto paradossalmente, la stagnante situazione politica napoletana dava un

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senso ai propositi cospirativi. Bakunin li tradusse in pratica con la fondazione di una società segreta, la Fratellanza internazionale, il cui modello organizzativo e normativo si ispirava a quello della Libera Muratoria, così come sarebbe stato per tutte le altre associazioni costituite da Bakunin in seguito. La Fratellanza internazionale aveva una struttura piramidale e il rituale d’iniziazione per farne parte era marcatamente massonico. Alla Fratellanza internazionale appartenevano pochi, eterogenei elementi riuniti attorno a un progetto politico che poteva essere definito quanto meno confuso. Per Bakunin si trattò, verosimilmente, di un laboratorio nel quale maturare una vera e propria svolta ideologica. Fino ad allora, infatti, aveva identificato nel nazionalismo lo strumento per liquidare i regimi politici che governavano l’Europa. L’Italia gli parve la prova tangibile del fallimento del nazionalismo come mezzo per il riscatto sociale ed economico di un Paese. Vero che l’Italia era diventata, seppur parzialmente, una e indipendente, ma ciò non aveva contribuito a risolvere gli endemici problemi sociali ed economici del popolo. L’ignoranza e la povertà erano piaghe aperte e Napoli era lo specchio della situazione del nuovo Regno. Nel capoluogo campano Bakunin cambiò la rotta della sua visione politica: la rivoluzione avrebbe potuto realizzarsi soltanto se si fosse liberata dalle briglie corte del

nazionalismo. Questa convinzione segnò il suo passaggio dal nazionalismo rivoluzionario all’anarchismo estremo. Il soggiorno napoletano del russo durò due anni. Nell’agosto 1867 Bakunin ritenne prudente lasciare non soltanto Napoli, ma l’Italia. Da qualche tempo, infatti, si stavano diffondendo voci, peraltro infondate, secondo le quali il russo stava tessendo le trame di moti insurrezionali in tutto il Mezzogiorno. Le drammatiche esperienze di vita vissuta suscitarono in Michail il timore che la calunnia potesse trovare credito presso le autorità italiane con conseguenze pesanti facilmente prevedibili. L’esule riprese così il suo peregrinare alla ricerca di un ubi consistam per la sua utopia rivoluzionaria. Sul finire del 1867 Bakunin s’era sistemato in Svizzera dove, l’anno dopo, a Ginevra, aveva fondato l’Alleanza internazionale della democrazia socialista e, contemporaneamente, s’era affiliato all’Associazione Internazionale dei Lavoratori, la Prima Internazionale. La sua presenza segnò l’avvio del suo confronto-scontro con Marx al quale l’anarchico contestava, tra l’altro, il progetto della dittatura del proletariato, ritenuta anticipatrice della formazione di una nuova classe di oppressori. In occasione del Congresso dell’Aja del 1872, Marx convinse i compagni tedeschi a far espellere Bakunin dall’Associazione inventandosi l’accusa che l’anarchico russo fosse una spia del Partito Panslavista, dal 31


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quale riceveva annualmente venticinque mila franchi. Ma si trattò una vittoria di Pirro: la rottura tra comunisti e anarchici mise in ginocchio la Prima Internazionale, che cessò d’esistere pochi anni dopo. Bakunin, che era diventato la figura emblematica dell’insurrezionalismo anarchico, si trovò coinvolto nella rivolta di Lione scoppiata nel settembre 1870 in seguito agli eventi della guerra francoprussiana. Alcuni seguaci di Bakunin, ai quali, più tardi, si aggiunse lo stesso anarchico russo, il 26 settembre affissero un manifesto in cui proclamavano la decadenza dello Stato, della burocrazia e dei tribunali; la sospensione del pagamento delle imposte, delle ipoteche e delle proprietà private; la formazione in tutti i comuni dei comitati di salute analoghi a quelli di Lione; riunione di una convenzione nazionale incaricata di bloccare l’invasione tedesca. Il 28 settembre gli insorti destituirono le autorità locali, ma un’eccessiva esitazione su questioni di metodo decretò il fallimento dell’insurrezione. Soltanto il 18 marzo 1871 l’insurrezione alla Comune di Parigi permise, per un breve periodo, la sperimentazione di idee e pra32

tiche libertarie. Dal 1871 al 1872, Bakunin si vide impegnato a costituire un organismo rivoluzionario internazionale, il cui atto di nascita fu la Conferenza antiautoritaria tenuta, nel settembre 1872, nella cittadina svizzera di Saint-Imier alla quale parteciparono i delegati del Giura, dell’Italia, degli Stati Uniti e anche alcuni delegati francesi e spagnoli, mentre non si presentarono i tedeschi, gli inglesi, i belgi. Nel 1874 gli anarchici romagnoli, guidati da Andrea Costa, Enrico Malatesta, Napoleone Papini, Francesco Natta e Carlo Cafiero, misero a punto un piano che avrebbe dovuto far insorgere la città di Bologna, nella speranza di estendere poi la rivolta a tutta l’Italia centrale. Nel capoluogo emiliano era arrivato anche Bakunin. Tra il 5 e il 6 agosto, la Prefettura, informata dei preparativi da alcuni delatori, intervenne e bloccò sul nascere l’iniziativa degli anarchici molti dei quali furono arrestati e processati. Michail fuggì a Lugano travestito da prete. Trascorse in Svizzera i suoi ultimi anni scrivendo le sue opere principali tra le quali ricordiamo: Dio e lo Stato, La teologia politica di Mazzini e l’Internazionale, Stato e anar-

chia. Si tratta di saggi decisivi per la storia dell’anarchismo e del movimento operaio e socialista, per cui è stato detto, giustamente, che con Bakunin nacque l’anarchismo come entità specifica rispetto a ogni altra teoria o movimento. Mentre era in visita da alcuni amici a Berna, Bakunin s’ammalò; ricoverato in ospedale si spense il 1 luglio 1876. Riposa nel cimitero di Bremgarten, alla periferia orientale della città, tra lo scalo merci delle ferrovie e l’inceneritore dei rifiuti, un luogo che si potrebbe giudicare inadatto come estrema dimora di un aristocratico per nascita, ma adeguato per le sue idee. Sulla tomba s’erge una disadorna stele di pietra sulla quale sono scolpiti il nome, l’anno di nascita e quello di morte e un sintetico epitaffio, in francese: “Ricordatevi di chi sacrificò tutto alla libertà del suo paese”. In occasione del bicentenario della sua nascita ci piace ricordare che l’eredità di Bakunin “massone e anarchico” non andò dispersa con la sua scomparsa, anche se proprio gli anarchici, specie quelli italiani, hanno cercato di misconoscere la sua appartenenza alla Libera Muratoria suggestionati dal parere di Antonio


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Gramsci sulla Massoneria quale “partito della borghesia” e, in tempi più recenti, dai generici e diffusi pregiudizi antimassonici ibridamente confusi con quelli cattolici, marxisti e fascisti. Tra gli eredi di Bakunin merita di essere menzionato l’anarchico catalano Francisco Ferrer y Guardia (1859-1909). Massone fin dall’adolescenza, Ferrer fondò sugli ideali liberomuratori di libertà e tolleranza la sua Escuola Moderna, un progetto pedagogico basato sull’educazione razionale e scientifica da impartire senza inculcare idee preconcette né dogmi, dei quali il bambino è ancora privo. Ferrer aveva dato vita, tra l’altro, al giornale anarcosindacalista La huelga general e a l’Ateneu Encicolopèdico Popular, pubblicazioni alle quali collaboravano illustri esponenti del mondo anarchico e massonico, come il geografo Elisee Reclus, lo scrittore Lev Tolstoj, l’antropologo Petr Kropotkin, lo scrittore Anatole France, il filosofo inglese Herbert Spencer e lo zoologo tedesco Ernst Haeckel. L’attività di Ferrer, massone e anarchico, era considerata eversiva dal governo spagnolo guidato dal conservatore Antonio Maura il quale era alla ricerca di un pretesto per farlo tacere, se possibile, per sempre. L’occasione propizia gli venne fornita dalla Semana tragica, l’episodio insurrezionale che si verificò a Barcellona e in altre città della Catalogna tra il 28 luglio e il 2 agosto 1909. La rivolta scoppiò quando la popolazione di Barcellona si ribellò alla Guardia Civil che aveva il compito di imbarcare i coscritti mandati a combattere per la con-

quista coloniale della parte settentrionale del Marocco. Francisco Ferrer y Guardia fu catturato e accusato di essere l’ispiratore e il capo della rivolta. Al termine di un processo farsa venne condannato a morte e giustiziato il 13 ottobre 1909. Ma il suo sangue non fu sparso invano. Infatti, in Catalogna, ventisette anni dopo, Massoneria e Anarchia si trovarono riunite sotto le bandiere repubblicane durante la Guerra Civile spagnola (193639) che portò al governo anche gli anarchici. Il Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato il 6 luglio 1938 proclamò: “La massoneria spagnola ha formulato dichiarazioni pubbliche chiare e coerenti di adesione al governo della repubblica e al Fronte Popolare”. D’altro canto nessun compromesso sarebbe stato possibile con il dittatore Francisco Franco del quale il biografo Manuel Vázquez Montalbán scrisse: “Era capace di grande odio, e questo suo odio fu terribile nei confronti della Massoneria [...]”13 Non è un caso che il simbolo anarchico della “A cerchiata”, la cui diffusione viene in genere attribuita agli anarchici milanesi negli anni Sessanta del secolo scorso, fosse comparso, in realtà, nei primi anni del secolo XX proprio in Spagna come simbolo dell’Asociación Internacional de los Trabajadores, gruppo anarcosindacalista. Fu usato per la prima volta al Consiglio Federale di Spagna e rappresenta chiaramente, inseriti in un cerchio, un compasso, una livella che formano una A e un filo a piombo, una testimonianza visiva dei rapporti tra Massoneria e Anarchismo.

Note: 1 P.Alvarez Lazaro, Libero Pensiero e Massoneria, Roma, 1991, 2 M.Novarini, Tra Squadra e Compasso e Sol dell’avvenire, Università Popolare di Torino Editore, 2013. 3 M.Nettlau, Michael Bakunin: eine Biographie, pubblicato a Londra (1896-1900), reprint Milano 1971. 4 S.Furlani, Una pagina bianca nelle biografie di Bakunin, in Archivio Trimestrale, 1983. 5 Citata da M.Nettlau in Bakunin e l’Internazionale in Italia dal 1864 al 1872, Roma, 1970. 6 Ibidem. 7 M.Nettlau in Bakunin e l’Internazionale in Italia dal 1864 al 1872, Roma, 1970. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 M.Bakunin, Opere complete, Trieste, 19762009. 13 M.Vázquez Montalbán, Io Franco, Milano, 1993.

P.28: Foto e autografo di Mikahil Bakunin; p.29: Lodovico Frapolli e Giuseppe Garibaldi; p.30: Bakunin all’Internazionale di Basel nel 1869; p.31: Tessera del 1864 della I Internazionale Socialista con firma di Karl Marx; p.32: Le barricate della ‘Comune’ di Parigi; p.33: Celebre foto della Guerra di Spagna e a destra simbolo dell’AIT e la ‘A’ del simbolo anarchico.

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L’ Architettura

parte III

Giardini massonici

La loro architettura in Europa tra il Settecento e i primi del Novecento Jean Marc Schivo

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architettura delle fabriques Questo termine, più volte citato, viene adoperato per la prima volta da C. H. Watelet nel suo libro Essai sur les jardin (1774) per far sì che queste visioni paesaggistiche e architetture dipinte stimolassero artisti, architetti, letterati e scrittori a costruire nuove immaginifiche realtà in dialogo con le culture del mondo. È Jean Marie Morel nella sua Theorie des jardins (1776) a dare una delle migliori definizioni di questo concetto: “ […] è soprattutto questo rapporto fra carattere dell’edificio e sito che io chiamo proporzione nell’arte dei giardini. Quando lo avrò illustrato, quando avrò parlato dell’ubicazione che conviene ai vari tipi di edifici, del loro carattere, forma e volume, come pure dello stile, del colore che lo armonizzerà con il paesaggio in cui si trovano, avrò esaurito il mio compito; quello dell’architetto sarà dirigerne l’esecuzione per quel che riguarda la solidità […] dar loro esteriormente l’espressione che il giardiniere si aspetta per il fascino e la verità delle sue composizioni […] Le costruzioni considerate da questo punto di vista sono quelle che in pittura vengono chiamate fabriques, espressione che servirà di seguito per disegnare tutti gli edifici di effetto e le costruzioni che l’opera dell’uomo aggiunge alla natura per l’abbellimento dei giardini. E se come tali se ne impadronisce l’architettura, questa sarà una nuova banca che si aggiungerà a quest’arte preziosa”. J. M. Morel contribuisce alla realizzazione di oltre 40 giardini tra cui il parco di Ermenonville e alla stesura di importanti scritti tra cui il Traité sur la composition musicale, mai stampato, e L’architecture rurale, un’importante raccolta di oltre 120 tavole grafiche. Ma è soprattutto il principe Charles – Joseph de Ligne, spirito illuminato, massone, apprezzato in tutta Europa per il suo talento creativo, che svilupperà ulteriormente l’applicazione di queste importanti architetture simboliche contribuendo in modo sostanziale alla realizzazione di un numero elevato di “giardini filosofici”. In un suo libro autobiografico, Coup d’œil sur Belœil et sur une grande partie des jardins d’Europe, ricco di descrizioni per tipologie, aforismi e riflessioni su questi manufatti architettonici, esporrà le sue teorie sulla realizzazione di giardini irregolari, mai uguali o ripeti-


Architettura

tivi. La sua proprietà diventerà il campo di sperimentazione e di codificazione dei suoi principi. Dopo la residenza e il palazzo, elementi centrali e di guida e della configurazione del parco, il principe contestualizza ogni successivo elemento: “Il castello dovrà avere quattro torri, la villa per la villeggiatura sarà caratterizzata da una balaustra bianca all’italiana, la casa di campagna dovrà essere marrone tenue, la fattoria si distinguerà per il suo tetto metà di paglia e metà di tegole” e così via per molti altri esempi descritti e disegnati con cura. Ogni pezzo di questo sistema simbolico diventa unico e personalizzato, ogni parco è un’officina con una sua precisa funzionalità e identità costruita secondo la sapienza dei suoi maestri: […] non vedo gran merito nel copiare per centomila scudi la stampa di un grande monumento. Stimo di più chi, invece di imitare gli ordini di Vitruvio e i cinque ordini dell’architettura, se ne fa uno per conto proprio; e forse la sua costruzione fuori dal comune sarà più gradevole di dodici colonne doriche che si conoscono a me-

moria. Tutto attualmente è così prevedibile, così scontato che ci vuole qualcosa di nuovo, la monotonia inglese, nello scacciare la monotonia francese, è diventata così uniforme che bisogna rendere i giardini moderni ancora più moderni non imitando nessuno, guardate nei bagni e nei corridoi delle stampe dei dintorni di Londra. È sempre la stessa cosa. Fra qualche albero, in cima ad un colle, sempre un tempio aperto. Ne sono stufo”. Nel suo parco di Belœil (1766), negli antichi Paesi Bassi austriaci, ereditato alla morte del padre Claude Lamoral, con l’aiuto dell’architetto Bellanger rimodellerà l’impianto iniziale trasformandolo in un vorticoso e ricco mondo allegorico all’insegna della ricerca. “Vorrei far contribuire tutta la natura all’utilità, al gusto, al piacere. E un animo aperto a tutti i godimenti qui può abbandonarsi all’amore, all’amicizia, allo studio dei propri doveri, allo stupendo spettacolo del creato, al bene dell’umanità e alla poesia incantatrice” (C. J. de Ligne). Un ulteriore contributo al completamento

delle gardens fabriques ci giunge da Napoleone Bonaparte. Con la conquista dell’Egitto il suo patrimonio esoterico composto da sculture, sfingi, obelischi e altri importanti manufatti diventa elemento integrante dell’architettura della città così come del giardino massonico. Esso si riappropria dei tesori iniziatici, dei suoi rituali, delle sue potenziali simbologie. La piramide come forma architettonica ed esoterica si inserisce ufficialmente nel vasto patrimonio architettonico già esistente non più come elemento tombale, ma come articolato spazio interno, tempio, luogo di iniziazioni ed elevazione spirituale. Nel 1731 Jean Terrasson, insegnante di filosofia, membro dell’Académie Française, nel suo romanzo Sethos rievoca i principi iniziatici alla base del sistema della Grande Piramide, rivalorizzando l’opera architettonica e conferendole un ruolo centrale nel processo iniziatico: “ […] chiunque fa questa strada da solo, senza guardarsi indietro sarà purificato dal fuoco, dall’acqua e dall’aria; e se gli ri35


esce vincere lo spavento della morte riuscirà dal seno della terra a rivedere la luce, venuto indi in diritto di preparare la sua anima alla rivelazione dei grandi misteri della grande dea Iside”. Molti personaggi trassero ispirazione da questo romanzo di grande successo:

Architettura Emanuel Schikaneder per i riferimenti alla Massoneria nella composizione del testo del libretto del Flauto Magico di Mozart, Cagliostro, fondatore della Massoneria di rito egiziano, nel promuoverne la divulgazione e nel dedicare un tempio massonico alla dea Iside nel 1784 in rue de la Sourdiere a Parigi, Alexandre Lenoir, responsabile della manutenzione dei giardini e monumenti di Francia, massone, iniziato al culto di Iside, nell’inserire nei parchi francesi questo ulteriore messaggio iniziatico. Gli stessi Goethe, Mozart e Voltaire saranno iniziati con rituali legati al mondo dei Misteri eleusini. Posizionati in punti strategici, gli elementi sopra indicati caratterizzeranno ormai la composi-

zione paesaggistica di ogni giardino massonico come parti di un libro da decifrare per raggiungerne la parte più sacra, il centro ideale, l’essenza. Il giardino enciclopedico si presenta quindi ai nostri occhi come una descrizione del mondo, non più solo visione pittorica, ma finalmente realtà tridimensionale a cielo aperto. 36

Les fabriques, architetture sperimentali realizzate in differenti grandezze e dimensioni, verranno suddivise in quattro principali tipologie: classica, riconducibile all’antichità, ai templi dedicati all’amore per la natura, ai templi della filosofia, con torri gotiche e colonnati; esotica, ispirata alle pagode cinesi, alle piramidi e, in genere, alle civiltà lontane; naturalistica, influenzata dalle origini e dal mondo fantastico, dolmen, caverne, rocce emergenti; campestre, caratterizzata da strutture prevalentemente lignee ed effimere. A queste si aggiungeranno strutture più complesse come luoghi di ritrovo, osservatori, padiglioni, belvedere. Le loro forme ci rimandano alle maggiori civiltà del passato in un dialogo ideale finalizzato a rappresentare l’universalità che lega uomo e natura in un inscindibile processo di ricerca e del cui eterno messaggio i giardini sono testimonianza. Les fabriques non vanno solo considerate come elementi singoli, ma valutate come un unico insieme di un processo compositivo iniziatico costituito, come nel Tempio, da una successione di spostamenti specifici e di pro-

ve da superare simboleggianti l’evoluzione spirituale dell’iniziando che si avvicina progressivamente ad una comprensione globale del mondo e delle sue culture. Il percorso della trasformazione rimanda così il profano da un edificio all’altro attraverso una serie di precisi percorsi rituali costruiti su schemi geometrici e informali, simboli della visione morale e spiri-

tuale che deve accompagnarlo nella comprensione di questo immenso accampamento, unicum sinergico delle culture del mondo. Qui gli sforzi dell’uomo si uniscono nel tentativo di realizzare un linguaggio comune riconfermando la presenza simbolica degli alti gradi massonici a garanzia di un corretto lavoro benché svolto in uno spazio diverso da quello del tempio tradizionale in cui gli elementi naturali, acqua, terra, fuoco e aria, diventano presenze reali e finalmente la terza e quarta dimensione convivono in una giusto equilibrio. L’acqua In questo sistema universale rappresentato dal giardino, qualunque sia la sua forma, è l’acqua, strumento di vita ed evoluzione del sistema vegetale, ad assumere il ruolo di elemento strutturante degli spazi ed è attorno ad essa che si organizza lo schema del giardino, supporto alla ricerca di chi ne percorre gli spazi. È un viaggio che non può essere compiuto senza la presenza di questo elemento. Come per les fabriques – l’acqua – per le sue peculiari caratteristiche, ha la capacità di assumere molteplici forme e di diversificarsi in funzione del messaggio da suggerire al profano. Diventerà inoltre elemento d’isolamento e di riflessione come per l’imperatore Adriano che nella sua villa di Tivoli amava isolarsi nel tempio circondato dall’acqua posto vicino alla biblioteca. L’acqua assumerà anche valore di traversata da una riva all’altra, simbolo di ricerca del cambiamento e dell’abbandono della condizione precedente al viaggio in un percorso in salita verso la sorgente, passando attraverso le sue differenti, fluide configurazioni in un susseguirsi di nuovi segnali o nuove sfide per l’iniziando. L’acqua sarà ancora strumento di trasformazione spaziale e sonora come in villa d’Este a Tivoli, nel labirinto di Versailles o nelle innumerevoli fontane che segnano i punti strategici dei principali giardini iniziatici, e collegamento territoriale, direttrice tra nord e sud, tra cielo e terra. Uno degli esempi più importanti è Palazzo Farnese a Caprarola la cui pianta pentagonale, di grande valenza simbolica, delimita una successione di stanze dalla profonda matrice ermetica. Il parco circostante rappresenta il simbolo dell’unione tra mondo vegetale e acqua. Sette passag-


gi, sette cambiamenti di quota dai temi allegorici, formano un asse in un continuum di architetture sonore che ne intensificano i messaggi. Verticalità, linearità, sonorità, calma e riflessione si susseguono in una ascesa che non lascia indifferenti. Dall’alto verso il basso l’acqua lustrale dei bacini, simbolo di rigenerazione, intensifica progressivamente il suo messaggio di trasformazione fino al settimo passaggio. La discesa lineare o la risalita verso la fonte diventano il fondamento costruttivo di molti altri giardini massonici come il parco di Pratolino vicino a Firenze, primo di una serie di esempi in cui l’acqua forma spazialmente un completo disegno alchemico e cabalistico. Il parco, voluto dal Granduca Francesco I de’ Medici, viene organizzato lungo l’asse centrale che lo divide in due parti: un asse rappresenta l’albero sephirotico che dall’alto verso il basso conduce l’acqua da Keter a Malkut, mentre la grande villa, andata distrutta, ne simboleggiava il centro. Tipharet, simbolo di sintesi, integrazione e confluenza, in un viaggio complesso attraverso labirinti, riflessioni astrologiche, grotte e pergolati porta l’acqua dall’immensa statua del Giambologna, autore anche della villa, fino alla statua che segna il termine del percorso, simbolo del pilastro dell’equilibrio. “L’acqua che qui vi giungeva direttamente dal laghetto artificiale sulle cui acque si rispecchiava la gigantesca statua del gigante Appennino, creava armonie di suoni, muoveva automi e mirabili inganni, volti a stupire e meravigliare, secondo la magia degli elementi. L’acqua, l’aria e la terra e il fuoco, si incontravano in un eterno connubio per suscitare armonie cosmiche e risvegliare celesti visioni” (Francesco de Vieri, 1587). È questo l’asse che costruisce il tutto, l’acqua che, come scrive il Boucher, “[…] diventa il mezzo per il centro ideale”, che unisce i vari elementi di un sistema simbolico per accedere alla “Camera di mezzo” e giungere al centro della ruota, all’asse immobile, per astrarsi dal mondo profano e dalla sua agitazione. Questa caratteristica può riuscire a unificare in un tema compositivo unico e indivisibile molteplici paesaggi e architetture come avviene nella Reggia di Caserta. La struttura dominante dell’acqua, pensata dal Vanvitel-

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li, fa sì che la Reggia, la piazza d’immagine berniniana, i giardini e tutto il panorama circostante assumano valore di unità benché anche il giardino all’inglese, nato dalla volontà della regina Maria Carolina, adepta della Massoneria napoletana, esprima un percorso iniziatico che dalle fabriques si conclude nell’incantevole spazio acqueo dedicato a Venere, concepito assieme al botanico inglese John Andrew Graefer. L’acqua diventa così di volta in volta emergenza, fiume della vita, linguaggio universale fatto di cascate, fontane, rampe, gruppi scultorei, bacini, orizzontalità, verticalità, una vera e propria enciclopedia del giardino europeo tradizionale per eccellenza costruito intorno a questo segno lineare. Il centro visivo obbliga l’occhio a risalire la corrente, a perdersi nella natura dove tutto ha origine e a ricercare la grotta finale da cui l’acqua, strumento di un linguaggio iniziatico, sgorga e riprende il cammino. Il complesso territoriale esprime lo stretto rapporto che esiste tra “[…] la montagna e la caverna in quanto sono

entrambe prese come simboli dei centri spirituali, come lo sono del resto per evidenti ragioni tutti i simboli assiali o polari” (R. Guenon). Tra interno ed esterno il viaggio si arricchisce, diventa luce e conclude la sua funzione di ispiratore di un diverso modo di “vedere”. Il territorio, l’architettura dei giardini, la Reggia, gli uomini stessi assumono un valore più intimo e personale. “Bisognerà una volta, e probabilmente in un prossimo futuro, renderci conto di quel che manca soprattutto alle nostre grandi città: luoghi tranquilli e ampi, ampiamente estesi, per la meditazione, luoghi con lunghi loggiati estremamente spaziosi per il tempo cattivo o troppo assolato, nei quali non penetra il frastuono dei veicoli e degli imbonitori, e in cui un più squisito rispetto delle convenienze vieterebbe anche al prete di pregare ad alta voce: fabbricati e pubblici giardini che esprimerebbero nel loro insieme la sublimità del meditare e del solitario andare” (Nietzsche). P.34: Les ‘Fabriques’; p35/36: Vd. didascalia foto; p.37: La Reggia di Caserta.

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parte II Massoneria

Annalisa Santini

Incroci pericolosi L’intreccio fra una famiglia Carbonara e una famiglia Massonica 38

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er una più approfondita comprensione del diploma di Maestro Carbonaro non sarà forse inopportuno citare alcuni termini del Vocabolario carbonico1. ... Assistente (primo e secondo): dignità corrispondente ai sorveglianti delle logge. Baracca: il locale dove si adunavano i soci del primo grado. Corrisponde al Tempio massonico e lì si carbonizzava al Fornello, che corrisponde al lavorare nella loggia massonica. Battute: le Batterie prese dalla Massoneria. Camera d’onore: l’unione del secondo grado. Carbone: l’azione che alimentava il fuoco della libertà. Cugini: corrisponde ai Fratelli massoni. Gran Maestro dell’Universo: il nome che i Carbonari danno alla Divinità. Una Luna: un mese. Lupi: i persecutori della società. Montagna: l’unione al terzo grado. Ordoni: le file degli affiliati (nome forse degenerato da ordini). Pagani: i profani, i non Carbonari. Patriarca: il capo, o Gran Maestro della Società. Un Pezzo di Fornello: una composizione qualunque, una Tavola. Reggente: corrisponde al titolo di Maestro Venerabile fra i Massoni. San Teobaldo: il protettore della Società nei suoi due primi gradi. Un Sole: un giorno. Tronco: un tavolino. Vantaggi o Avvantaggi: gli applausi. Vendite: erano le sezioni locali composte di venti affiliati (equivalgono alle logge). ... Va notato che i tre puntini sono disposti diversamente dai documenti massonici, cioè in maniera lineare e non triangolare: tre per l’Apprendista (...), cinque per il Maestro (.....), un maggior numero per gli altri gradi. Il diploma [qui a lato] di Maestro Carbonaro di cui trattiamo è datato 23 luglio 1820 e recita: ... Alla Gloria del Grande Maestro dell’Universo/In nome e sotto gli Auspicj dell’Alta Vendita di Napoli e del nostro Protettore S. Teobaldo/La Rispettabile Vendita sotto il titolo distintivo La Costanza all’Or-


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done di Morano/A tutte le Vendite e Buoni Cugini regolari sparsi sulla Terra/ Saluti Saluti Saluti/Noi Gran Maestro ed Ufficiali della Rispettabile Vendita sotto il titolo distintivo La Costanza regolarmente costituita all’Ordone di Morano il dì 3/ Novembre 1812 certifichiamo che il Buon Cugino Felice Antonio Barletta, di Vincenzo, nativo di Morano, Provincia di/ Calabria Citra, di anni 30, di condizione Regio Agrimensore, è Fondatore e Membro di questa Rispettabile Vendita al/grado di Maestro. Preghiamo tutte le Vendite e Buoni Cugini regolari sparsi sulla Terra di riconoscerlo per tale e nella detta qualità di accordargli la/considerazione che gli è dovuta e somministrargli tutti i soccorsi di cui può avere egli di bisogno promettendo noi di fare altrettanto per quelli che/interverranno col nome di Buon Cugino Carbonaro. In fede di che gli abbiamo rilasciato il presente Diploma da noi sottoscritto, e munito del Bollo e Suggello di questa Rispettabile Vendita dopo di

aver egli apposto la sua firma qui al margine in nostra presenza/Ordone di Morano lì 23 del mese di Luglio 1820/il Gran Maestro Francesco Saverio Carlucci/il I Assistente Andrea Donadio/il II Assistente Fedele Donadio/il Tesoriere Ercole Donadio/l’Oratore Domenico Salmena/il Guarda Bolli e Suggelli Giuseppe Stabile/ Per mandato della Rispettabile Vendita il Buon Cugino Segretario Filippo Berardi. [Lateralmente la scritta] Filiazione/ Statura giusta/ Capelli neri/ Fronte giusta/ Occhi castagni/Naso grosso/ Bocca piccola/Mento tondo/Carnagione naturale/Barbuto/Marche Apparenti cieco all’occhio dritto. ... Il diploma, litografato e acquarellato, reca intorno alla cornice una ricca simbologia carbonica; leggendo da sinistra a destra sono raffigurati numerosi elementi. Una corona di spine, che “se portata sul capo rende immobili gli uomini e li rende cauti nell’evitare le punture delle sue

spine; tenuta innanzi al pensiero, rappresenta per il Carbonaro la fermezza nello sfuggire le punture del vizio e della menzogna”2 in primo grado. Secondo Domenico Spadoni invece “la Corona di spine dimostra che i Buoni Cugini Carbonari non devono formare pensieri contrari alla Religione, alla Virtù e allo Stato”3, nella spiegazione del quadro di primo grado, ma può anche servire a trafiggere il capo al tiranno nella spiegazione del quadro di secondo grado4. Fede, Speranza, Carità, che sono le parole di passo di primo grado, ma anche il significato dei colori dell’échantillon (nei vari documenti troveremo scritta questa parola in varie e fantasiose ortografie). La Croce drappeggiata e con i simboli della Passione di Cristo, che annuncia i travagli, le persecuzioni, la morte e deve servire per crocifiggere il Tiranno che ci perseguita e disturba le nostre sacre operazioni5. La scala che vi è appoggiata significa che “per giungere alla Virtù collocata 39


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in alto, dobbiamo pervenirci grado a grado”6. Minerva porge a Marte una corona, a simboleggiare che la cieca violenza deve essere guidata dall’intelligenza e dalla sapienza. Una figura femminile velata e ammantata di azzurro è il simbolo della prudenza e della discrezione che ogni Buon Cugino Carbonaro deve avere. “Il Sole che è l’astro benefico che illumina e vivifica tutto il creato; che diradando il fosco tenebroso velo nella notte risplende nelle Foreste ed invita con trasporto di gioia i Buoni Cugini Carbonari al Sacro Travaglio della Carbonizzazione”7. L’Esciantillon o Scantillion o Sciantillione, che è il segno distintivo dei Carbonari, “era portato sospeso alla parte sinistra dell’abito, sulla parte del cuore. Per il primo grado consisteva in un pezzetto di legno lavorato a cilindro, o di olmo o di ulivo o di sanginello, nell’estremità tagliato a becco di flauto, fregiato di tre nastri cioè di colore nero, celeste-bleu e rosso, cui venivano attaccate poche fila di sottile lino bianco”8. Questi colori indicavano “il Bleu il fumo del Fornello, il rosso la fiamma, il nero il carbone, ed anche, misticamente, il nero la Fede in noi cieca e costante, il bleu

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la Speranza di vederci nel cielo dei virtuosi ed il Rosso la carità che deve essere accesa nel nostro cuore”9.

In secondo grado “l’esciantillon era identico [vd. sopra], ma era, come il presente costrutto in metallo bianco, e aveva i tre chiodi della passione di Cristo: in parecchi bolli apparisce tale distintivo, e, tra l’altro, simboleggiava la pertica degli antichi avi carbonari, della quale facean uso per segnare le loro Baracche, e per dimenare nei materiali Travagli il fuoco del fornello”10. La vanga che “s’introdurrà nel suo [del tiranno] seno, e spargerà quell’impuro san-

gue che scorre nelle sue vene”11, l’accetta, che “gli [al tiranno] taglierà il capo dal tronco egualmente che al Lupo disturbatore delle nostre pacifiche opere”12 e la pala, che spargerà al vento le ceneri del Tiranno. I tre attrezzi legati assieme da un nastro sono gli strumenti che servono ai Carbonari a raccogliere nella foresta il materiale per la carbonizzazione, cioè a compiere l’educazione degli uomini alle virtù del cittadino. Una fontana che servirà a purificare coll’acqua il sangue impuro versato13. Ma il catechismo di primo grado riporta: “l’Acqua sublimata dal Grande Maestro dell’Universo, [che] lavandoci, ci rende suoi amici”14. Due piante, felce e ortica, che sono le parole di passo del secondo grado. Un cesto di carbone, il simbolo del fuoco che permette di cuocere le pietre, trasformandole in leganti, e di estrarre i metalli. Il carbone rappresenta, perciò, il fervore, l’entusiasmo, l’amore nei confronti della Massoneria e di tutti i Fratelli che la compongono. Ma è anche “l’ardore che ogni Supremo maestro sublime deve provare per la causa dell’umanità”15. Una lampada per illuminare il percorso


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nelle tenebre dell’ignoranza. Un gomitolo di filo che “rammenta la mistica catena che annoda e spinge tutti li Buoni Cugini Carbonari col mezzo della virtù”16 in primo grado e che si trasforma nel secondo “nell’esprimere la fune che condurrà il Tiranno al patibolo”17. Il gallo sull’omphalos è per ricordare che i Buoni Cugini maestri si pongono in opera al canto del gallo18 e chiudono i lavori quando questo non canta più19. Esso è un animale solare, giacché annuncia la fine della notte, il sorgere del giorno e la vittoria della luce sulle tenebre. Per i cristiani rappresenta il Redentore che vigila sulla comunità dei credenti, così come il gallo vigila sul pollaio; indica vigilanza e il fine del processo iniziatico che comporta il risveglio della coscienza. Il fornello col fumo, che “abbrucerà il corpo del Tiranno”20. Il fuoco è in simbologia un elemento irrinunciabile poiché senza di esso non vi può essere crescita; la sua scoperta è posta infatti all’origine del progresso e della civiltà. S. Teobaldo, protettore dei carbonai e dei conciatori, nonché della Carboneria perché, pur figlio del conte dello Champagne, non esitò ad abbandonare per l’ere-

mitaggio una vita di agi e scelse di lavorare nei villaggi con i contadini e i carbonai, pregando giorno e notte. La baracca, che “servirà per apprestare più tormento al tiranno”21. Gli alberi, le foglie dei quali sono i chiodi che trafiggeranno le mani e i piedi del tiranno. Una fascina di legna legata col nastro che rappresenta gli stessi Carbonari, stretti in unione di pace. La mano tagliata del traditore, appesa all’accetta. ... All’interno del diploma lo splendido suggello riassume in sé tutto il quadro carbonaro: la croce con gli strumenti della passione e gli attrezzi del lavoro. Viene da pensare che l’esoterismo sia presente nella simbologia carbonica più di quanto non si sia pensato fino ad oggi; il nome del lavoro di carbonaro ha un significato metaforico che non comprende solo l’opera politica. Il Carbonaro infatti porta alla luce una pietra nera ctonia che attraverso il fuoco può liberare energia e che diventa il simbolo della gran madre solare, richiamando la pietra nera di Cibele e l’ermetico Vitriol. Inoltre la Carboneria permetteva l’ingresso anche alle don-

ne, chiamate “giardiniere”; secondo Ghivarello e Mocco “I Carbonari richiamandosi al significato occulto di una dualità sinergica, racchiusa nel mito dei figli di leggendarie proto-coppie di fratelli e sorelle – tipicamente quelli di Iside-Osiride e Nefti-Set – si definirono “buoni cugini”; le sezioni dell’ordine furono chiamate “vendite”, per ricordare ciò che i carbonari erano tenuti a dare in cambio della luce ricevuta, “luce” che avrebbe continuato a brillare illuminando perpetuamente il loro essere collettivo”22. ... Come abbiamo visto questo diploma è stato concepito per un passaggio al grado di Maestro; al fine di meglio comprenderne il significato, faremo qui un breve excursus sui gradi carbonari. Nel primo grado, Apprendista, il pagano, smarritosi nel buio della foresta, viene accolto nella Baracca, dove è interrogato sulle ragioni della sua richiesta. In seguito è portato a fare i tre viaggi simbolici, è sottoposto a prove tendenti a intimorirlo e infine condotto a prestare il giuramento, con il quale egli s’impegna a mantenere il segreto, a soccorrere e aiutare i cugini in difficoltà e a essere sempre a dispo-

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ranza, carità, di impronta cristiana) vengono sostituite con quelle del secondo, di impronta invece naturalistica: felce e ortica (piante che, mescolate alla terra, separano gli strati di legna per favorire la carbonizzazione). Il terzo grado, quello di Gran Maestro, inizialmente nato come grado amministrativo, diventerà il grado operativo del progetto finale dell’Ordine, nel quale si proclamava l’aspirazione a creare, mediante la restituzione all’uomo della purezza primordiale, un regime di eguaglianza sociale nella forma politica della Repubblica. ... Concludiamo con l’esposizione delle principali regole della Carboneria:

sizione dell’Ordine. Attraverso questo rituale iniziatico, trasparentemente simile a quello massonico, viene a far parte della famiglia carbonara, i cui affiliati si chiamano, appunto, cugini. Nel primo grado, apprendente carbonaro, le cerimonie rivelano un egemonico simbolismo cattolico, sia tramite parole sacre d’impronta cristiana (Fede, Speranza, Carità), sia attraverso il culto di San Teobaldo, patrono dei carbonari. Nella Carboneria il processo di perfezionamento dell’uomo che consegue alla morte rituale utilizza il sim42

bolismo della carbonizzazione, ovverosia della combustione e trasformazione del legno attraverso il fuoco della fornace, al fine di purificarlo. Scopo della Carboneria era purgare la Foresta da’ Lupi (vale a dire liberare la terra da’ tiranni che la infestavano) mediante la carbonizzazione, cioè l’educazione dell’uomo alle virtù del cittadino, di cui era stato il più grande esempio lo stesso Cristo, Uomo e Dio. Il rituale del secondo grado, quello di Maestro, è imperniato sul sacrificio di Cristo. Le parole di passo di primo grado (fede, spe-

Art. 1 – Tutti i Carbonari si chiamano Buoni Cugini di qualunque paese essi siano, e dovunque trovansi sono sempre membri dell’Ordine cui appartengono, e fanno parte integrale della Società, poiché la Carboneria forma una sola famiglia, essendo unico l’oggetto a cui tende. Art. 2 – La Carboneria è un Ordine, che ha per oggetto la perfezione della società civile. Art. 3 – In qualunque Paese dove esistono dieci Buoni Cugini alla meno, potrà installarsi una Vendita regolare. Art. 4 – La Vendita non è altro, che la riunione dei buoni Cugini Carbonari, formanti un sol corpo. Art. 5 – La Vendita adotta un titolo distintivo, ed il suo paese assume il titolo di Ordone. Tutte travagliano sotto gli auspici del glorioso S.Teobaldo, la cui festa si celebra il primo di luglio. Art. 6 – I Cugini hanno il titolo esclusivo della nomina a maggioranza ‘de voti, dei loro dignitari ed ufficiali.. Art. 7 – Le Vendite sono, o Figlie, o Madri, o Alte Vendite.


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Art. 8 – Le Vendite Figlie hanno corrispondenza (immediata) con le Vendite madri, come queste con le altre Vendite. Art. 9 – Ogni Vendita di qualunque grado avrà indispensabilmente sette Dignitari, cioè Gran Maestro, Primo Assistente, Secondo Assistente, Oratore, Segretario, Tesoriere ed Archivista. Possano avere degli altri Ufficiali, che saranno in appresso nominati. I primi tre Dignitarj si chiamano Luci23. ... Il diploma di Maestro massone [vd. sopra] recita: Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo/In nome e sotto gli Auspicj del Serenissimo Grande Oriente di Napoli/A tutti i Liberi Muratori sparsi sulla superficie della Terra/Unione Forza Salute/Noi Venerabile e Dignitarj di questa Rispettabile Loggia di San Giovanni di Scozia sotto il titolo distintivo I Pittagorici [sic] Riuniti all’Oriente di Morano, delineati al n° XVI nel Grande Oriente Scozzese in Napoli, convocati per i Numeri conosciuti

dai soli veri Liberi Muratori/Attestiamo, e certifichiamo, che il Caro Fratello Barletta Domenico, nativo di Morano, di anni 30, di condizione Dottore di Legge è membro/di questa Rispettabile Loggia al grado di Maestro, ed è a Noi caro e stimabile per la regolarità di travagli e per la sua buona condotta, e morale,/preghiamo quindi tutti i Maestri degli Orienti tanto Nazionali, che Esteri riconoscerlo per tale, e nella detta qualità accordarli tutta/la considerazione che gli è dovuta e somministrarli tutti i soccorsi de’ quali potrebbe aver bisogno, come avremo Noi la soddisfazione/di praticare per essi/In fede di che l’abbiamo rilasciato il presente certificato sottoscritto di nostra mano e munito del nostro bollo e suggello per aver/pieno, ed intero affetto./Fatto e spedito al nostro Oriente di Morano il dì XI° dell’XI° mese/ Aumento di luce/dell’anno di Vera Luce 5820. Era Volgare 11 Gennaro 1821/Il Venerabile Titolare/Fratello Salmena Domenico/Il II Sopravigilante Fratello Barletta Raffaele Maestro al 17°/Il Fratello I Sopravigilante Berardi Filippo Maestro al 17°/

Il Fratello Tesoriere Domenico Berardi/Il Fratello Oratore Viola Vincenzo Sovrano Principe Rosa+Croce/Per mandato della Rispettabile Loggia Il Fratello Segretario Fratello Salmena Francesco Saverio,/Il Fratello Architetto Guarda Bolli e Suggelli Scorza Bernardino/onde non si vari Barletta Domenico Fratello Maestro. ... Il piè di lista della loggia massonica “I Pittagorici Riuniti” all’Oriente di Morano ha alcune occorrenze in comune con la Vendita “La Costanza” dello stesso Oriente, anzi Ordone, per usare il linguaggio carbonico o carbonaro che dir si voglia. In particolare entrambi i nuovi maestri hanno lo stesso cognome, anche se, purtroppo, nel diploma massonico manca la paternità che avrebbe dato qualche risposta in più. Comunque i due documenti prodotti alla distanza di solo sei mesi autorizzano a pensare che i due possano essere stati anche fratelli o nati a distanza di un anno l’uno dall’altro, cosa frequente all’epoca, o gemelli. Ovviamente possono essere stati anche solo cugini, ma comun43


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que non parenti alla lontana perché i documenti sono stati acquistati nello stesso lotto in un’asta antiquaria a Firenze, assieme a un rituale massonico di primo grado e a uno di Maestra d’Adozione. Tutti sono scritti con la stessa calligrafia e portano il timbro dell’Oriente di Morano. È allora evidente che Antonio e Domenico Barletta, indubbiamente della stessa famiglia e, in seguito, i loro discendenti hanno conservato segretamente e gelosamente i loro diplomi di Maestro, anche se la loro scoperta li avrebbe esposti prima alle persecuzioni borboniche e dopo un secolo a quelle fasciste. La casa d’aste non ha svelato l’identità del venditore, ma a distanza di poco meno di due secoli innumerevoli vicissitudini possono essere occorse ai discendenti di Antonio e Domenico. Inoltre l’oratore della Vendita carbonara, Domenico Salmena, era contemporaneamente il Maestro Venerabile, o Titolare, della loggia massonica, mentre Filippo Berardi era insieme Segretario della Vendita e Primo Sorvegliante, anzi Sopravigilante della loggia. Fra gli ufficiali di loggia 44

vi erano anche un altro Barletta, Raffaele, e un altro Salmena, Francesco Saverio. Il barone Antonio Salmena, oramai trasferitosi a Milano, nel 1882 diede alle stampe il volume Morano Calabro e le sue case illustri, attraverso il quale ho potuto identificare qualcuno di questi antichi Fratelli: una figura di spicco è Domenico Salmena, figlio del dottore in legge Giuseppe, di Morano, nato il 6 dicembre 1788, magistrato, giureconsulto, poeta lirico. Questi scrisse alcune poesie che furono èdite a Napoli nel 1829 pei tipi della Società Filarmonica; morì nel suo paese nell’agosto dell’anno 183724. Fra i Dottori in diritto elencati nel volume incontriamo il nostro massone, Domenico Barletta, assieme al Principe Rosacroce Bernardino Scorza. A conferma della sua professione Vincenzo Barletta appare nell’elenco degli Architetti e Agrimensori25. Nell’elenco dei magistrati troviamo di nuovo il nostro poeta, Domenico Salmena, che assieme a Giuseppe Salmena e a Stanislao Serranù, aggiunge una scarna nota del libro,

“cadde(ro) presto per le politiche emergenze del 1821”26. Fra i Consiglieri provinciali di nomina regia dopo il 1860 è elencato nuovamente il notaro Bernardino Scorza, figlio del notaro Carlo. Bernardino fu commendatore sotto i Borbone e poi Cavaliere della Corona d’Italia e in seguito il figlio, Scorza Giuseppe fu Bernardino, secondo il linguaggio burocratico dell’epoca, ebbe dal Municipio il mandato di render omaggio a Vittorio Emanuele. Famiglia illustre anche quella degli Scorza perché Francesco Scorza, nato il 9 agosto 1806, fu lodato giureconsulto e “versatissimo nelle lingue latine e greche”27, nonché ministro di Stato. Anche il carbonaro Ercole Donadio fu decorato, così come il notaro Giuseppe Stabile, Guarda Bolli della Vendita, anche lui proveniente da una famiglia di notari, così come notaro era anche il segretario della loggia, “Salmena Francesco Saverio, zio dello scrivente”28. Domenico Barletta, il neo maestro, dottore in diritto era stato onorato da Murat con una decorazione con la leggenda “onore e fedeltà”29. Raffaele Barletta risulta proprietario dell’acqua della Grotta, un’importante sorgente del paese, mentre le acque di S. Margherita sono di proprietà della famiglia Salmena30. Nella Congregazione del Sacro Monte di Pietà, eretta nella Chiesa di S. Pietro di Morano, ritroviamo il nostro carbonaro Felice Antonio Barletta, primo assistente della Congregazione, assieme a Francesco Saverio Carlucci, il gran maestro della Vendita31. Questa ricerca smentisce parzialmente coloro che ritengono appartenenti ai ceti più bassi i Carbonari, in contrapposizione a una Massoneria che sceglieva i suoi membri fra l’élite. Noi abbiamo però qui solo i nomi degli ufficiali della loggia e della vendita; il fatto che una delle persone più importanti del paese (Domenico Salmena), sia per censo che per cultura, rivestisse il ruolo di Oratore da una parte e di Maestro Venerabile dall’altra è estremamente indicativo per ritenere che la nuova setta fosse guardata con attenzione e benevolenza anche dalla classe dirigente, ma si potrebbe invece dedurre che il Maestro Venerabile massone fungesse da Oratore carbonaro per meglio guidare la locale vendita. ... La Carboneria fu “una sorta di embrionale partito politico della borghesia co-


Massoneria stituzionale meridionale, e soprattutto di quella delle provincie (composta prevalentemente dai “galantuomini”, il ceto dei proprietari terrieri), che a partire dal 1812 (l’anno della Costituzione spagnola), aspirava in sostanza alla trasformazione della monarchia (murattiana prima e borbonica poi) da assoluta in parlamentare, così da potersi assicurare un ruolo più efficace di controllo e d’indirizzo all’interno dei meccanismi di potere, nel segno dell’eguaglianza politica da instaurare al posto dell’ “oppressione” e del “dispotismo”32. L’analisi della composizione sociale degli affiliati della nostra Vendita, fondata fra l’altro proprio nel 1812, anno della Carta Costituzionale di Cadice emanata dalle Cortes, il parlamento spagnolo, in opposizione all’occupazione napoleonica della Spagna, mostra fra che i dirigenti erano presenti in larghissima parte quegli esponenti della borghesia medio-alta e della piccola nobiltà che si riconoscevano in ideali liberali moderati e in istanze costituzionali finalizzate all’introduzione di governi parlamentari. Già Oreste Dito asseriva che fra Massoneria e Carboneria non “c’era diversità di intenti, pur essendovi ne’ mezzi. È falso che esse rappresentassero due forze rivali […]. Del resto, se un’apparente rivalità sembrò esistere tra le due sette, a’ tempi murattiani, non pochi tra’ più eminenti personaggi del tempo rivestivano la doppia qualità di massone e di carbonaro. Ogni fratello massone veniva ammesso nella Società Carbonarica col solo voto, senza essere sottoposto a tutte le prove richieste pei candidati ordinari; né era possibile essere iniziato agli alti gradi carbonarici senza aver prima ottenuti alcuni indispensabili in Massoneria […]. Il concetto massonico della costruzione de’ templi alla Virtù e delle prigioni al Vizio è generatore del

concetto carbonarico della carbonizzazione, perché carbonizzare significa educare l’uomo secondo il principio della Virtù. […] La Massoneria è fine; la Carboneria fu uno de’ metodi per raggiungerlo”33. ______________ Note: 1 Secreta, Firenze, 1981, p. 496. 2 O. Dito, Massoneria, Carboneria ed altre Società segrete nella storia del Risorgimento italiano, introduzione A.A. Mola, rist. an. Forni, Bologna 2008, p. 398 (I edizione, 1905).

13 D. Spadoni, Sette … cit., p. 85. 14 Ibidem, p. 69. 15 M. Novarino, Fratellanza … cit., p. 34. 16 D. Spadoni, Sette … cit., p. 69. 17 Ibidem, p. 84. 18 Ibidem, p. 79. 19 Ibidem, p. 83. 20 Ibidem, p. 85. 21 Ibidem. 22 S. Ghivarello, F. Mocco, La Carboneria e il Tempio Interiore, www.fuocosacro.com 23 D. Spadoni, Sette … cit., pp. 18-19. 24 A. Salmena, Morano Calabro e le sue case illustri, Milano, 1882, I, p. 108.

3 D. Spadoni, Sette, Cospirazioni e Cospiratori nello Stato Pontificio all’indomani della Restaurazione, Torino-Roma, 1904, p. 68.

26 Ibidem, p. 114.

4 Ibidem, p. 85.

27 Ibidem.

25 Ibidem, p. 118.

5 Ibidem.

28 Ibidem, pp. 111-120.

6 Ibidem, p. 69.

29 Ibidem, p. 113.

7 O. Dito, Massoneria ... cit., p. 398.

30 Ibidem, p. 100.

8 Id., Massoneria, Carboneria e Giovine Italia, in “Il Secolo XX”, anno II, n. 11, novembre 1903, p. 961.

31 A. Salmena, Morano Calabro e le sue case illustri, Milano, 1882, III, p. 233.

9 D. Spadoni, Sette … cit., p. 69. 10 O. Dito, Massoneria, Carboneria e Giovine Italia … cit., p. 961. 11 D. Spadoni, Sette … cit., p. 85. 12 Ibidem.

32 F. Della Peruta, Il mondo latomistico … cit., p. 12. 33 O. Dito, Massoneria , cit., pp. 68-70. P.38/44/45: Ritratti di J.A.D.Ingres; per tutte le altre riproduzioni si veda il testo dell’autrice.

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Il profeta Salomone nell’esoterismo islamico Glauco Berrettoni 46


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L’

importanza della profetologia nell’Islâm è individuata nella seconda parte della professione di fede (shahada), laddove, dopo aver affermato che “Attesto che non vi è divinità al di fuori della divinità” (ashadu an lâ ilaha illa’llah), il musulmano afferma che “Muhammad è il Profeta di Dio” (ashadu anna Muhammadan rasul ’llah). Il fatto che immediatamente dopo la proclamazione dell’unicità divina venga affermata la natura profetica di Muhammad fa comprendere la centralità dell’evento profetico nell’Islâm1: ciò viene ribadito nell’esposizione dei dogmi, nei quali i Profeti sono collocati fra gli oggetti di fede2. Il problema, però, si complica alquanto, rispetto al modello biblico3, in quanto l’Islâm conosce diversi vocaboli per indicare il profeta, ciascuno con una caratteristica particolare e con un significato sempre più ascensionale: innanzitutto vi è il nabî, l’uomo che porta il messaggio di Dio ma che non è, necessariamente, un messaggio universale: anbiyâ’ sono, in tal senso, i profeti biblici ma non solo costoro perché, secondo la Tradizione, profeti di questo tipo ve ne sono stati centoventiquattromila, inviati da Dio presso ogni nazione e ogni popolo4.

Fra gli anbiyâ’ si distingue, su un piano più alto, chi rientra in un nuovo livello di profezia, in quanto non solo ha ricevuto un messaggio dal cielo, ma è anche destinato a diffonderlo presso quella parte di umanità provvidenzialmente destinata ad esso: costui è un rasūl. Ogni rasūl è un nabî, ma non ogni nabî è anche un rasūl: il rasūl per antonomasia è Mohammed il quale, però, non si limita a questo grado. Il terzo livello di profezia, infatti, è quello dell’ ūlu’l-‘azm, il profeta destinato a recare una nuova religione superiore al mondo: l’Islâm, in tal senso, limitandosi alla tradizione abramica, ritiene che vi siano stati sette profeti di questo livello e che “ognuno di essi sia stato fondatore di una nuova religione e portatore di una nuova legge divina al mondo”5. In tale cornice, Mohammed è stato contemporaneamente nabî, rasūl e ūlu’l-‘azm e ha concluso il ciclo della profezia e dopo di lui non vi potrà essere più nessuna nuova Legge (Sharî’ah): qua si ferma e concorda la Tradizione islamica, sia sunnita che shi’ita, anche se quest’ultima fa partire il ciclo della santità (impersonificato dagli Imâm, dodici o sette a seconda che siamo in presenza della Shi’ha duodecimana maggioritaria o dell’Ismaelismo minoritario). Ma se la lettura religiosa, intesa come essoterismo, si ferma qua, ben ol-

tre invece giunge l’interpretazione esoterica del Sufismo, che dà della profetologia un nuova visione. Secondo questa visione, infatti, il Profeta Mohammed è un essere umano solo esteriormente, in quanto interiormente è la completa realizzazione dell’umanità nel suo senso più universale: «Egli è l’Uomo Universale (al-insân al-kâmil), il prototipo di tutta la creazione, la norma di tutte le perfezioni, il primo di tutte le creature, lo specchio nel quale Dio contempla l’esistenza universale. Egli è interiormente identico al Logos e all’intelletto divino»6. È in questo senso che Mohammed ha preceduto tutti gli altri Profeti all’inizio del ciclo di profezia: «Egli [Muhammad] era profeta [il Logos] quando Adamo era ancora fra l’acqua e l’argilla»7. È da qui, ma in realtà dal Corano, che bisogna partire per comprendere il significato esoterico dei profeti e, nel nostro caso, quello di Salomone. Sulaymân, forma araba derivata dal siriaco Shèlîmûn8, appare in sette sure9 del Corano: due citano solo il suo nome, mentre le altre offrono spunti per la sua leggenda e per la sua interpretazione esoterica. I punti fermi su Salomone sono: – La costruzione del Tempio (Moschea in diverse tradizioni islamiche); – Il potere sulla natura e le creature invi47


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sibili, cioè il potere della magia; – La leggenda dell’upupa e della regina di Saba (Bilqîs)10. Da questi passi prendono vita i diversi racconti che, fra il ludico e l’esoterico, costellano l’interpreazione della vita e della funzione di Salomone, in attesa di essere letti dal Sufismo, cioè dal cuore esoterico dell’Islâm. Fra questi i più interessanti sono quelli che celebrano il potere di Salomone sulla natura e sulle creature invisibili11 ma, soprattutto, quello dell’incontro con la Regina di Saba (che l’Islâm chiama Bilqîs): di ritorno da un viaggio, un uccello, l’upupa, informa Salomone degli idolatri Sabei: Salomone invita la regina a sottomettersi e a raggiungerlo a Gerusalemme. Per un miracolo, il trono della regina si materializza a Gerusalemme e così, un volta giunta là, Bilqîs si dichiara sottomessa a Dio e a Salomone12. Se guardiamo alle fonti tradizionali che parlano della vita di Salomone, possiamo 48

facilmente vedere dei punti che, in altra ottica, verranno ripresi dai testi dell’esoterismo. Il primo autore di un libro sulla vita dei profeti fu Wahb ibn Munabbih (m. 730 circa), del quale, però, non è pervenuto nulla; l’opera di Munabbih diverrà un modello per gli autori successivi, primo fra tutti Ishâq ibn Bishr (m. 821), che scriverà L’inizio del mondo e le storie dei profeti, che verrà utilizzata da scrittori successivi e da Wathîma ibn Mūsâ al Fârisî (m. 851)13. Successivamente, saranno Tha’labî (m. 1035) e Kisâ’î e, soprattutto, al- Tarafî, ad approfondire le vicende dei Profeti14. Il motivo dell’interesse di Tarafî per le vite dei Profeti è spiegato dallo stesso autore nella Prefazione: «Dato che i profeti e gli inviati furono il meglio dei discendenti di Adamo, la pace sia con lui, essi ebbero in privilegio virtù eccelse e miracoli sorprendenti per vincere le disposizioni inna-

te alla fede in Dio negli intelletti. Le storie, avvenimenti, le loro parole e i loro atti sono quanto di meglio può essere raccolto e riassunto, e quanto di più sorprendente può essere studiato e raccontato, così come ha detto l’Altissimo: E certo v’è una lezione nelle loro storie, per gli uomini dal sano intelletto. Ho così deciso di raccogliere le storie di chi è menzionato nel Corano[...]»15. Le vicende di interesse di Tarafî per la vita del Profeta Salomone le possiamo apprendere dalla stessa prefazione dell’autore: «Storia di Salomone, Dio lo benedica e gli conceda salvezza, quello che accadde con la sottomissione del vento, dei demoni e degli uccelli davanti a lui, quello che accadde quando gli furono presentati i cavalli, la storia della magia, e infine quello che successe con Bilqîs bint Sharâhîl, la regina di Saba, quel che fu del corpo che fu messo sul suo trono ed altre ancora delle sue storie, Dio lo benedica e gli conceda


salvezza »16. Gli stessi temi vengono toccati dalla Cronaca di Tabari (m. 839), che ripercorre secondo il punto di vista della cultura islamica la tradizione biblica, attingendo a fonti babilonesi, egizie e persiane e che, soprattutto, accentua il fatto che Salomone ha ricevuto un potere superiore allo stesso Davide, dal quale, tecnicamente, aveva ereditato il regno: «Dopo la morte di Davide salì al trono Salomone e Dio gli concesse, oltre alla sovranità, il dono della profezia, come eredità del padre [...] Dio gli donò il potere, la saggezza, la profezia [...] Davide diede il regno a Salomone, e a Salomone Dio concesse un potere mai prima e mai dopo concesso a nessuno… In un altro passo è detto: “E soggiogammo a lui il vento, che correva al suo comando, ovunque ei lo dirigesse, leggero, e i demoni tutti, costruttori e pescatori di perle [...] E in un altro passo è detto: “Salomone [...] disse: O uomini, ci è stato insegnato il linguaggio degli uccelli -. Dio gli insegnò anche il linguaggio dei ğinn, e Salomone li costrinse a costruire il tempio di Gerusalemme e altri edifici[...] »17. Anche in ambito shi’ita abbiamo gli stessi temi riguardo al’importanza di Salomone all’interno della catena profetica: esempio importante è costituito Mirkhond (1433-1498), che nel suo Rawzat-us-Safâ (Il giardino della purezza) ripercorre gli episodi emblematici della vita del profeta18. Legittima potrebbe essere, da un punto di vista profano, la domanda sulla relazione tra la leggenda salomonica e la storia “documentata e obiettiva”: la conclusione non potrebbe che essere quella prospettata, in ambito tradizionale, da Chuang-Tzu: «Anche la verità storica non è conclusiva se non quando deriva dal Principio»19. Se gli storici “profani” lavorano soltanto sui documenti ignorando ogni qualsiasi collegamento con il Principio, in realtà «essi non sono mai stati così lontani dal percepire le cose come veramente stanno, e ciò per più di una ragione: prima di tutto il loro stesso porsi da un punto di vista moderno e “profano” fa sorgere davanti a loro vere e proprie barriere temporali invalicabili [...] Quel che invece caratterizza la storia intesa in senso tradizionale, è che essa non si ferma alla semplice enunciazione di certi fatti, o alla loro superficiale

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descrizione, ma riconosce [...] che alla loro radice c’è qualcosa di più profondo, di cui i fatti sono per così dire la traduzione sensibile, e questo costituisce ciò che essi contengono di veramente valido»20. Ciò, in ordine al significato simbolico degli avvenimenti che costellano la storia e che acquistano un valore diverso nell’ottica della Tradizione21. È da qui che bisogna partire per addentrarci nella visione che l’esoterismo islamico (tasawwuf) ha del Profeta Salomone. All’interno del Sufismo, vero e proprio centro vitale dell’Islâm, cuore di questa forma tradizionale22, abbiamo un’opera di colui che è celebrato come “il vivificatore della religione” (muhyi-d-dîn) e “il sommo maestro” (ash-sheikh al-akbar), l’andaluso Abu Bakr Muhammad ibn al‘Arabî23, che si pone il problema dell’interpretazione esoterica della profetologia 50

islamica: i Fuçûç al-Hikam, che viene tradotto generalmente con La Sapienza dei Profeti ma che letteralmente sarebbe I castoni delle sapienze: “I «castoni» che contengono le pietre preziose della sapienza (al-hikmat) eterna sono le le «forme» spirituali dei differenti profeti, le loro rispettive nature, insieme umane e spirituali, che incanalano l’uno o l’altro aspetto della conoscenza divina. Il carattere incorruttibile della pietra preziosa corrisponde alla natura incorruttibile della sapienza”24. Tra i vari Profeti, Salomone riveste una posizione estremamente importante: «Se ti esponessimo lo stato spirituale di Salomone in tutta la sua pienezza, ne saresti atterrito. La maggior parte dei sapienti di questa via spirituale ignora quale fosse veramente lo stato di Salomone e il suo rango; la realtà è diversa da come essi suppongono»25.

Il punto di partenza è la vicenda di Bilqîs, la Regina di Saba alla quale Salomone mandò una lettera, tramite un’upupa, per favorire la sua conversione e che disse: «[Bilqîs disse] “In verità essa viene da Salomone, ed è: Nel nome di Dio, il Clemente (ar-rahmân), il Misericordioso (arrahîm); il che significa: “In verità, questa lettera viene da Salomone, e il suo contenuto è: -Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso[...]”26. Il significato della formula, che poi è quello della Shahadah, la formula di attestazione della fede nell’Islâm, per cui arrahmân allude alla misericordia incondizionata, mentre ar-rahîm alla misericordia condizionata: «Col primo nome Dio prodiga la sua misericordia senza restrizioni [alle creature]; col secondo Egli se l’impone come dovere [verso i meritevoli]»27. Salomone è il depositario della conoscenza segreta di Dio, il conoscitore del significato interiore dei Nomi divini: «Questa conoscenza non era affatto nascosta a Salomone, al contrario, giacché essa fa parte d’un “regno che non apparterrà a nessun altro” dopo di lui, vale a dire che nessuno dopo di lui potrà manifestare nell’ordine sensibile. Muhammed ricevette tutto ciò che aveva ricevuto Salomone, eppure non lo manifestò. Così Dio gli aveva dato potestà sull’Afrit[...]»28. L’Afrit, o ‘Ifrit, è il nome di una categoria di genii malefici, il che rimanda al potere di Salomone sul mondo intermedio e su di un regno di cui nessuno avrebbe potuto disporre dopo di lui: «Ora Salomone parla d’un “regno” senza specificare, e da ciò apprendiamo che si tratta d’un regno particolare. Sappiamo tuttavia che egli condivide ogni parte di tale regno con altri [profeti e santi]»29. Nessun altro, dopo Salomone, po-


Esoterismo trà disporre di quel potere in tutta la sua ampiezza30. La superiorità di Salomone sui genii è affermata esplicitamente: «La superiorità del sapiente tra gli uomini sul sapiente tra i geni (al-jinn) consiste nella conoscenza, da parte del primo, dei segreti delle trasformazioni e delle virtù essenziali delle cose»31. Da ciò deriva la tradizione secondo cui i genii hanno lavorato per la costruzione del Tempio. Ibn ‘Arabi ci spiega anche in che cosa consiste la superiorità di Salomone rispetto a Davide: se la scienza di Davide era una scienza ricevuta, cioè una conoscenza riflessa divenuta umana, quella di Salomone era invece la conoscenza delle essenze stesse delle cose, in quanto Salomone si identificava direttamente col giudice divino, in quanto egli era l’interprete di Dio in stato di perfetta veridicità32. Del resto, nel testo di Ibn ‘Arabi leggiamo l’attestazione della dominazione cosmica da parte di Re Salomone: «Circa la dominazione cosmica, che era il privilegio di Salomone e gli era stata donata da Dio come “un regno di cui nessuno disporrà dopo di lui”, si tratta del comando (al-amr) diretto. Iddio disse infatti: “A Salomone abbiamo assoggettato il vento, affinché soffi su suo ordine[...]” 33». Lo vediamo, del resto, in Farîd ad-Dîn ‘Attâr: una posizione essenziale all’interno dell’esoterismo islamico è costituita dal simbolismo rivestito dall’upupa, messaggero di Salomone presso la Regina di Saba. L’upupa che, come abbiamo già visto, compare nel Corano a proposito della conversione della Regina di Saba34, riveste una posizione centrale nell’opera di ‘Attar: «Benvenuta, o upupa, guida e messaggera di verità in ogni valle! O tu, che fe-

licemente viaggiasti sino ai confini del regno di Saba e t’intrattenesti in cortese colloquio con Salomone. Dei segreti di lui tu fosti signora, e per questo cingesti un’aurea corona di gloria, riduci il demonio in catene, se vuoi essere l’amica diletta di Salomone! Quando in una cella avrai rinchiuso il maligno, potrai aspirare a vivere nella sua ombrosa dimora»35. E, di nuovo, il simbolismo dell’upupa ritorna in ‘Izz al-Dîn al-Muqaddasî: «Pensa all’upupa. Allorché le azioni sono giuste e il tuo cuore puro, la sua vista può penetrare fino al cuore della terra e trovare ciò che è celato agli occhi altrui. Ella vede l’acqua che scorre in quel luogo come tu potresti vederla attraverso il cristallo…»36. Siamo in presenza, dinanzi all’interazione fra Salomone e l’upupa, di quel linguaggio degli uccelli di cui René Guénon, massone e musulmano, ha scritto parole

illuminanti: «Si parla spesso, in varie tradizioni, di un linguaggio misterioso chiamato “lingua degli uccelli”: designazione evidentemente simbolica, poiché l’importanza stessa attribuita alla conoscenza di questo linguaggio, come prerogativa di un’alta iniziazione, non permette di prenderla alla lettera [...] gli uccelli sono presi di frequente come simbolo degli angeli, vale a dire precisamente degli stati superiori [...]»37. E proprio la relazione di Salomone con gli stati superiori dell’essere fa dire, per coloro che intendono ricercare nella via spirituale il potere di Salomone, che l’essenza di tale potere è, in realtà, ben celato e ben superiore a quello mostrato: «Se ti esponessimo lo stato spirituale di Salomone in tutta la sua pienezza, ne saresti atterrito. La maggior parte dei sapienti di questa via spirituale ignora quale fosse veramen51


11 Cor. 21, 81-82: «E a Salomone il vento impetuoso che per suo ordine si dirigeva verso una terra in cui avevamo messo abbondanza. Noi conosciamo ogni cosa. Fra i demoni quelli che per lui si tuffavano e facevano altri lavori. Di ogni cosa Noi siamo i Preservatori» (trad. dello shaykh Gabriele Mandel Khan, Il Corano, Novara, 2006, p. 163). 12 Cfr. Cor. 27, 15-44.

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13 Cfr. Roberto Tottoli in al-Tarafîî, Storie dei profeti, Genova, 1997, p. 11. 14 Cfr. ibid., pp. 12-13. 15 Ibid., p. 26. 16 Ibid., p. 146. 17 Tabari, I Profeti e i Re. Una storia del mondo dalla creazione a Gesù, a cura di Sergio Noja, Parma, 1993, pp. 266-268. 18 Cfr. Mirkhond, La Bibbia vista dall’Islâm, Milano, 1996, pp. 187-206. 19 Chuang-Tzu, I Padri del Taoismo, Milano, 1994, p. 230. 20 Giuditta Sassi-Laura Vanara, in Mirkhond, La Bibbia vista dall’Islâm, Milano, 1996, p. 11. 21 R. Guénon, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Milano, 1982, pp. 127-132. 22 Per un’introduzione al Sufismo cfr. T.Burckhardt, Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, Roma, 1979. 23 Ibn ‘Arabi, appartenente alla tribù araba di Hâtim at-Tâ’î, nacque nell’anno 1165 a Murcia, in Andalusia, e morì ne 1240 a Damasco. 24 Muhyi-d-din Ibn ‘Arabi, La Sapienza dei Profeti, a cura di T. Burckhardt, Edizioni Mediterranee, Roma, 1987, p. 8. 25 Ibid., p. 113. 26 Ibid., p. 101. 27 Ibid., p. 102. 28 Ibid., p. 102. 29 Ibid., p. 103. 30 Ibid., p. 103. 31 Ibid., p. 106. 32 Ibid, p. 109.

te lo stato di Salomone e il suo rango; la realtà è diversa da come essi suppongono»38.

Suoi Libri, nei Suoi messaggeri e nel Giorno ultimo, devia d’una devianza lontana» (Il Corano, traduzione e apparati critici di Gabriele Mandel, Torino, 2006, p. 25 e pp. 49-50).

33 Ibid.,p. 111.

Note:

3 Cfr. Dizionario del Corano ... cit., p.677.

36 ‘Izz al- Dîn al-Muqaddasî, I segreti dei fiori e degli uccelli”, Roma, 2012, p. 89.

________________

1 Cfr. Dizionario del Corano, a cura di Mohammad Ali Amir-Moezzi, s.v. Profeti e Profetologia, pp. 677-680, Milano 2007. 2 Cfr. Cor. 2, 285: “Il Messaggero ha creduto in ciò che gli è stato rivelato da parte del Signore. Come i credenti: tutti hanno creduto in Dio, nei Suoi angeli, nei Suoi Libri e nei Suoi profeti: «Noi non facciamo differenza alcuna fra i Suoi profeti»” e Cor. 4, 136: «Credenti, credete in Dio, nel Suo Messaggero, nel Libro che ha rivelato al Suo Messaggero e nel Libro che ha fatto scendere prima. Chi non crede in Dio, nei Suoi Angeli, nei

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4 Cfr. S. H. Nasr, Ideali e realtà dell’Islam, Milano, 1974, p. 97. 5 Ibid., p. 98. 6 Ibid., p. 100. 7 Hadîth, in ibid., pp. 100-101. 8 Cfr. Dizionario del Corano ... cit., s.v. «Salomone», p, 743. 9 Cfr. Cor. 2, 102; 4, 163; 6,84; 21, 78-79 e 81-82; 27, 15-44; 34, 12-14; 38, 30-40. 10 Cfr. Dizionario del Corano, s.v. «Salomone», ... cit., p. 744.

34 Cfr. Cor., 27, 15-44. 35 Farîd ad-Dîn ‘Attâr, Il Verbo degli Uccelli, SE, 1986, p- 35.

37 R. Guénon, La Lingua degli Uccelli, in Simboli della Scienza Sacra, Milano, 1975, p. 57. 38 Muhyi-d-din Ibn ‘Arabi, La Sapienza dei Profeti, a cura di T. Burckhardt, Roma, 1987, p. 113.

P.46: Istanbul; p.47: Il profeta Salomone predica ai sapienti; p.48/49/52/53: Miniature di area islamica; p.50/51: Cupole e decori a Istanbul (46, 50 e 51 foto P.Del Freo).


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Filosof ia

La vita del cosmo Giordano Bruno tra arte della memoria e filosofia Marco Ghione

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sistono vie di accesso privilegiate al pensiero dei grandi filosofi, strade che senza troppi giri tortuosi hanno il vantaggio di condurre al cuore dei loro laboratori intellettuali. Nell’ampia produzione speculativa di Giordano Bruno, il cui contribuito alla filosofia moderna è indiscusso almeno dall’affermazione del cosiddetto Yates paradigm1 negli anni Settanta del Novecento, uno di questi sentieri privilegiati è l’arte della memoria. La mnemotecnica, o arte della memoria, è una disciplina che affonda le proprie radici nel mondo classico2. Nell’antichità l’arte della memoria consiste in una se-

rie di principi e metodi atti a potenziare la facoltà mnemonica, di solito associati alla retorica e alla logica. Anche se la mnemotecnica è nata forse con gli insegnamenti dei filosofi pitagorici3, troviamo le fonti primarie della disciplina all’interno di trattati di retorica: Cicerone espone tecniche per potenziare la memoria o richiamare alla mente immagini e ricordi nel suo De Oratore; un’altra preziosa disamina dell’arte si legge nella lettera Ad Caium Herennium, falsamente attribuita a Cicerone stesso, mentre Quintiliano la affronta nella sua celebre Institutio Oratoria. Fondata sulla convinzione della prevalenza della memoria

visiva rispetto a quella concettuale, l’arte della memoria degli antichi si proponeva di rafforzare la facoltà immaginativa di coloro che iniziavano ad apprenderla. Lo studente doveva cominciare ad imprimersi nella memoria alcune immagini familiari, per passare in seguito a edifici e luoghi non noti, come piazze e cattedrali. Gradatamente queste costruzioni erano riempite di particolari definiti, come stanze, statue o finestre, e ad ognuno di essi lo studente associava un ricordo od un concetto preciso. In questo modo, colui che faceva lo sforzo di tenere insieme questa segreta architettura mentale, aveva a disposizione una mappa formidabi-


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le per ordinare la rete di nozioni e ricordi racchiusa nella sua mente. E tuttavia l’ars memorandi rinascimentale si discosta per buona parte dalla tecnica esposta da Cicerone e Quintiliano. Piuttosto, i suoi precedenti sono da ravvisare nel pensiero del filosofo catalano Raimondo Lullo, e nel suo tentativo di costruire un’arte combinatoria universale. Il grande disegno speculativo di Lullo, comune peraltro ad altre grandi menti che precorrono il loro tempo, come Comenio o Cusano, nasce dal desiderio di mettere in accordo le verità rivelate dalle tre grandi religioni del libro4. Si tratta di un disegno formulato nel linguaggio dell’agostinismo medievale, diffuso nell’ordine francescano al quale Lullo apparteneva, e che riporta nel mondo cristiano istanze proprie del neoplatonismo. La filosofia di Lullo, seguendo le posizioni di grandi platonici del medioevo come Scoto Eriugena e Bonaventura da Bagnoregio – il doctor Seraphicus così importante per il pensiero francescano – pone al centro della real-

tà gli attributi divini, potenze mediatrici tra le cose sensibili e la divinità creatrice. Tali attributi sono le cause prime del mondo sensibile, e imprimono negli enti il loro influsso e l’impronta della loro realtà perfetta. Questi principi divini sono secondo Lullo evidenti per sé. L’anima, che il filosofo catalano, recuperando la filosofia di Agostino, divide nelle tre facoltà di intelletto, memoria e volontà, si dimostra in grado di cogliere i principi divini che informano la realtà in numero di nove. Inoltre, grazie all’arte combinatoria, è capace di apprendere la trama di rapporti che si dipana tra le cause prime e tutte le cose manifestate. Per scoprire queste relazioni, Lullo dispone i nove attributi divini, che chiama dignitates, su delle figure geometriche, le rotae, che

possono essere cerchi, quadrati o triangoli. Ogni principio divino è contrassegnato da una lettera, la quale funziona da termine di un rapporto combinatorio che aspira ad avere lo stesso carattere di certezza proprio dei procedimenti astratti e universali. Ogni rotazione delle figure geometriche definisce infatti un particolare rapporto nell’intreccio di forze che manifesta il mondo. Sull’impalcatura delle rotae e delle dignità divine, Lullo edifica quindi un’algebra universale che pretende di riscoprire le verità rivelate dalle religioni e i legami che strutturano il cosmo. Dopo Lullo, prosegue la produzione di testi che riguardano l’arte della memoria, solitamente a fini retorici. Il grande continuatore del progetto lulliano è tuttavia Giulio Ca55


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millo Delminio (1480-1544), che progetta l’apparato mnemonico nella forma di un grande teatro edificato in sette livelli, seguendo il canone vitruviano, e cerca un primo matrimonio tra ars memoriae ed ermetismo. Giordano Bruno intende perfezionare la macchina combinatoria lulliana, al fine di costruire un’arte mnemotecnica che dalle cose sensibili, attraverso la mediazione necessaria degli attributi divini, possa giungere a conosce56

re la Divinità. Le opere nelle quali il filosofo Nolano chiarifica maggiormente la sua rilettura della mnemotecnica sono il De umbris idearum, stampato a Parigi nel 1582 e dedicato a Enrico III di Francia, che intendeva apprendere da Bruno stesso l’arte della memoria5, Il Cantus Circaeus, edito nello stesso anno, il Lampas triginta statuarum ed il De imaginum compositione, l’ultimo volume dato alle stampe nel 1591. Di esse, prendere-

mo in esame il De umbris e la Lampas. Cosa differenzia profondamente Bruno dal sistema di Lullo è il vivo confronto del filosofo di Nola con l’ermetismo rinascimentale, del quale apprende, pur nell’ottica del suo pensiero, l’impianto magico. Si può infatti affermare che con Bruno l’arte della memoria rinascimentale compia la sua metamorfosi definitiva per diventare applicazione par excellence dell’arte magica. Già nel De umbris idearum, il primo libro nel quale Bruno espone l’arte della memoria, il legame con la magia e il pensiero ermetico del Rinascimento si rivela decisivo. Il De umbris si presenta come un breve trattato, suddiviso in tre parti e introdotto da una conversazione tra Ermete, Filotimo e Logifero, che occupa le prime pagine. Il dialogo già presenta sullo sfondo la mitica figura di Ermete Trismegisto, l’autore del Corpus Hermeticum, al quale è assegnata la parte di maestro di Filotimo, alter ego di Bruno. È in questo breve colloquio a tre voci che Il Nolano verga per la prima volta il tema quasi messianico dei tre Mercuri6: “La provvidenza degli Dèi – dissero i sacerdoti egizi – non si astiene dall’inviare agli uomini alcuni Mercuri, in tempi prestabiliti, benché sappiano


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in anticipo che essi saranno accolti male, o non lo saranno affatto. E l’intelletto, come questo sole sensibile, non smette di spargere la sua luce a causa del fatto che non sempre, né tutti, ce ne accorgiamo.” Forse la predilezione bruniana per il dialogo, forma espressiva che ritenne assai più feconda filosoficamente della disputa, va fatta risalire al suo precettore degli anni dell’adolescenza, il padre agostiniano Filoteo da Variano7. Bruno finirà

per ricalcare su di sé la figura del Mercurio, profeta geniale e incompreso al mondo8. Tutto il De Umbris è attraversato dal nesso tra le ombre e la luce, segno della sapienza perfetta. La metafora di luce ed ombra è l’indice della sicura appartenenza bruniana al partito dei platonici di ogni tempo. È facile del resto riconoscere nelle ombre le tenui proiezioni delle Idee sopraccelesti, secondo il registro simbolico che adottò Platone nel mito del-

la caverna. Nel De umbris idearum i primi trenta capitoli trattano le intentiones, le intenzioni della volontà che scoprono nel mondo reale le ombre delle idee eterne. Il motivo delle ombre come oggetto dell’intenzione indica una certa fragilità insita nelle strutture della conoscenza umana. Ma nonostante tale limite, per il filosofo Nolano natura non facit saltus: Bruno ritiene che gli atti conoscitivi debbano obbedire alla gradualità dell’ordine 57


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naturale, passando secondo un processo ascendente dall’oscurità alla luce9: “La natura dà immagini involute prima di presentarcele chiare; similmente fa Dio, similmente anche le arti che perseguono un ordine divino e naturale per dignità. Ma se ad alcuni sembra arduo esercitarsi sulle ombre per il sospetto che sia vano attendersi da esse un accesso alla luce, sappiano che tale difetto non deriva dalle ombre; sappiano anche preparare adeguatamente o tenere celato ciò che non si potrebbe cogliere nudo”. Per rafforzare la sua metafora, Bruno si avvale di citazioni del Cantico dei Canti58

ci, dell’Ecclesiaste e di altri libri della Bibbia10. Su un piano più strettamente speculativo, le ombre si rivelano allegorie della natura anfibia del mondo sensibile, sospeso tra il mare dell’oscurità, dovuto alle incerte capacità dei nostri sensi, e la luce delle Idee perfette ed eterne. La memoria è collocata proprio sull’asse di mediazione tra i sensi e le idee, tra il dominio del fisico e il fulgore dell’intelletto. I successivi trenta paragrafi del De umbris sono invece dedicati ai “concetti delle idee”. Nelle proposizioni che si riferiscono ai concetti delle idee, Bruno si dirige dal mondo esteriore delle umbrae

all’interno dell’anima, per capire come costruire immagini fisse e durature per la memoria. La chiave di volta per controllare le facoltà umane è infatti l’immagine fantastica: per suo tramite è possibile sia conoscere la struttura psicologica dell’uomo che le forme in cui si manifesta la realtà. In questa sezione del De umbris si avverte il forte influsso di Marsilio Ficino e del pensiero di Plotino, il più grande neoplatonico dell’antichità. Ficino, come è noto, fu il principale divulgatore dell’ermetismo rinascimentale, e compose il De Triplici Vita 11, trattato di terapeutica diviso in tre libri, in cui egli, medico e figlio del medico di corte di Cosimo il Vecchio, univa l’arte della cura all’astrologia e al pensiero neoplatonico. Il De Vita costituisce sia un trattato medico che un’appassionata difesa della magia, l’apologia insomma di una scienza che cerca l’armonia delle anime e dei corpi tra microcosmo e macrocosmo. L’analisi del neoplatonico fiorentino ruota intorno a un concetto centrale, lo spiritus, il mediatore principale tra il corpo e l’anima celeste, un vapore essenziale che contribuisce alle facoltà dei sensi, all’attività motoria e all’immaginazione. Nello spiritus si adombra una concezione che va oltre la medicina e la fisiologia per riprendere il tema di un corpo astrale, strettamente legato all’influenza dei pianeti e dei luminari, che era già presente negli scritti dei neoplatonici. Come per gli antichi pensatori, infatti, per Ficino l’anima si riveste attraverso il suo passaggio nelle sfere planetarie dei rispettivi corpi sottili. Alcune sostanze, ma persino un’arte che si esprime grazie ai rapporti armonici, come la musica, sono sotto il dominio dei pianeti positivi, e, a causa della loro natura, conservano proprietà curative. Si tratta di una dottrina magica che unisce scienza degli astri e medicina, già nota del resto nel mondo greco e romano. Bruno ben conosceva questi insegnamenti ermetici, che tornano al termine della sua disamina in veste allegorica. In definitiva, l’arte della memoria scopre con il filosofo Nolano, con la sua rivisitazione della disciplina, la necessità di chiamare soprattutto in causa le forze che in modo più evidente proiettano la loro influenza sul cosmo, stelle, costellazioni e pianeti. La terza e ultima parte del


testo di Bruno, la più lunga e articolata, è lasciata alla mnemotecnica. L’architettura di questa scienza è ancora lulliana. I suoi pilastri sono ruote concentriche e mobili, divise in trenta segmenti, ognuno dei quali è a sua volta ripartito in cinque caselle. In ciascuno di questi spazi, che arrivano per ogni ruota a centocinquanta, deve trovare posto un’immagine. Una volta animato dalle immagini, il moto combinatorio delle ruote consente il potenziamento della memoria e della vis immaginativa fino a permettere alla mente l’apprensione di ogni conoscenza dell’universo. La promessa per l’uomo è dilatare la sua facoltà conoscitiva fino alle stelle e alle idee soprasensibili ed eterne, che dimorano in mentem Dei. La prevalenza di figure astrali, o che riconducono ai governatori planetari, nell’elenco delle immagini (ma vi sono pure icone delle attività umane e figure di numi) avvicina ancora una volta il sistema di Bruno a Ficino. In questa direzione è opportuno ricordare i brillanti studi di Culianu sulla magia rinascimentale, che accentuano l’importanza dello spiritus12, già al centro, come abbiamo avuto modo di vedere, delle riflessioni di Ficino. Lo spiritus si rivela il pneuma phantastikon già teorizzato da Aristotele13, la forma mediana tra anima e sensi, che garantisce alla prima la conoscenza per mezzo di immagini e impressioni sensoriali. Si tratta di una specie di corpo sottile che riceve le impressioni del mondo esterno, e riesce a creare nuove figure grazie all’immaginazione fantastica. Come insegna Ficino, tale corpo sottile ha avvolto l’anima di ogni uomo nel suo processo di discesa nel mondo sensibile, durante il viaggio col quale ha percorso le sfere dei pianeti per raggiungere la terra al momento della sua nascita. Si tratta della ripresa della dottrina dell’ochemapneuma che accompagna l’anima nella sua catabasi verso l’incarnazione terrestre, esposta con grande enfasi da Porfirio e Macrobio14. La sostanza di questo spiritus o pneuma è così la stessa degli astri, il che spiega la sua facoltà magica di ricevere sensazioni e creare forme nella mente. Gran parte della magia e dell’ermetismo della prima età moderna per Culianu converge su questo tema. Tenendo ferma tale lettura, l’arte della memoria bruniana può essere interpre-

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tata non come mera raccolta di dati ma come una vera operazione magica. Riassumendo, se Bruno utilizza soprattutto immagini di astri nelle ruote della memoria è per il fatto di essere ben conscio delle vie privilegiate che possono aprire alla scoperta del cosmo, essendo la stessa sostanza del nostro spiritus a loro identica. Non sarebbe però onesto dimenticare quanto la funzione della conoscenza nel De umbris Idearum allontani Bruno dal filosofo di Figline e dagli altri ermetisti. Dove infatti per Ficino risplende la piena fiducia nelle facoltà umane, per il Nolano si colloca un terreno incerto e im-

pervio. Le normali facoltà cognitive costringono l’uomo a brancolare in un’oscurità lumeggiata da cognizioni incerte e umbratili, perse in una varietà sterminata di forme, che solo una nuova scienza combinatoria è in grado di rischiarare. A uno sguardo generale, in veste di primo compendio della filosofia di Bruno, il De umbris contiene molti idee seminali che fioriranno nei suoi successivi lavori, dai dialoghi che il filosofo di Nola scrive in Inghilterra, alle sue opere magiche, dove si cimenta sia nell’ analisi della natura umana, che nello studio dei vincoli magici che legano tra loro le illimi59


Filosof ia tate sfaccettature della realtà. Potremmo affermare che il punto di arrivo dell’iter filosofico ed ermetico partito dal De umbris idearum sia la redazione della Lampas triginta statuarum15, che Bruno inizia a comporre a Wittemberg nel 1587. Nello scritto maturano alcuni dei motivi già presenti nella prima opera. Ritorna la ricerca di una disciplina mnemonica e combinatoria capace di raccogliere nel pensiero simbolico ogni concetto, come ritorna la visione di una conoscenza mediata dalle ombre, questa volta però espresse dalla materia prima, e da una triade inferiore di principi. L’intento è notevolmente audace, poiché fin dalle prime pagine della Lampas Bruno si prefigge, oltre la creazione di un sistema dove archiviare simboli e concetti, la padronanza di un linguaggio di immagini che è lo stesso dei theologi prisci, in sostanza i grandi platonici dell’antichità16. Al vertice del mondo sensibile risiede il primo principio, per sua natura inattingibile e infigurabile, termine che indica ciò che non può essere tradotto dalla mente in un’immagine. L’animo umano può solo accostarsi ad esso ricorrendo alla mediazione di una duplice triade, superiore e inferiore, anch’essa infigurabile. La seconda è formata dalle potenze di Caos, Orco e Notte17: “Caos significa vuoto, Orco la potenza passiva e ricettiva, Notte la materia”. È la terna di principi che dispiega la materia prima o potenza assoluta, la materia precedente ad ogni specificazione. L’altra triade, la superiore, è caratterizzata da tre ipostasi che ricalcano le plotiniane: Mente, Intelletto e Spirito, o l’Uno, la luce primordiale, la facoltà ordinatrice del cosmo e l’Anima Mundi. Le due triadi operano congiuntamente, e, se la superiore 60


Filosof ia si trova sul piano soprasensibile, nel dinamismo della macchina del mondo diviene necessario che cooperi con l’inferiore. Sotto quest’ultimo aspetto non è certamente casuale che, nella successione del testo, la trattazione della triade inferiore preceda la terna dei principi superiori. Le tracce del divino del resto si danno, pur in modi differenti, sia nell’una che nell’altra triade. Su questo grande sfondo ontologico si innestano le potenze figurabili o le trenta statue delle divinità. Bruno le utilizza per radunare in concetti generali le dinamiche che esprimono la complessità dell’universo. Peraltro, nella centralità che hanno le statue dei numi nella Lampas ci sembra di notare un richiamo alla telestica, una disciplina che nel mondo tardoantico si occupava di consacrare e animare le statue magiche a fini oracolari18. Il loro uso rende le statue simili agli attributi divini di Lullo; così Apollo rappresenta l’unità, Saturno il principio, Venere la relazione di concordia, di cui espressione paradigmatica tra le creature animate è l’amore. Inoltre, Le trenta statue dei Numi possono farci ritenere che il grande Nolano guardasse al pensiero mitico come a una sorgente di ispirazione. Bruno, esponendo il concetto generale legato ad ogni statua, declina i suoi attributi facendoli corrispondere a parti dei miti che la riguardano. Ad esempio Teti nell’articolato schema bruniano indica il sostrato o la causa materiale, e poiché nel mito ha la funzione di dea marina, ne consegue che una specificazione della causa materiale sia l’elemento acquoso. Accanto a simili procedimenti, che senza dubbio appaiono ambigui, o in ogni

caso non giustificati da una logica coerente, il trattato dispone di una grammatica dei concetti generali che muove secondo un ordine ben stabilito. Come si è compreso, tuttavia, il filosofo di Nola non è un interprete fedele della tradizione mnemonica giunta fino a lui. Bruno piega alle sue esigenze teoretiche non solo le finalità dell’arte della memoria, ma anche la griglia di concetti che eredita dalla tradizione aristotelica. Tramite i concetti cardine che compongono la sua ontologia Bruno delinea infatti una struttura organica del mondo. Sulla tela di questo quadro, insieme metafisico e gnoseologico, le forme individuali dei singoli soggetti non sono sic et

simpliciter calate dall’alto o provenienti dalla triade superna, ma rappresentano il perfezionamento di una singola materia che cerca la propria specificazione, una materia secunda. Vi è allora un movimento della materia stessa verso la propria forma, e non una mera applicazione dell’idea al sostrato inerte. Bruno celebra questo processo nel congiungimento tra Peleo e Teti, ovvero nelle nozze tra l’agente e il sostrato. La causa agente quindi, e non la forma, si imprime sul sostrato19, dimostrando che la materia nella prospettiva bruniana agisce di per sé verso il proprio perfezionamento, con il solo concorso dell’elemento efficiente rappresentato da Peleo. Non a torto que61


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sta motilità intrinseca alla materia secunda anticipa per certi versi l’élan vitale di Bergson. Peraltro, il tema della materia vivente affiora in diversi passaggi della Lampas. Anche la figura di Vulcano, che incarna il processo di creazione delle forme, essendo un dio nato senza intervento paterno, riporta alla materia brulicante di vitalità, dotata di una sorta di ansia creatrice.20 Ma cosa si scorge di più rilevante in questa insistenza sulla materia e la causa efficiente è l’elisione della causa formale. Per Bruno, nella Lampas come in altri celebri lavori, la forma nasce dalla materia, il che segna la scomparsa del dualismo aristotelico di forma e ile. In seno alla materia stessa germina la vita, in un dinamismo organico dalle infinite variazioni. Si tratta di una concezione che sotto un certo profilo apparenta il pensiero di Bruno alla fisica stoica, con i suoi logoi spermatikoi, le ragioni seminali degli enti che il pensiero cristiano tradusse nella dottrina agostiniana della inchoatio formarum. Ma le ragioni seminali presuppongono ancora la diade di materia e forma. Anche nel pensiero stoico, del resto, pure in un quadro ontologico monista, il ruolo della forma era esercitato dal Logos, il principio universale21. Una concezione monistica, quindi, come quella di Bruno, anche se i filosofi dello Stoà non concedevano totale autonomia creatrice alla materia e la rendevano tributaria del Logos. Il Logos è la ragione che informa i corpi materiali e li vivifica22: in questo punto si stringe il contatto tra la fisica degli stoici ed il pensiero del Nolano, ma i corpi sono privi di quell’indipendenza formativa che per Bruno rimane evidente. Allora il panteismo di Bruno, piuttosto che la fisica stoica in senso stretto, nella sua indipendenza della materia pare riprendere certi aspetti del pensiero aurorale dei greci. Demolendo infatti il velo dell’ilemorfismo aristotelico, il Nolano individua nella materia un numero illimitato di sorgenti vitali, o, per dirla in altri termini, una forza germinativa che irrompe senza mediazioni dagli elementi del mondo sensibile, vero motore della sua diversificazione. Il θεῶν πλήρη πάντα di Talete sembra un illustre precedente di questa visione poiché per Bruno i moti della materia e la vita di ogni ente, anche del mondo minerale, costi-


tuisce l’ espressione estrinseca di Dio, la facies Dei. È innegabile l’affinità con Cusano, il quale nel De Visione Dei23 si serve della metafora del volto dipinto per indicare l’onnipresenza dello sguardo divino, rivolto ad ogni creatura e coincidente con la pienezza infinita dell’essere. Bruno concorda con Cusano nel porre la natura divina al fondo di ogni cosa, che anima e modula secondo precise ragioni. E tuttavia, nonostante questo impeto che lo spinge ad abbracciare l’infinita vitalità dell’universo, la rigida armatura di concetti dell’ars memoriae impedisce a Bruno di immergersi in una filosofia dell’estasi. Non abbiamo quindi a che fare con una speculazione che si limita a celebrare una veduta sulle cose che rompe definitivamente con la scolastica, ma con un tentativo di edificare una nuova scienza, ermetica e filosofica nel contempo, un progetto fino allora impensato. L’arte della memoria sotto questa prospettiva si presenta come un momento di passaggio a una nuova visione del mondo che cerca un vigore e un dettaglio speculativo mancanti in altri filosofi del Rinascimento, come Ficino o Pico. Inoltre, dalle digressioni filosofiche sulla materia infinita e vivente, causa del suo stesso sviluppo, si comprendono l’intensità e l’importanza che ebbero per il pensatore Nolano le questioni di filosofia naturale e cosmologia. Come è stato ben evidenziato24, su questo versante Bruno appare, più che il sapiens ermetico a cui è concesso il dominio sugli astri, il continuatore della tradizione pitagorica e platonica, madre del metodo scientifico o perlomeno della sua componente deduttiva, insieme alla rivoluzione empirica del XVII secolo. Un Bruno cosmologo e anche scienziato sui generis, che la studiosa Hilary Gatti contrappone all’interpretazione della Yates25: “Alle due estremità dunque della storia culturale dell’ Occidente, Pitagora e Copernico vengono celebrati da Bruno, nel primo dialogo della Cena delle ceneri, come le due fonti di una verità alla cui luce egli avrebbe costruito una struttura cosmologica radicalmente rivista ed estesa, omogenea e unificata, creando le condizioni ottimali per la ricerca delle verità sia scientifiche che teologiche. In questo senso Bruno si rivelerà a pieno diritto un precursore di Newton, il quale indicherà

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anche lui in Pitagora una figura chiave dell’antichità, non solo per il suo ruolo di fondatore della scienza greca ma anche in quanto custode della vera religione”. Bruno, dunque, come saldo anello di congiunzione tra il matematismo del pensiero platonico e pitagorico e la rivoluzione scientifica. È tuttavia sufficiente anche il breve excursus che abbiamo compiuto sul De umbris e tra i temi della Lampas per mostrare come le radici ermetiche della filosofia del Nolano siano ben visibili e che quindi, accanto ai sostenitori del Bruno filosofo della scienza ante litteram, possano ben trovare le loro giustificazioni gli studiosi vicini alle idee della Yates. Nello scontro tra queste due opposte letture dell’opera di Bruno, il nodo fondamentale, che riemerge anche nei Dialoghi italiani, resta l’affrancamento delle cose sensibili dalle forme soprasensibili. La libertà e l’importanza di Teti, la materia creatrice, reca peraltro una contrad-

dizione vistosa. Se infatti la forma individuale è causa sui, le due triadi di principi vengono scalzate dalla loro dignità di cause prime e perdono gran parte delle loro funzione. Appaiono addirittura come un orpello superfluo, se si toglie loro la mera esigenza di introdurre il lettore allo schema mnemonico delle trenta statue. L’ontologia delineata nella Lampas in questo punto si discosta notevolmente dai modelli neoplatonici, che tengono sempre ben salda, nei loro sistemi speculativi, una scala gerarchica tra gli enti26. Questa aporia rappresenta a nostro avviso una delle tendenze di fondo della filosofia di Bruno, la mancata scelta tra l’attenzione verso il mondo empirico e l’attrazione-cifra indelebile del pensiero neoplatonico-per le corrispondenze e le analogie che si danno tra le cose. La metafisica della Lampas rimane così rappresa nel progetto di una ars o scientia che anela a una nuova rappresentazione 63


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del mondo, ma resta in sostanza prigioniera del suo metodo magico-ermetico, dai contorni poco chiari. Da questa prospettiva, i concetti generali incardinati nelle trenta statue si possono vedere come l’artificio di un Giano bifronte, che guarda sia alla possibilità di una conoscenza dell’infinita materia che all’accesso ermetico agli innumerevoli legami tra l’anima, le signaturae rerum e le idee eterne, senza mai abbandonare una delle due direzioni del suo pensiero o farla prevalere sull’altra. Al cantiere dei teologi prisci, Bruno propone allora uno scandaglio del cosmo e delle forze che lo attraversano che sembra sfuggire a ogni facile classificazione. L’esaltazione della monade divina che si esprime nell’infinita pluralità delle forme viventi anticipa – secondo un luogo comune della dottrina27– la sostanza di Spinoza e i suoi infiniti attribuiti, ma anche una liberazione della materia dal giogo metafisico che le tradizioni di ascendenza sia platonica che aristotelica le imposero. Dietro l’arte della memoria di due opere come il De umbris e il Lampas si apre dunque lo squarcio su un orizzonte di pensiero di estrema potenza e fascino, radicale nella sua ambiguità e ancora fe64

condo per chi lo sappia indagare. _______________ Note: 1 Per un bilancio complessivo su fortuna e criticità dello Yates paradigm si veda Wouter J. Hanegraff, Beyond the Yates paradigm: the study of western esotericism between counterculture and new complexity, in Aries 1, vol. I, Brill, Leiden, 2001, pp. 5-37. Francis Amalia Yates (18991981) con i suoi lavori ha interpretato la rinascita dell’ermetismo nel pensiero del Rinascimento come il fenomeno culturale alla radice dei cambiamenti filosofici dell’età moderna, anche per quanto riguarda la rivoluzione scientifica. Hanegraff sostiene che la diffusione dello Yates paradigm sia dipesa in gran misura dalla penetrazione della controcultura degli anni Sessanta all’interno del mondo accademico. 2 Frances A. Yates, The Art of Memory, University of Chicago Press, Chicago, 1966, pp. 27-30. 3 La tradizione fa però risalire al poeta Simonide di Ceo l’invenzione dell’arte. E’ quanto ci racconta Cicerone nel De Oratore. SI legga Marco Tullio Cicerone, Dell’oratore, a cura di A. Pacitti, 3 voll., Zanichelli, Bologna 1974; vol. II, libro II, LXXXVI, 354. 4 Per una ricognizione dell’irenismo nel pensiero di Cusano si consulti W. A. Euler, Il De pace fidei di Nicolò Cusano e la parabola dell’anello di Lessing, in Il Pensiero, a c. di D. Monaco, 1-2, 2009, pp. 59-74. 5 Avido cultore di magia e di scienze ermetiche, Enrico III di Valois era influenzato dal movi-

mento cappuccino di Francia, nel quale fioriva l’interesse per l’ermetismo cristiano. Vedi Francis A. Yates, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, University of Chicago Press, Chicago, 1964, trad. it. Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Roma-Bari, pp. 225-226. 6 De umbris idearum, apud Aegidium Gorbinum, Parisiis, 1582, p.5: Non cessat providentia deorum (dixerunt Aegyptii sacerdotes) statutis temporibus mittere hominibus Mercurios quosdam; etiam si eosdem minime vel male receptum precognoscant. Nec cessat intellectus, atque Sol iste sensibilis semper illuminare, ob eam causam quia nec semper, nec omnes animadvertimus. 7 Le lezioni private di fra Teofilo da Vairano, insieme all’insegnamento pubblico del Farnese, aristotelico, furono le principali occasioni di formazione per il Giordano Bruno adolescente a partire dal 1562, anno nel quale si trasferì a Napoli. Vedi Michele Ciliberto, Giordano Bruno. Il teatro della vita, Mondadori, Milano, 2007, pp. 20-27. Sul Vairano cfr. Immagini di Lutero nel “De gratia” di Teofilo da Vairano. Una nuova ricerca intorno al maestro di Bruno, in Bruniana & Campanelliana, 2/2012, pp. 559569. 8 Il nodo tra autobiografia e riflessione filosofica in molti momenti dell’opera di Bruno è così stretto da essere inestricabile. 9 De umbris idearum, cit., p. 67, Intentio XVI: Natura dat involutas species antequam tradat easdem explicates. Similiter Deus, similiter et artes quae divinum et naturalem ordinem pro dignitate persequntur. Si quibus vero arduum videtur in umbirs exerceri, et vanitatis suspec-


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tum si per eas ad lucem non pateat accessus; norint tale defectum non esse ab umbris. Norint etiam sat expedire vel involutum tenere, quod nudum non capias. 10 Tutta la successiva produzione letteraria di Bruno non conterrà riferimenti al cristianesimo se non in chiave polemica. 11 Ficinus Marsilius, De triplici vita, Florentie, 1489; Marsilio Ficino, Sulla vita, Introd., trad., note e apparati di Alessandra Tarabochia Canavero, Rusconi, Milano, 1995. 12 Ioan Petru Culianu, Eros et Magie à la Renaissance, Flammarion, Paris, 1984; trad. it. Eros e Magia nel Rinascimento, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, pp. 198-199. 13 Nella riflessione filosofica dei primi secoli dell’era cristiana cominciano a comparire con relativa frequenza espressioni come «ochema» (veicolo), «pneuma psychikon», «pneuma phantastikon». Vedi Ioan Petru Culianu, Psychanodia: A Survey of the Evidence Concerning the Ascension of the Soul and Its Relevance, Brill, Leiden, 1983; M. Di Pasquale Barbanti, Ochema-Pneuma e Phantasia nel Neoplatonismo. Aspetti psicologici e prospettive religiose, CUECM, Catania, 1998. 14 Macrobius, Commentarii In Somno Scipionis, I, 12, 13. 15 Lampas triginta statuarum, in Iordani Bruni Nolani Opera latine conscripta, Le Monnier, Florentiae, 1891. 16 Si deve ancora a Ficino la creazione di elenchi con i nomi dei prisci theologi, che troviamo in diversi passaggi delle sue opere, come in The-

ologia Platonica, XVII, 1. 17 Lampas triginta statuarum, cit., p. 9: Ipsa sunt Chaos, Orcus et Nox, e quibus Chaos significat vacuum, Orcus passivam et receptivam potentiam, Nox materiam. 18 La telestica è una disciplina antichissima, risalente all’Egitto faraonico e alle prime civiltà della mezzaluna fertile. Cfr. Luciano Albanese, Pietro Mander, Massimiliano Nuzzolo, La teurgia nel mondo antico, ECIG, Genova, 2011. 19 Lampas, p. 93: Peleo tandem coniux destinatur, quia quicquid sit de eius passiva et formabilitatis potentia, ut tamen in actum prodeat, efficienti subiiciatur oportet. 20 Lampas, p. 83: Sine patre dicitur natus, ad significandum ipsam educi de potentia materiae, praesertim forma quae ex commixtione lucis et tenebrarum resultat; lux enim, quae est anima sive universalis sive particularis, est a aptre sine matre. 21 Dal Logos supremo secondo la fisica stoica scaturiscono due principi. Il primo, attivo, è chiamato a sua volta Logos o anche Zeus, mentre il secondo, passivo, coincide con la materialità. Cfr. Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana, Bompiani, Milano, 2004, vol. 5, Cinismo, epicureismo e stoicismo, pp. 370-371. 22 Sul tema si consulti la seminale monografia di Samuel Sambursky, Physiscs of the stoics, Princeton University Press, Princeton, 1987. 23 Nicola Cusano, De visione Dei, in Scritti Filosofici, vol. II, a cura di Giovanni Santinello, Zanichelli, Bologna, 1980. 24 La più significativa esponente di questo

orientamento di studi è la storica delle idee Hilary Gatti. Vedi infra. 25 Hilary Gatti, Giordano Bruno and Renaissance Science, Cornell University Press, Ithaca, 1999; trad. it. Giordano Bruno e la scienza del Rinascimento, Raffaello Cortina, Milano, 2001, p. 15. 26 Si tratta di una cifra comune del pensiero neoplatonico fin da Plotino. Si può invero parlare di una aequalitas nella speculazione sulla Trinità del Platonismo di Chartres. Questa concezione dell’uguaglianza arriverà a Cusano, che ne farà una categoria generale di comprensione della realtà. Si veda Unità e Uguaglianza, in Werner Beierwaltes, Pensare l’Uno, Vita e Pensiero, Milano, 1991, pp. 315-328; ed. originale Werner Beierwaltes, Denken des Einen, Klostermann, Frankfurt am Main, 1985. 27 La sequenza di filosofi e studiosi che rilevarono le affinità tra Bruno e Spinoza costiuisce una catena assai lunga e intricata. Un suo anello importante fu Artur Schopenauer, che ricorda le tangenze tra i due grandi pensatori in una lunga nota della seconda edizione de Il Mondo come Volontà e Rappresentazione. Vedi Anacleto Verrecchia, Giordano Bruno: la falena dello spirito, Donzelli, Roma, 2002, pp. 214-215. P.54: Volta stellata, acquerello, collez. privata; p.55: Giordano Bruno e, sotto, una sua firma autografa; p.55, 56, 58, 59, 60, 61: Illustrazioni tratte da manoscritti miniati di opere di Ramon Llull [Raimondo Lullo]; p.56, 60 e 61: Disegni tratti dalle opere di G.Bruno [in Bianco/Nero]; p.57: Pagina di codice alchemico; p.65: Dettagli del monumento a G.Bruno di Ettore Ferrari, Roma (foto P.Del Freo).

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Il Maresciallo d’Italia Giovanni Messe Antonino Zarcone

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aresciallo Giovanni Messe (Mesagne (BR), 10 dicembre 1883 - Roma, 18 dicembre 1968), Capo di Stato Maggiore Generale del Regno del Sud. Giovanni Messe, volontario nel Plotone Allievi Sergenti dal 31 dicembre 1901 nel 45° Reggimento di Fanteria, in cui riceve la nomina a Caporale, Caporale Maggiore e Sergente. Trasferito al 5° Reggimento di Fanteria “Aosta” dal 1903, partecipa alla Spedizione in Cina con il Reparto Misto dal 1903 al 1905. Nominato Sergente Furiere nel 1905, Ser66

gente Maggiore e Maresciallo di Compagnia nel 1907 e Maresciallo di 3a Classe nel 1908. Ammesso a frequentare il Corso Speciale per Sottufficiali presso la Scuola Militare di Modena nel 1908, nel 1910 è nominato Sottotenente di Fanteria e assegnato all’84° Reggimento di Fanteria di Firenze. Combattente della guerra italo-turca, viene decorato della Croce al Valore Militare perché “in ripetuti combattimenti comandò il plotone con intelligenza e coraggio. Messri, 13 novembre 1911- Zanzur, 8 giugno 1912”. Promosso Tenente nel 1913 e Capitano nel 1915.

Rimpatriato nel 1916 per partecipare alla guerra 1915-18, Comanda il 1° Battaglione del 57° Reggimento di Fanteria venendo ferito al braccio sinistro nel combattimento sul Monte San Gabriele del 12 ottobre 1917. Promosso Maggiore nel 1917 è decorato di 2 Medaglie d’Argento al Valore Militare perché «Si esponeva per più giorni dove maggiormente era il pericolo e, con l’esempio, e con la parola, manteneva saldo il suo battaglione sotto i lunghi e furiosi bombardamenti dell’avversario, contenendo e riuscendo a mantenere, con contrattacchi opportunamen-


te sferrati, una difficile posizione che il nemico, fortemente aggressivo, tentava ripetutamente di riconquistare. Grazigna, 21 - 23 maggio 1917» e «All’inizio dell’offensiva di agosto 1917, accorreva dalla licenza a prendere il comando del battaglione che riorganizzava, elettrizzava colla sua presenza e conduceva alla vittoria. Instancabile, coraggioso, ardito e geniale, era fulgido esempio ai suoi di incrollabile fede, e li guidava brillantemente alla conquista di forti posizioni nemiche aspramente contese. Ferito e contuso, si medicava in linea, e continuava a tenere il comando di battaglione. Monte Veliki Hoje, 21 - 27 agosto 1917» e della Medaglia di Bronzo al Valore Militare perché «Alla testa del suo battaglione assaltava di sorpresa in pieno giorno una forte posizione nemica e la manteneva, poi, nonostante un violento bombardamento avversario, e ripetuti contrattacchi. Pochi giorni dopo compiva una rischiosa ricognizione oltre le nostre linee, durante la quale rimaneva ferito. Lasciava il suo posto di combattimento solo in seguito a perentorio ordine dell’autorità superiore. Esempio costante ai suoi soldati di ardimento, di valore, di calma e di sereno sprezzo del pericolo. Monte San Gabriele - Monte Veliki Kribak, 1 - 12 ottobre 1917». Dopo un periodo di ricoveri e convalescenza, Comanda il 3° Battaglione del 57° Reggimento di Fanteria poi il VI Reparto d’Assalto poi IX Reparto d’Assalto “Fiamme Nere” della 18a Divisione dal 1918 al 1919 venendo decorato della Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia perché da «Comandante di Battaglione d’Assalto, contro nemico forte di numero e di armi, baldanzoso di recente vittoria, tradusse in atto con singolare volontà gli ordini per riconquistare il perduto terreno. All’attacco di successive munite posizioni trasfuse nei suoi arditi il suo personale valore, l’entusiastica fede nel buon successo; con perizia coordinò gli sforzi di altre truppe allo scopo, onde in breve tempo, con mirabile slancio, posizioni di capitale importanza tornavano in nostro potere con larga cattura di prigionieri e di armi. Col Fagheron, 15 giugno 1918 – Col Fenilon – Col Moschin, 16 giugno 1918» e della medaglia d’Argento al Valore Militare perché «Con irresistibile slancio, guidava il suo Battaglione di “Fiamme nere” alla conquista di una mu-

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nitissima posizione, mantenendovisi nonostante il violento fuoco dell’artiglieria e di mitragliatrici avversarie. Caduto colpito a morte un suo ardito, che fino allora aveva agitato al vento un piccolo stendardo tricolore, ne raccoglieva il vessillo e a sua volta lo sventolava in alto, sulla posizione conquistata come incitamento e come emblema di vittoria. Fulgido esempio di ardimento, di fermezza e di efficacissima azione di Comando. Monte Asolone, 24 giugno 1918». Ferito da una bomba a mano alla coscia sinistra nel combattimento sul Monte Asolone del 29 ottobre 1918. Comandante del IX Reparto d’Assalto “Fiamme Nere”, nel 1919 viene promosso Tenente Colonnello per Merito di Guerra. Il 3 giugno 1919, Messe viene iniziato Massone nella Loggia “Michelangiolo” del Grande Oriente d’Italia, all’Oriente di Firenze Inviato in Albania, nel 1920, Giovanni

Messe è decorato della Croce al Valore Militare perché «Incaricato della conquista d’importante posizione, nelle alterne vicende dell’aspra lotta, tenne con mano ferma il Comando dei suoi arditi dando prova di coraggio e sprezzo del pericolo. Maj e Sturos (Albania), 19 giugno 1920». Comandante di battaglione Bersaglieri dal 1920 al 1923, Giudice Supplente del Tribunale Militare Speciale di Roma dal 1921 al 1923, quindi Aiutante di Campo Effettivo del Re dal 1923 al 1927. Comandante del 9° Reggimento Bersaglieri dal 1927 al 1935. Promosso Colonnello nel 1927. Comandante della III Brigata Celere a Verona dal 1935 al 1936. Promosso Generale di Brigata nel 1936 partecipa alla campagna d’Etiopia come Vice Comandante della 5a Divisione di Fanteria “Cosseria”. Generale addetto all’Ispettorato Truppe Celeri dal 1936 al 1938. Comandante della 3a Divisione Celere “Principe Ame67


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deo Duca d’Aosta” a Verona dal 1938 al 1940. Promosso Generale di Divisione nel 1938 gli viene assegnato l’incarico di Vice Comandante del Corpo di Spedizione in Albania guadagna la Croce di Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia perché «Vice Comandante del Corpo di Spedizione in Albania e comandante della colonna principale, ha con il suo eccezionale apporto di intelligenza, cooperato efficacemente al felice esito dell’impresa». Combattente della guerra 194043 prima come Comandante del Corpo d’Armata Celere poi del Corpo d’Armata Speciale sul Fronte Albanese, è promosso Generale di Corpo d’Armata per Merito di Guerra nel 1941 perché «Assunto in critica situazione il comando di una grande unità già duramente provata, riusciva a centuplicare le forze e la volon68

tà e a stroncare così l’azione vincente del nemico proteso alla conquista di una delle più importanti basi marittime d’Albania. Organizzava quindi in breve una solida barriera difensiva, sulla quale il suo corpo d’Armata, esaltato dal suo esempio e dalla sua virtù incitatrice di un capo, resisteva incrollabilmente ai rabbiosi, replicati attacchi dell’avversario. Dopo averne gradualmente stroncato ogni capacità reattiva, balzava poi alla controffensiva, premendo e inseguendo il nemico sino alla sua totale dissoluzione. Valona, Val Scinscizza, Kalamay, 21 dicembre 1940 – 23 aprile 1941». Comandante del Corpo di Spedizione Italiano in Russia, Messe è decorato della Croce di Ferro di 2a Classe, della Croce di Ferro di 1a Classe tedesca della Croce di Cavaliere dell’ordine della Croce di ferro tedesca, della Gran Croce dell’Ordine dell’Aquila Tedesca con Spade e della Croce di Commendatore dell’Ordine Militare di Savoia Commendatore dell’Ordine Militare di Savoia: «Comandante del Corpo di Spedizione italiano in Russia, in difficilissime condizioni logistiche e di terreno, guidava le truppe dipendenti in numerosi duri e sempre vittoriosi combattimenti contro un nemico aspro ed agguerrito. Con grande perizia di comando e con azione personale ardente e tenace, superando con ferrea volontà difficoltà gravissime di clima e di inferiorità numerica, infrangeva poi ogni ritorno controffensivo dell’avversario assicurando il possesso delle importanti posizioni conquistate. Offriva così nuova luminosa

prova delle qualità fisiche, del valore indomito, dell’insuperato spirito di sacrificio del soldato italiano. Ucraina meridionale (Dniepropetrowsk – Stalino) agosto 1941 - marzo 1942» e ottiene la promozione per Merito di Guerra a Generale d’Armata: «Comandante del Corpo di Spedizione Italiano in Russia durante le operazioni del 1941-42, con tenace e geniale azione di comando, conduceva vittoriosamente le proprie truppe dal Nistro al Donez e dal Donez al Don superando difficoltà di ogni genere, ivi compresa una durissima campagna invernale e mantenendo alto in ogni circostanza il prestigio delle armi italiane». Polemico verso Mussolini in merito alla condotta della guerra, nel 1942 viene rimpatriato e posto a disposizione per incarichi speciali. Comandante della 1a Armata in Tunisia dal febbraio 1943, è l’ultimo difensore dell’Africa settentrionale arrendendosi agli Alleati il 13 maggio 1943, un giorno dopo le forze tedesche. Messe è l’ultimo ufficiale a essere promosso Maresciallo d’Italia. In Africa è decorato della Croce Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia perché da «Comandante di Armata in Tunisia, in circostanze particolarmente delicate e difficili, faceva delle proprie grandi unità un vigoroso strumento di lotta, trasfondendo l’ardente suo spirito animatore nei gregari tutti, cui offriva esempio costante di ardimento e di valore. All’urto massiccio di agguerrite unità nemiche, preponderanti per numero e mezzi, opponeva la manovra geniale e la tenacissima resistenza, arrestando l’impeto dell’avversario e logorandone la forza poderosa in lunga ed aspra battaglia. Mareth – Sciotts, marzo – aprile 1943». Poco dopo l’armistizio viene rimpatriato dalla prigionia in Inghilterra, su pressione degli Alleati sul Governo Badoglio ed assume l’incarico Capo di Stato Maggiore Generale per la guerra di liberazione contro i tedeschi. La materia è oggetto di indagini e di articoli sulla stampa della Repubblica Sociale di Salò. Lo stesso Mussolini nella sua “Storia di un anno” ne ridimensiona i trascorsi politici e militari del Maresciallo definito come uno dei più classici e odiosi traditori tra tutti coloro che Badoglio ha allevato e protetto e ha rappresen-


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tato la più sgradita delle sorprese. Un’agenzia Stefani del 20 marzo 1945 fornisce la spiegazione: «Il caso Messe si arricchisce di nuovi interessanti elementi [...] ora un altro documento autografo contribuisce a spiegare l’inspiegabile caso. Tale documento è fornito alla stampa da Giovanni Preziosi che lo ha inserito in una lettera indirizzata al direttore del “Corriere della Sera”. Niente dispetto personale, scrive Preziosi. Il Maresciallo Giovanni Messe era semplicemente un Massone, e come tutti i Massoni di Palazzo Giustiniani, dichiarò di essere uscito dalla Massoneria in data precedente al 1923». La dichiarazione pubblicata dal quotidiano milanese riportata in facsmile dice: «Il Sottoscritto di aver appartenuto all’associazione massonica di Palazzo Giustiniani (Loggia di Firenze) dal 1919, non ricorda né il mese né il giorno dell’iniziazione, ma di aver cessato di far parte dell’associazione predetta dal 1921. Dichiara di impegnarsi di non più rientrare nell’associazione massonica a cui ha appartenuto e non più intrattenersi in alcun modo nel campo di attività dell’associazione stessa. Roma, 3 febbraio 1923». L’Alto ufficiale è collocato nella riserva il 27 marzo 1947. Anticomunista, Messe si dedica all’attività politica prima con la Democrazia Cristiana poi con il Partito Liberale; è eletto Senatore della Repubblica per la II Legislatura (1953-58) per la circoscrizione della Puglia e Deputato dalla III alla IV Legislatura Repubblicana (1958-68) per la circoscrizione di Roma. A Messe si debbono alcune importanti opere storiche sulla seconda guerra mondiale fra le quali ricordiamo: Come finì la guerra in Africa, del

1946; La guerra al fronte russo, del 1947; La I Armata italiana in Tunisia, del 1950; L’azione dello Stato Maggiore Generale per lo sviluppo del Movimento di Liberazione, del 1975. Nonostante la brillante carriera, il valore dimostrato sui campi di battaglia della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, il contributo offerto per la ricostruzione dell’Esercito italiano e la partecipazio-

ne alla guerra di Liberazione, Giovanni Messe è poco noto alla gran parte degli italiani; nel suo stesso paese di nascita, fino a pochi anni fa, non gli era dedicata nessuna via o infrastruttura. P.66: 1939, Messe (5° da sin.) con G.Ciano (2° da sin.) a Tirana, Albania; p.67: Messe e Mussolini sul fronte russo; p.68: Messe presiede la Mensa Ufficiali, fronte russo; in basso il pullman utilizzato da Messe per gli spostamenti sia sul fronte russo che su quello africano; p.69: Messe sul fronte russo e Messe prigioniero a Londra (tutte le foto collez. privata).

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La Comunione di Piazza del Ges첫 di fronte al Primo Conflitto mondiale Luigi Pruneti

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Memoria uando il 28 giugno 1914 un “gruppo di fuoco” della società segreta Crna Ruca (Mano Nera) entrò in azione a Serajevo, uccidendo il principe ereditario al trono austro-ungarico Francesco Ferdinando e suo moglie Sofia Chotec Hahenberg, ben pochi pensarono che quell’atto efferato portasse a un conflitto mondiale. Per quattro settimane, infatti, la situazione stagnò, ma il 24 luglio alle ore 18:00, l’ambasciatore imperiale a Belgrado consegnò al governo serbo un ultimatum con condizioni durissime. Era una richiesta irricevibile, ma il Regno balcanico si piegò ed entro il tempo previsto consegnò la risposta “accettando di massima le richieste, ammettendo le proprie responsabilità. Si chiedono chiarimenti solamente sull’ultima richiesta [imperiale] quella relativa alla collaborazione dei funzionari austriaci nell’inchiesta e nella soppressione del movimento sovversivo. Nonostante l’accettazione sostanziale dell’ultimatum, mezz’ora dopo aver ricevuto la risposta, il rappresentante austro-ungarico lascia la propria sede diplomatica dando inizio alle ostilità”1. A quel punto i venti di guerra iniziarono a vorticare anche sull’Italia e numerosi furono coloro che invocarono l’intervento contro la corona asburgica, nemica del paese e che aveva nel proprio dna l’arroganza oppressiva del potere, come dimostrava l’aggressione alla Serbia. Una posizione interventista l’assunse immediatamente il Grande Oriente d’Italia, il cui Gran Maestro Ettore Ferrari era un fervente repubblicano. Egli fin dal 31 agosto inviò una balaustra alle logge nella quale, fra l’altro, affermava “se mai suoni l’ora delle dure prove, non mancherà la nostra voce per confortarvi ad affrontarle, con lo spirito di sacrificio e con la fede dei 71


padri”2. Pochi giorni più tardi, il 6 agosto, “L’Idea democratica”, settimanale fondato dal GOI nel 19133, scrisse: “Non sappiamo […] che cosa il domani ci riserba. [Ma] Dinanzi all’evento storico che […] supera tutte le previsioni e infonde in tutti i cuori un’ansia angosciosa per l’oggi e per il do-

Memoria mani, su tutti gli affetti, su tutti i pensieri, su tutte le passioni devono ormai avere prevalenza, assoluta, incontrastata per ogni italiano l’affetto e il pensiero per l’Italia”4. Nei giorni successivi il periodico uscì con pezzi sempre più favorevoli alla guerra, fino a quando, il 27 agosto ruppe ogni indugio: “L’ora dell’Italia ci pare sia giunta dolorosa ma indeprecabile. E noi, contrari per sentimento e ragionamento alla guerra attendiamo che l’Italia la affronti nella certezza che la Nazione come ciascuno dei suoi figli, faranno tutto intero il loro dovere”5. Il Grande Oriente d’Italia considerava il conflitto come necessario per completare l’opera del Risorgimento, identificava la guerra con la liberazione delle terre irredente, oppresse da una potenza barbara e temibile, assimilata al Kultur germanico, opposto all’ésprit français, impostato sul riconoscimento dei diritti individuali sacri e inalienabili. Per questo fin dal mese di agosto Ettore Ferrari mise a punto un piano per costituire una forza di volontari massoni che, in caso di permanenza nello stato di non belligeranza, rinnovando le “gesta di Sapri” generassero “un incidente diplomatico tale da costringere il governo all’intervento per vendicare il sangue di quelle centinaia di massoni offertisi in volontario olocausto”6. A differenza del Grande Oriente, la Serenissima Gran Loggia d’Italia mantenne nel corso del 1914 una posizione più cauta. Si temeva, difatti, una guerra lunga e devastante, un bagno di sangue che avrebbe lasciato dietro di sé solo lutti e rovine. L’Italia era poi preparata militarmente a un simile conflitto? I dubbi erano numerosi e motivati. La guerra italo-turca era stata dispendiosa e l’armamento andava rinnovato a iniziare dal parco dell’artiglieria, inoltre le mitragliatrici in dotazione erano pochissime, le riserve di munizionamento scarse e non esistevano elmetti metallici. Occorrevano finanziamenti straordi72

nari, ma il parlamento era stato chiuso il 5 luglio, senza deliberare niente7. Come se ciò non bastasse, la carenza degli ufficiali di complemento era drammatica. Si cercò di rimediare solo in seguito, quando “a colpi ripetuti e successivi di decreti legge si [aumentò …] il numero di ufficiali effettivi e di complemento: abbreviando la durata dei corsi in atto […], immettendo i nuovi sottotenenti subito nei reparti senza far loro frequentare le scuole di applicazione, transitando nel servizio permanente gli ufficiali di complemento che avevano combattuto in Libia, promuovendo ufficiali i sottufficiali migliori, sostituendo negli uffici e nei comandi gli elementi più giovani con altri richiamati dal congedo, dilatando oltre misura il reclutamento degli ufficiali di complemento”8. Se il conflitto fosse andato male, se gli Imperi centrali avessero vinto, che fine avrebbe fatto il Paese? Entrare in guerra significava, per i seguaci di Fera, mettere in gioco l’esistenza stessa del Regno. Queste perplessità “giolittiane” di compromettere con la guerra l’intero percorso risorgimentale, condivise anche da alcuni esponenti del GOI, valsero alla Serenissima Gran Loggia l’accusa di porsi su posizioni filo germaniche, sospetto implementato dal fatto che un confratello scozzesista, il Commendatore Giovanni Fiore, era stato invitato dall’imprenditore tedesco, Fritz Rochling, a fondare un periodico massonico che si opponesse a “L’Idea democratica”, dichiaratamente interventista9. Un sospetto simile fu poi adombrato sul rampante Vittorio Raoul Palermi, nominato Grande Oratore Aggiunto della Serenissima Gran Loggia nel 191010. Questi era redattore del quotidiano capitolino “Il popolo romano”, diretto da Costanzo Chauvet11, giornalista, abile a mestare nel fango e “parecchie volte condannato per truffa e per frode contro l’erario dello Stato”12. “Il popolo romano” era di proprietà di un austriaco – Max Claar – ritenuto agente nemico, espulso da Salandra il 14 marzo del 1916; tuttavia Palermi, collaboratore di altri presunti infiltrati, continuò a lavorare alla testata fino al 31 ottobre, quando si dimise, “non per ragioni di dignità ma per motivi economici” 13. In realtà, all’origine dell’atteggiamento meno bellicista della Serenissima Gran Loggia d’Italia vi era l’ostilità verso la guerra del suo Sovrano Gran Commen-

datore e fondatore Saverio Fera. Egli nel 1895, aveva pubblicato, prima sul “Piccolo Messaggere” e in quindi in un volumetto di poche pagine, un saggio su “patriottismo e l’Evangelo”. Il pastore protestante, avverso alla Chiesa di Roma, ma profondamente cristiano, in questo scritto, analizza con attenzione il concetto di patriottismo, ne esamina gli avversari e come può essere malinteso da chi intenda altro per esso, quindi invita il lettore a esaminarlo alla luce del Vangelo che rende l’amor di patria “chiaroveggente”. Egli afferma: “L’Evangelo ha eziandio per effetti di elevare il nostro patriottismo facendoci riguardar le umane cose da un punto di vista più alto di quello che ordinariamente non si usa. Che cosa forma ordinariamente la prosperità di una nazione? Non è più la gloria militare, come un tempo stimavasi. L’aureola di questa gloria, per quanto importante, è singolarmente impallidita da alquanti anni, e fortunatamente s’incomincia ormai a comprendere che la guerra non è una parata, sibbene una lugubre tragedia”14. La più grande fortuna di un paese, la sua forza, la sua prosperità, continua Fera, non sono i beni materiali che possono andare e venire, a secondo dei capricci della storia, “ma i principi di sapienza e di giustizia ai quali s’ispira un popolo e sui quali regola la propria condotta”15. Il Vangelo, partendo da siffatti presupposti ha la capacità di estendere il concetto di patriottismo e d’insegnarci “a conciliare queste due cose che non sono inconciliabili se non per l’osservatore superficiale; cioè: un amore profondo per il proprio paese ed un sentimento di benevolenza per gli altri popoli. Il motto di fratellanza, impresso con indelebili caratteri sul vessillo della moderna civiltà, è in effetti un motto tutto cristiano [… e mette in evidenza nel mondo] questo grande principio: tutti gli uomini sono fratelli qualunque sia la loro nazionalità, il colore della loro pelle, le differenze di lingua o di civilizzazione che li separino; essi sono fratelli perché progenie di Dio e perché Iddio ha fatto di un medesimo sangue tutta la generazione degli uomini. [Questa fratellanza] non è quella […] artificiale che vantano taluni e che fa tabula rasa delle frontiere geografiche, ma quella che ci sospinge a dare una parte del nostro affetto agli altri popoli, riserbando la maggiore per la patria nostra”16. La prima conseguenza di questo atteggia-


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mento è quella di “odiare la guerra come il peggiore di tutt’i malanni – Guerra alla guerra! – […] E se ci si obietta che vi sono guerre nelle quali bisogna pur impegnarsi: rispondiamo senza esitare: No! Noi non possiamo impegnarci, in un senso assoluto […] Non possiamo impegnarci a vedere popoli, membri della grande umana famiglia, fatti per intendersi e fraternizzare fra essi, massacrarsi invece a vicenda […]. Salvo per altro […] quando una nazione è forzata a difendere il proprio territorio, la propria indipendenza […] Ma la guerra di ambizione, per accrescere potenza, per acquistar gloria, per rilevare prestigio […] è crimine di lesa civiltà, di lesa umanità … è delitto! Delitto da mettere orrore! […] Esso è crimine … e finché si commetteranno di tali crimini noi non cesseremo di andar gridando: … pace, pace, pace!”17 È evidente che con tali presupposti egli non poteva sposare la causa della belligeranza e ciò spiega l’atteggiamento prudenziale dell’Obbedienza, comunemente detta di Piazza del Gesù, fino alla dipartita del suo fondatore. Poi, quando il 29 dicembre del 1915, Saverio Fera passò improvvisamente a miglior vita nella sua casa di via Pietrapiana a Firenze, le cose cambiarono repentinamente18. Il suo posto fu preso da Leonardo Ricciardi che, per riguadagnar strada sul Grande Oriente d’Italia, si segnalò per una serie di balaustre e di altri documenti guerrafondai che inneggiavano al conflitto patriottico, alla battaglia fino all’ultimo sangue contro le autocrazie nemiche, le nazioni caserme, veri regni delle tenebre, ostili alla civiltà e al progresso dei popoli. Il fango e il sangue delle trincee riuscirono così, una volta tanto, a mettere d’ac-

cordo, almeno sulla guerra, i due poli della Massoneria italiana; fu un momento di convergenza episodico e circoscritto, l’ostilità permase e di là a qualche anno contribuì alla rovina di tutta la Libera Muratoria italiana che conobbe la propria Caporetto nel 1925. ______________ Note: 1 A. Zarcone, I precursori. Volontariato democratico italiano nella guerra contro l’Austria: repubblicani, radicali, socialisti riformisti, anarchici e massoni, Roma 2014, p. 21. 2 Ibidem, p. 32. 3 “L’Idea democratica” nacque nell’autunno del 1913 per difendere la Massoneria dagli attacchi dei cattolici e dei nazionalisti. Cfr. A.M.Isastia, La Massoneria al contrattacco: “L’Idea democratica” di Gino Bandini (1913 – 1919), in Dall’erudizione alla politica. Giornali, giornalisti ed editori a Roma tra XVII e XX secolo, a. c. di M. Caffiero e G. Monsagrati, Milano 1997. 4 G. Bandini, La Massoneria per la guerra nazionale (1914 – 1915), Roma 1924, p. 13.

8 O. Bovio, Storia dell’Esercito Italiano (1861 – 2000), Roma 2010, p. 217. 9 A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano 1992, p. 407. 10 L. Pruneti, Annales. Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. 1908 – 2012. Cronologia della Massoneria italiana e internazionale, a. c. di A. A. Mola, Roma 2013, p. 51. 11 L. Pruneti, La Tradizione massonica scozzese in Italia. Storia del Supremo Consiglio e della Gran Loggia d’Italia degli A.L.A.M. Obbedienza di Piazza del Gesù dal 1805 ad oggi, Roma 1994, p. 96. 12 Così si espresse Francesco Saverio Nitti in una lettera inviata da Parigi ad un amico nel 1929. Riportata in A. A. Mola, Storia della Massoneria italiana dalle origini ai nostri giorni … cit, pp. 934 – 935. 13 Ibidem, p. 934. 14 S. Fera, Il patriottismo e l’Evangelo, Firenze 1898, p. 27. 15 Ibidem, p. 27. 16 Ibidem, pp. 28 – 29. 17 Ibidem, pp. 29 – 31. 18 L. Pruneti, La Tradizione massonica scozzese in Italia … cit, pp. 94 – 96.

5 Ibidem, p. 13. 6 A. Zarcone, I precursori … cit, p. 34. 7 Stato Maggiore dell’Esercito – Ufficio Storico, L’Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915 – 1918), vol. I, Roma 1927, pp. 66 – 67.

P.70: Monumento ai caduti della Grande Guerra; p.71: Il serbo Dragutin Dimitrijevich (3° da sin.), una delle menti della ‘Mano Nera’; a destra l’Arciduca pochi istanti prima di essere ucciso; in basso il documento di risposta della Serbia; p.73: Immagini della Grande Guerra sul Fronte Italiano.

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Poema cosmogonico Edoardo Boncinelli. Editore: La Vita Felice, 2013. Prezzo euro 15,30.

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doardo Boncinelli nel campo della poesia, come in quello della scienza, lascia il segno. L’autore con modestia afferma: “ma io non posso decidere se sono poeta o meno, dipende dal giudizio dei lettori, magari a epoche diverse.” Ma, dopo tanto cicaleggio sulla poesia, ecco, proprio un grande scienziato ci dà un poema “Cosmogonico” di grande afflato, dove, finalmente “Parlare e Pensare sono tutt’uno”. Assesta un colpo magistrale a quella sparuta setta di poeti e critici minimali collocati nelle posizioni dominanti di case editrici e rubriche giornalistiche dove si formano le opinioni senza lasciar spazio a voci discordanti. In modo perentorio affermano: “Importante non è cosa si dice, ma come si dice.” Dimenticano la formula crociana valida ancora oggi per cui forma e contenuto coincidono. Il poema investe la vastità dei suoi interessi. Incessante e geniale ricercatore scientifico, attento alle risonanze dell’etica, che si consola con la musica e la magistrale traduzione dei suoi amati poeti greci. Ora è

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lui il poeta. Boncinelli come l’Ulisse dantesco è “una nave che non getta l’ancora “, con le vele gonfie, spinto dal vento delle passioni: amore del vero, della scienza, dell’arte, dell’etica; sensibile a tutto ciò che nobilita l’uomo. Esploratore, convinto che “Il vero paesaggio siamo noi uomini.” L’affermazione categorica: “il discorso è cervello in atto”, non lascia scampo circa il “discorso della mente: niente nel linguaggio che non sia prima nella mente e niente nel nostro mondo se non passa attraverso il linguaggio consapevole che è “Impossibile fare poesia senza parole”. Boncinelli parte dal fatto: “Ci sono, lo so / ma non so dire come questo avvenga”, e quindi per cogliere la condizione umana, l’ “esserci”, necessita coltivare la “devozione della riflessione” perchè “siamo tutti colti il flagrante”. Ma nell’osservazione esistenziale del poeta affiora lo scienziato: “La vita (biologica) è sporca, umida: siamo la bestemmia del cosmo, la rottura della simmetria.” L’amara costatazione che solo la mancanza della vita organica preserva dalla corruzione, che “l’inanimato è il padrone del mondo”, fa da contraltare desolato alla vita intesa come “macchia”. Esclama il poeta: “siamo come pesci che da un piccolo acquario vogliono vedere l’infinito.” Boncinelli è consapevole che “la vita non è gratis”, che per tanta gente è solo “un lunedì , dopo una domenica inesistente”, “indaffarati a vivere inseguiti dalla morte”. Ma, anche se è esposto al nulla, al “vuoto a perdere che sono io”, nondimeno si erge fiero, Capaneo in armi: “La morte non mi befferà e sarò contento quando accadrà” , consapevole che “la sofferenza è la cifra della vita”. Non per questo però si deve vivere nell’indifferenza. Come scienziato comprende che “tutte le creature sono collegate tra di loro “, che deve “contemplare il tutto e commentarlo, cogliere la vita, il nesso tra le cose”. Anche se “stiamo ballando sul vuoto”, il poeta ci invita a non demordere, a pensare con la propria testa: Basta a quelli che non alzano mai la testa, gente murata viva”: Inveisce contro “le bande delle idee”, contro “il conformismo planetario” perché tutto questo ci rende schiavi. Annota sconsolato: “Mi ripro-

mettevo la comprensione del mondo e morirò senza aver capito un’acca”, anche se, pensando” mi sono fatto un’opinione su quasi tutto”. Il poeta afferma: Non credo che ci sia una verità e tantomeno la “Verità”. Però, non demorde e pone la sfida: Se non c’è la verità in senso assoluto, c’è la “Menzogna” perché “mentire costa di meno”. Ma egli comprende che “mentire è morire”; la menzogna è la verità tradita, dai politici come promessa non mantenuta, dai giornalisti come notizia falsata ... insomma, anche se “della verità non verrà mai la stagione” bisogna combattere contro la menzogna perché “minaccia la nostra libertà”. Occorre “dire cose vere: quello che so e quello che non so.” Avverte Boncinelli: “porsi delle domande è umano, umano cercare risposte, ma inventare risposte perciò che non si sa, è diabolico”. Egli ci invita la prostituzione del cuore e lei mente perché la “coerenza e tutto” e la vita non è “un baratto né una transizione”. In teologia si afferma che il diavolo è il padre della menzogna, e che il “Male” consiste proprio nel mentire, nell’ingannare, nel rubare, nel fare il contrario di quello di quello promesso. Con ironia Boncinelli afferma che il diavolo è simpatico di Dio, a poi afferma che l’uomo non è tra Dio e il diavolo perché “siamo entrambi!” Contro una metafisica infantile nella realtà le qualità primarie e quelle secondarie (qualia) Boncinelli rivendica il primato dei sensi: “Noi siamo i sensi e viviamo nei sensi”: Ancora più deciso: “Il corpo è tutt’uno col mio io”. Desolato: “Non c’è mai stato un tempo o non lo ricordo in cui il mio io andava libero o volava fuori del corpo”. Poi s’insidia il dubbio: “Il mio corpo un giorno non sarà mentre il mio io, chissà ...” In questo modo il poeta si pone il grande problema della “trascendenza “. Annota pensoso: al mio sapere manca qualcosa all’appello, nonostante tutto qualcosa trascende la vita, al di fuori, al di là, a priori. “È la cifra del mondo che non capisco un residuo, un presupposto, un pieno a prescindere , un esistente al di fuori della mia conoscenza, un qualcosa beffardamente ineffabile, irreale ma ineliminabile”. Da poeta e da scienziato si pone la domanda essenziale:


“Perché c’è qualcosa e non il nulla? “Infine, dietro l’angolo Platone: “Perché ci sei tu anima? Senza di te, se rimanevi dov’eri, io non avrei parlato”. Boncinelli è troppo scaltro a proprie spese anche in psicologia per non sapere distinguere la “Psiche” (sede delle pulsazioni) dall’ “Anima”, l’entità che ci abita e di cui siamo in perenne ricerca”. E se dal punto di vista della scienza di cui Boncinelli è un eminente protagonista a cui ingiustamente è stato sottratto il “Nobel”, è arduo scorgere il senso del mondo e della nostra vita: “Non c’è, non c’è mai stato, non ci può essere un senso e un perché”, però in lui si fa strada la convinzione:” Sono io che devo dare un senso alla mia azione: mutare l’accessorio in essenziale.”Comprende che solo in questo modo si può vincere l’inesorabilità del “Caso” in balia del quale sono gli individui. Solo nella dimensione del trascendente si supera il dubbio amletico: “Vedere uguale ciò che è diverso”, sapere cogliere il rapporto tra l’Uno e i Molti, tra l’Essere e il Divenire. Da vero poeta si pone anche l’arduo problema del Mito. Scartato frottola, Boncinelli sente la necessità di “visitare il mito e impersonarlo per meglio apprezzarne la forza e il mistero perché occorre tranche il vero per andare veramente al di là”. Comprende che il mito soffoca nell’imbracatura del razionalismo illuministico, dove anche il Simbolo diventa insegna pubblicitaria e il Mistero, fuoco che brucia lontano, nella notte, roveto ardente che non si alimenta da legna portate dalla mano d’uomo. Nell’introduzione al poema, Giulio Giorello assegna a Dodo il motto del poeta Ezra Pound: “Amo, dunque sono” per i bei versi che il nostro dedica alla sua An-

gela. Boncinelli comprende pienamente l’affermazione di Leonardo da Vinci respinta da Freud: “l’Amore è figlio della Conoscenza”, e questo è il dono che l’autore fa anche a tutti noi. Ito Ruscigni

Gli iniziati. Il linguaggio segreto della massoneria Luigi Pruneti, Oscar Mondadori, Milano 2014, pp. 219, €. 10,50.

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hi erano, e chi sono davvero, i Massoni? Cosa c’è di vero su quanto si racconta di loro? Come si diventa Massoni? In questo libro un grande esperto di esoterismo e di simbologia ripercorre la storia della Massoneria dalle origini medievali alla nascita delle logge attuali. Con un occhio particolare alla situazione italiana, descrive le diverse realtà del Vecchio e del Nuovo Mondo e la secolare insofferenza del potere per la Massoneria. Inoltre, l’autore ci porta a conoscere tantissimi affiliati celebri, da Cagliostro a Voltaire, da Mozart a Goethe, da Garibaldi a Churchill, per finire con ben quattordici presidenti degli Stati Uniti. Attraverso una precisa spiegazione dei rituali, dei codici, della simbologia massonica e del suo linguaggio, Gli iniziati finalmente mostra cosa sia davvero questa “setta”, quali siano i suoi scopi, quale ruolo abbia svolto e tuttora svolga nella nostra società” [dalla quarta di copertina]. Sommario: Origine e diffusione della massoneria nel mondo; Storia della massoneria in Italia; l’ostilità di ieri e di oggi verso la massoneria; I valori simbolici del gabinetto di riflessioni e del tempio massonico; La coppa delle libagioni: il Graal massonico; I rituali e la ritualità; Gli alti gradi e i riti; Il tempo in massoneria. I calendari massonici; I codici massonici. I tre punti, le abbreviazioni, gli anagrammi, gli alfabeti; I minerali in massoneria. Simbologia minerale; La botanica in massoneria. Simbologia vegetale; Gli animali in massoneria. Simbologia animale; La galleria dei massoni famosi; Il linguaggio massonico; Bibliografia. La Redazione

Beato Gregorio X il papa crociato: il papa templare? Lucio Artini, Costanzo D’Arrigo Editore, Roma 2014, pp. 186, €. 12,50.

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ucio Artini è un ricercatore e uno studioso particolarmente attento alle fonti che ha collaborato con diversi periodici e

ha prodotto saggi di notevole interesse, fino a pubblicare, nell’ottobre di questo anno, il presente libro: Beato Gregorio X il papa crociato: il papa templare? Si tratta di un’opera avvincente nata dal ritrovamento sulla salma del pontefice in questione di una fascia bianca con croci templari. Era Gregorio un membro dell’Ordine? Egli era forse entrato a farne parte in punto di morte, per sottolineare il proprio legame con la Città Santa? Per cercare di rispondere a siffatti interrogativi, Lucio Artini esplora il XIII secolo, esamina il rapporto di amicizia e di collaborazione fra il pontefice e due personaggi eccelsi: San Bonaventura da Bagno Regio e San Tommaso d’Aquino, indaga sulla corruzione della Chiesa, esamina le complesse strutture politiche e di potere, riflette sugli orizzonti culturali del periodo. Da questo suo lavoro fuoriesce l’immagine di un pontefice di alto valore, giacché, consapevole dei problemi della Chiesa, cerca di risolverli, cacciando i corrotti, tentando di riformare il clero, chiarendo i rapporti fra potere temporale e spirituale, risanando la curia romana. Quale fu il risultato di tale impegno, della sua ansia di rinnovamento e di ritorno a una dimensione più spirituale della Chiesa? L’autore non trae conclusione affrettate, si limita a evidenziare le lacune che la storiografia mostra sull’argomento e suggerisce percorsi di ricerca affascinanti e ancora in gran parte inesplorati. Per ciò Beato Gregorio X il papa crociato: il papa templare? è un testo importante che non può mancare a chi s’interessa di storia medievale e, in particolare, del Duecento, il secolo che seminò i germi della modernità. La Redazione

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Grazie all’aiuto del mercante veneziano Sanudo Torsello arriva a Costantinopoli dove verrà coinvolto negli intrighi della corte imperiale d’Oriente. [Riadattamento della quarta di copertina] La Redazione

Il bimbo e la quercia Bert D’Arragon, Tipheret – Gruppo Editoriale Bonanno, Acireale – Roma 2014, pp. 295, €. 20,00.

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ert d’Arragon, nato nel nord della Germania da una famiglia di antiche origini spagnole, vive e lavora da oltre trent’anni in Toscana. Nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo La Libellula che racconta gli anni del fascismo e della Resistenza in Italia, mentre il secondo romanzo Ichnusa è ambientato in Sardegna. Questa terza opera, Il bimbo e la quercia, è ambientata nel XIV secolo, inquieto per l’eresia e per la recessione che ormai incombe su gran parte d’Europa. Il protagonista è Berengario da Paradyse un apprendista amanuense educato nell’antico monastero benedettino di Reichenau sul lago di Costanza. Egli incontra l’anziano teologo Meister Eckhart e ne diventa l’aiutante e lo scrivano. Il giovane accompagnerà il maestro durante i suoi ultimi anni, dal 1321 al 1328, fra Strasburgo, Colonia e infine Avignone dove il grande teologo deve affrontare un processo per eresia. Il ragazzo descrive persone e situazioni, luoghi ed eventi con i suoi occhi da giovane laico, raccontandoci in modo genuino la filosofia del maestro, il processo e le lotte di potere in seno alla Chiesa e tra Impero e Papato. Dopo le vicende oscure del processo, Berengario è costretto a fuggire e tra colpi di scena, misteri e momenti di suspense affronta, insieme alla giovane principessa ucraina Vasilissa, la fuga da una parte all’altra delle avverse terre del Sacro Romano Impero.

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I precursori. Volontariato democratico italiano nella guerra contro l’Austria: repubblicani, radicali, socialisti riformisti, anarchici e massoni Antonino Zarcone, prefazione di A. Garibaldi Jallet, Annales Edizioni, Roma 2014, p. 328, €. 16,00.

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ntonino Zarcone è un noto e apprezzato studioso di storia militare, autore di pregevoli saggi, impostati su documenti spesso inediti o di difficile consultazione. Ufficiale di artiglieria in servizio permanente effettivo, ha conseguito il Master in Scienze strategiche, in Studi internazionali e in Comunicazioni internazionali. Ha partecipato alle operazioni militari in Bosnia, Timor Est e in Irak, ottenendo la Croce con spade del SMOM della Meritorius Service Medal (USA), la Medaglia di bronzo della CRI, il Distintivo d’Onore di ferita in servizio e la Medaglia dell’Associazione dei Veterani russi; Zarcone è Cittadino onorario di Lawton, un centro degli Usa, situato a circa 140 chilometri di distanza da Oklahoma City e celebre per il Comanche National Museum and Cul-

tural. Attualmente, il Nostro, è Capo dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. In questa opera, I precursori, l’autore esamina il fenomeno del volontariato democratico italiano nella guerra contro l’Austria; si trattò di un fenomeno che riunì numerosi repubblicani, radicali, socialisti riformisti, anarchici e massoni desiderosi di combattere contro l’Impero asburgico: il loro sogno era quello di completare il processo risorgimentale, iniziato nel lontano 1848. Un primo gruppo di volontari si costituì già nell’estate del 1914 grazie a Cesare Collizza, repubblicano con tendenza anarchiche che si recò a combattere in difesa della Serbia; un secondo raggruppamento, molto più numeroso, costituì la Legione Garibaldina che, voluta da Peppino Garibaldi, operò con valore sul fronte francese. Fra gli interventisti della prima ora vi furono numerosi Massoni, tanto che il 31 luglio 1914, il Gran Maestro del G.O.I. dichiarò “se mai suoni l’ora delle dure prove, non mancherà la nostra voce per confortarvi ad affrontarle con lo spirito di sacrificio e con la fede dei padri”. Il Grande Oriente, tuttavia, non si limitò ai proclami; fin dal 12 Agosto, infatti, la Gran Maestranza progettò, in gran segreto, di istituire un corpo di volontari – fratelli da tenersi a disposizione del governo. Nel caso poi che il paese fosse rimasto neutrale, Ettore Ferrari immaginava di compiere “l’atto disperato di lanciare al di là dei confini orientali una schiera di votati a morte sicura: e così che, col sacrificio di alcune centinaia di vite, rinnovando le gesta di Sapri [… si provocasse] un incidente diplomatico tale da costringere il Governo all’intervento”. Inoltre il libro sfata mere leggende, come quella sulla morte improvvisa del generale Alberto Pollio, avvenuta tre giorni dopo l’attentato di Sarajevo. Alcuni pensano che la dipartita di Pollio non fosse dovuta a cause naturali ma ai servizi segreti italiani che in sinergia con le potenze dell’Intesa avevano progettato di eliminare un elemento filo tedesco. In realtà egli era in linea col ministro della guerra e precedentemente lo era stato con Giovanni Giolitti: la sua più grande preoccupazione era dovuta alla convinzione che l’Italia fosse impreparata militarmente: riteneva, come gran parte dell’alto comando, che l’armata non fosse pronta a “partecipare a un conflitto del quale non era possibile prevedere gli sviluppi”. I precursori termina con una corposa appendice che include i profili dei protagonisti delle drammatiche giornate che precedettero la Grande Guerra, uno scontro che cambiò


il volto dell’Europa e mutò l’assetto geopolitico del pianeta. Pertanto, questo studio di Antonino Zarcone si pone come un’opera di fondamentale importanza, per comprendere, mettendo da parte i miti, uno degli eventi fondamentali della nostra storia. Luigi Pruneti

ropa che, valicato il confine tra Medioevo e Rinascimento, era squassata da feroci guerre di religione, era la Francia della notte di San Bartolomeo insanguinata dalla strage degli Ugonotti. In quel momento bastava una delazione anonima, una seppure non documentata accusa d’eresia, per finire sul cavalletto di tortura della Santa Inquisizione e di lì sul rogo. Ed è evidente che Nostradamus non aspirasse a questa forma di martirio. Il libro di Lantos, documentato con rigore, restituisce alla storia un essere umano divenuto leggendario suo malgrado. La Redazione

Quel mare che bagnava Firenze

Nostradamus - Vita e misteri dell’ultimo profeta Giuseppe Ivan Lantos, Cairo Editore, Milano 2014, pp. 262, € 15,00.

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iuseppe Ivan Lantos, l’autore di questo libro intitolato Nostradamus-Vita e misteri dell’ultimo profeta, afferma: «Vi sono personaggi che per le circostanze eccezionali della loro esistenza e per la fama buona o cattiva che sia, finiscono con l’essere espropriati alla storia e consegnati a una dimensione leggendaria che la fantasia, popolare e no, ingrandisce fino a renderli “altri”. Il mio scopo nello scrivere questo libro, l’unica biografia di Nostradamus dopo quella di Jean-Ayme de Chavigny, suo segretario e allievo è stato quello di restituire alla storia un personaggio del quale la leggenda ha finito con il distorcere i lineamenti fino a renderlo quasi irriconoscibile». Sono trascorsi oltre quattro secoli dalla morte del dotto francese Michel de Nostre - Dame, universalmente conosciuto con il nome di Nostradamus, ma la sua fama non è mai tramontata: la sua figura continua ad appassionare iniziati, aspiranti, studiosi e

semplici curiosi. La sua immagine, spesso distorta, è però legata più alle Centurie, versi profetici di difficile e, spesso, arbitraria interpretazione, che alle avventurose vicende della sua vita quotidiana. Nostradamus fu uomo di successo del suo tempo: scienziato, medico combatté la peste sovente con successo, fu alchimista e astrologo, filosofo e poeta, attento osservatore della politica, viaggiò per tutta Europa, i potenti lo vollero accanto a loro per predire il futuro. Di ascendenze ebraiche, d’appartenenza cattolica, Nostradamus nel secolo delle eresie riuscì sempre a eludere l’occhiuta Inquisizione, malgrado i suoi poteri di guarigione, sospettati di magia. Nella sua illuminante prefazione, Luigi Pruneti scrive: “Di lui si sente parlare in maniera ossessiva a ogni capodanno e, soprattutto, quando l’infelice umanità è bersagliata da un evento apocalittico. Allora il nome di Nostradamus rimbalza sui quotidiani, occupa i periodici, erompe come un maremoto sulla rete. Inoltre, con cadenza periodica, le sue Centurie sono pubblicate e interpretate per l’ennesima volta da novelli esegeti del mistero, suscitando polemiche fra chi le considera versi profetici e chi le liquida come esempio di ‘chiaroveggenza retroattiva’, affermando che le strofe hanno contenuto così generico e ambiguo che ciascuno può leggerlo come vuole”. Questi esegeti sembrano ignorare quello che Nostradamus stesso scrisse nell’Epistola indirizzata al re di Francia Enrico II nella quale si trova la “chiave” per comprendere l’incomprensibilità del suo profetare: “Ma l’ingiuria del tempo, o Serenissimo Re, richiede che tali segreti avvenimenti non siano resi noti che tramite enigmatiche sentenze...” L’ingiuria del tempo alla quale si riferisce il “veggente” di Salon è il clima drammatico di quella Francia e, per esteso, di quella Eu-

Paolo Notarbartolo di Sciara e Gaetano N. Cafiero, Polistampa, Firenze 2014, pp. 200, € 20,00.

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a solcato le profondità di oceani remoti e bellissimi, catturando nei suoi documentari la natura sottomarina dell’Australia, dell’Antartide, del Mar Rosso e del Mediterraneo, di isole sconosciute e di parchi marini. Ma la vita di Paolo Notarbartolo di Sciara non è fatta soltanto di immersioni e riprese subacquee: la sua storia, narrata nel libro Quel mare che bagnava Firenze (Polistampa, pp. 200, € 20) scritto in collaborazione col giornalista Ninì Cafiero, è anche la storia di un partigiano, libero muratore, accademico e imprenditore.

Il libro inizia molto tempo prima della sua nascita, con l’assassinio a opera della mafia dell’antenato Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, figura di rilievo del Risorgimento; un tragico evento che determinò la diaspora della famiglia dalla Sicilia. Il racconto prosegue con la prima gioventù, fortemente condizionata dal padre alto magistrato, e con l’adolescenza negata dalla guerra partigiana, combattuta da Paolo nel nome degli ideali liberali, per giungere poi nel 1966 all’adesione convinta alla Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori, Obbedienza di Piazza del Gesù. Nello stesso anno Notarbartolo fonda a Firenze il Gruppo Ricerche Scientifiche e Tecniche Subacquee. Affiancato da straordinari personaggi quali Alessandro Olschki, Piero Solaini nel settore subacqueo e, in quello scientifico, da Benedetto Lanza, Giuseppe Giaccone, Giorgio Marinelli e Francesco Cinelli, prende parte alle più importanti spedizioni in quasi tutti i mari del mondo, arricchendo l’archivio fotografico mondiale di biologia marina e

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realizzando una ventina di documentari fra i quali dieci sugli allora istituendi Parchi Marini italiani. Il G.R.S.T.S. ha un ruolo pionieristico nel far conoscere le potenzialità dell’attività subacquea al grande pubblico e nel mostrarne i possibili sodalizi con la scienza e la ricerca. Tra i risultati più significativi, l’aver filmato per primi il fenomeno della riproduzione sessuata dei coralli della Grande Barriera australiana. Sempre in Australia ha anche documentato in immersione le stromatoliti, strutture sedimentarie risalenti a più di 4 miliardi di anni fa, che iniziarono, con la loro attività fotosintetica, ad arricchire di ossigeno l’atmosfera terrestre. Il mondo della ricerca e quello massonico si intrecciano in più di un’occasione, e l’autore racconta ogni episodio coniugando la sua vasta conoscenza storica con il gusto dell’aneddoto e della curiosità. Come nel caso della Regina Zein El Sharaf, madre di Re Hussein di Giordania, che Notarbartolo apprese essere stata iniziata a Roma nella sua stessa Obbedienza (“Sapevo di avere qualche parente principe, ma a una ‘sorella’ Regina non pensavo proprio!”). La scoperta, avvenuta nel corso di un colloquio col Gran Maestro Giovanni Ghinazzi, porterà in seguito a intensificare i rapporti con la Giordania, con cui il G.R.S.T.S. collaborava già dalla nascita, ai tempi delle prime spedizioni nel Mar Rosso. Molti sono anche gli intrecci tra i Liberi Muratori e i grandi eventi della nostra storia e il libro ce li racconta in modo puntuale e circostanziato incorrendo in vere e proprie rivelazioni. Tra queste un documento inedito che testimonia il ruolo del presidente USA Harry Truman, anch’egli massone, nel risollevare le sorti del Vecchio Continente alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Truman temeva le

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impulso determinante al mondo della ricerca in Italia. Un’ampia bibliografia e una nutrita appendice completano il quadro di questo appassionante racconto, in cui il fascino della narrazione si accompagna alla bellezza delle immagini a colori. Gherardo Del Lungo

Un sogno che profuma di ginestra Carmelo Guardo, Gruppo Editoriale Bonanno, Acireale – Roma 2014, pp. 173, €. 15,00.

C ingerenze dell’Unione Sovietica, che era riuscita a estendere la sua influenza oltre i confini dei paesi dell’Est verso l’Europa occidentale, quindi inviò una Commissione massonica in Europa per esaminare le condizioni in cui versava la Libera Muratoria e organizzare aiuti idonei a mantenere nei vari popoli l’autodeterminazione dei propri destini. Questi Fratelli americani si spostarono in Svezia, Finlandia, Francia, Norvegia, Danimarca, Grecia, Cecoslovacchia, Germania, Olanda, Belgio, Austria e Italia, stendendo poi i loro rapporti e influenzando indirettamente le scelte dell’amministrazione USA. Nel complesso, la vita di Paolo Notarbartolo è la testimonianza autentica di un uomo che ha combattuto con coraggio per la libertà e ha seguito fino in fondo la propria passione per il mare, conseguendo importanti risultati scientifici e fornendo un

armelo Guardo, romano di nascita, catanese di adozione, eredita dal bisnonno Giuseppe, autore di poesie dialettali e testi teatrali per l’infanzia, doti e qualità che gli consentono di percorrere il solco della composizione poetica e narrativa. Dopo aver pubblicato Le conchiglie di Ellenar, Ritorno a Ellenar e La clessidra e la rosa, presenta ora Un sogno che profuma di ginestra, delicato romanzo sospeso fra il reale e l’onirico, fra la ricerca di una dimensione perduta e il desiderio di orizzonti lontani. Tutto parte da un sogno che squarcia il velo del tempo e spinge il protagonista ad andare a ritroso nei ricordi, alla scoperta dei perché di un’emozione rimasta tale. Una realtà ammantata di mistero si veste di nuova vita tra le corti nascoste di una Venezia magica, dove Verena, donna misteriosa e affascinante, sembra trovarsi a suo agio. Una Venezia magica, capace di risvegliare un amore antico per una Lei mai dimenticata che si riaffaccia pudico tra le pieghe del cuore di Carmine, lui viaggiatore del cielo sempre alla ricerca del proprio io”. [Riadattamento della quarta di copertina]. La Redazione


R.L. Iliria Oriente di Fiume

in varie tonalità, chiare e scure, del color oro e bordato con linee ocra chiaro. L’uomo a cavallo porta un elmo di chiara matrice ellenistica ed uno scudo sul quale compare al centro il Delta e l’Occhio che tutto vede. La figura del cavaliere ben simboleggia le antiche origini illiriche e la volontà di difendere e promuovere la strada alla Libertà del pensiero umano.

R.L. Dalmatia Oriente di Spalato

R.L. Liburnia Oriente di Fiume

S

i presenta di foggia circolare composta da un anello esterno e da una parte centrale. Alla sommità del primo, su campo ocra chiaro bordato in blu, compare il nome della R:. L:. (C:. L:. - in scrittura croata) “ILIRIA”. Per specifica volontà si presenta con una sola lettera “L” ed il testo è composto con un carattere di stampa maiuscolo, tardo medievale di colore blu. Stesse caratteristiche sono riscontrabili al piede dove si legge il motto di Loggia: “LIBERTATI VIAM FACERE”. Sempre nell’area dell’anello esterno, poste sull’asse centrale orizzontale, vi sono le figure simboliche della Luna a sinistra e del Sole a destra. Queste due immagini sono simili a quelle usate nel gioiello della R:. L:. Liburnia, sia per grafia che per posizione. Questo per sottolineare lo stretto rapporto con la R:. Loggia Madre. La Luna si presenta in tinta pari al 50% del colore blu impiegato nel gioiello, mentre il Sole è color oro con anello centrale bianco. Nel cerchio centrale su campo blu, nei tratti essenziali e in tinta pari al suo 50%, compare la sagoma della costa IstroDalmata a ricordo delle antiche terre illiriche. Con l’identico color oro, dodici stelle sono poste a sinistra su di un arco di centosettanta gradi a simboleggiare i dodici segni zodiacali come pure le dodici stelle presenti nella bandiera Europea, avente anch’essa lo sfondo blu. Nell’area bassa, ad un terzo della campitura centrale, una serie di quadrati posti a scacchiera con differenza cromatica nel rosso e bianco, simboleggiano gli elementi presenti nello scudo dello Stemma della Croazia come pure il quadrilungo presente nel Tempio dell’Officina. Sopra tutti questi elementi descritti in precedenza, dalla parte destra del campo centrale, avanza la figura di un cavaliere illirico. Egli è stato riprodotto negli elementi essenziali da un antico bassorilievo. II disegno si presenta

nella città di Spalato. Sono visibili delle differenziazioni cromatiche nelle due colonne centrali. Una è di colore rosso scuro mentre l’altra è di colore quasi bianco. Su questi elementi grafici, sono sovrapposti sul lato di sinistra la falce di Luna (femminile) e su quello di destra il Sole (maschile). Al centro, nella parte alta del peristilio ovvero sul suo frontone, campeggia ii Delta con l’occhio simbolo per eccellenza del Grande Architetto dell’Universo. Sempre nel cerchio, nei rimanenti due terzi, è tracciata figurativamente la volta celeste in campo blu e stelle dorate. Varie forme di rappresentazione del gioiello di Loggia, a seconda degli impieghi previsti, sono allegate a questa descrizione.

I

l gioiello della Rispettabile Loggia “DALMATIA” all’Oriente di Spalato si sviluppa all’intemo di una sagoma composta da archi di cerchio e raccordati da curve. Il tutto nel rispetto della simmetria orizzontale, mentre in quella verticale si discosta per dare maggior spazio al nome dell’Officina. Nella parte superiore, il gioiello porta il motto brocardo “HONOS HABET ONUS” - “Ogni onore comporta un onere”. Dalla parte opposta, le lettere tripuntate “C” ed “L” delle iniziali in lingua croata di CIJENJENA LOZA (Rispettabile Loggia) precedono il nome “DALMATIA” regione geografica della costa orientale del mare Adriatico. Sui lati ad arco di sinistra e destra, trovano spazio a loro volta la lettera “J” e la lettera “B” tracciate come fossero antichi simboli scolpiti dalla muratoria operativa medievale. Altri elementi decorativi sono presenti all’intemo di un area circolare ed essi si sviluppano in verticale uscendone dalla parte alta. Alla base di questo cerchio “contenitore” troviamo il simbolo per eccellenza della Libera Muratoria, ovvero la Squadra e il Compasso posti in grado di Maestro. Lo sfondo è diviso, a circa un terzo dalla base, da un quadrilungo prospettico a scacchi rossi e bianchi che riprendono gli elementi dell’araldica croata. Da questo si erge, nei suoi elementi architettonici principali, il peristilio presente nel Palazzo di Diocleziano

L

iburna è il nome dell’antica area del nord est dell’adriatico che ospitava il popolo illirico dei liburni. Sempre con l’identico nome era indicata una antica nave da guerra che presentava normalmente due ordini di remi; nel periodo della Roma imperiale si usava questo termine con il significato generico di nave. Il gioiello è di foggia circolare, al cui intemo ve n’è un altro formando quindi un toro. Il colore dell’insieme è bianco bordato in oro. Nella parte alta si trova il nome dell’Officina “C.L. LIBURNIA” dove la lettere C.L. corrispondono a quelle in lingua italiana R. L. Ai lati sono presenti gli astri Luna e Sole nelle posizioni previste dalla nostra Obbedienza. Alla base del cerchio esterno del toro, il motto della Loggia: “LUX IN TENEBRIS LUCET”. Sullo sfondo del cerchio interno del toro è presente il quadrilungo a scacchi rossi e bianchi che riprendono cromaticamente quelli presenti nello stemma della Croazia. Su delle onde marine campeggia la prua di una antica nave romana. Su di essa è presente il Delta con l’occhio del G.A.D.U. Sotto di esso, il disegno schematico di una squadra e compasso non definibile nel Grado si sovrappone al tutto ed è bordato per differenziarsi dal resto della grafica.

79


I Fregi ad oggi pubblicati La sequenza dei Fregi è in ordine alfabetico per denominazione di Loggia e successivamente per Oriente.

R∴L∴ 14 Juillet Or∴di Savona R∴L∴ 4 Giugno 1270 R.G. Or∴di Viterbo R∴L∴ Ab Initio Or∴di Portoferraio R∴L∴ Ad Justitiam Or∴di Lucca R∴L∴ Aetruria Nova Or∴di Versilia R∴L∴ Alef Or∴di Viareggio R∴L∴ Aleph Or∴di Lecce R∴L∴ Aletheia Or∴di Roma R∴L∴ Alma Mater Or∴di Arezzo R∴L∴ Anita Garibaldi Or∴di Firenze R∴L∴ A.Garibaldi/A.Giulie Or∴di Livorno R∴L∴ Antares Or∴di Firenze R∴L∴ A.Toscano Or∴di Corigliano Calabro R∴L∴ Antropos Or∴di Forlì R∴L∴ Araba Fenice Or∴di Vibo Valentia R∴L∴ Archita Or∴di Taranto R∴L∴ Aristotele II Or∴di Bologna R∴L∴ Astrolabio Or∴di Grosseto R∴L∴ Athanor Or∴di Brescia R∴L∴ Athanor Or∴di Cosenza R∴L∴ Athanor Or∴di Pinerolo R∴L∴ Athanor Or∴di Rovigo R∴L∴ Athena Or∴di Pinerolo R∴L∴ Atlantide Or∴di Pinerolo R∴L∴ Audere Semper Or∴di Firenze R∴L∴ Augusta Or∴di Torino R∴L∴ Aurora Or∴di Genova R∴L∴ Ausonia Or∴di Siena R∴L∴ Ausonia Or∴di Torino R∴L∴ Bereshit Or∴di Sanremo R∴L∴ C. B.Conte di Cavour Or∴di Arezzo R∴L∴ C. Rosen Kreutz Or∴di Siena R∴L∴ Carlo Fajani Or∴di Ancona R∴L∴ Cartesio Or∴di Firenze R∴L∴ Cattaneo Or∴di Firenze R∴L∴ Cavalieri del Tempio Or∴di Roma R∴L∴ Cavour Or∴di Prato R∴L∴ Cavour Or∴di Vercelli R∴L∴ Chevaliers d’Orient Or∴di Beirut R∴L∴ Cidnea Or∴di Brescia R∴L∴ Clara Vallis Or∴di Como R∴L∴ Concordia Or∴di Asti R∴L∴ Corona Ferrea Or∴di Monza R∴L∴ Cosmo Or∴di Argentario Albinia R∴L∴ Costantino Nigra Or∴di Torino R∴L∴ Dalmatia Or∴di Spalato R∴L∴ D.Di Marco Or∴di Piedim.Matese R∴L∴ Dei Trecento Or∴di Treviso R∴L∴ Delta Or∴di Bologna R∴L∴ Eleuteria Or∴di Catania R∴L∴ Eleuteria Or∴di Pietra Ligure R∴L∴ Emanuele De Deo Or∴di Bari R∴L∴ Enrico Fermi Or∴di Milano

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R∴L∴ EOS Or∴di Bari R∴L∴ Epidamnus Or∴di Durazzo R∴L∴ Erasmo Or∴di Torino R∴L∴ Ermete Or∴di Bologna R∴L∴ Etruria Or∴di Siena R∴L∴ Excalibur Or∴di Trieste R∴L∴ Falesia Or∴di Piombino R∴L∴ Fargnoli Or∴di Viterbo R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Torino R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Vicenza R∴L∴ Federico II Or∴di Catania R∴L∴ Federico II Or∴di Firenze R∴L∴ Federico II Or∴di Jesi R∴L∴ Fenice Or∴di Massa Marittima R∴L∴ Fenice Or∴di Roma R∴L∴ Fenice Or∴di Spotorno R∴L∴ Ferdinando Palasciano Or∴di Roma R∴L∴ Francesco Nullo Or∴di Varsavia R∴L∴ F.Rodriguez y Baena Or∴di Milano R∴L∴ Fidelitas Or∴di Firenze R∴L∴ Filistor Or∴di San Severo R∴L∴ Fra Pantaleo Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Fratelli Cairoli Or∴di Pavia R∴L∴ Fratelli d’Italia Or∴di Piombino R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Roma R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Vibo Valentia R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Livorno R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Parma R∴L∴ G.Biancheri Or∴di Ventimiglia R∴L∴ G.Bruno - S.La Torre Or∴di Roma R∴L∴ G.Papini Or∴di Roma R∴L∴ Galahad Or∴di Roma R∴L∴ Garibaldi Or∴di Castiglione R∴L∴ Garibaldi Or∴di Cosenza R∴L∴ Garibaldi Or∴di Mazara del Vallo R∴L∴ Garibaldi Or∴di Toronto R∴L∴ Gaspare Spontini Or∴di Jesi R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Catanzaro R∴L∴ Gianni Cazzani Or∴di Pavia R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Bari R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Firenze R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di R.Calabria R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Follonica R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Partanna R∴L∴ Giovanni Bovio Or∴di Bari R∴L∴ Giovanni Pascoli Or∴di Forlì R∴L∴ Giovanni Risi Or∴di Firenze R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Roma R∴L∴ Goldoni Or∴di Londra R∴L∴ Graal Or∴di Livorno R∴L∴ Hercules Or∴di Cagliari R∴L∴ Herdonea Or∴di Foggia R∴L∴ Heredom Or∴di Torino R∴L∴ Hiram Or∴di Bologna

R∴L∴ Hiram Or∴di Sanremo R∴L∴ Hispaniola Or∴di Santo Domingo R∴L∴ Horus Or∴di Padova R∴L∴ Horus Or∴di Pinerolo R∴L∴ Horus Or∴di R.Calabria R∴L∴ Humanitas Or∴di Pistoia R∴L∴ Humanitas Or∴di Treviso R∴L∴ Ibis Or∴di Torino R∴L∴ Il Cenacolo Or∴di Pescara R∴L∴ Il Nuovo Pensiero Or∴di Catanzaro R∴L∴ Iliria Or∴di Fiume R∴L∴ Internazionale Or∴di Sanremo R∴L∴ Iter Virtutis Or∴di Pisa R∴L∴ Jakin e Boaz Or∴di Milano R∴L∴ Janua Coeli Or∴di Napoli R∴L∴ Kipling Or∴di Firenze R∴L∴ La Fenice Or∴di Bari R∴L∴ La Fenice Or∴di Chieti R∴L∴ La Fenice Or∴di Forlì R∴L∴ La Fenice Or∴di Livorno R∴L∴ La Fenice Or∴di Pieve a Nievole R∴L∴ La Fenice Or∴di Rovato R∴L∴ La Prealpina Or∴di Biella R∴L∴ La Silenceuse Or∴di Cuneo R∴L∴ Le Melagrane Or∴di Padova R∴L∴ Leonardo da Vinci Or∴di Taranto R∴L∴ Les 9 Soeurs Or∴di Pinerolo R∴L∴ Libertà e Progresso Or∴di Livorno R∴L∴ Liburnia Or∴di Fiume R∴L∴ Liguria Or∴di Orspedaletti R∴L∴ Logos Or∴di Milano R∴L∴ Luce e Libertà Or∴di Potenza R∴L∴ Luigi Alberotanza Or∴di Bari R∴L∴ Luigi Spadini Or∴di Macerata R∴L∴ Lux Or∴di Firenze R∴L∴ Lux Solis Or∴di Cosenza R∴L∴ M’’aat Or∴di Barletta R∴L∴ Magistri Comacini Or∴di Como R∴L∴ Manfredi Or∴di Taranto R∴L∴ Melagrana Or∴di Cosenza R∴L∴ Melagrana Or∴di Torino R∴L∴ Minerva Or∴di Cosenza R∴L∴ Minerva Or∴di Torino R∴L∴ Monviso Or∴di Torino R∴L∴ Mozart Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Mozart Or∴di Genova R∴L∴ Mozart Or∴di Roma R∴L∴ Mozart Or∴di Torino R∴L∴ Navenna Or∴di Ravenna R∴L∴ Nazario Sauro Or∴di Piombino R∴L∴ Nigredo Or∴di Torino R∴L∴ Nino Bixio Or∴di Trieste R∴L∴ Oltre il Cielo Or∴di Lecco R∴L∴ Omnium Matrix Or∴di Milano

R∴L∴ Orione Or∴di Torino R∴L∴ Palermo Or∴di Palermo R∴L∴ Paolo Ventura Or∴di Lamezia Terme R∴L∴ Parmenide Or∴di Salerno R∴L∴ Per Aspera ad Astra Or∴di Lucca R∴L∴ Petrarca Or∴di Abano Terme R∴L∴ Pietro Micca Or∴di Torino R∴L∴ Pisacane Or∴di Udine R∴L∴ Pitagora Or∴di Cosenza R∴L∴ Pitagora Or∴di Guidonia R∴L∴ Polaris Or∴di Livorno R∴L∴ Polaris Or∴di Reggio Calabria R∴L∴ Principe A.DeCurtis Or∴di Rovato R∴L∴ Principi RosaCroce Or∴di Milano R∴L∴ Prometeo Or∴di Lecce R∴L∴ Re Salomone /F.Nuove Or∴di Milano R∴L∴ Risorgimento Or∴di Milano R∴L∴ Ros Tau Or∴di Verona R∴L∴ S.Giovanni Or∴di Bass.d.Grappa R∴L∴ Sagittario Or∴di Prato R∴L∴ Salomone Or∴di Catanzaro R∴L∴ Salomone III Or∴di Siena R∴L∴ San Giorgio Or∴di Genova R∴L∴ San Giorgio Or∴di Milano R∴L∴ Saverio Friscia Or∴di Sciacca R∴L∴ Scaligera Or∴di Verona R∴L∴ Sibelius Or∴di Vercelli R∴L∴ Sile Or∴di Treviso R∴L∴ Silentium et Opus Or∴di Val Bormida R∴L∴ SmiDe Or∴di Stra R∴L∴ Stupor Mundi Or∴di Taranto R∴L∴ Teodorico Or∴di Bologna R∴L∴ Themis Or∴di Verona R∴L∴ Trilussa Or∴di Bordighera R∴L∴ Triplice Alleanza Or∴di Roma R∴L∴ Ugo Bassi Or∴di Bologna R∴L∴ Ulisse Or∴di Bergamo R∴L∴ Ulisse Or∴di Forlì R∴L∴ Umanità e Progresso Or∴di Sanremo R∴L∴ Uroboros Or∴di Milano R∴L∴ Valli di Susa Or∴di Susa R∴L∴ Venetia Or∴di Venezia R∴L∴ Verum Quærere Or∴di Prato R∴L∴ Vincenzo Sessa Or∴di Lecce R∴L∴ Virgilio Or∴di Mantova R∴L∴ Virgo Or∴di Roma R∴L∴ Vittoria Or∴di Savona R∴L∴ Voltaire Or∴di Torino R∴L∴ XI Settembre Or∴di Pesaro R∴L∴ XX Settembre Or∴di Torino R∴L∴ Zenith Or∴di Cosenza R∴L∴ Zodiaco Or∴di Pinerolo


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