Trimestrale internazionale di attualità , storia e cultura esoterica — Anno XXVI - Settembre 2014 - n.3
Trimestrale internazionale di attualità, storia e cultura esoterica Anno XXVI - numero 3 - Settembre 2014 Direttore Editoriale
ANTONIO BINNI Direttore Responsabile LUIGI PRUNETI Segreteria di Redazione ROBERTO PINOTTI SIMONE TADDEI Consulente Legale IVAN IURLO Comitato Scientifico VINCENZO CIANCIO ALDO ALESSANDRO MOLA PAOLO ALDO ROSSI IDA LI VIGNI PAOLO MAGGI RENATO ARIANO
hanno collaborato a questo numero ANTONIO BINNI VINCENZO CIANCIO IVAN LANTOS PAOLO MAGGI ALDO ALESSANDRO MOLA ALESSIA OTTOMANELLI LUIGI PRUNETI PAOLO ALDO ROSSI ANNALISA SANTINI JEAN MARC SCHIVO ISABELLA ZOLFINO progetto e realizzazione PAOLO DEL FREO
Sommario L.Pruneti - Autunno a Porta Pia — 2
A.Binni - Europa e Massoneria — 4
A.A.Mola - 1914-2014: Centenario Grande Guerra — 12
I.Zolfino - Napoleone, gli Illuminati e la Massoneria — 18
L.Pruneti - Vexata quaestio — 26
I.Lantos - Bakunin, Massone e anarchico — 36
A.Santini - Incroci pericolosi — 42
P.Maggi - I miti e la scienza: Apollo e Dioniso — 48
P.A.Rossi - Le donne son venute in eccellenza — 54
J.M.Schivo - Giardini massonici — 60
V.Ciancio - Nel ricordo del Fratello Mauro Francaviglia — 66
In Biblioteca — 68
Fregi di Loggia — 79
lapide sulle mura della Porta, consacrate dal sangue dei figli dell’Urbe antica; per tutta risposta i clericali pubblicarora le quattro sorelle dell’anno l’au-
no sulle colonne de La Civiltà cattolica
tunno è quella chi più mi appartie-
una contro-epigrafe al fiele: “Fui Porta
ne. Amo le spiagge deserte, l’oro del-
Pia. Ma vile oggi e dispetta / da cinque
le vigne, l’acqua torbida dei canali ove
lustri Porta Pia son detta; / da che driz-
si specchia la malinconia del salice. Mi piace cogliere il mutare del vento che invita gli stormi a migrare e il seme a cercare della terra l’abbraccio. Apprezzo questa stagione di rimpianti e di ricordi, di bilanci e di progetti, questo attimo dell’anno dove passato e futuro sembrano sovrapporsi in un effimero presente. Magie dell’equinozio, di quella rete di bianco e di nero che avviluppa ogni umano divenire. Passeranno i giorni, l’equilibrio sarà rotto e, nel bruire della pioggia, il buio imporrà la propria legge alla terra, attonita in attesa dell’inverno; tuttavia la rimembranza dell’equinozio, con i suoi
Vago sono d’autunno Come il colchico Ebbro di pioggia … numerosi messaggi, resterà in noi, sollecitando il cammino verso nuovi orizzonti, memori di ciò che ci lasciammo alle spalle. Già la memoria … anche questo sollecita l’autunno; non a caso, il nostro anno ha inizio con la celebrazione del Venti Settembre. Ricorrenza che ormai non
li usar Bixio e Cadorna, / e il Giudeo col Massone entrar fu visto / nel suo Vicario a far captivo Cristo. / Or si vuol rinnovarmi e l’onta e il duolo: / passegger per pietà, radimi al suolo”. Tempi lontani, avvenimenti che non interessano più, destinati forse a essere espunti anche dai libri di testo della nostra derelitta scuola. Non ci riuscì l’Impero asburgico a impedire l’Unità d’Italia, non vi riuscì nemmeno Napoleone III, pentito delle sue antiche scelte; ci stanno riuscendo gli Italiani che, affetti da autolesionismo cronico, stanno demolendo la memoria collettiva. Da tempo varie scuole di pensiero stanno cercando di demonizzare il Risorgimento, evidenziando tutti gli errori commessi, gettando nella polvere Garibaldi e Mazzini, i Savoia e Zanardelli. Dimenticano in blocco ciò che quegli uomini riuscirono a costruire, superando difficoltà di ogni genere. In un mondo dove si sgozza chi appartiene a una fede diversa e si vendono le donne come schiave, forse la memoria di chi volle un paese libero, tollerante, sorretto dal diritto, dovrebbe essere rivalutata. Oggi Porta Pia è per molti solo un’area dove parcheggiare la macchina; sarebbe
suscita più emozioni, sepolta com’è da
opportuno che almeno per noi tornas-
indifferenza e oblio. Un tempo, invece,
se a essere motivo d’orgoglio, simbo-
la data della “presa di Roma” suscitava
lo d’appartenenza e emblema di valori
passioni incontenibili, contrapponeva,
fondamentali e irrinunciabili.
separava … È passato quasi un secolo da quando i Liberi Muratori posero una 2
zando contro me le corna, / mezzi mora-
P.2-3: Il Monumento al Bersagliere, piazzale di Porta Pia, Roma (foto P.Del Freo).
Autunno a Porta Pia Luigi Pruneti
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Gran Maestro
Europa e Massoneria Antonio Binni
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e il dubbio è il motore di un’instancabile ricerca della verità, figlia dello stupore e della meraviglia, l’utopia, lungi dall’essere il fascino dell’impossibile, altro non è, invece, che un progetto da realizzare. Che non sempre, però, anima il progresso. La storia, infatti, insegna che l’utopia, in più di una circostanza, ha mostrato anche un volto persecutorio perché la realizzazione del disegno, che la racchiude, è causa, inevitabile, di prevaricazione nei confronti di quanti, a quel progetto, non si adeguano.
Gran Maestro
I sapienti rifulgeranno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno educato molti alla giustizia risplenderanno come stelle per sempre Daniele 12,3
Così come è sempre la storia a insegnare che la fine di quel progetto, intenzionalmente progressivo, è mesta, coincidendo in fallimenti, spesso, anche cruenti. Il che induce alla domanda, autorevolmente posta, “i fallimenti liquidano l’utopia, o l’utopia resta un bisogno morale al di là del naufragio?” Superfluo aggiungere che, all’alternativa posta, debba essere preferito il secondo corno del dilemma. Dove le sommarie considerazioni poste, incomplete e inevitabilmente parziali, sono palesemente funzionali al tema che intendiamo trattare, per essere, allo stesso, all’evidenza, propedeutiche. Nessuno, infatti, può, anche soltanto minimamente dubitare che l’Europa abbia segnato un salto nell’Utopia, sostanziata nel disegno di trasformare nazionalisti tradizionalmente in reciproca antitesi fra loro in Europei convinti. Un salto di qualità che, nella riconciliazione, e nella scoperta di una comune
Quali insegnamenti ricavare dallo scrutinio europeo? 1° Forum delle Obbedienze massoniche liberali ed adogmatiche dell’Unione Europea — 28 maggio 2014, rue Cadet, 16 - 75009 Parigi
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enticinque Obbedienze massoniche liberali ed adogmatiche, attive nei diversi Paesi dell’Unione Europea o nei Paesi vicini, si sono riunite a Parigi il 28 maggio 2014. Esse hanno preso atto dei risultati delle elezioni europee dei giorni 22-25 maggio 2014 e, in linea generale, dell’evoluzione della nostra società. Esse sono preoccupate per una possibile messa in discussione degli ideali che sono stati all’origine della creazione dell’Unione: pace, solidarietà tra i Paesi, libertà di coscienza ed umanesimo, ideali che sono i medesimi della Massoneria. Esse hanno constatato che tra le diverse associazioni ed organizzazioni, che si esprimono presso le istanze europee, per difendere le loro visioni della vita sociale, la Massoneria era troppo spesso assente, e la sua voce non è stata ben compresa. Esse hanno deciso di organizzarsi per lavorare insieme allo scopo di sviluppare una reale solidarietà tra Obbedienze
e di elaborare dei progetti volti ad obiettivi umanistici comuni, difendendo i valori della Massoneria e l’interesse generale. Esse hanno convenuto di studiare i mezzi per presentarli ai governanti dei loro Paesi ed a quelli dell’Unione Europea. Il Forum delle Obbedienze liberali ed adogmatiche del 28 maggio 2014 è la prima manifestazione di tale progetto. Le Obbedienze si impegnano a sviluppare, tra di loro, una comunicazione fraterna e ricca di proposte ed ad incontrarsi ogni anno, nell’uno o nell’altro dei Paesi aderenti, per proseguire ed approfondire il cammino iniziato. I Gran Maestri/Gran Maestre comunicheranno tra di loro nel corso di conferenze o videoconferenze trimestrali. Le obbedienze si propongono di lavorare, nel corso dell’anno 2014/2015, sui temi che trattino della solidarietà, della libertà di espressione e di coscienza, della democrazia, per una Europa veramente umanistica. 5
Gran Maestro
identità, pur nella ricchissima molteplicità, avrebbe dovuto avere il proprio saldo fondamento e la sua sicura pietra angolare. A ben considerare, fu una scommessa dal chiaro sapore pascaliano, purtroppo, però, non del tutto vinta. Anche se, fra i suoi in verità non numerosi meriti, annovera sicuramente quello di avere assicurato una pace – intesa sia pure soltanto come assenza di belligeranza – fra i due tradizionali e più accaniti nemici; nello specifico: Germania e Francia. Il bilancio complessivo dell’operazione rimane, infatti, largamente negativo. L’Europa, così come risulta realiz6
zata, in una sia pur sommaria rappresentazione del suo presente, viene percepita, per una pluralità di motivi che ci sforzeremo di elencare, come un ente non ancora realizzato. Prevale, innanzi tutto, un giudizio recisamente negativo sulle sue istituzioni e sulla sua attuale guida, non considerata all’altezza delle sfide che l’Europa è chiamata a sostenere. I suoi politici vengono visti come una casta. I partiti come organismi superati e, comunque, inutili, perché la costante ricerca del voto di opinione, più che di appartenenza, ha finito per rompere inesora-
bilmente il rapporto fra la rappresentanza sociale e quella politica. Manca una politica alta, dove la mediazione fra gli opposti interessi non è già il basso compromesso, come oggi vuole fare credere l’antipolitica, ma è una ricerca di ricomposizioni temporanee e costruttive dei conflitti. Il che si nota, in particolare, nell’incapacità dell’Europa di governare i divergenti interessi dei paesi che ne fanno parte. Si pensi, per limitarsi ad un solo esempio, tuttavia estremamente emblematico e significativo, alla Germania e all’Italia preoccupate per il flusso di gas natu-
Gran Maestro
rale dalla Russia, mentre la Gran Bretagna è, invece, attenta a non danneggiare gli enormi impieghi di capitali russi nel raffinato mercato finanziario londinese e nel suo settore immobiliare. I movimenti secessionisti, oltremodo diffusi (Crimea, Scozia, Veneto, Olanda, Ungheria, Francia, Spagna), costituiscono l’effetto evidente di quella incapacità. Il loro tratto comune è rappresentato, infatti, dalla ricerca identitaria, dove l’identità é contro la politica, che ha deluso, in quanto incapace di dare risposte. Prevale, così, un apparato amministrativo, che si esprime e si manifesta nella
imposizione di regole astratte, lontane dal vissuto dei diversi popoli. Questo marca ancor più la distanza fra centro e periferia, ottenendo l’effetto contrario a quello perseguito con direttive imposte a tutti. Errore, invero, non di poco conto, visto che non c’è identità senza differenza. Né può esserci differenza senza identità. Al potere burocratico fa il paio quello dell’apparato finanziario, indiscusso, autentico governo, che ha trasformato l’austerità in una sorta di dogma religioso da realizzare contro tutto e tutti. Una severità eccessiva e, comunque, ir-
ragionevole che ha provocato il tristissimo diffuso fenomeno della disoccupazione, ancor più drammatico per quella giovanile, divenuta ormai insopportabile. Anche se, come taluni stimano, non senza qualche fondamento, trattasi di un fenomeno destinato, purtroppo, ad aggravarsi, a seguito della manodopera extracomunitaria, pressoché esponenziale. Sebbene l’auspicio sia condiviso da tutti, non è, poi, ancora dato ravvisare che timidi e sporadici segni della ripresa economica. La stessa moneta unica, senza la qua7
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le non può esistere una comunità tanto vasta quale quella europea, destinata a competere con gli altri continenti (Nord America, Cina, India), ha finito per essere oggetto di aspri attacchi. Anche con risvolti, talora, perfino …. singolari ! Nelle ultime elezioni europee, il principale paese dell’Unione Europea che ha continuato a conservare la propria moneta - ossia la Gran Bretagna - ha registrato, infatti, uno dei maggiori successi proprio di un partito anti-Unione, senza avere subito alcun effetto negativo dall’Euro. Il che induce a pensare che le radici anti-europee dell’opinione pubblica comunitaria siano molto più vaste del giudizio negativo della moneta unica risentendo di un egoismo proprio di popoli fra loro separati da secoli di divisione. Questo, per sommi capi, una valutazione dell’Unione dal profilo interno. Ancora più fallimentare appare il bilancio dell’Europa se si considera il suo operare esterno. Da questo profilo, è, infatti, ormai quasi proverbiale l’incapacità dell’Europa ad esprimere una posizione comune sui temi di politica internazionale. 8
Al proposito basta richiamare l’assenza dell’Europa nella vicenda Ucraina. Per non ricordare ancora il totale disinteresse dell’Europa a fronte del fenomeno – epocale – delle immigrazioni che hanno trasformato il Mediterraneo, da fonte di civiltà millenarie, in una tragica tomba di fuggitivi disperati. La mancata dotazione di una forza militare comune in grado di intervenire rapidamente nei conflitti internazionali è poi motivo di ulteriore, fondata, critica ad una organizzazione politica non ancora all’altezza delle sfide che ha davanti. Per non indulgere ulteriormente nel pessimismo, fra le molte ombre piace, invece, ricordare una luce tutt’altro che tenue, costituita dal processo di integrazione giuridica europea, con particolare riguardo alla formazione di un diritto privato europeo, con l’affermazione di nuovi valori, principi e diritti. Oltre a quelli prefati, seppur oggetto di un semplice schizzo, l’Europa dovrà, per certo, confrontarsi con ulteriori problemi, sicuramente non meno gravi. Tanto nell’immediato, quanto nel futuro prossimo.
Nell’immediato, chiamata, com’è, a misurarsi nei confronti dell’inarrestabile dispiegarsi della potenza della tecnica. Anche sul nascere e il morire. Comunque, sempre meno remissiva e disponibile ai controlli. Con conseguenti approdi trasfusi poi in importanti innovazioni legislative, fra le quali non possono tacersi le nuove norme dettate in materia di aborto e di diritto di famiglia. Con problematiche, quanto a quest’ultima, francamente imbarazzanti, prima ancora che di difficile disciplina. Sol che si pensi, ad esempio, al rapporto fra il donatore dei semi, arbitrariamente fissati in un numero, e la prole così venuta alla luce. Nonché al diritto del nato di accedere alle informazioni che lo riguardano e, più in generale, a tutte le difficoltà connesse e conseguenti alla c.d. “genitorialità giuridica”. Nel futuro prossimo, in cui si registreranno sempre più evidenti – e inquietanti – gli effetti della c.d. postmodernità, che non è ancora un approdo, né una nuova sicura riva, ma, certamente, un distacco, definitivo e irreversibile, da tutti i miti fondativi della Modernità.
A conferma, sarà sufficiente por mente a quella che, inevitabilmente, sarà una società sempre più totalizzante e estraneizzante, dominata da macchine, non più al servizio dell’uomo, come avviene oggi, ma da macchine che si prefigurano come il prolungamento biologico dell’uomo. Una sorta di antropoide meccanico già prefigurato, in sogno, dal futurismo. Tanto, come non si è mancato di osservare, che sarà probabilmente sempre più difficile riconoscere quelle caratteristiche di “umanità” che, per quanto largamente imprecisate, connotano, pur sempre, la nostra identità di specie. Di fronte a tanta complessità come reagirà l’Europa sempre più incapace di ritrovare il senso della propria storia, necessario per proiettarsi generosamente verso il futuro? A fronte di così marcate, preoccupanti, manchevolezze, di una realtà insoddisfacente, comunque articolata e variegata, rimane a chiedersi quale sia stato l’atteggiamento della Massoneria europea che, nella libertà, particolarmente di coscienza, ha il suo cuore pulsante. Con giudizio sereno, frutto di onestà intellettuale, è stato da ultimo riconosciuto che la Massoneria europea, innanzi a un panorama quale quello dianzi sia pure sinteticamente descritto è stata “troppo spesso assente”. Così come è stato parimenti riconosciuto che, quando ha parlato, “la sua voce non è stata ben compresa”. Come ognuno intende, trattasi di valutazioni, per certo, non lusinghiere. A ben considerare, tuttavia, pienamente condivisibili. Soprattutto, condivise da ben venticinque Obbedienze massoniche liberali e adogmatiche, attive nei diversi Paesi dell’Unione europea o nei Paesi vicini, riunite a Parigi il 24 maggio 2014, a elezioni europee concluse, che, in codesti termini, si sono congiuntamente espresse nella dichiarazione, che pubblichiamo a corredo di queste note, sottoscritta anche dalla nostra Obbedienza, sulla quale intendiamo richiamare l’attenzione del lettore per il suo indubbio significativo valore. Trattasi, infatti, di una risposta articolata alle accennate problematiche. Non solo perché individua, e fissa, preci-
si obiettivi. Quali la valorizzazione “della solidarietà, della libertà di espressione e di coscienza, della democrazia”. Ma anche, e soprattutto, perché individua, e indica, il metodo per conseguire quegli scopi, ravvisato e colto nella necessità “di elaborare quei progetti volti ad obiettivi umanistici comuni, difendendo i valori della Massoneria e l’interesse generale”. Dunque, non già uno sterile flatus vocis, quanto, invece, un progetto operativo concreto proprio sul piano fattuale, posto che è previsto, altresì, lo studio dei “mezzi” necessari per presentare poi i progetti elaborati in comune “ai governanti dei loro Paesi e a quelli dell’Unione Europea”. Per rendere poi l’impegno assunto ancora più stringente, fra le Obbedienze firmatarie della Dichiarazione sono stati previsti incontri annuali al fine di proseguire e approfondire “il cammino iniziato”, oggetto, comunque, di intermedia “comunicazione fraterna” realizzata attraverso scambi di notizie effettuati dai “Gran Maestri/Gran Maestre … nel corso di conferenze o videoconferenze” con cadenze “trimestrali”.
Il progetto è sicuramente ambizioso, oltre che parimenti di difficile attuazione. A fronte della urgenza dei problemi segnalati, la sfida non può, però, non essere raccolta. Le riflessioni, che seguono, vogliono, pertanto, costituire un meditato contri-
Gran Maestro buto al lavoro comune finalizzato allo scopo avuto di mira e perseguito dalle ricordate Giurisdizioni da un angolo prospettico, al quale, da parte nostra, riconosciamo valore, non solo prevalente, ma addirittura decisivo. In Europa domina la cultura nichilista semplicemente perché questo indirizzo di pensiero è funzionale al sistema tecnico-scientifico, nell’Unione oggi prevalente. Un simile atteggiamento intellettuale favorisce, infatti, la possibilità di potere disporre liberamente di qualsiasi significato, in modo da non offrire ostacoli di sorta al singolo soggetto, legato, dunque, non più ad un principio di personale responsabilità, bensì ad un presente assoluto, nel quale far prevalere il proprio par-
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Gran Maestro
ticolare. Da qui l’obbligo, assolutamente ineludibile, di contrastare, con rigorosa fermezza, questo indirizzo di pensiero, che ha decretato la mancanza del senso di appartenenza, il drammatico offuscamento delle coscienze e, più in generale ancora, dei grandi valori europei. Quanto dire, altrimenti, che diventa del tutto cogente riaffermare la vocazione fondatrice dell’Europa colta in un’anima europea che coincide con la sua “cultura”. Una cultura che, principalmente, è recupero di contributi valoriali e di riferimenti simbolici che si prospettano come 10
assolutamente imprescindibili per permettere al Vecchio Continente di esprimere la sua autonomia e creatività. In quest’ottica, parimenti indispensabile è il ritorno alla restauranda relazione tra i diversi aspetti culturali dei Paesi che compongono l’Europa: apporti fondamentali per la costruzione di un idem sentire che è fondamento imprescindibile per reggere una collettività vasta di cittadini, destinata, per di più, a implementarsi con l’ingresso di nuovi Stati. Senza riferimenti alla tradizione culturale viene meno, infatti, l’identità e, senza l’una (tradizione) e l’altra (identità),
tutto diventa fragile, provvisorio, incerto. La cultura europea deve ritornare ad essere sostanzialmente sociale, con conseguente abbandono di simboli artificiali, sostituiti da simboli vissuti. Una cultura autenticamente europea deve assorbire la pedagogia della democrazia”, che combatta lo scarso interesse per la vita pubblica, il disimpegno educativo, le singole nicchie di sopravvivenza, dove regna la visione del bisogno dell’“io”, le sue emozioni, la sua visione estetizzante, il totale disinteresse per i significati condivisi nella – errata – convinzione che spetti al singolo fare le sue scelte. Se oggi l’Europa è percepita come vecchia, affaticata, quasi al tramonto, è soltanto perché, a livello europeo, non vengono affrontate le questioni dalla c.d. cultura “colta”, quella dei chierici, i quali, più che al loro fine, che dovrebbe essere del tutto disinteressato, sembrano, invece, piuttosto, inclini a subire le suggestioni della decadente cultura mass-mediale. Occorre, dunque, sostituirsi all’élite intellettuale, sempre più lontana dalla vita vissuta europea, per riaffermare l’esigenza di una cultura sincretica, perché costituita da apporti culturali differenti dovuti alla storia dei diversi popoli, incentrata sul dialogo come metodo per un reciproco arricchimento. Quanto dire, altrimenti ancora, una riscoperta di idealità, speranze, valori capaci di unire comunità di persone diverse per lingua, per tradizioni, per religione, intesa, quest’ultima, non già come culto, bensì come aspirazione all’infinito, propria in ogni essere umano pensoso del proprio destino, dovendosi, per quanto attiene alla religione, o prima o poi, convincersi, in via definitiva, che la rinascita del senso religioso, oggi invece relegato alla pratica privata, oltre che espulso dalla cultura diffusa, è, all’opposto, preziosa perché fondativa dello stesso concetto di laicità. Impostato così il problema della sua credibilità, l’Europa può allora rinvenire nella Massoneria più che un valido alleato, addirittura il fondamento del suo intero edificio. Non solo perché la Massoneria è tradizionalmente depositaria di valori legati all’essere, anziché ai singoli interessi.
Non solo per la competenza che la caratterizza da sempre sul piano simbolico. Non solo per la moralità che la connota. Non solo perché conosce la fatica dell’ascolto e l’accettazione delle differenze fra gli uomini e le idee che propugnano. Non solo perché, da sempre, predica il valore rivoluzionario della fraternità fra esseri umani uguali perché liberi. Non solo perché sa attendere, a differenza del nostro tempo che è il tempo delle connessioni veloci, del trasferimento istantaneo, della mancanza di tempo. Ma anche, e soprattutto, per il suo fine di servizio verso l’Umanità. Vocazione che l’ha, per definizione, fatta nascere universale, perciò solo, consapevole che la frammentazione non paga. Così come non paga una vita che si riducesse a mero scambio politico o a semplice luogo – l’idolo del mercato – di contrattazione fra soggetti e/o di gruppi organizzati in lobby che difendono propri interessi. Quello che abbiamo perimetrato, a nostro sommesso ma ponderato giudizio, è, dunque, lo spazio nel quale è chiamata a operare la Massoneria europea, mossa dalla consapevolezza – profonda e convinta – che la cultura smuove le coscienze e che, per questo tramite, si attua l’unica forma di politica che l’Istituto massonico può operare. Forma indiretta, ma come la storia insegna non per questo meno efficace, particolarmente oggi, nel quale si avverte il recupero – urgente! – del carattere morale del rapporto sociale. La saggezza che ci deriva dalla piramide scozzese – frutto della tolleranza, della giustizia, dell’Amore, che deve legare fra loro gli uomini con un filo dolce e forte – guiderà la rivoluzione culturale promossa dalla Massoneria. Per virtù di questa saggezza non ci potrà più essere impatto fra ideologie diverse nella violenza nella quale si annienta e perisce il mondo. All’opposto, ci sarà collaborazione e integrazione di sistemi di vita – materiale e spirituale – di cui i Massoni dovranno essere promotori e sostenitori, creando un sistema ad autentica misura d’uomo. Un sistema che, salvaguardando l’eredità culturale del passato, renda la tradizione fecondatrice di un nuovo progresso nel quale l’uomo sarà una presen-
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za umanistica nella collettività sociale. In questo momento, gravido di incognite, alla Regola massonica è dato di effettuare una nuova inversione storica, di ridiventare, cioè, da simbolica a operativa, così come, per esigenze storico-politiche, da operativa divenne simbolica. Dalla cattedrale di pietra alla cattedrale dello spirito e, di nuovo, alla cattedrale della pietra. Pietra su pietra per costruire l’unità, tanto all’interno, quanto all’esterno. Il felice approdo di questo percorso esige molti incontri, molti contatti, una frater-
nità operante fra tutti coloro che vogliono che questa unità si realizzi. NOI LO VOGLIAMO ! Per questo, vogliamo assicurare che la Gran Loggia d’Italia Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi, nel dissodare il territorio indicato, farà la sua parte, così come si usa dire, senza “se” e senza “ma”, nel rispetto della sua Storia e della sua Tradizione, alle quali rimarrà sempre fedele come stella alla sua parabola. P.4-11: Illustrazioni tratte da diversi Codici Medievali miniati; p.5: Bandiera della Comunità Europea.
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Storia
II parte
1914 – 2014 ‘Grande Guerra’, il centenario Il generale Angelo Gatti, massone, e l’inchiesta su Caporetto Aldo A. Mola uando lesse la Relazione, il suo giudizio era del tutto mutato: “Quello che Capello voleva fare con questo piano (più largo) – vale a dire tenersi pronti per una nuova offensiva, nella certezza che il nemico non avrebbe attaccato, o per una controffensiva massiccia contro un assalitore indebolito nella sua stessa avanzata, NdA -, Badoglio voleva fare per conto suo in piccolo col suo C(orpo) 12
d’A(rmata). Allora il ‘binomio perfetto’ come lo chiamava Ojetti andava d’accordo”. Gatti non si nasconde i limiti di Cadorna. Non si spinge a condividere l’opinione di Orlando, secondo il quale il Comandante Supremo era affetto dalla “malattia comune ai tiranni” (“tanto più forte quanto più si invecchia: è la forma di dementia ex omnipotentia”), né ritorna sulle sue spigolosità caratteriali, ma ne deplora la condiscendenza, anzi la “debolezza”
verso Badoglio, “causa prima militare della sconfitta”. Avanza però anche il sospetto che la Commissione “abbia voluto giocare un brutto tiro al Badoglio”, lasciando cadere qualche inciso qui e là nella Relazione per far intravvedere “il marcio che c’è in Danimarca”: cioè l’errata percezione dell’offensiva austro-germanica da parte sua, la mancata preparazione della difesa e della controffensiva e l’incredibile vuoto che si aprì al vertice proprio a ridosso
Storia
del 24 ottobre 1917 con l’assenza di Luigi Capello, ammalato, e di Badoglio, inspiegatamente irreperibile nelle ore decisive. Anche dopo l’inizio dell’offensiva, preparata dagli Austriaci con un cannoneggiamento senza precedenti di bombe a gas asfissiante, i comandi della zona di crisi non instaurarono efficienti collegamenti, senza i quali, conclude Gatti, “non si fa niente in battaglia” (p. 223). Un centinaio di pagine dopo, tutte commentate con frasi sempre più amare, sembra che la penna gli cada di mano. Proprio le pagine più dense di accuse contro l’Esercito e i suoi comandanti non recano traccia di suoi commenti. Troppo dolorose. Forse proprio dalla loro lettura ebbero impulso le opere degli anni seguenti: la risposta più eloquente al fastello di giudizi negativi recepiti dalla Relazione. La personalità di Angelo Gatti (Capua, 9 gennaio 1875 - Milano, 19 giugno 1948) è più complessa di quanto sinora sia stato scritto. Approfondirla significa anche comprendere meglio l’eco suscitata dal lavoro della Commissione in ambienti altamente qualificati e nella preparazione di una nuova lettura storiografica della partecipazione alla guerra e del decennio seguente. Su quanto vide e pensò nel corso della guerra non pubblicò nulla di propriamente suo né all’indomani della ritirata al Piave, né quando comparvero gli Atti dell’Inchiesta. Perché non entrò direttamente nella disputa? Egli, invero, era depositario di un segreto “alto”. Si era affacciato su un “mondo”, forse pensando
che non ne rimanesse traccia. Il 28 giugno 1917 venne registrato col numero 49.950 nella matricola degli affiliati al Grande Oriente d’Italia. Che si tratti proprio di lui non vi sono dubbi: nome, luogo di nascita, “condizione” sono esattamente i suoi1. Il 28 giugno è una data emblematica. Quel giorno, esattamente tre anni dopo l’assassinio di Sarajevo che innescò la conflagrazione europea, si aprì a Parigi il Congresso delle Massonerie dei Paesi dell’In1 La data dell’iscrizione nella “matricola”, corrispondente alla registrazione del brevetto, può non corrispondere al giorno del “giuramento d’obbedienza” prestato e sicuramente segue l’iter, nel suo caso attuato con le procedure previste per l’iniziazione nella famosa Loggia Propaganda massonica: “a vista”, o “sulla spada” dal Gran Maestro o suo delegato. Dal Diario consta che il 28 giugno Gatti era al Comando Supremo. Il Gran Maestro del Grande Oriente era a Parigi. Chi lo iniziò? Ma venne davvero iniziato se proprio quel giorno annotava maligne voci sulla Massoneria? O le annotava per schermirsi a futura memoria?
tesa e neutrali. Non intervennero la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, né le Massonerie di Scozia, Irlanda, Olanda e di altri Paesi che ne intuirono la valenza preminentemente francese. Il Congresso venne ignorato dalle Grandi Logge degli Stati Uniti d’America. Il Grande Oriente partecipò con i suoi dignitari supremi: Ettore Ferrari, Gran Maestro dal febbraio 1904, i suoi stretti collaboratori, tra i quali Alberto Beneduce, ed Ernesto Nathan, Gran Maestro dal 1896 al novembre 1903 e già sindaco di Roma dal 1907 al 1914, che vi si presentò in divisa di colonnello dell’Esercito. Perché Gatti giurò obbedienza al Grande Oriente? Nel Diario avanzò ripetutamente riserve nei confronti dei massoni, sia militari, sia del loro seguito. Per esempio, proprio sotto la data 28 giugno 1917 annotò: “Ojetti è, indiscutibilmente, legato al Capello. È legato perché sono massoni?”. Non era un cenno benevolo. Su Capello, che non faceva mistero della sua apparte13
Storia
nenza al Grande Oriente, il 7 agosto annotò il pettegolezzo di Giovanni Garruccio, secondo il quale il comandante della Seconda Armata mentre passeggiava a Cuneo con la moglie era stato salutato da una donna che gli spinse contro due bambini ai quali disse di salutare il padre e a Torino aveva tali debiti “che nessun sarto gli volle fare la tenuta da generale”. Sotto la data del 10 settembre Gatti scrisse che il generale Roberto Bencivenga era stato segnalato come massone a Cadorna, ma questi “superò l’accusa di Massoneria e lo tenne”, benché fosse molto discusso. Gatti scriveva per sé o per essere letto? I suoi appunti erano un diario o un memoriale? Di certo sappiamo che non li pubblicò sua sponte e che ne manca un’edizione critica. Nei due anni precedenti il drammatico ottobre 1917 aveva svolto conferenze molto impegnative (L’Italia in armi; Per l’aspra via alla meta...), sintetizzabili nel titolo di una di esse: Servire. Il giugno 1917 fu un mese decisivo per la guerra. L’Italia era al bivio. Su quali forze poteva contare lo Stato? Il 4 marzo 1917 in un discorso al teatro Costanzi di Roma Ernesto Nathan enunciò Il dovere presente. Senza mai nominarlo indicò in Vittorio Emanuele III il pilastro portante della nazione. Pochi 14
giorni dopo lo ribadì a Genova, a conclusione della commossa rievocazione di Giuseppe Mazzini. Si delineò dunque lo spartiacque tra chi avrebbe combattuto sino alla vittoria per coronare il Risorgimento e la liberazione delle nazioni in cerca di indipendenza, dei “popoli oppressi”, e chi no, a cominciare dai socialisti e dai papisti. Il Paese era allo stremo: nella tenaglia di sacrifici ed egoismi. Nathan si schierò per la lotta contro i pescicani di guerra. Gatti lo seguì. Ma di nascosto da Cadorna. Il 21 giugno 1917, nel Solstizio d’Estate, egli completò il Promemoria nel quale condensò anni di osservazioni e riflessioni. Vi espose considerazioni su logistica, strategia e tattica. Tenne però per sé l’interrogativo più angoscioso, annotato nel diario: “Andrà? Non andrà questo promemoria? ... C’è bisogno di rinnovarci nella guerra: c’è bisogno oggi, dopo 26 mesi di guerra, di ricominciare da capo. E’ necessario inculcare un nuovo spirito; fare nuova organizzazione; studiare una nuova tattica; trasformarci col tempo: guai se non facciamo così”. Oltre che al Comandante Supremo Gatti ne dette copia al generale Capello, comandante della II Armata, notoriamen-
te affiliato e circondato da confratelli. Perché mai? Quando Gatti decise di scrivere il Promemoria, Luigi Cadorna aveva a sua volta maturato la meditazione sull’andamento e sulle prospettive della guerra affidandole alle prime tre delle quattro lettere inviate al governo. Il 6 giugno 1917 il Comandante Supremo scrisse accorato ma “con rude franchezza” quanto gli constava sulle “defezioni”, “nuovo frutto della propaganda contro la guerra che si svolge in Sicilia e che ha ridotto l’isola a un covo pericoloso di renitenti e di disertori, i quali, secondo il Ministero della Guerra, superano i 20.000”. Altrettanto avveniva in Toscana, Emilia, Romagna e nella stessa Lombardia. Toccava all’esecutivo rimediare. Due giorni dopo incalzò: “Il Comando supremo provvede qui, in zona di guerra, a spegnere con rimedi radicali i tentativi e le manifestazioni di carattere antipatriottico e sovversivo, ordinando ai comandi dipendenti che i militari trovati in possesso di circolari e di manifesti incitanti alla diserzione e alla defezione siano senza esitanze colpiti dalle più severe sanzioni; ma occorre che l’opera perseguita nell’interno del Paese dai socialisti … sia troncata senz’altro ritardo
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da energiche ed immediate misure. Questo io debbo invocare dal Governo …”. Boselli tacque. Il 13 seguente Cadorna tornò pertanto a insistere con una terza lettera: “… V. E. rileverà come nel mese scorso siano state pronunziate 111 condanne alla fucilazione e ciò senza tener conto dei numerosi casi nei quali, per necessario immediato esempio, si è dovuto addivenire alla fucilazione ... Mentre l’assoluta necessità di tener salda la compagine dell’Esercito mi obbliga a reprimere con mezzi estremi ogni atto di indisciplina, sono convinto che spesso, più che coscientemente colpevoli, i soldati ultimamente condannati alla pena capitale erano degli illusi, sobillati da una propaganda sovversiva, le cui fila sono da rintracciarsi nel Paese, e che i veri responsabili sono al sicuro, impuniti”. Il problema non era di ordine pubblico ma politico e di morale civica: esorbitava dalle competenze del Comando e investiva la responsabilità del governo, in-
capace di mobilitare il “fronte interno” a sostegno di quello combattente. Anche questa terza lettera rimase inevasa. Come poi Orlando dichiarò a Gatti il 15 giugno 1922 in una intervista sinora inedita, “Boselli aveva paura fisica di Cadorna, così avvenne la questione delle lettere Cadorna, cui Boselli non rispose”. Al colonnello Boselli asserì invece che “ci fu congiura di Orlando contro di lui”, dimenticando che a travolgerlo non furono le sentenze capitali pronunciate in zona di guerra, le decimazioni, l’insurrezione di Torino dell’agosto e neppure la quarta lettera indirizzatagli da Cadorna il 18 agosto, con specifico riferimento all’ammutinamento della brigata Catanzaro, sanguinosamente represso, e con una valutazione generale pessimistica del malessere: “… le cause sono certamente queste: l’influsso deprimente che dal Paese giunge e si propaga nell’esercito; la tolleranza che è largita ai sovversivi di ogni specie ed ha i suoi frutti nelle truppe; talché queste, nella imminenza di una grande offensiva,
non sono quali dovrebbero essere, perché risentono tutte le torbide influenze che agitano le masse cittadine e rurali.” Secondo Cadorna, incombeva la lezione dello “sfacelo degli eserciti della Russia, conseguenza dell’assenza di un governo forte, capace: ora io debbo dire che il Governo italiano sta facendo una politica interna rovinosa per la disciplina e per il morale dell’esercito: contro la quale è mio dovere protestare con tutte le forze dell’animo”. Superfluo ricordare che anche la quarta lettera fu senza risposta. Boselli rimase alla presidenza e fu travolto, appunto, non dall’impetuosità del Comandante ma dalla “rotta” di Caporetto, che ne impose l’immediata sostituzione, mentre Cadorna rimase in carica sino all’attestamento sulla destra del Piave, il 9 novembre. Gatti attese trepidante il riscontro del Comandante Supremo. Il 27 giugno incontrò Cadorna, appena rientrato dall’incontro di Saint-Jean de Maurienne con i comandanti alleati. Dal suo silenzio capì che il Promemoria era caduto nel vuoto, 15
re mano ai grandi e subito famosi affreschi sulla guerra, volti a collocare la tragedia nel quadro universale di una umanità sofferente. Gatti entrò dunque nella Loggia Propaganda nell’ora del massimo sforzo del “fronte interno” a sostegno degli “interventisti intervenuti”. Erano mesi contrassegnati dalla consapevolezza che l’Italia stava giocando la storia ventura, con due gravi rischi: la sconfitta militare (incombente da quando la rivoluzione in Russia consentì agli Austro-germanici di dirottare le loro forze sul fronte occidentale) e la divisione politica interna, con l’inizio di una rovinosa guerra civile appena mezzo secolo dopo l’annessione di Roma al regno d’Italia2. Mentre otteneva ampio successo di pubblico e apprezzamenti pressoché incondizionati da parte dei militari memorialisti e storici (all’epoca gli storici militari, come Costanzo Rinaudo erano erba rarissima), Gatti lavorò a un’opera organica. Per integrare il proprio Diario raccolse interviste in parte tuttora inedite. Ma fu soprattutto in Tre anni di vita militare italiana che, senza entrare esplicitamente nel suo merito, passò in rassegna i tempi nei quali ebbero corso la Commissione
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sia per quanto aveva scritto sia per quanto aveva lasciato intendere. Per “ricominciare da capo”, cioè legare meglio Forze Armate e Paese, occorreva dunque costruire su nuove “pietre angolari”. Mentre Gatti registrava la sua delusione, a Parigi si svolse il già ricordato Congresso delle Massonerie dei Paesi dell’Intesa e neutrali. Lì venne messo in discussione l’obiettivo proclamato e perseguito dagli interventisti: Trento, Trieste, Istria, Dalmazia ... a tacere di Fiume, che non figurava tra i compensi destinati all’Italia a vittoria conseguita. Vi si stabilì infatti che i confini postbellici sarebbero stati subordinati a plebisciti nelle zone popolate da etnie diverse, mistilingue. Il principio rispondeva alla dottrina mazziniana delle nazionalità; era però in netto contrasto 16
con il patto di Londra del 26 aprile 1915, con la propaganda bellica e con un minimo di realismo: in molte regioni sarebbe risultato impossibile tracciare confini ragionevoli, proprio perché nei secoli le genti si erano combattute e intersecate generandovi grovigli inestricabili. A cospetto del silenzio del Comandante supremo anche Gatti tacque. Continuò a osservare e ad annotare. Venne poi la quarta lettera di Cadorna al governo per la lotta contro il disfattismo. Il presidente del Consiglio, Paolo Boselli, non rispose se non tardi e solo verbalmente. Gatti rimase come chi contempla un acquario: vedeva tutto senza poter intervenire. Disse la sua man mano che lesse gli Atti della Commissione: da storico, quando sentì bisogno di mette-
2 Tra gli iniziati di maggior spicco di quei mesi vanno ricordati Corrado Tommaso Crudeli, Giulio Dogliotti, Arnaldo Azzi (futuro generale, nemico acerrimo di Casa Savoia), Emanuele Emmanuele, Alessandro Dudan, poi gerarca nazionalfascista, Gaetano Prunas Tola, Mario Tedeschi. Gatti fu tra i sei militari iniziati alla Propaganda nel 1917 (tra i quali il generale Achille Lordi). Tra altri iniziati di quei mesi vanno ricordati Roberto Farinacci alla Quinto Curzio di Cremona, Achille Starace alla Vedetta d’Italia di Udine, mentre l’iniziazione di Ugo Cavallero alla Dante Alighieri di Torino, con numero di matricola 24.457, risaliva all’8 luglio 1907. Negli stessi anni altrettanto rilevante fu l’ingresso di militari e di personalità eminenti nella Gran Loggia d’Italia, costituita nel 1910 dal Supremo Consiglio del Rito scozzese antico e accettato riconosciuto dal “convento” mondiale dei Supremi Consigli. Tra i molti, basti ricordare i nomi di Emanuele Paternò di Sessa, vicepresidente del Senato, dei deputati Leonardo Bianchi, Dario Cassuto, Enrico Presutti, del generale Giovanni Ameglio, di Vittorio Valletta (iniziato nella XX settembre di Torino), ai quali poi si aggiunsero Ugo Cavallero (15 agosto 1918, dimissionario nell’agosto 1924). Per meglio comprendere il “caso Gatti” è infine emblematico il folto numero di ufficiali accolti nella Gran Loggia nel corso del 1917 mentre erano “in zona di guerra”.
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d’inchiesta, la redazione della Relazione, la sua pubblicazione e il dibattito che ne seguì. Tra il 21 marzo 1918 e il 31 ottobre 1922 si susseguirono undici diversi ministri della guerra: ai tre generali del governo Orlando (Vittorio Alfieri, Vittorio Zupelli ed Enrico Caviglia) seguirono il contrammiraglio Giovanni Sechi (interinale), il generale Alberico Albricci e il deputato già socialriformista Ivanoe Bonomi nel primo governo Nitti, il deputato del partito popolare Giulio Rodinò di Miglione nel secondo, e poi ancora Bonomi e Rodinò nel V governo Giolitti, Luigi Gasparotto nel ministero Bonomi, Pietro Lanza di Trabia nel I governo presieduto da Lui-gi Facta e Marcello Soleri nel II. Altrettanto vorticosa fu la sequenza dei sottosegretari (e quasi identico il turbinio dei ministri della Marina): un titolare ogni 135 giorni, in media. A rimanere al suo posto per tre anni fu solo il capogabinetto, il colonnello Ottorino Carletti, la cui generosità non poté però mai andare troppo oltre il grado. Rodinò - osservò Gatti – “non si era mai particolarmente interessato nella sua vita dell’esercito”. Tuttavia non esitò a farsene carico ben due volte. È uno di quei misteri che si spiegano con le ragioni ‘squisitamente politiche’: tanti Ministeri ad un partito, questo Ministero piuttosto che
quello ecc. Ma nell’assegnazione all’incanto del ministero della Guerra come non era possibile non intendere il male e la vergogna che si facevano all’esercito?” A Gasparotto, che giunse al potere “con molta fede e con pochissima sapienza militare” ma proclamò di “voler lavorare”, a fine febbraio 1922 seguì, come detto, Lanza di Trabia, principe di Scalea. “Perfetto gentiluomo” assunse il ministero “con tre idee ben ferme e chiare, che ripeteva a tutti quelli che lo volevano o non lo volevano ascoltare. La prima era che egli non sapeva niente del Ministero al quale lo avevano addetto, e avrebbe invece voluto andare alle Colonie (alla mattina era infatti predicato Ministro delle Colonie); la seconda, che sarebbero occorsi almeno sei mesi perché imparasse qualche cosa delle faccende militari; ma – e questa era la terza idea – dentro sei mesi egli certamente non sarebbe più stato Ministro”. Durò infatti sino al 31 luglio, poco più di cinque mesi, quando venne nominato Marcello Soleri, volontario in guerra e ferito, probo e appassionato, ma in un governo del tutto impari al compito di ripristinare ordine e fiducia. Bene si comprende l’ampio credito aperto al governo dal 31 ottobre 1922 presieduto da Benito Mussolini che contò alla Guerra il generale Armando Diaz
(in carica sino al 30 aprile, quando fu sostituito dal generale Antonino di Giorgio) e alla Marina l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel (in carica sino all’8 maggio 1925), entrambi voluti in quelle cariche da Vittorio Emmanuele III, e perché il nuovo governo abbia deciso di tacitare le polemiche per anni divampate a base di memorie e memoriali, articoli e interviste, un ininterrotto scambio di accuse e di giustificazioni, di addebiti e di difese. Con l’avvento del governo Mussolini, anche sulla Relazione sugli avvenimenti dall’Isonzo al Piave scese poco a poco il silenzio. Ne rimase eco ora fievole ora assordante nella memorialistica, nel carteggio privato dei protagonisti, nei pochi cultori di storia militare. Per l’opinione pubblica Caporetto rimase un’onta, un incubo. Anche per via dell’Inchiesta, a mezza strada tra feticcio e tabù. V’era dunque motivo di riproporla allo studio anche in vista di una nuova lettura dell’intervento dell’Italia nella Grande Guerra e di quanto ne nacque. P.12-15: Fotografie della Grande Guerra; p.16: Versailles, 1918; da sinistra Gatti, Martin Franklin, Cadorna, Bianchi, Pintor e Gallarati Scotti; in basso Pietro Badoglio (a sin.) e Svetozar Boroëvich von Bojna, Comandante Austro-Ungarico del fronte dell’Isonzo prima di Otto von Below, artefice poi della vittoria di Caporetto; p.17: Il Kaiser Guglielmo II [di fronte e seduto] ed il proprio Stato Maggiore, ca. 1916/17.
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Napoleone, gli Illuminati e la Massoneria Isabella Zolfino
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oethe disse di lui: Per Bonaparte la “Luce” che illumina lo spirito non si è spenta mai un istante. Ecco perché il suo destino ha avuto uno splendore che il Mondo non aveva mai visto prima di lui e che, dopo di lui, non vedrà forse più. Napoleone detestava, per carattere, l’ineguaglianza civile e l’intolleranza religiosa e aveva come ideale l’abbattimento delle barriere che impedivano agli uomini di potersi elevare al di sopra del proprio stato sociale; era convinto che ogni uomo avrebbe dovuto avere l’opportunità e il diritto inalienabile di poter accedere, secondo i propri meriti e la propria personalità, ai livelli più alti del comando sia civile che militare. Lettore e raccoglitore infaticabile di notizie, uomo aperto a tutto, molto intelligente, il più intelligente fra i Bonaparte, era un abile calcolatore, un tipo che non lasciava niente al caso e sapeva sempre come motivare i suoi uomini perché possedeva una dote impagabile: quella di saper scoprire le doti e i talenti di ognuno e saperli valorizzare. I suoi programmi ebbero grande successo non solo per la sua straordinaria capacità di conoscere e dirigere personalmente le cose fin nei minimi dettagli ma anche per il fatto di riuscire a indirizzare e a mantenere sotto stretto controllo i movimenti di tutti i suoi subordinati, un controllo dal quale non sfuggivano nemmeno i membri della sua stessa famiglia. Voleva essere informato su tutto e supervisionava personalmente tutto, non si li-
mitava a dare ordini ma controllava che venissero eseguiti. La buona politica consiste nel far credere ai popoli di essere liberi. Sono queste le parole di un Massone? La storia ci dice che nel 1804, quando diventò Imperatore, buona parte dell’esercito, l’alta burocrazia, tutte le principali cariche dello stato erano formate da membri appartenenti all’Istituzione Massonica e ai quali Napoleone aveva affidato ruoli decisivi. Un caso, un dise-
gno, una combinazione? Forse i migliori cervelli dell’epoca erano tutti membri dell’Istituzione? Era membro dell’Istituzione egli stesso? Sappiamo che Napoleone fu circondato da Massoni fin dalla più tenera età. Suo padre, Carlo Bonaparte, era massone e massoni furono molti suoi parenti e congiunti: è impossibile quindi non pensare che non potesse averne subito il fascino. La stessa Joséphine de Beauharnais, sua sposa amatissima, sembra fosse stata ini19
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ziata alla Massoneria insieme ad altre dame di corte in una Loggia d’Adozione, la Les Frances Chevaliers di Parigi e di cui sembra fosse diventata Gran Maestro. È comunque possibile che il giovane 20
Bonaparte, il cui spirito curioso era desideroso e avido di conoscere più possibile di filosofia, religione e scienza, fosse stato iniziato alla massoneria, in quel momento di gran moda, nell’ottobre del 1785, prima della Rivoluzione e alla fine della Scuola Militare quando ebbe modo di soggiornare per parecchio tempo in città in cui esistevano molte Logge. Oppure è possibile che si fosse fatto iniziare alla Massoneria nel periodo durante il quale frequentava i clubs formatisi subito dopo la Rivoluzione, come quello degli Amis de la Costitution che si trovava a Valence e nel quale erano stati ammessi molti suoi commilitoni. O forse più tardi, quando il governo rivoluzionario si era un po’ addolcito e le Logge, che durante il Terrore avevano interrotto i loro Lavori, cominciavano a riprendere la loro attività. In Histoire pittoresque de la franc maçonnerie et des Societes Secretes Anciennes et Modernes di Clavel si legge
che l’imperatore venne iniziato alla massoneria a Malta, durante la sosta che fece in quest’isola per recarsi in Egitto nel 1798. Anche in Precis Historique di Resuhet viene menzionata Malta come luogo in cui Bonaparte potrebbe aver fatto il suo ingresso nell’Istituzione Massonica. Sappiamo però che Napoleone arrivò a Malta nel giugno del ’98 e salpò per l’Egitto sei giorni dopo, il giorno 19. Durante questo breve periodo di tempo si dedicò con tutte le sue energie a riorganizzare la difesa dell’isola, l’Amministrazione e persino i corsi universitari. Non si capisce quindi come potesse aver trovato anche il tempo per dedicarsi anche alla Massoneria. D’altra parte, visto il suo temperamento vulcanico, non si può escludere niente, neanche il fatto che lo avesse potuto fare. Negli Archivi on-line della mcGill University è possibile reperire un’immagine raffigurante Napoleone protagonista di una cerimonia di iniziazione a una società che viene detta essere quella degli Illuminati. La figura è riportata nel frontespizio di un libro del 1816 dal titolo Confessions de Napoleon, libro che è diventano la più contestata pubblicazione del suo autore fin dall’epoca della sua uscita; l’immagine mostra un uomo protagonista di una cerimonia misteriosa e porta il titolo iniziazione di Napoleone al grado di P: H: R degli Illuminati con il commento Ramentati di non cambiare mai il Cappello della Libertà per una Corona. Nel libro in questione l’autore Dufey dedica diversi capitoli ai rapporti di Napoleone con le società segrete e descrive, tra l’altro, anche le sue relazioni con Nicolas di Bonneville, Zimmermann e con Pascal Paoli. Pasquale Paoli viene descritto come grande amico di suo padre Carlo e si dice che avesse per il giovane Napoleone un grandissimo affetto. È proprio grazie a Pasquale Paoli che il giovane ufficiale conosce il Colonnello tedesco Sinety da qualche anno al servizio dell’esercito francese e col quale entra in confidenza. Sinety gli parla entusiasticamente di società segrete, di propaganda e di piani per organizzare l’Europa; Napoleone capisce che può ottenere, tramite lui, importanti e utili conoscenze ed è a lui che manifesta la volontà di essere iniziato. Per prepararsi a questa inizia-
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zione studia assiduamente e si documenta sui lavori di Weishhaupt, Saint-Martin e altri testi simili sotto la supervisione dello stesso Colonnello Sinety. Poco dopo, immediatamente prima di partire con Paoli per la Corsica, viene iniziato al primo grado. Si riportano, di Napoleone, ben tre iniziazioni, sulla prima delle quali l’autore non si dilunga molto, sulla seconda e la terza, invece, vengono dati maggiori dettagli. La seconda iniziazione sembra essere avvenuta nei pressi di Parigi, in campagna; qui Napoleone viene portato al cospetto di moltissimi affiliati di nazionalità diversa e il gruppo più numeroso è rappresentato dai Tedeschi ma non mancano Italiani e Francesi. La cerimonia, della durata di quattro ore, termina con il giuramento firmato col sangue. Verosimilmente siamo nel 1796 perché Napoleone, ritornato a casa, parla dell’amata Josephine, sposata appunto nel ’96, più afflitta che sorpresa a causa della sua imminente partenza per la campagna d’Italia. La terza iniziazione descritta da Dufey avviene a Roma; anche qui non viene detto l’anno, ma solo che avviene ne-
gli ultimi giorni di febbraio. Potrebbe essere l’anno 1797 o il ‘98, in piena Campagna d’Italia perché poi nel maggio del ’98 Napoleone parte per l’Egitto e quindi non può essere a Roma. La Cerimonia avviene in un sotterraneo, in una oscurità profonda, uomini in tunica scura e testa scoperta comandano il silenzio posando due dita sulla bocca. Segue la descrizione della cerimonia con ampi dettagli sullo strano abbigliamento dei celebranti e sulle raccomandazioni all’iniziando. Termina con il conferimento delle insegne del grado supremo. Purtroppo non si capisce di che iniziazioni possa trattarsi, tutto risulta abbastanza confuso, forse volutamente, e dobbiamo prendere per buono solo il riferimento agli Illuminati che si trova nella figura, elemento avvalorato dal fatto che durante il reclutamento il giovane Bonaparte abbia dovuto studiare i testi di Weishaupt. Nel terzo volume delle Memoires Historiques et Secrete de l’Imperatrice Josephine di Le Morand, la cui prima edizione è del 1820, alle pagine 313 e 314 abbiamo una ampia nota dedicata anch’essa alle iniziazioni di Napoleone a una società segreta.
Per quanto riguarda la prima iniziazione, l’autore asserisce che Napoleone venne condotto nella Foresta di Fontanbleau dove, alla presenza di una folta assemblea di Fratelli, prestò il giuramento come neofita nella Setta Universale dei Franc-Juges: “Nessuno potrà mai rendere un uomo libero obbediente a un Re. Sarà sottoposto alle pene più severe se dovesse violare quello che ha promesso agli amici invisibili”. L’anno è il 1795. La seconda iniziazione è collocata al tempo delle sue vittorie in Italia. Bonaparte confessò in seguito a un suo intimo amico di essere rimasto molto colpito non solo dalla strana cerimonia nella quale era l’unico recipiendario, ma dal fatto di essersi trovato in mezzo a moltissimi capi del suo esercito che urlavano Morte ai tiranni, qualunque siano i loro titoli o le loro qualifiche. Anche questo giuramento venne siglato col sangue: “Acconsento a che mi si tolga la vita se verrò meno con la monarchia. Farò di tutto per riuscire ad estinguerla in Europa, sacrificherò le cose più care se la Società di cui ho l’onore di essere membro me lo dovesse chiedere”. È al Cairo che avviene la sua terza e ulti21
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ma iniziazione; qui incontra il capo dei Filadelfi che, fra l’altro, gli dice: “Se mai la sorte ti favorisse a tal punto da farti diventare capo di un popolo, guardati figlio mio, dall’abbracciare la bandiera del re. Se l’ambizione, se questo vizio della monarchia ti dovesse far deviare un solo istante dai veri principi, allora potresti scendere al livello dell’ultimo dei tuoi fratelli e non avere più una patria. Sarai abbandonato dai tuoi e nessuno di loro ti seguirebbe nel tuo esilio”. È interessante il riferimento alla Setta Universale dei Franc-Juges alla quale sembra essere avvenuta l’adesione: potrebbero essere gli stessi Illuminati tirati in ballo da Dufey, forse un ramo francese degli Illuminati di Weishaupt, rito molto diffuso fra i militari con il nome di Rito Primitivo di Narbonne o dei Philadelphi. Ritornato comunque in Francia, Bonaparte diventa Primo Console e poi, con la forza prorompente di un fiume in piena, nel 1804 si proclama imperatore dei 22
Francesi. Ramentati di non cambiare mai il Cappello della Libertà per una Corona, ma il cappello della libertà era stato cambiato proprio per quella corona alla quale aveva giurato una spietata guerra e il giuramento prestato pronunciando le parole guerra ai re era stato senza ombra di dubbio rinnegato. Nel 1806 venne dato alle stampe a parigi il secondo di tre volumi della pubblicazione massonica Miroir de la Vérité edito dal un certo Fr. Abraham, massone di chiara fama, uomo di lettere e membro del Grande Oriente di Francia nonché fondatore di ben tre Logge in Parigi rispettivamente nel 1798, nel 1801 e 1802. Da questa pubblicazione estraiamo questo passaggio: “… ma oggi che una Pace generale, che giorni senza nuvole e sereni fanno improvvisamente seguito alla tempesta della Rivoluzione, oggi che i Templi Massonici aprono di nuovo le loro porte, il nostro augusto Ordine si gonfia d’orgoglio per il fatto di annoverare fra i suoi
membri il grande Pacificatore, l’immortale Fr. Bonaparte, il conquistatore del Reno, il modesto e virtuoso Fr. Moreau e tutti quegli eroi che degnamente seguono le loro orme”. Questo riferimento all’immortale Fr. Bonaparte appare, in stampa, nel 1806 ma si riferisce a un festeggiamento avvenuto nel 1801 perché la Pace generale a cui si riferisce potrebbe essere quella di Luneville, in pieno Consolato. Ancora nello stesso Miroir de la vérité viene riportato il resoconto ufficiale relativo della stessa Festa Generale della Pace celebrata l’8° giorno del 9° mese dell’anno 5081 ma effettuata dalla R.L. des Arts réunis all’Or. di Digione: “… all’oriente era stato eretto un triangolo che portava le bandiere delle potenze amiche sormontato da quella della Repubblica Francese sulla quale aleggia la Corona dell’Immortalità; al centro del triangolo c’era la scritta: alla Pace, a Buonaparte, a Moreau”, poi i consueti brindisi sui preziosi benefici della Pace e sul valore degli eroi Bonaparte e Moreau. Ma il Miroir riferisce anche di altre Logge in merito alla stessa Festa Generale e in tutte si inneggia al Primo Console come Pacificatore ed Eroe della Pace. I brindisi finali sono tutti eseguiti facendo chiaramente riferimento a Napoleone come Fratello Massone. Sembrerebbe prendere quindi corpo la tesi di Napoleone massone. un ulteriore contributo a questa tesi ci può venire anche da una immagine contenuta nel già citato volume Histoire pittoresque de la franc maçonnerie di Clavel che ritrae Bonaparte abbigliato massonicamente e nell’atto di entrare in una Loggia, mentre dà il segno e la parola di passo. Ovviamente non si sa quanto ci possa essere di vero in questa raffigurazione anche perché sembra che questa immagine sia stata ampiamente utilizzata per diffondere e avvalorare la tesi della appartenenza di Napoleone alla Massoneria. Alcuni autori sono comunque propensi a credere che non avesse avuto una formale iniziazione ma che fosse stato solo massonicamente istruito; questa istruzione potrebbe essergli stata impartita al tempo in cui Cambacérès si relazionava con lui per la questione dell’accorpamento del Grande Oriente di Francia. Nel 1914 viene pubblicato dalla Qua-
tuor Coronati, loggia fondata a Londra nel 1886 e dedicata alla ricerca massonica, Napoleon I and Freemansonry in cui viene riportata una lettera scritta dal Fr. Thory, autore della Storia del Grande Oriente di Francia, pubblicata nel 1895 dal Fr. Speth, uno dei nove fondatori della Loggia stessa. Ecco la lettera: “Parigi, 16 marzo, 1818. Voi mi chiedete Signore, perché nel mio lavoro sulla Libera Muratoria non ho detto una parola sulle motivazioni segrete che hanno portato Bonaparte a proteggere questa associazione, visto che la sua avversione per le società segrete era ben nota a tutto il mondo ritenendo i suoi membri contrari al suo governo. Questo è vero signore, ma io non credo fosse mio dovere rendere pubblico l’intrigo politico che ha portato a questo risultato, se lo avessi fatto avrei compromesso molte persone e forse avrei danneggiato anche me stesso. Ora però che tutti o molti di quelli che hanno avuto a che fare con Bonaparte non ci sono più, posso darvi l’informazione diretta, e potete fare affidamento sulla autenticità della dichiarazione, in quanto dovevo mantenere riservata l’intera faccenda. Visto che erano rimasti senza Gran Maestro fin dalla morte del duca d’Orleans, i massoni avevano concepito l’idea di proporre al Principe Cambacérès di accettare questa dignità. Egli ne parlò a Bonaparte e gli fece capire che l’associazione, se correttamente gestita, avrebbe potuto essergli politicamente molto utile invece di essere pregiudizievole per il suo interesse. Prima di decidere sulla questione, l’Imperatore richiese di conoscere quanto più possibile in merito ai principi dell’associazione e ai suoi simboli, specialmente per quanto riguarda quello che viene chiamato Segreto Massonico. Cambacérès convocò i capi dell’ordine per far fornire all’imperatore le risposte richieste. Pyron e altri furono incaricati di preparare un libro di memorie che presentarono un paio di giorni dopo. Nel loro rapporto, questi signori hanno dichiarato che i Massoni sono i successori dei Templari, che l’oggetto ultimo dei membri è stata la restaurazione dell’Ordine del Tempio, che tutte le loro allegorie sono collegate alla morte di Jacques De Molay, che la vendetta a cui si allude nei gradi dei Cavalieri Eletti e Kadosh è quel-
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la che i Templari avevano a suo tempo giurato di mettere in esecuzione sul re Filippo il Bello, distruttore dell’Ordine, e sui suoi successori, ma che la vendetta si era conclusa con l’ascesa al trono imperiale di Napoleone. Bonaparte, dopo aver letto queste note, rimase come incantato da una spiegazione così rassicurante. Decise quindi di proteggere i massoni, diede loro suo fratello, poi re di Spagna, per Gran Maestro, e Cambacérès venne nominato Gran Maestro Aggiunto. Fece anche in modo di far entrare i suoi generali, i membri della sua corte, e tutti i funzionari pubblici nelle logge. Pyron mi ha mostrato questo rapporto prima di presentarlo all’Arci-cancelliere, io ho cercato di dissuaderlo dal presentarlo, dimostrando a lui la sua assurdità, e soprattutto la sua falsità e l’atrocità delle sue conclusioni. Non ha voluto sentire ragioni; alla luce di queste informazioni potete facilmente capire, Signore, perché io non potevo parlare nel mio libro dei motivi che hanno indotto Bonaparte a prendere sotto la sua protezione l’associazione, anche perché non è buona cosa rendere pubbliche queste questioni nelle Logge e se qualche persona imprudente dovesse farlo, tutti i buoni francesi potrebbero disertarle”.
È indubbio quindi, secondo questa lettera, che Napoleone avesse deciso di sfruttare l’Istituzione come importante fattore di aggregazione e di controllo sul popolo. Ma, per attuare questo progetto, era fondamentale piazzare gli uomini giusti al posto giusto, cioè ai vertici del Grande Oriente di Francia. “Fece eleggere” Gran Maestro suo fratello Giuseppe e come Gran Maestro Aggiunto suo fratello Luigi, servendosi dell’aiuto dei marescialli Masséna e Kellermann e del principe Cambacérès, eminenti massoni, che lo appoggiarono in pieno superando non poche difficoltà. Napoleone volle addirittura che Cambacérès assumesse la carica di sorvegliante e non si limitò solo ai vertici dell’Istituzione ma volle anche che molti suoi uomini, come alcuni suoi generali e lo stesso Fouché, temuto Prefetto di Polizia, occupassero ruoli chiave. Ben presto, il Grande Oriente diventò un’organizzazione di servitori fedeli dell’Imperatore e un esercito di impiegati di corte e la macchina pubblicitaria messa in atto dal Principe Cambacérès contribuì potentemente alla fusione dei partiti e al consolidamento del trono imperiale facendo confluire fra le fila della Massoneria le persone più influenti di Francia. Mancando la vita pubblica, i dibattimenti parlamentari, il giornalismo d’opposi23
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zione, la miglior parte del paese aderì alla Massoneria e ogni borgata volle avere la sua loggia e queste, disseminate su tutti i territori occupati, divennero il veicolo ideale per la diffusione della influenza francese nei vari paesi. Le logge accolsero l’élite della società francese ma ospitarono purtroppo anche infiltrati e spie del governo a caccia di cospiratori e, sembra, lo stesso imperatore che, in incognito, voleva sincerarsi personalmente della fedeltà dei fratelli di Loggia. Nell’adulazione dell’Imperatore, la Massoneria fece a gara con la Chiesa, che aveva addirittura incluso nel catechismo la frase “Onorare e servire il nostro Imperatore è come onorare e servire Dio stesso”. Venne addirittura inventato un San Napoleone che, festeggiandosi il 15 Agosto, giorno del genetliaco dell’Imperatore, interferiva con la festa dell’Assunzione di Maria Vergine. L’ossequiosi24
tà toccò i limiti del ridicolo, le riunioni massoniche finirono per diventare occasione di feste in onore di Bonaparte durante le quali i poeti dilettanti, nati come funghi, facevano a gara per celebrarlo. Sembra che, durante la festa di S. Giovanni d’inverno del 1806, celebrata solennemente dal Grande Oriente, il Venerabile De Lagarde, Prefetto del Distretto Senna e Marne, leggesse un suo magnifico poema nelle cui ultime righe il Grande Napoleone era chiamato successivamente: Il Liberatore, il Consolatore, il Vendicatore, il Pacificatore del Mondo. Nell’ultimo verso, il Fratello Imperatore fu persino posto a livello del GADU stesso, divenendo “un altro Creatore del mondo”. Nel 1808, il Fratello Delagrange Oratore della Loggia delle Neuf Soeurs, loggia storica di Parigi che aveva visto l’iniziazione di Voltaire e che aveva avuto come
Venerabile anche Benjamin Franklin, elogiò Napoleone quale eroe al quale il Grande Architetto sembrava avere “conferito la direzione esclusiva della Grande Loggia terrestre”. Elogi a sua maestà l’Imperatore e alle sue vittorie, fare un triplice Fuoco per Marengo, Austerlitz o Iena, divennero parte indispensabile nella vita latomistica ma, nonostante il fatto che le Logge dell’Impero fossero sotto la protezione del governo, non tutte accettarono di aprire e chiudere i Lavori con un triplice Viva Napoleone il Grande e la sua augusta famiglia come prescritto dal Rituale del G.O. di Francia del 1805. Questo è un brano tratto dal verbale della Loggia di Portoferraio Les Amis de l’Honneur Français redatto nel giugno dell’anno 5805 in occasione dell’istallazione dei nuovi Dignitari di Loggia: “Il 1° brindisi ha espresso la voce dell’Officina per la conservazione delle loro Maestà Imperiali e Reali e della loro augusta famiglia, la prosperità della Repubblica, quella del nostro Esercito e l’abbattimento di quei motivi di rivalità che si sono, da così lungo tempo, nutriti dei mali che hanno imperversato su di noi e che cominciano a risentire dell’influenza dell’astro splendente che raggiunge l’Oriente della Francia”. Questi sentimenti sono stati ratificati con il calore dell’esecuzione dei fuochi comandati per questo brindisi. È l’unico riferimento alla famiglia dell’Imperatore, in tutti i verbali di lui non viene pronunciato nemmeno il nome e tantomeno gli viene attribuito il titolo di Fratello. La Loggia si è limitata a quest’unico brindisi, solo per questa occasione e solo perché previsto obbligatoriamente dai Rituali dal G.O.D.F. L’ascesa di Napoleone al trono imperiale coincise, per quanto riguarda l’Elba, con il periodo in cui il Fr. Galeazzini, Commissario Generale, venne a sostituire il Fr. Briot, ardente giacobino, nel governo dell’isola. L’ammirazione del Barone Galeazzini per l’Imperatore non era un mistero per nessuno, era persino andato a Milano alla sua incoronazione a Re d’Italia ma, nonostante questo, durante i Lavori di Loggia questo illustre fratello tenne sempre un comportamento misurato e corretto e dell’incoronazione non si trova alcun riferimento. La Loggia Les Amis de l’Honneur Français non ha mai parla-
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to di politica o di religione; era nata, infatti, con sentimenti ben chiari dato che fra i suoi fondatori c’erano molti elementi che non erano stati certamente favoriti dal Primo Console e futuro imperatore. Lo stesso titolo distintivo della Loggia, Les Amis de l’Honneur Français, appoggiato da tutti i Fratelli presenti e proposto da Briot durante la tornata effettuata in occasione del Solstizio d’estate dell’anno 1803 con il commento “viste le circostanze storiche e le minacciose disposizioni del Nemico”, lascia intuire che l’onore francese in questione non poteva che essere quello degli ideali rivoluzionari traditi dalle tendenze dittatoriali mostrate, fin dall’inizio della sua carriera, da Napoleone, definito appunto Nemico visto che la parola nemico è scritta con l’iniziale maiuscola. A dimostrazione di questa scarsa inclinazione verso il grande uomo non si trova in nessuno dei verbali traccia o riferimento al suo nome, in nessuna occasione. Come ha scritto Stolper, “Probabilmente a causa di personaggi indipendenti come Bri-
ot, la Les Amis de l’Honneur Français non si abbandonò mai agli stomachevoli elogi al «grande Pacificatore» Napoleone, come fecero invece tutte le altre logge. Anzi, nei verbali, egli non viene mai menzionato, neppure durante la sua permanenza sull’isola dal 21 aprile 1814 al primo marzo 1815. E sembra che anche Napoleone abbia ignorato la loggia”. L’Imperatore Napoleone Bonaparte, per i suoi motivi, aveva deciso di prendere sotto la sua protezione l’associazione, ma era un iniziato alla Massoneria? Era un profano istruito? Apparteneva agli Illuminati? Sembra lecito porsi alcuni quesiti: Se Napoleone fosse stato un iniziato alla setta degli Illuminati, è possibile che avesse deciso di ripiegare sulla Massoneria avendo tradito quegli ideali ai quali aveva giurato fedeltà negli anni della sua giovinezza, prima della Rivoluzione Francese? Ma fosse stato un iniziato alla Massoneria, che bisogno aveva di chiedere all’Arci-Cancelliere Cambacérès informazioni sull’Istituzione, sui suoi scopi e sui suoi simboli prima di decidere se
prenderla o meno sotto la sua protezione? O sarebbe più plausibile ritenere invece che Napoleone, solo per poter avere un controllo capillare su tutto, fosse venuto a patti con la Massoneria offrendo protezione in cambio di appoggio? Forse non si stabilirà mai se Napoleone abbia aderito o meno alla massoneria, è però certo che i legami fra Napoleone e la Massoneria furono molto intensi e i dieci anni del potere napoleonico, quelli che vanno dal 1804 al 1814, furono quelli che per molti autori massonici, allettati dallo splendore apparente, furono definiti il più florido periodo della massoneria francese, ma per quelli che hanno giudicato con indipendenza e libertà di pensiero, l’epoca meno importante e meno onorevole per l’ordine massonico. P.18: Monumento a Napoleone, Musée de l’Armée, Paris; p.19: Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) e a destra e in basso il libro citato nel testo; p.20: Stampe dell’800 della presunta iniziazione di Napoleone; p.21: Napoleone a Cherbourg, France; p.22: J.B.Regnault, ‘La liberté ou la mort’; p.23: Ritrattino di Napoleone e Maria Luisa d’Asburgo-Lorena; p.24: Hippolyte (Paul) Delaroche (1797-1856), Ritratto di Napoleone; p.25: Tempio massonico di fine ‘700.
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‘Vexata quæstio’ I rapporti fra Chiesa e massoneria Luigi Pruneti
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enerabili Fratelli e diletti Figli! […] Pronunciamo innanzi a voi, certo tremando […], ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione di un Sinodo Diocesano per l’Urbe e di un Concilio Ecumenico per la Chiesa Universale”. Con queste parole, il 25 gennaio 1959 Giovanni XXIII annunciava, urbi et orbi, un evento epocale: la convocazione di un concilio ecumenico. Non era un’idea nuova quella del “Papa buono”, il Concilio Vaticano I era stato interrotto dalla Breccia di Porta Pia e i successori di Pio IX avevano più volte pensato di riproporlo: Pio XI, nel 1922, con l’Enciclica Ubi Arcano Dei Consilio l’aveva preannunciato e Pio XII aveva analizzato la questione, per poi desistere di fronte alle difficoltà dell’impresa; invece, Giuseppe Angelo Roncalli aveva deciso di raccogliere la sfida. I Massoni vissero il Concilio con speranza e ottimismo. Il nuovo papa faceva ben sperare, era un pontefice dialogante, aperto ai problemi del mondo. Il lungo tirocinio nella diplomazia vaticana1 lo rendeva particolarmente disposto a soppesare e a valutare senza pregiudizi. Vi era addirittura chi sussurrava che fosse vicino ai Figli della Vedova, lo avrebbe dimostrato l’incontro che aveva avuto a Castel Gandolfo con il barone Yves Marsaudon, alto dignitario del Rito Scozzese Antico ed Accettato per la Francia2. In realtà Giovanni XXIII non nutriva particolare simpatia per la Libera Muratoria come documentano diversi episodi,3 ma ciò 1 A. A. Mola, Giovanni XXIII apprendista papa in Bulgaria, fratellanza cristiana negli anni di ferro, in “Il Giornale del Piemonte”, 21 agosto 2014. 2 E. Laudicina, Il cappuccio e la tiara. Impossibile il dialogo fra Chiesa e Massoneria?, Foggia 2000, p. 184. 3 Sembra che Giovanni XXIII abbia alluso alla Massoneria solo “nell’assunzione del dettato del Codice di diritto canonico nel testo del Sinodo Romano”. Inoltre il Papa “rinvenendo fra i moltissimi telegrammi di augurio giuntigli a seguito della grave crisi che aveva messo in pericolo la sua vita […] il telegramma di una loggia massonica, segnalò di sua mano questo criterio alla segreteria di Stato: Complimenti cortesi, si ringrazino. Ma niente compromissioni con la massoneria e simili”. E. Esposito, Chiesa e Massoneria, Firenze 1999, p. 115. Nei documenti del Pontefice, inoltre, si trovò un autografo dal titolo Condanna della massoneria, datato 1962;
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non ostacolava l’ascolto di voci diverse da quelle dell’ortodossia cattolica. Durante il Concilio il problema “massoneria” emerse poche volte. Alla commissione anti-preparatoria su 1998 istanze inviate dai padri conciliari solo quindici riguardavano l’argomento; di queste dieci chiedevano che fosse confermata la condanna, una invitava ad affidare la questione ai vescovi, un’altra sollecitava a limitare la scomunica solo ai “pertinaciter adhaerentes”, tre postulavano “che le pene fossero mitigate e l’intera questione riconsiderata”4. Tale disinteresse dimostrava, secondo Giovanni Caprile, che “non si riteneva più la massoneria un pericolo grave e imminente per la Chiesa e R. F. Esposito, I Papi e la Massoneria, in La Libera Muratoria, a. c. di C. Castellacci, Milano 1978, p. 296. 4 Z. Suchecki, La Massoneria nelle disposizioni del “Codex Iuris Canonici” del 1917 e del 1983, Città del Vaticano 1997, p. 41 e segg; cfr. S. BISI, Mitra e compasso. Storia dei rapporti tra massoneria e chiesa da Clemente XII a Benedetto XVI, Siena 2006, p. 62.
la società”5. Di questo avviso era il vescovo messicano di Cuernavaca, Sergio Méndez Arceo, che il 6 dicembre 1962 chiese ai membri della XXXV Congregazione quale fosse l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della Massoneria, associazione che non sembrava antireligiosa e contava nelle proprie file numerosi credenti. Un anno dopo l’alto prelato ritornò sull’argomento affermando: “Mi pare che conviene trattare pure una questione […] che riguarda uomini di diverse religioni riuniti in un’associazione i cui principi, […] furono cristiani, e che anche oggi, in parte, rimane e si rinnova come cristiana. Si dovrebbero revocare le leggi che, contro tali associazioni, la Chiesa ha decretato […] affinché non capiti di [andare …] contro la dottrina di Cristo, il quale insegnò che bisogna conservare l’erbaccia per non strapparla insieme al grano. Mi riferisco alla Massoneria, nella quale si trovano non pochi anticristiani, ma nella quale ci sono anche molti che credono in Dio rivelatore, e si chiamano cri5 J. A. Ferrer Benimeli G. Caprile, Massoneria e Chiesa Cattolica, Roma 1982, p. 62
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contro pubblico del 15 giugno 1969 al teatro “Astor” di Savona che vide confrontarsi il gran maestro del GOI Giordano Gamberini con don Esposito11. Nonostante lo “scandalo” sollevato dalla stampa reazionaria, gli incontri proseguirono per diversi anni e si allargano coinvolgendo alcuni vescovi12. La via della conciliazione era seguita anche all’estero; nel 1966 gli episcopati di Danimarca, Norvegia, Finlandia e Svezia decisero che i protestanti desiderosi di ritornare al cattolicesimo, se massoni, potevano farlo senza rinunciare a guanti e grembiule13. Vi fu poi il caso di una messa celebrata a Manila in una sede massonica e gli incontri fra esponenti di comunioni massoniche e vescovi in Francia, Belgio, Argentina, USA14. Erano segnali di una svolta che avvenne il 19 maggio 197415. Quel giorno il cardinale Ferenc Seper, Perfetto della Congregazione della dottrina della fede16,
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stiani, o almeno non cospirano […] contro la Chiesa […]. Ci sono fra loro quelli che sperano una parola dalla Chiesa”6. Alla proposta dal presule messicano si oppose con foga il cardinale arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini che, rispolverando temi vecchi di secoli, ribadì la necessità della condanna, giacché la Massoneria restava una “Accanita avversaria della Religione, sostenuta in gran parte dagli ebrei” 7. Il Concilio, pur non apportando novità particolari sulla “squadra e il compasso”, alimentò, comunque, la speranza che la guerra secolare terminasse e le attese crebbero con il pontificato di Paolo VI. Giovanni Battista Enrico Antonio Maria Montini, infatti, con L’Enciclica Ecclesiam suam, ribadì l’apertura della Chiesa al dialogo, asserendo: “Nessuno è estraneo al cuore [della Chiesa] Nessuno le è nemico che non voglia egli esserlo. Non invano si dice cattolica; non invano è incaricata di promuovere nel mondo l’unità, l’amore, la pace”8.
Spronati da queste parole, diversi massoni si fecero avanti, chiedendo di ricomporre l’antica frattura. Significativa fu la lettera aperta scritta al Pontefice dal dottor Tohotom Nagy, esponente di spicco della Libera Muratoria argentina. “Esistono – egli affermava – migliaia di massoni […] che vivono in permanente conflitto con la propria coscienza, soffrendo dannose conseguenze, poiché, consapevoli della propria vita massonica priva di macchie, non comprendono per qual motivo debbono ancora essere colpiti dall’anatema [… la Chiesa] deve considerare se convenga ancora escludere dalle mura della Città di Dio quelli che continuano a credere e coltivano la propria fede all’interno d’una Istituzione che la esige”9. I tempi per il dialogo sembravano ormai maturi. Al colloquio si resero disponibili alcuni sacerdoti, studiosi di fama, come il padre paolino Rosario Esposito, il gesuita Giovanni Caprile, il salesiano Vincenzo Miano, segretario vaticano dei non credenti10. Furono queste le premesse all’in-
6 S. Bisi, Mitra e compasso … cit, pp. 62-63. 7 R. Laudicina, Il cappuccio e la tiara … cit., p. 184. 8 Ibidem, p. 178.
9 J. A. Ferrer Benimeli G. Caprile, Massoneria e Chiesa Cattolica … cit., p. 83. 10 I delegati al dialogo si riunirono spesso ad Ariccia, come racconta lo stesso padre Espo-
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sito: “Consentì [don Giacomo Alberione] che accogliessi gratuitamente i delegati del dialogo presso la Casa del Divin Maestro di Ariccia dal 1969 al 1977. Avemmo nove incontri, di cui cinque in questa residenza paolina situata sul lago di Albano”. G. Adilardi, Massoneria e Chiesa Cattolica. Dalla Humanum genus (1884) al dialogo, Firenze 2014, p. 25. 11 L’incontro di Savona fu organizzato in occasione del centenario di fondazione della loggia “Sabazia”. Ibidem, p. 34. 12 Parteciparono agli incontri su “chiesa e massoneria” anche monsignor Bernini, vescovo ausiliario di Albano, e monsignor Ablondi, vescovo di Livorno. S. BISI, Mitra e compasso, cit., p. 74. 13 Vi era stato un precedente nel 1964, quando i vescovi della Norvegia avevano consentito, a titolo di esperimento, che un massone convertito al cattolicesimo restasse tale. R. F. Esposito, Le grandi concordanze tra Chiesa e Massoneria, Firenze 1987, pp. 31-32. 14 Il cardinale Cushing e il vescovo Robert Joyce furono ospiti di Logge americane fra il 1961 e il 1965. Memorabile fu la visita che il cardinale Cushing effettuò il 26 ottobre 1965 alla loggia “Brotherhood” di Boston, durante la quale affermò, fra l’altro: “Noi tutti siamo vissuti nei ghetti. Lasciate che parliamo a Dio nella mostra lingua e voi amate Dio alla vostra maniera. La dimostrazione dell’amore di Dio è costituita dall’amore verso il nostro prossimo. Se non amiamo il prossimo che vediamo, come possiamo amare Iddio che non vediamo?” E. Pisoni, Rapporti fra Chiesa e Massoneria, in La Libera Muratoria, a. c. di C. Castellacci, Milano 1978, p. 283. 15 R. F. Esposito, I Papi e la Massoneria … cit., p. 297. 16 Scrive don Rosario Esposito: “Il Concilio
inviò una lettera all’arcivescovo di Filadelfia John Joseph Krol, presidente della Conferenza episcopale americana, per chiarire alcuni punti sulla questione massonica17. Egli, in primo luogo, precisò “che la Santa Sede non intendeva più avocare a sé il giudizio relativo alle singole massonerie nazionali, ma lo demandava ai rispettivi episcopati” 18, in secondo luogo affermò che “nel prendere […] in considerazione i casi particolari bisogna tener presente che la legge […] va interpretata in senso restrittivo. Per tale motivo si può […] applicare l’opinione di quelli autori i quali ritengono che il […] canone 2335 [quello che impartisce la scomunica] tocchi soltanto quei cattolici iscritti ad associazioni che veramente cospirano contro la Chiesa19”. Commentò Ernesto Pisoni: “In sostanza questa lettera, mentre da una parte riafferma che rimane in vigore l’attuale legislazione […] dall’altra autorizza gli episcopati di tutto il mondo a comportarsi come l’episcopato scandinavo, cioè, a decidere sulla liceità per i cattolici di appartenere alla Massoneria in base alle situazioni locali.”20. Sempre quell’anno, la Conferenza Episcopale dell’Inghilterra e del Galles, a seguito della lettera di Seper, permise ai Massoni di mettersi in contatto col proprio vescovo per “discutere le implicazione di tale appartenenza”21. Si trattava di un’apertura prudente, ben spianò la via alla riconciliazione con l’impostazione dialogica dell’assise e più specificatamente con la costituzione pastorale Gaudium et spes e la dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa. Nel 1968 e nel 1971 la Congregazione per la Dottrina della fede indisse due inchieste presso l’episcopato universale, che al 98% circa espresse il voto di abolizione della scomunica”. R. F. Esposito, Le grandi concordanze fra Massoneria e Chiesa cattolica, in Atti del Convegno di studi tenutosi a Montesilvano – Pescara – 11 e 12 maggio 2003, Pescara 2004, pp. 13-14. 17 La lettera del cardinale John Joseph Krol e soprattutto la risposta del cardinale Ferenc Seper, Perfetto della Congregazione della dottrina della fede, generarono a Roma una controversia ecclesiologica sulla figura del cattolico massone. Cfr. P. Boutin, La Franc – Maçonnerie, l’Eglise et la modernité, Paris 1998, pp. 159-171. 18 R. F. Esposito, La riconciliazione tra la Chiesa e la Massoneria, Ravenna 1979, pp. 86-87. 19 S. Bisi, Mitra e compasso … cit., pp. 79-80. 20 E. Pisoni, Rapporti fra Chiesa e Massoneria … cit., p. 284. 21 R. F. Esposito, Le grandi concordanze tra Chiesa e Massoneria … cit., p. 37.
diversa da quella della Conferenza Episcopale di Santo Domingo che il 29 gennaio 1979 dichiarò: “Tra noi non esiste […] incompatibilità tra l’essere cattolico praticante […] e essere affiliato a un’associazione massonica o similare, a meno che non si tratti di un’associazione […] che, in un modo o nell’altro, esiga azioni, atteggiamenti o mentalità contrari alla fede cristiana e alla Chiesa”22. Il caso di San Domingo non fu un episodio isolato; gran parte dell’America Latina mostrava apertura verso la Massoneria come testimoniò la Conferenza episcopale del Brasile del 1975, l’accettazione da parte dell’arcivescovo di Rio de Janeiro e del cardinale Brandao Vilela di onorificenze massoniche e la messa celebrata nel giorno di Natale del 1975 nella sede della loggia “Libertade” di San Salvator de Bahia23. Nell’Europa continentale continuavano intanto a operare gruppi di lavoro; dal 1968 al 1969 si riunì in Germania e in Svizzera una commissione indipendente di cui facevano parte nove massoni e tre cattolici; al termine degli incontri i membri del gruppo stesero un documento, chiamato Dichiarazione di Lichtenau, ove si affermava che non sussistevano impedimenti per la doppia appartenenza a Chiesa e a Massoneria24. L’episcopato tedesco, considerando la Dichiarazione di Lichtenau un documento privato, privo di rilevanza, decise di affidare il problema della duplice appartenenza a una commissione ufficiale che iniziò a lavorare nel 1974. Il gruppo, coordinato da Joseph Stimpfle vescovo di Augsburg25, era costituito da membri disegnati dall’episcopato stesso e da esponenti delle Gran Logge Unite di Germania. La commissione terminò i lavori nel 1980, pubblicando un’ampia relazione dove premetteva “che i colloqui si [erano] svolti in un’atmosfera serena di apertura e di obiettività. [ciò aveva reso] possibile eliminare di22 Ibidem, pp. 38-39. 23 Ibidem, p. 41. 24 Z. Suchecki, La Massoneria nelle disposizioni del “Codex Iuris Canonici” del 1917 e del 1983 … cit., p. 47 e segg. 25 E. Laudicina, Eventi massonici. Episodi di storia della Massoneria italiana, Foggia 2012, p. 229.
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versi pregiudizi insostenibili”26. Nonostante la nota introduttiva, la commissione riteneva che Chiesa e Massoneria fossero inconciliabili, poiché “La Libera Muratoria non è mutata nella sua essenza. Un’appartenenza ad essa mette in questione i fondamenti dell’esistenza cristiana. L’esame approfondito dei Rituali della Libera Muratoria e del modo di essere massonico, come pure l’odierna immutata autocomprensione di sé, mettono in chiaro che l’appartenenza contemporanea alla Chiesa Cattolica e alla Libera Muratoria è esclusa” 27. Secondo Padre Rosario Esposito tali conclusioni furono condizionate dal fatto che i membri di parte cattolica “non [fossero] molto ferrati in storia della massoneria”28; ciò è plausibile, ma è altrettanto plausibile che i massoni presenti avessero una visione autoreferenziale e miope, tendente a identificare la Massoneria universale con la loro comunione. È facile arguirlo se si esamina il materiale messo a disposizione della Commissione: i Rituali delle Gran Logge Unite di Germania e taluni testi considerati “canonici” quali le opere di Eu26 Papa Leone XIII Inimica Vis. La Chiesa Cattolica contro la massoneria, a. c. di A. Morganti, Rimini 2006, p. 60. 27 Ibidem , p. 61. 28 G. Adilardi, Massoneria e Chiesa Cattolica. Dalla Humanum genus (1884) al dialogo, cit., p. 42.
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gen Lennhoff29 e di Oskar Posner30. Siffatti autori erano relativisti e come tale consideravano la Massoneria: “La libera muratoria – scrivevano - può […] essere concepita come un movimento che mira a raccogliere uomini di orientamento relativistico per la promozione dell’ideale umanitario […] Il punto di vista della libera muratoria sui problemi del mondo e dell’umanità si deduce dal relativismo. Nel suo simbolismo e nei suoi rituali viene chiaramente in luce la sua posizione relativistica”31. Più relativisti di così non era possibile esserlo, però, le loro idee erano personali e corrispondevano solo al comune sentire di una parte della Massoneria. Nonostante la pronuncia negativa dell’episcopato tedesco nel gennaio del 1983 sembrò che la Chiesa aprisse alla Libera Muratoria con la pubblicazione del nuovo Codice di diritto Canonico che nel Libro VI, al Titolo 29 Eugen Lennhoff (1891–1944), scrittore e giornalista, fu Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico ed Accettato d’Austria. La sua opera più nota è Il Libero Muratore. Cfr. E. Lennhoff, Il Libero Muratore, Foggia 2006. 30 Guglielmo Adilardi mette in evidenza come nella relazione della Commissione episcopale tedesca compaiano anche i nomi di Wirth e di Pike e, addirittura, quello di Baphomet, perché “il diavolo non poteva essere assente alla tavola dell’ennesima condanna dei massoni”. G. Adilardi, Massoneria e Chiesa Cattolica. Dalla Humanum genus (1884) al dialogo … cit., p. 43. 31 E. Lennohoff O. Posner, Internationales Freimaurer lexikon, Vienna - Monaco di Baviera 1980, col. 1666.
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II del Canone 1374, recita: “Chi dà il nome ad un’associazione che complotta contro la Chiesa, sia punito con una giusta pena; chi poi tale associazione promuove o dirige sia punito con l’interdetto”32. Per la prima volta dal 1738 la parola “scomunica” era cassata; per molti era la conferma del disgelo, tanto che Franco Molinari affermò che il Canone 1374 aveva posto fine a un equivoco secolare. Il 26 novembre 1983, in pieno marasma P233, tuttavia, gli entusiasmi furono spenti da una dichiarazione del32 Z. Suchecki, La Massoneria nelle disposizioni del “Codex Iuris Canonici” del 1917 e del 1983 … cit., p. 61 segg. 33 Secondo alcuni autori il cardinale Ratzinger, già pressato dall’episcopato tedesco, decise di pubblicare la precisazione del novembre 1983 sull’onda emozionale dello scandalo P2. Questo dubbio è legittimo; in quell’anno l’intera Massoneria fu posta sul banco degli imputati e accusata di ogni nefandezza. Inoltre, le ombre della loggia segreta si estendevano inquietanti anche sulla finanza vaticana, procurando un danno all’immagine stessa della Santa Sede; a quel punto, un distinguo particolarmente forte poteva essere politicamente opportuno. Tale pensiero attraversò la mente anche dello studioso gesuita José Antonio Ferrer Benimeli. G. Adilardi, Massoneria e Chiesa Cattolica. Dalla Humanum genus (1884) al dialogo … cit., p. 61. Sui rapporti finanziari fra Santa Sede e personaggi orbitanti intorno alla Loggia P2 e del danno d’immagine che ancora oggi ne riceve la Chiesa cfr. C. Rendina, La santa casta della Chiesa, Roma 2009, p. 142 e segg; G. Galeazzi F. Pinotti, Vaticano massone. Logge, denaro e poteri occulti: il lato segreto della Chiesa di Papa Francesco, Milano 2013, p. 84 e segg.
la Sacra Congregazione della Dottrina della Fede che precisò: “E’ stato chiesto se sia mutato il giudizio della Chiesa nei confronti della massoneria per il fatto che il nuovo Codice di Diritto Canonico essa non viene espressamente menzionata come nel codice antecedente. Questa Congregazione è in grado di rispondere che tale circostanza è dovuta a un criterio redazionale seguito anche per altre associazione […]. Rimane pertanto immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione a esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla santa Comunione. Non compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle associazioni massoniche con un giudizio che implichi deroga a quanto sopra stabilito, e ciò in linea con dichiarazione di questa S, Congregazione del 7 febbraio 1981. Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Perfetto, ha approvato la seguente Dichiarazione […] e ne ha ordinato la pubblicazione”34. La semplice appartenenza alla Massoneria, pertanto, costituiva una colpa grave e impe34 Z. Suchecki, La Massoneria nelle …cit., p. 65 e segg. E p. 110; Ed. E. Stolper, Argomento ... cit., pp. 44-45; Papa Leone XIII Inimica Vis. La Chiesa Cattolica contro la massoneria … cit., p. 69.
diva di accedere alla Santa Comunione: niente era cambiato. Circa un anno dopo uscì su “L’Osservatore Romano” un lungo articolo anonimo che illustrava la dichiarazione della Sacra Congregazione della Dottrina della Fede in modo ampio e articolato35. L’articolo, per dirla con Introvigne, costituisce una sorta di motivazione e secondo molti è attribuibile allo stesso cardinale Ratzinger36. Il pezzo afferma che la condanna della Libera Muratoria non era dovuta solo a motivi storici ma soprattutto ad aspetti dottrinari poiché la Massoneria propone un relativismo inconciliabile con la verità rivelata: “[Il] giudizio negativo [della Chiesa] è stato ispirato da molteplici ragioni, pratiche e dottrinali. Essa non ha giudicato la massoneria responsabile soltanto di attività sovversiva nei suoi confronti, ma fin dai primi documenti pontifici in materia e in particolare nell’enciclica “Humanum Genus” di Leone XIII […], il Magistero della Chiesa ha denunciato nella massoneria idee filosofiche e concezioni morali opposte alla dottrina cattolica […] A proposito dell’affermazione sull’inconciliabilità dei principi tuttavia si va ora da qualche parte obiettando che essenziale della massoneria sarebbe proprio il fatto di non imporre alcun “principio”, nel senso di una posizione filosofica o religiosa che sia vincolante per tutti i suoi aderenti, ma piuttosto di raccogliere insieme, al di la dei confini delle diverse religioni e visioni del mondo, uomini di buona volontà sulla base di valori umanistici comprensibili e accettabili da tutti. La massoneria costituirebbe un elemento di coesione per tutti coloro che credono nell’Architetto dell’Universo e si sentono impegnati nei confronti di quelli orientamenti morali fondamentali che sono definiti ad esempio nel Decalogo; essa non allontanerebbe nessuno dalla sua religione, ma al contrario costituirebbe un incentivo ad aderirvi maggiormente. […] Che anche la Chiesa cattolica spinga nel senso di una collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà non è certamente necessario sottolinearlo dopo il 35 Riflessioni ad un anno dalla Dichiarazione della Congregazione per la dottrina della Fede, inconciliabilità fra fede cristiana e Massoneria, in l’ “Osservatore Romano” 22-23 febbraio 1985. 36 M. Introvigne, Il simbolo ritrovato. Massoneria e società segrete: la verità oltre i miti, Milano 2010, p. 85.
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Concilio Vaticano II. L’associarsi alla massoneria va tuttavia decisamente oltre questa legittima collaborazione e ha un significato ben più rilevante e determinante […]. Innanzi tutto si deve ricordare che la comunità dei “liberi muratori” e le sue obbligazioni morali si presentano come un sistema progressivo di simboli dal carattere estremamente impegnativo. La rigida disciplina dell’arcano che vi domina rafforza ulteriormente il peso dell’interazione di segni e di idee. Questo clima di segretezza comporta, oltre tutto, per gli iscritti il rischio di diventare strumento di strategie ad essi ignote. Anche se si afferma che il relativismo non viene assunto come dogma tuttavia si propone di fatto una concezione simbolica relativistica, e pertanto il valore relativizzante di una tale comunità morale – rituale lungi dal poter essere eliminato, risulta al contrario determinante. In tal contesto, le diverse comunità religiose, cui appartengono i singoli membri delle logge, non possono essere considerate se non come semplici istituzionalizzazioni di una verità più ampia e inafferrabile. Il valore di queste istituzionalizzazioni appare, quindi, inevitabilmente relativo, rispetto a questa verità più ampia, la quale si manifesta invece […] nella comunità della buona volontà, cioè nella fraternità massonica. Per un cristiano cattolico, tuttavia, non è possibile vivere la sua relazione con Dio in una duplice modalità, scindendola cioè in una forma umanitaria – sovraconfessionale e in una forma interna – cristiana. Egli non può coltivare relazioni di due specie con Dio, né esprimere il suo rapporto con il Creatore attraver-
so forme simboliche di due specie. Ciò sarebbe qualcosa di completamente diverso da quella collaborazione, che per lui è ovvia, con tutti coloro che sono impegnati nel compimento del bene, anche se a partire da principi diversi”37. Per “L’Osservatore Romano”, la Massoneria s’identificava con il relativismo, con l’apertura a concezioni diverse del sacro, inconciliabili con la dogmatica cattolica e, anche se la Libera Muratoria non costringeva alla sua osservanza, chi ne faceva parte doveva accettarlo in via di principio, come metodo. Alcuni studiosi si dichiararono stupiti e amareggiati per la posizione assunta dalla Sacra Congregazione; Edward Stolper38, ad esempio, la definì “strana” e difficilmente comprensibile, mentre il gesuita José Antonio Ferrer Benimeli rilevò incongruenze e inesattezze nella motivazione de “L’Osservatore romano”. L’ignoto estensore del “commento”, a suo avviso, compiva un errore fin nel titolo identificando cattolicesimo con cristianesimo. L’incompatibilità poteva riferirsi solo al primo giacché per altre chiese cristiane l’iscrizione alla Massoneria era lecita, come dimostrava l’iniziazione del patriarca ortodosso Atenagora e dell’arcivescovo anglicano Geoffrey Francis Fische39. Per Benimeli, inoltre, il quotidiano 37 Z. Suchecki, La Massoneria nelle disposizioni del “Codex Iuris Canonici” del 1917 e del 1983 … cit, pp. 76 – 80; Cfr. A. Pellicciari, I papi e la massoneria, Milano 2007, pp. 300 -302. 38 E. Stolper, Argomento massoneria, Cosenza 1986, pp. 47 – 48. 39 Geoffrey Francis Fische incontrò il 2 dicem-
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per dimostrare che “la massoneria avrebbe idee filosofiche e concezioni morali opposte alla dottrina cattolica, che porterebbero a un naturalismo razionalista”40 si riferiva a due documenti di Leone XIII: l’Enciclica Humanus Genus (1884) e la Lettebre del 1960 il pontefice Giovanni XXIII. Questo incontro che si tenne in Vaticano fu storico, era, infatti, la prima volta che s’incontravano un papa e un primate anglicano G. Adilardi, Massoneria e Chiesa Cattolica. Dalla Humanum genus (1884) al dialogo … cit, p. 29. 40 L’articolo di Padre José Antonio Ferrer Benimeli, fu pubblicata su “El Paìs” del 10 marzo 1985 e riproposto da “Hiram” nel numero di marzo del 1985. Fu poi pubblicao integralmente nel testo di Rosario F. Esposito Le grandi concordanza fra Chiesa e Massoneria. R. F. Esposito, Le grandi concordanze fra Chiesa e Massoneria … cit, p. 80.
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ra al popolo italiano (1892), dimenticando come sia la Massoneria, sia la Chiesa fossero profondamente mutate. “Non a caso – egli prosegue - il Vaticano II propugna quella stessa separazione fra Chiesa e Stato [auspicata un tempo dalla Massoneria] senza incorrere […] in idee naturaliste”41. Nel canone 1374 del nuovo Codice di Diritto Canonico, aggiunge “è scomparso […] ogni riferimento alla Massoneria, alla scomunica e a coloro che cospirano contro i poteri legittimi, tre degli aspetti basilari che avevano ragion d’essere soltanto nel contesto storico di un problema concreto italiano del XIX secolo, oggi superato e che […] risultava anacronistico mantenere. Questa è l’interpretazione degli esperti che, durante venti anni e più, lavorarono alla redazione del nuovo Codice di diritto canonico, nonostante le pressioni che all’ultima ora vennero esercitate specialmente da certi settori fondamentalisti […] perché si mantenesse la scomunica contro i massoni […] a seguito di queste pressioni il cardinale Ratzinger […] creava sorpresa il 26 novembre 1983 […] con un fatto senza precedenti nella storia della Chiesa, pubblicando una “dichiarazione sopra le associazioni massoniche”, per la quale […] anticipava posizioni restrittive, per non dire negative, facendo dire al Codice ciò che in nessun modo in esso è contenuto […]. Davanti alla reazione di non poche Conferenze episcopali contro questa nota […] l’ ”Osservatore Romano” si è visto costretto a fare il recente commento, più sfortunato, se è possibile del-
la nota precedente e che presuppone un ritorno all’epoca inquisitoriale. Ciò che risulta più grave è che tanto la dichiarazione del 1983, come le riflessioni del 1985, trovano ispirazione in un documento così reazionario ed erroneo come la Dichiarazione che i vescovi tedeschi fecero il 28 aprile 1980 contro la Massoneria. In sostanza, le riflessioni vaticane del 23 febbraio 1985, altro non sono che una glossa di questa dichiarazione tedesca, seguita, nei suoi punti fondamentali, come il relativismo, il concetto della verità in Massoneria, le azioni rituali, le visioni del mondo che sono proprie dei massoni ecc. Il parallelismo è tanto più eclatante quanto è falsa la base della dichiarazione tedesca. Così già il punto di partenza è gravemente erroneo nel considerare la Massoneria come una religione o pseudoreligione, e i rituali massonici come se avessero carattere sacramentale”42. Ferrer Benimeli conclude la sua ampia riflessione affermando che l’articolo de “L’Osservatore Romano” giuoca sulle parole per esprimere una condanna alla Massoneria, senza però ricorrere alla scomunica: “La Massoneria, ormai, non cospira contro la Chiesa, però i suoi principi dottrinari non sono mutati e pertanto i cattolici che si iscrivono alla Massoneria […] ormai non vengono scomunicati, sebbene la loro iscrizione costituisca obiettivamente un peccato grave, pertanto non possono accedere alla Santa Comunione”43. Nel 1991 anche “Civiltà Cattolica”, il periodico dei Gesuiti che con Caprile si era di-
41 In R. F. Esposito, Le grandi concordanze fra Chiesa e Massoneria … cit., p. 81.
42 Ibidem, pp. 83-84. 43 Ibidem, p. 86.
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stinto nel momento del dialogo, uscì con un articolo di taglio antimassonico. L’autore, Giandomenico Mucci, spolverò testi caratterizzati da un certo anticlericalismo di maniera44, per dimostrare come la Libera Muratoria, figlia e complice dell’Illuminismo, fosse “la più bieca assassina della fede cristiana”45. Da allora la posizione della Chiesa è rimasta ferma su queste posizioni, altri eventi 44 Cfr. M. Tanferra, Essenza e scopo della Massoneria, Roma 1971; G. Di Bernardo, Filosofia della Massoneria, Venezia 1987; L. Lupi, Rispondo ai gesuiti, Roma 1959. 45 G. Adilardi, Massoneria e Chiesa Cattolica. Dalla Humanum genus (1884) … cit, p. 63.
significativi non ve ne sono stati, giacché le Encicliche di Giovanni Paolo II, a iniziare dalla Veritas Splendor del 6 agosto 1993, esulano dal presente contesto. I pontefici che si sono succeduti a Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco I, hanno taciuto sul tema Massoneria; pertanto, nonostante le supposte affinità46, Chiesa e Massoneria rimangono lontane. Una distanza voluta dai cattolici che vedono nel carattere relativistico della Massoneria un muro insuperabile. Siffatta posizione è ben espressa da Massimo Introvigne che scri46 Cfr. M. Biglino, Chiesa Romana Cattolica e Massoneria, realmente così diverse? Una ricerca per liberi pensatori, Collegno (TO) 2009.
ve: “La massoneria [è …] un metodo che propone la libera discussione dei problemi e la loro soluzione secondo quanto sembra vero e giusto alla maggioranza dei fratelli. La discussione ha un limite positivo: non è permesso di mettere in discussione l’esistenza di Dio; ma Dio può essere concepito in una grande varietà di modi […] La discussione ha anche un limite negativo: tutto può essere messo in questione, tranne il metodo stesso. Chi per esempio proponesse l’unicità di una verità […] si porrebbe automaticamente al di fuori del metodo massonico […] Questo metodo, secondo Alain Gérard, non impedisce a nessuno di avere delle opinioni ben definite […] ma impone 33
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a tutti di “mettere in discussione le loro opinioni quando il lavoro di loggia comincia, accettando l’ipotesi che possano essere false” […]. Il metodo massonico “non significa che non si abbiano delle idee chiare; significa soltanto che si accetta di metterle in questione”47. Qui sta la radice del problema: perché le Chiese […] pensano che alcune delle verità che insegnano ai loro fedeli […] non siano di origine umana ma divina, e quindi non possono essere “messe in questione” […]. Questa problematica, naturalmente, deve essere considerata in relazione alle esigenze sociologiche da cui nasce storicamente e psicologicamente la massoneria, che risolve il dramma del pluralismo ideologico moderno offrendo come sua chiave di comprensione il relativismo […] Affermare che il metodo massonico si situa nell’orizzonte del relativismo non significa accusare i massoni […] di negare la conoscibilità filosofica o la rilevanza esistenziale della verità. Significa solo constatare che si tratta di un metodo che propone una visione della verità come relativa e condizionata da variabili indipendenti che la determinano”48. Al termine di questo esame sui rapporti fra Chiesa e Massoneria dal Concilio Vaticano II a oggi s’impone, tuttavia, una riflessione: un dialogo, come fu impostato da47 A. Gerard, Franc – maçonnerie et Catholicisme, in “Humanisme” nn. 181 – 182, settembre 1988, pp. 33-38. 48 M. Introvigne, La massoneria, Torino 1999, pp. 45-49 R. F. Esposito, Le grandi concordanze fra Massoneria e Chiesa cattolica, in Atti del Convegno di studi tenutosi a Montesilvano – Pescara – 11 e 12 maggio 2003, Pescara 2004.
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gli anni ’60 in poi, è pressoché irrealizzabile. Il motivo è semplice: si può discutere fra due soggetti simili o anche diversi fra loro, ma che siano soggetti. La Chiesa lo è, ha una struttura gerarchica universale, un’unica guida riconosciuta, una dottrina precisa. Può accogliere nel suo grembo voci diverse, posizioni anche contrastanti, ma la sua unitarietà è indiscutibile. La Massoneria no; è una costellazione, un arcipelago di isole grandi e piccole, tutte autocefale che, al loro interno, hanno orizzonti collettivi affatto diversi e spesso mutevoli. I colloqui, che abbiamo passato in rassegna, videro da una parte esponenti della Chiesa, dall’altra membri di una comunione massonica, non della Massoneria. Padre Esposito ebbe come referenti Liberi Muratori del GOI, il cui Gran Maestro Giordano Gamberini era su posizioni ben diverse da quelle assunte dai suoi successori. La commissione episcopale tedesca si confrontò con le Gran Logge Unite di Germania; Massimo Introvigne prende a modello prima la Gran Loggia Unita d’Inghilterra poi un membro del Grande Oriente di Francia. Nelle infinite comunioni massoniche sussistono posizioni disparate, ore deiste, ora teiste49, ora di laici49 Non vi è dubbio che su tali posizioni si ponga la Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Scrive a tal proposito Aldo Alessandro Mola: “Il 18 ottobre del 1950 la Gran Loggia d’Inghilterra irrigidì ancor più la valenza teistica del testo [ci si riferisce alla Dichiarazione di principio del 1929] nella motivazione della rottura con la Gran Loggia dell’Uruguay. Dichiarò infatti: Ogni uomo che chieda di entrare in Massoneria deve professare la fede nell’Essere Supremo, Dio invisibile e onnipo-
smo debole, ora di laicismo forte. Vi sono Obbedienze simili a club, con vincoli associativi superficiali e obblighi di partecipazione minimi; altre, al contrario, insistono su un forte senso di appartenenza e impongono impegno e frequentazione; vi sono infine quelle aggregazioni, definite da Introvigne di frangia,50 con interessi e ritualistica che vanno oltre gli orizzonti prettamente massonici. Se il dialogo fra Chiesa e Libera Muratoria è impossibile, può valere, invece, quello fra Cattolici e Figli della Vedova e, a tal punto, il discorso del relativismo, almeno per alcuni di loro, viene a cadere. Il metodo massonico non è quello “universale e indiscutibile” supposto dalla letteratura cattolica e per quanto ne so non impone di “mettere in questione le proprie idee”; caso mai è educazione al rispetto degli altri punti divista. I documenti di sintesi che onorano il pensiero dominante sono propri di modelli associativi ben diversi dalla Massoneria; in loggia non vi sono mai né vincitori né vinti, i fratelli sono chiamati a esporre le proprie idee che non sono passibili di commenti, il contradditorio è bandito su qualsiasi argomento. Il metodo si limita a norme comportamentali, a un’educazione all’ascolto, a una riconsiderazione del dialogo, all’invito alla riflessione, all’esegesi del simbolo che rimanda alla possibilità di una crescita della conoscenza. Non è imposto a nessuno di rivoluzionare o di destabilizzare il proprio universo di pensiero; chi vuole può, al di fuori dell’Officina, confrontarsi con gli altri, altrimenti è libero di percorrere la propria strada, nel rispetto della diversità. Non credo che una metodica di tal genere possa essere etichettata come relativismo, altrimenti sarebbe tale qualsiasi società aperta che tente. A questi riguardo non è permessa alcuna eccezione. La Massoneria non è un movimento filosofico aperto a qualsiasi orientamento e opinione. La vera Massoneria è un culto per conservare e diffondere la credenza nell’esistenza di Dio che deve essere quello di una religione monoteista”. A. A. Mola, Massoneria e religione. Conciliazione o compatibilità?, in Le grandi concordanze fra Massoneria e Chiesa cattolica, Atti del Convegno di studi tenutosi a Montesilvano – Pescara – 11 e 12 maggio 2003, Pescara 2004, p. 48. 50 M. Introvigne, Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici, dallo spiritismo al satanismo, Carnago (VA) 1995, pp. 157-175; M. Introvigne, Il ritorno dello gnosticismo, Carnago (VA) 1993, pp. 69-71.
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consente pluralità di opinioni e sinergia fra culture e tradizioni diverse. _______________
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P.27: Monumento a Pio IX, Palermo; p.27: Giovanni Roncalli (Papa Giovanni XXIII); p.28: Giovanni Battista Montini (Papa Paolo VI); p.29: La Tiara (o Triregno) indossata da Pio IX; p.30: Bassorilievo con simbolo delle due chiavi, Roma; p.31: L’Osservatore Romano del 7 aprile 1882; p.32: Albino Luciani (Giovanni Paolo I), Karol Wojtyła (Giovanni Paolo II), Joseph Ratzinger (Benedetto XVI), Jorge Mario Bergoglio (Francesco); p.33: Baldacchino e interno della cupola di san Pietro, Roma; p.34 e 35: Roma (33, 34 e 35 foto Paolo Del Freo).
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I parte
Bakunin, massone e anarchico Giuseppe Ivan Lantos
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L
iberamente parafrasando William Shakespeare1 scrivo: “non sono qui per lodarlo”, ma anche per impedire che venga sepolto nella tomba dell’oblio. Duecento anni orsono nasceva il russo Michail Aleksandrovič Bakunin, uno dei personaggi che hanno tracciato un segno indelebile non soltanto nella storia politica del xix secolo come uno dei fondatori dell’anarchismo moderno, ma anche nelle vicissitudini della Massoneria internazionale e italiana. Una figura paradigmatica quella di Bakunin, il pensiero del quale e la cui apologia di una rivoluzione, indirizzata a conquistare la libertà attraverso la violenza (da lui mai praticata), erano strettamente collegati con i grandi movimenti del suo secolo: la rivendicazione dell’indipendenza nazionale, la reazione contro la borghesia che si andava affermando sempre più, lo sviluppo sia del socialismo rivoluzionario, sia del comunismo. Sono significativi, nei suoi scritti, anche l’influsso romantico e quello del positivismo che si palesa nella convinzione che l’uomo è “architetto” del proprio destino. Un personaggio che viene ricordato dagli autori anarchici come un protagonista della loro vicenda storica, ma, forse perché controverso ed eterodosso, è relegato dai Massoni in un angolo oscuro dell’archivio della memoria. La sua biografia si legge come un romanzo d’avventura. Bakunin venne al mondo nel villaggio di Prjamuchino, vicino a Tver, il 30 maggio 1814. Figlio di genitori appartenenti alla nobiltà russa, proprietari terrieri
d’idee liberali, frequentò in gioventù la scuola di artiglieria di San Pietroburgo. Completò i suoi studi nel 1832 e, due anni dopo, nominato ufficiale della Guardia Imperiale, fu destinato a Minsk e Goradnia (ex Lituania, oggi Bielorussia). Insofferente della vita di guarnigione, abbandonò la carriera militare per trasferirsi, nel 1835, a Mosca dove intraprese lo studio della filosofia. Appartiene a questo periodo un primo, embrionale interesse verso la Massoneria ricordata anni dopo con questo attestato di stima: “Benché perseguitati, i massoni, che [in Russia] erano poco numerosi e formavano una specie di setta, restarono i soli reconditi custodi del fuoco sacro dell’amore e del rispetto per l’umanità”2. Tra i Fratelli con i quali Michail intrattenne rapporti di amicizia c’erano Aleksandr Herzen, lo scrittore Nikolaj Platonovič Ogarëv e il filosofo e critico letterario Visarión Grigor´evič Belinski, la frequentazione dei quali non fu certamente estranea alla futura adesione di Bakunin alla Libera Muratoria. Mosso dalla passio-
ne per la filosofia, indirizzata, soprattutto, verso i pensatori tedeschi, nel 1840 emigrò a Berlino dove approfondì gli studi sulle opere di Johann Gottlieb Fichte, Friedrich Wilhelm Joseph Schelling e Georg Wilhelm Friedrich Hegel. In Germania, il contatto con gli esuli decabristi3 fu determinante per la sua “iniziazione” politica. Nel 1842, Bakunin scrisse il saggio Die Reaktion in Deutschland (La reazione in Germania), pubblicato dalla rivista della sinistra hegeliana Deutsche Jahrbüche (Annali Tedeschi) diretta da Arnold Ruge. L’articolo terminava con un’asserzione che anticipava la sua scelta anarchica: “Il desiderio per la distruzione è, allo stesso tempo, un desiderio creativo”. Il saggio non piacque ai censori del re di Prussia Federico Guglielmo IV e il giovane Bakunin ritenne prudente fuggire in Svizzera e, in seguito, a Parigi. Il soggiorno nella capitale francese, dal 1844 al 1848, fu fondamentale per la formazione del futuro anarchico. Parigi, all’epoca, era un autentico crogiolo di fermenti culturali e politici. Bakunin vi co37
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nobbe i più attivi e famosi pensatori e rivoluzionari tra i quali Karl Marx, Friedrich Engels, Étienne Cabet, il pubblicista tedesco Heinrich Bornstein, fondatore del periodico Vörwarts (Avanti), che nel luglio 38
1844 ospitò in casa sua l’anarchico russo, e Pierre-Joseph Prou-dhon, anarchico e massone. Lo storico Franco Venturi scrive: “Bakunin era particolarmente vicino allora a quel gruppo che negli ultimi mesi del 1844 stava tentando di trasformare il foglio tedesco pubblicato a Parigi, Vörwarts, in un organo del socialismo emigrato, al gruppo cioè di Ruge, Marx, [Georg] Herweg, [Heinrich] Heine. Ma anche nell’atmosfera di quel-l’ambiente sentì qualcosa che gli impediva di parteciparvi con tutto l’animo. Vi trovava quella costrizione, quell’artificiosità che non gli aveva permesso di accettare l’utopia di [Wilhelm] Weitling [l’ideologo del socialismo utopico]”4. Nel 1844, con Marx, Ludwig Andreas Feuerbach e Ruge, del quale divenne intimo amico, fondò il giornale DeutschFranzösische Jahrbücher (Annali tedescofrancesi). Durante il periodo parigino, nel 1844, scrisse anche un saggio, andato perduto, su Feuerbach. La “primavera dei po-
poli” del 1848 vede Bakunin tra i promotori del primo Congresso dei popoli slavi che si tenne a Praga, presieduto dal patriota ceco František Palacký, nel quale fu approvato un Manifesto con il quale si rivendicavano pari diritti di tutte le nazioni europee. Sull’onda dei moti rivoluzionari che da un anno si manifestano in tutta l’Europa, nel maggio 1849 ebbe luogo l’insurrezione popolare di Dresda. Il ceto medio, deluso nelle sue speranze di ottenere dalla monarchia riforme di carattere liberale, decise il ricorso alla lotta aperta facendo causa comune con la classe operaia. All’insurrezione Bakunin partecipò attivamente con il tenore Joseph August Röckel e il compositore Richard Wagner. L’insurrezione fallì e gli insorti vennero arrestati. Trasportato nella fortezza di Königstein, in Sassonia, dopo parecchi mesi di detenzione preventiva, il 14 gennaio 1850 Bakunin fu condannato a morte; in giugno la pena venne commutata nel carcere a vita e, contemporaneamente, il prigioniero fu preso in consegna dalla polizia austriaca. Detenuto a Praga, nel marzo 1851 fu trasferito nella cittadella di Olmütz, dove, il 15 maggio 1851, fu condannato all’impiccagione. La pena, tuttavia, fu nuovamente commutata nell’ergastolo. Il trattamento al quale Bakunin era sottoposto nella prigione austriaca era brutale: aveva i ferri alle caviglie e ai polsi ed era incatenato al muro della cella per i fianchi. Poco dopo gli Austriaci lo consegnarono al regime zarista, che lo destinò alla fortezza di Pietro e Paolo di San Pietroburgo, dove fu ristretto nel “rivellino d’Alessio”, un cunicolo talmente angusto da impedire al recluso di prendere la posizione eretta e nel quale, nel 1718, era stato detenuto il principe Aleksej Petrovič Romanov, figlio unico dello zar Pietro il Grande. Nel 1854, Bakunin fu trasferito nella fortezza Schlüsselburg, in russo Orešek, sulle rive del lago Ladoga. Intanto il lungo periodo di detenzione e i maltrattamenti subiti avevano messo seriamente a repentaglio la sua salute: era diventato obeso e aveva perduto i denti a causa dello scorbuto, ma quello che più preoccupava Bakunin era che le sue condizioni fisiche potessero compromettere il suo spirito rivoluzionario. Nel 1855, scomparso le zar Nikolaj I, era diventato imperatore suo figlio Aleksandr II, al quale Bakunin indirizzò una supplica grazie alla quale ottenne di essere deportato in Siberia. Il 23 mar-
zo 1857 Michail arrivò a Tomsk dove venne ospitato nella casa di un polacco impiegato delle miniere d’oro del quale, qualche mese dopo, sposò la figlia Antonia Kwiatkowska. Poi, grazie all’intervento del governatore della Siberia orientale, un aristocratico suo parente, poté trasferirsi a Irkutsk. Fu assunto come impiegato presso una società di navigazione del fiume Amur e, in seguito, presso un’impresa mineraria. Per il suo lavoro, Bakunin disponeva di una qualche libertà di movimento, così, nel 1861, con il pretesto di un viaggio d’affari, era fuggito a Nikolajevski e di lì s’era imbarcato su una nave diretta in Giappone e in ottobre arrivò a San Francisco. Il suo amico Herzen, sul giornale Kolokol, del quale era direttore, informò: “Bakunin è finalmente libero”. Ripreso il viaggio, il 14 dicembre 1861, Michail era giunto a Londra dove poté ricominciare la sua attività politica; entrato in contatto con Mazzini, Garibaldi e l’ungherese Kossuth Lajos, riprese le fila del movimento rivoluzionario degli slavi contro l’oppressione zarista. A Garibaldi scrisse: “Il rumore delle vostre nobili e patriottiche imprese scosse la mia apparente inerzia riportandomi tutte le passioni della giovinezza. Del resto non fui il solo a commuovermi”.5 Nel febbraio 1862, Bakunin inviò a Garibaldi la sua prima pubblicazione, Romanov, Pugacev, Pestel, la causa del popolo, con una lettera d’accompagnamento nella quale scriveva: “Il nostro scopo è l’abbattimento della centralizzazione moscovita-pietroburghese, l’emancipazione e la completa libertà, l’autonomia e l’indipendenza delle province polacche e di quelle non polacche che costituiscono lo Stato russo”6. Scoppiata nel 1863 l’insurrezione anti zarista in Polonia, Bakunin raggiunse Stoccolma per tentare di unirsi a una Legione russa costituitasi in aiuto ai rivoltosi, però il progetto si rivelò fallimentare. Secondo alcuni storici, tra i quali l’anarchico Max Nettlau, Bakunin fu iniziato alla Libera Muratoria proprio nella capitale svedese. Qui lo raggiunsero la moglie e le tre figlie: Antonia, Giulia Sofia e Maria, detta Marussia. L’aspirazione di Bakunin era trasferirsi in Italia, un Paese che, secondo la sua visione, s’era conquistata l’unità e l’indipendenza grazie al pensiero e all’azione “rivoluzionaria” di personaggi che sentiva a sé affini e che vedeva come un laboratorio di idee nel quale sperimentare le proprie. E in cima ai
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suoi desideri c’era quello di incontrare Garibaldi il quale s’era ritirato in volontario esilio nell’isola di Caprera. Michail, allora, stava per compiere cinquant’anni. Così ne scriveva l’amico Aleksandr Herzen: “Bakunin si riprese in mezzo a noi dopo nove anni di silenzio e di solitudine […] La sua attività, la sua pigrizia, il suo appetito, il suo disordine, come tutte le altre sue caratteristiche, compresa la gigantesca statura e il continuo trasudare, erano di proporzioni sovrumane. Era ancora, a cinquant’anni, uno studente vagabondo, un bohémien senza casa7”. Simile il ritratto che ne tracciò il socialista Filippo Turati: “Alto, fronte vasta, grande testa leonina, biondo, occhi azzurri, zigomi pronunciati, negletto nell’abito oltre ogni dire, ogni suo lineamento così come ogni azione ispira la lar-
ghezza, la benevolenza e la forza. La sua vita è irregolare, vive di the e di tabacco e veglia notti intere a tavolino scrivendo lettere, opuscoli, con vena indiavolata, tenendosi in rapporti con i rivoluzionari di tutto il mondo. Nulla gli sfugge, tutto assimila, tutto trasforma nel moto perpetuo del suo cervello, sempre aperto alla confidenza, sempre pronto all’azione”8. Prima di varcare la frontiera italiana, Bakunin e la sua famiglia fecero tappa in Svizzera. A Ginevra incontrò György Klapka, esule ungherese, impiegato nella Banque Generale Suisse du Crèdit International. Klapka, massone, diede a Bakunin una lettera di presentazione per Ludovico Frapolli, personaggio di spicco della Massoneria italiana. Nella notte fra il 10 e l’11 gennaio 1864 Michail Bakunin attraversava il confine 39
del Cenisio diretto a Torino. Nel 1861, il capoluogo piemontese era diventato la prima capitale del neocostituito Regno d’Italia e tale sarebbe stato fino al 1865. Ma Torino poteva essere considerata anche la “capitale” della Massoneria italiana risorta dopo il lungo “sonno” imposto
Massoneria dai governi autoritari nati con la Restaurazione seguita al Congresso di Vienna del 1814-1815. L’8 ottobre 1859 “sette fratelli dispersi” eressero le Colonne della Loggia Ausonia, nucleo storico della Massoneria italiana post napoleonica ed embrione del Grande Oriente Italiano, che sarebbe nato, sempre a Torino, il 20 dicembre 1859. Il 7 febbraio 1862 fu costituita a Torino la Loggia Dante Alighieri, che si pose all’obbedienza del Grande Oriente Italiano. Nel mese di dicembre 1862 vi fu affiliato Lodovico Frapolli, destinato a esercitare un ruolo determinante sulla prima Massoneria italiana, ruolo formalizzato nel 1867 con la sua nomina a Gran Maestro Aggiunto e, nel 1869, a Gran Maestro Effettivo. In un mese, Frapolli aveva scalato tutti i gradini della piramide scozzese fino al Trentatreesimo Grado e il 10 gennaio era diventato Maestro Venerabile della Dante Alighieri. La Loggia torinese accolse numerosi esuli che avevano partecipato ai moti libertari e indipendentisti nei Paesi dell’Impero austroungarico e di quello zarista; tra questi trentatré ungheresi, sette polacchi, quattro rumeni e due dalmati. Tra gli ungheresi c’era anche György Klapka. Della sua lettera di affidamento per Bakunin si sono perse le tracce, ma la risposta di Ludovico Frapolli, datata 18 gennaio 1864. è illuminante per quel che riguarda i primi contatti di Bakunin con l’ambiente massonico italiano. Scriveva Frapolli: “Mio caro Klapka […] ho ricevuto le vostre tre lettere inclusa quella che mi ha portato monsieur Bakunin. Penso che questo amico sia rimasto contento per come lo abbiamo ricevuto. È partito avantieri per Genova e Caprera. Ha incontrato Lemmi e i suoi amici […] Da parte mia l’ho presentato a Visconti, Cerruti, De Pretis, Macchi, De Luca e altri. Abbiamo molti scopi in comune […] L’ho ricevuto Rosa+Croce sotto la Volta Celeste […] So che ha visto De Boni, Crispi e Miceli. Gli ho anche dato una let40
tera per Pulsky”9. Il sogno a lungo cullato da Bakunin era poter far visita a Garibaldi a Caprera. Ma come fare? Le condizioni economiche di Michail erano a dir poco precarie. Come testimonia Aleksandr Herzen, “era sprovvisto di mezzi di sussistenza, sopravviveva grazie alle risorse che gli fornivano i suoi amici più prossimi; viveva più che modestamente, utilizzando la maggior parte della sua magra disponibilità in denaro per pagare l’affrancatura della sua voluminosa corrispondenza”10. Il 16 gennaio, Bakunin si recò a Genova, grazie alle lettere di presentazione di Giuseppe Mazzini e Aurelio Saffi, incontrò il medico, patriota e massone Agostino Bertani che interpose i suoi buoni uffici presso l’armatore e Fratello Raffaele Rubattino, titolare della linea di navigazione tra il capoluogo ligure e la Sardegna, per far ottenere un passaggio al rivoluzionario russo e alla sua famiglia. Salparono il 19 gennaio. Nel nero del terso cielo invernale splendevano, come diamanti, la costellazione di Orione e l’astro Sirio, il mare era calmo, promessa di una navigazione tranquilla. A bordo della nave, nessuno, salvo, forse, il capitano sapeva chi fosse quello straniero alto e corpulento, dalla folta barba nera e dall’abbigliamento dimesso; avrebbe potuto essere uno dei tanti che andava a rendere omaggio all’Eroe. Quella notte, che trascorse in coperta, Michail fu visto scrutare pensieroso e inquieto l’orizzonte, scrivere convulsamente appunti, fumare pestilenziali sigari e, finalmente, vinto dalla stanchezza, assopirsi per alcune ore. La
traversata fu, secondo le previsioni, senza sgradevoli sorprese. Neppure le forti correnti delle Bocche di Bonifacio diedero problemi. In meno di dodici ore il bastimento arrivò a Cala Gavetta, il piccolo porto della Maddalena. Era la mattina del 20 gennaio 1864. La temperatura dell’aria parve gradevolmente mite ai sopravvissuti al gelo siberiano. Poi Bakunin raggiunse Caprera su una barchetta noleggiata da un pescatore. Ad attenderlo sul minuscolo approdo c’era il Generale in camicia rossa che lo accolse con un caloroso, commosso abbraccio. I due erano quasi coetanei: Bakunin aveva cinquant’anni, Garibaldi cinquantasette. Le fonti d’informazione sono piuttosto avare circa il contenuto dei colloqui tra Michail e l’Eroe dei due Mondi; è verosimile, tuttavia, che i loro discorsi avessero come argomento le vicende della Polonia che tanto coinvolgevano Bakunin, così come non sarebbe stata estranea la “questione romana” tanto cara a Garibaldi. In ogni modo il Generale fece proprie le argomentazioni di Bakunin a proposito delle vicende polacche, riconfermando la sua disponibilità a sacrificare anche la vita “per la libertà di tutti i popoli”. Pier Carlo Masini11 ed Elio Conti12, nei loro scritti sul viaggio a Caprera di Bakunin, ne ricordano l’appartenenza alla Massoneria. Una lettera di Garibaldi, del 22 gennaio 1864, indirizzata a Frapolli e pubblicata in seguito, rappresenta un’importante testimonianza dell’incontro del russo con il nizzardo che scrive tra l’altro: “Per i poteri a me conferiti ho elevato monsieur Bakunin al Trentesimo Grado e prego il Fratello Frapolli di regolarizzare la sua posizione”. La visita durò tre giorni. A questo punto ritengo opportuno fare un po’ di chiarezza sul rapporto tra Massoneria e Anarchia, un connubio che può sembrare quantomeno contraddittorio a quei Fratelli nel cui immaginario l’Anarchia assume connotazioni negative. Lo studioso Luigi Corvaglia, scrive: [Occorre fare] un po’ di chiarezza per sgomberare il campo da due contrapposti miti, quello della filiazione del movimento anarchico dalla Massoneria (diffuso dal tradizionalismo cattolico e da Forza Nuova), e quello della assoluta incompatibilità fra movimento anarchico e Libera Muratoria (diffuso fra gli anarchici meno consapevoli della storia) […] Relazione non facile [quella tra Massoneria e Anarchismo], eppure non così travagliata
come si potrebbe pensare. Anarchismo e Libera Muratoria, infatti, si sono spesso stretti in lunghi e insospettati abbracci. Il primo avvenne all’epoca della cosiddetta Prima Internazionale. Fin dalla sua costituzione, nel 1864, questa organizzazione venne attraversata dai grandi contrasti interni fra le diverse anime che la costituivano, cioè i marxisti, i socialisti moderati, i mazziniani e gli anarchici. Proprio quest’ultimi riuscirono a prendere in mano le redini del movimento in Italia. Orbene, come ha scritto Marco Novarino: molti anarchici nel loro lavoro di penetrazione e d’egemonizzazione della Prima Internazionale transitarono sotto ‘le volte stellate’ per cercare di trasformare la Massoneria in un movimento rivoluzionario antiautoritario e antireligioso13. Un progetto che sembra fosse in conflitto con le Costituzioni di Anderson, ma trovava diritto di cittadinanza riguardo ai principi massonici di Libertà, Fratellanza e Uguaglianza e all’adogmaticità del metodo di lavoro. A questo si deve aggiungere che nelle Massonerie latine, come conseguenza della scomunica papale, s’erano consolidati gli orientamenti anticlericali e di impegno civile. Oltre a ciò, la Massoneria per il suo carattere democratico, offriva solidale accoglienza a coloro i quali osteggiavano qualsiasi sistema politico assolutistico. _____________
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Note: 1 William Shakespeare, Giulio Cesare, atto III, scena II, Firenze 1964. 2 Michail Aleksandrovič Bakunin, L’histoire de ma vie, in Revue socialiste, XXVIII, 1898. 3 Decabristi (dal russo dekabrist, da dekabr, dicembre). Nome dato agli ufficiali della Guardia imperiale russa che il 14 dicembre 1825, giorno fissato per l’incoronazione dello zar Nicola I, presero parte alla rivolta contro il regime zarista. L’appellativo designa in senso lato anche i membri delle varie società segrete a opera delle quali gli avvenimenti si maturarono. Soffocato il moto, cinque dei centoventi arrestati furono impiccati, gli altri condannati ai lavori forzati o all’esilio. 4 Franco Venturi, Esuli russi in Piemonte dopo il ‘48, Torino 1959. 5 Pier Carlo Masini, Gianni Bosio, Bakunin, Garibaldi e gli affari slavi 1862-63, in Movimento operaio, 1952. 6 Pier Carlo Masini, La visita di Bakunin a Garibaldi, in Movimento Operaio, IV, 1952. 7 Aleksandr Herzen, Passato e pensieri, Torino, 1996.
8 Filippo Turati, prefazione a Michele Bakunin, Dio e Stato, Libreria Internazionale di Avanguardia, Bologna, 1949. 9 Luigi Polo Friz, La massoneria italiana nel periodo postunitario. Lodovico Frapolli, Milano, 1998. 10 Aleksandr Herzen, ibidem. 11 Pier Carlo Masini, La visita di Bakunin a Garibaldi, in Movimento Operaio, IV, 1952. 12 Elio Conti, Michele Bakunin, in Movimento Operaio, II, 1949-1950. 13 Luigi Corvaglia, Massoneria e Anarchismo, post pubbl. in Storia delle idee, 28 marzo 2010.
P.36 (vd. didascalia nella colonna succesiva); p.37: Autoritratto del giovanissimo Bakunin e - a sin. - un libretto in russo sulla dottrina rivoluzionaria; p.38: Bakunin e - in basso - Karl Marx; p.41: Giuseppe Garibaldi e una rarissima foto di Lodovico Frapolli.
P.36 e 39: (traduz. dal cirillico) SCINTILLA-Settimanale illustrato allegato al quotidiano LA PAROLA RUSSA - Domenica 18 maggio 1914; ‘Oggi ricorre il centenario della nascita di MA Bakunin, il noto amico di Herzen che lavorò con lui ed Ogare’v nel famoso LA CAMPANA; Bakunin ha sempre mantenuto la propria linea politica sin dai primi articoli pubblicati; una delle sue più celebri espressioni che ben descrive le sue attività è stata: “Il piacere creativo della distruzione”. In Francia, Svizzera e Germania Bakunin ha sempre e solo cercato l’amicizia di circoli rivoluzionari divenendone capo e trascinatore. È così divenuto un rivoluzionario cosmopolita, non accettando mai che condizioni storiche o geografiche determinassero il destino e l’attività dei popoli e per costruire sulle rovine del vecchio un nuovo ideale di lavoro comune. Ma le sue idee hanno incontrato ovunque una fiera opposizione e spesso ha dovuto fuggire dai propri nemici: espulso due volte dalla Francia, condannato a morte in Prussia e Austria (dove è stato incatenato al muro per sei mesi nelle segrete della prigione di Olmutz), consegnato alle autorità russe nella fortezza di Schlusselburg e infine esiliato nella Siberia dell’est. Da lì riuscì a fuggire e, raggiunto il Giappone e poi San Francisco, riparò infine a Londra; Bakunin ha passato gli ultimi anni della propria vita a Locarno in Svizzera in una piccola casa donatagli da uno dei suoi ammiratori. Morì nel 1876 (nelle foto ritratti di Bakunin al museo Rumyantsev); (p.39, ndr): Il monumento a Bakunin del 1907 e - al centro della pagina, Bakunin a Londra nel 1862; a destra una lettera autografa di Bakunin — In basso a Tiflis nel Caucaso il governatore Conte Vorontsov-Dashkov II e signora con un maglietto d’argento inaugurano la costruzione del nuovo Politecnico.
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Annalisa Santini
Incroci pericolosi I parte 42
L’intreccio fra una famiglia Carbonara e una famiglia Massonica
I
l Congresso di Vienna (1814-15) apre quella che la storiografia chiamerà Età della Restaurazione, allo scopo di far tornare al potere quelle che erano, o erano considerate, le legittime autorità. Il periodo napoleonico aveva lasciato sul terreno almeno tre milioni di giovani, senza contare i civili vittime di fame, razzie, violenze. Dinastie e tradizioni inveterate erano state travolte, ma era sorta una borghesia solida che s’identificava con la classe dirigente e con la realtà politica, economica e culturale dei più importanti paesi europei, fra i quali c’era anche l’Italia. I rappresentanti dei paesi vincitori cercarono di tornare ai tempi che avevano preceduto non solo Napoleone ma anche la Rivoluzione Francese. “I governi restaurati dopo il Congresso di Vienna, ostili a tutto ciò che avesse sentore di progresso, attivarono un duro controllo poliziesco contro ogni forma di rinnovamento politico e di costume. Perciò, tanto i liberali quanto i giacobini e i riformatori in genere si videro costretti a intraprendere la strada di una lunga e difficile attività clandestina per organizzare una rete di centri rivoluzionari in ordine al rovesciamento del sistema liberticida imposto dalla ratio della Restaurazione. Si formarono così molteplici gruppi di resistenza e di azione per rompere questa dura repressione e per aprire la storia italiana al processo di liberazione dell’uomo. In questa prospettiva nacquero diverse società, motivate da un forte impegno etico-politico-patriottico, pur se obbligate per motivi storici oggettivi e di autoprotezione ad operare di nascosto”1. I nuovi e già obsoleti governanti volevano guidare coscienze oramai intrise di principi illuministici, ignorando che le trasformazioni operate dalla Rivoluzione Francese e dall’esperienza napoleonica avevano inciso profondamente sulla cultura dei popoli europei. Le carte geografiche ritornarono ai tracciati del 179698 e il territorio italiano fu diviso in dieci Stati: Regno di Sardegna, sotto Vittorio Emanuele I di Savoia (formato dagli antichi possedimenti sabaudi e ingrandito con il territorio della soppressa Repubblica di Genova-Savoia, Piemonte, Nizza, Liguria e Sardegna); Regno Lombardo Veneto, sotto l’Imperatore d’Austria e costituito dagli antichi Ducati di Mila-
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no e di Mantova e dalle province venete (Lombardia e Veneto) con Trento, l’Istria, Trieste e il litorale dalmata; Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, sotto Maria Luisa d’Austria; Ducato di Modena, Reggio e Mirandola, sotto Francesco IV di Asburgo-Este, cugino dell’Imperatore dell’Austria; Granducato di Toscana, sotto Ferdinando III di Asburgo-Lorena; Ducato di Massa e Carrara, affidato a Maria Beatrice d’Este, madre di Francesco IV, con il patto che alla
sua morte fosse riunito ai domini del figlio; Ducato di Lucca, assegnato a Maria Luigia di Borbone (tornati i Borboni a Parma, Lucca sarebbe stata aggregata al Granducato di Toscana); Repubblica di San Marino; Stato Pontificio, sotto il Papa Pio VII (Lazio, Marche, Umbria e parte dell’Emilia, ma con il presidio austriaco su Ferrara e Comacchio); Regno delle Due Sicilie, sotto Ferdinando IV di Borbone (Campania, Abruzzo, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia); Principato 43
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di Monaco. L’Italia, quasi completamente sotto il dominio della dinastia Asburgo-Lorena, “era divenuta una grande prigione custodita da generali austriaci”2. Le aspirazioni a un governo costituzionale, il rispetto del principio delle nazionalità, della libertà d’opinione, di stampa e di riunione furono quasi ovunque brutalmente repressi dai regimi restaurati. Non potendo più esercitare liberamente quanto sancito dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, non restava altro che ricorrere alla cospirazione per ristabilire le libertà perdute. In questo contesto nacquero dunque, a livello europeo, numerose società segrete, alcune delle quali dotate di strutture organizzative e rituali di derivazione chiaramente massonica. Dice Aldo A. Mola: “L’opposizione al dominio austriaco si manifestò anzitutto attraverso le società segrete, parte ordini iniziatici, parte associazioni politiche, come massoneria, carboneria, e altre organizzazioni dei nomi diversi secondo i promotori, i collegamenti sovra statuali e sovranazionali, i territori di radicamento. Presenti in tutta l’Europa, anche in Italia le società segrete ebbero molte e differenti denominazioni. Vennero anche definite “sette”, cioè sezioni, sinonimo di partiti o partizioni. Settario è divenuto termine dispregiativo. Significa fazioso. Durante la Restaurazione settario significò invece fautore della lotta contro l’oppressione straniera. Le società segrete proclamavano l’avvento di un nuovo ordine universale, l’armonia, la fratellanza e soprattutto la libertà. […] Le società segrete ebbero in comune tre requisiti. In primo luogo furono tutte organizzate a piramide, con un Gran Maestro al vertice, segretissimo, abilitato a conferire i gradi supremi dell’Ordine a una ristretta cerchia di “grandi iniziati”. A loro volta questi individuavano le persone da coinvolgere (o “iniziare”), di solito dopo una lunga osservazione, la promessa e infine il giuramento di fedeltà, pena la morte in caso di tradimento, cioè di rivelazione dei nomi dei congiurati e, peggio ancora, dei catechismi e dei cifrari attraverso i quali essi comunicavano. In seguito, quei vincoli settari parvero ripugnanti, ma durante la Restaurazione “i settari” erano condannati alla pena di
morte o a decenni di carcere, confisca dei beni, esilio […]. Grazie all’organizzazione piramidale, se veniva scoperto e costretto a confessare per paura o sotto tortura, l’affiliato poteva rivelare solo il segmento organizzativo di cui era a conoscenza. Non comprometteva i gradi superiori, che gli erano sconosciuti”3. Difficilissimo farsi un’idea precisa sulle origini di queste varie società segrete, sia perché nei vari autori si riscontrano opinioni diverse a seconda delle fonti alle quali ciascuno di loro ha attinto, sia per la molteplicità delle stesse. A titolo di mera curiosità possiamo citare: Carbonari, Massoneria d’Adozione, Illuminati, Guelfi, Adelfi, Filadelfi, Maestri Perfetti, Turba, Siberia, Società Romantica, Società della Spilla Nera, Società del Leone Dormiente, Fratelli Artisti, Difensori della Patria, Bersaglieri Americani, Patrioti Europei, Amici Filantropici, Concistoriali, Martinisti, Fratelli Rossi, Livellatori, Giacobini, Cordelieri, Sanfedisti e Calderari, e così via4. “In questo momento il movimento settario si presentava con una composizione molto magmatica cosicché diventa estremamente difficile ricostruire la storia delle varie società con diverse denominazioni che operarono in Italia. Spesso le strutture cospirative cambiavano nome e ritoccavano i loro rituali solo per confondere le idee alle polizie o con l’intenzione di escludere elementi non graditi che in questo modo erano estromessi senza essere espulsi”5. La più importante fra le sette e quella dalla quale ebbe origine il nostro Risorgimento è la Carboneria, una “società iniziatica patriotticamente impegnata”6, anche se non si può parlare di Carboneria tout court ma, al limite, di carbonerie, specificando sempre di quale tipo di organizzazione si sta discutendo perché, come sostenne Giosuè Carducci, “tra le sette, il Carbonarismo fu la più complessa e larga a un tempo: delle regioni e popolazioni che traversava, come il camaleonte della favola dei colori, attingeva i sentimenti e i bisogni del presente”7. I rituali carbonari furono sempre molto compositi e incerti, così come “composita e incerta era l’origine della setta. La Carboneria era, infatti, un derivato, un amalgama di molte altre sette, ognuna delle quali ci aveva portato del suo, spes-
so in contraddizione con quello delle altre. La loro storia è estremamente arruffata e forse nessuno riuscirà mai a dipanarla in maniera esauriente anche perché ne mancano le impronte digitali, cioè i documenti, che la segretezza imponeva di distruggere […]. La grande madre di tutte era stata certamente la massoneria[…]. I suoi aderenti, quasi tutti “illuministi”, non perseguivano scopi rivoluzionari e quindi non avevano motivo di nascondersi. Lungi dal perseguitarli, molti governi li proteggevano[…]. Le cose cambiarono con la rivoluzione francese, che mise i massoni alla scelta: o col vecchio regime, con nuovo. La spaccatura è profonda, e non si è mai più sanata[…]. Lungi da combatterla Napoleone cercò di asservire la massoneria e, anche se non del tutto, ci riuscì[…]. E fu proprio per questo atteggiamento collaborazionistico che i dissenzienti se ne separarono per dare avvio a società molto più segrete di quanto non fosse la massoneria perché in dissenso con l’ordine costituito che il dissenso lo perseguitava come sovversione[…] le sette pescavano i loro addetti soprattutto nei ceti medi. Abituati da secoli a restare esclusi dal potere, essi avevano visto nella rivoluzione la grande occasione per inserirvisi e diventarne i protagonisti, come era avvenuto in Francia[…] La grande fioritura delle sette comincia proprio con la Restaurazione, la quale mise sul lastrico tutta una categoria di “notabili” borghesi che, dopo avere morso l’inebriante pomo del potere, non intendevano restarne a digiuno[…]. Fu una classe messa al bando dal potere dopo aver assaggiato ed esserne stata, sia pure in avara misura compartecipe[…] a fornire le reclute della Carboneria[…] A fondarla, o per meglio dire, a trapiantarla nel nostro paese fu un commissario politico francese, Briot, venuto a Napoli al seguito di Giuseppe Bonaparte nel 1806 e mandato in qualità di intendente[…] prima a Chieti e poi a Cosenza dove nacquero infatti le prime “vendite”. Briot era un ex deputato giacobino […]originario della Franca Contea, faceva parte di un vecchio compagnonnage, o confraternita, locale di boscaioli, cacciatori e contrabbandieri che si chiamavano charbonniers, carbonai. Fra loro si davano di cugini o buoni cugini, e dicevano di risalire ai tempi medievali di una leggen-
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daria regina Isabella che con i suoi soprusi li aveva costretti a rifugiarsi nella foresta. Qui si erano imbattuti in un eremita, Teobaldo, che poi era diventato il loro santo protettore e li aveva miracolati facendoli incontrare e trarre in salvamento il Re smarritosi durante una caccia che per ringraziarli si fece anche lui carbonaio. A parte questa mitologia, era una società di mutuo soccorso, che non aveva mai avuto contenuto politico. L’acquistò con la rivoluzione, forse per opera dello stesso Briot che, essendo dei suoi, la convertì ai propri ideali democratici e repubblicani. Quando questi ideali furono accantonati e contraddetti dal Direttorio, i Carbonari passarono all’opposizione e, siccome l’opposizione non era tollerata, si rifugiarono nella clandestinità, diventando una vera e propria setta”8. Prova di quest’origine è, oltre all’identità del nome, la qualifica di Buoni Cugini che si attribuivano gli adepti, l’organizza-
zione strutturata in Vendite, Alte Vendite e Vendite Madri, la gerarchia dei gradi: Apprendista, Maestro, Gran Maestro, riconoscimento di Teobaldo come santo protettore.La Carboneria italiana, a differenza di quella francese, non aveva un contenuto ideologico preciso, ma cercava di uniformarsi al sentire del popolo che variava secondo i momenti, delle circostanze e dei paesi. Al sud le Vendite cercarono al tempo di Murat di sfruttare il sentimento cattolico offeso dal regime, in Romagna le idee furono democratiche e repubblicane, in Piemonte, dopo la Restaurazione, fecero fronte comune con la Federazione Monarchica. Grazie a questo mimetismo, frammisto al pauroso alone di mistero e di paura dei quali si circondava, la Carboneria si diffuse in breve tempo. L’organizzazione era rigidamente gerarchica: solo il Gran Maestro di una Vendita conosceva gli altri Gran Maestri delle altre diciannove Vendite, 45
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ciascuna composta di venti Buoni Cugini che costituivano una Vendita Centrale e così era per i capi delle Vendite Supreme che si conoscevano solo fra loro. Diversa è poi la Carboneria napoletana nata agli inizi dell’Ottocento, operante nell’Italia meridionale, divisa in due gradi e con un simbolismo che era una proiezione nel mondo settario della concezione cattolica, definita da Franco Della Peruta come una sorta di “embrionale partito politico della borghesia costituzionale meridionale […] che aspirava in sostanza alla trasformazione della monarchia (murattiana prima e borbonica poi) da assoluta in parlamentare”9 e la Carboneria (detta anche degli Ultra Carbonari)10 “trasformata” da Filippo Buonarroti allo scopo di massonizzarla aggiungendo ai due gradi iniziali (Apprendista e Maestro, imperniati su un simbolismo ispirato alla passione di Cristo) quello di Gran Maestro, con forte valenza simbolica liberomuratoria e, politicamente, strumento, seppur inconsapevole, di un complesso progetto politico che andava ben oltre al passaggio da un sistema assolutistico a quello parlamentare11. L’aggiunta di un grado nella scala gerarchica carbonara non aveva solo un valore simbolico, ma introduceva un nuovo e preciso obiettivo politico: come scopo supremo un Gran Maestro carbonaro doveva lottare per realizzare la “legge agraria”12 – riforma che avrebbe costituito il primo passo verso l’abolizione della proprietà privata – giurando che avrebbe lottato a costo della vita “per la promulgazione e l’esecuzione della legge agraria, senza la quale non vi è libertà poiché la proprietà è un attentato contro i diritti del genere umano, cioè di ciascun individuo della gran famiglia”13. “L’orientamento progressista e liberale, la struttura organizzativa gerarchica divisa in tre gradi, la fraseologia, la simbologia riferita all’acacia e la complessità rituale nello svolgimento dei lavori e dei passaggi di grado non lasciano dubbi su un influsso massonico nella Carboneria “buonarrotiana” e sull’appartenenza dei suoi primi affiliati, che non necessariamente provenivano da logge ufficiali operanti nel periodo napoleonico”14. Contemporaneamente negli ambienti reazionari del Regno di Napoli veniva costituita dal principe di Canosa, ministro
della polizia, la Società dei Calderai, avente come simbolo la caldaia, sotto cui brucia e si consuma il carbone. Questa società, creata in opposizione alla Carboneria, agiva come un servizio segreto ante litteram per appoggiare la reazione governativa con collegamenti sanfedisti. Il 1° luglio 1820 partì da Nola una rivolta che, con la sollevazione di Napoli guidata dal generale Guglielmo Pepe, già appartenente alla Massoneria, costrinse Ferdinando I, il 13 luglio, a concedere al Regno delle due Sicilie una costituzione liberale simile a quella concessa in Spagna da Ferdinando VII dopo la ribellione di Cadice. Assai breve fu il periodo costituzionale poiché il re, secondo quanto stabilito al Congresso di Vienna, chiamò in aiuto gli Austriaci che, con un’armata guidata dal generale Frimont, sconfissero Pepe. La repressione che seguì, con l’impiccagione dei due sottufficiali che avevano guidato la sollevazione – Giuseppe Silvati e Michele Morelli, Gran Maestro della Vendita di Nola – fu durissima e disgregò la Carboneria, e le altre sette liberali che conobbero un’effimera reviviscenza soltanto fra il 1829 e il 1830, quando anche Mazzini entrò nelle fila della Carboneria genovese. Nel breve periodo costituzionale la Carboneria venne ad assumere un ruolo quasi “ufficiale”: vennero aperte Vendite in tutti i comuni e diventò una sorta di organizzazione “garante” della costituzione. Lo stesso 23 marzo 1821, giorno nel quale Ferdinando I intimava ai sudditi di accogliere da liberatrice l’armata asburgica del generale Frimont, nascevano a Napoli gli “Statuti Generali della Società dei Liberi Muratori del Rito Scozzese Antico e Accettato”, che sono alla base dei vigenti Statuti15. Due importanti documenti di questo periodo, due diplomi di appartenenza l’uno alla Carboneria, l’altro alla Massoneria – che verranno illustrati nel prossimo numero di Officinae – dimostrano la stretta vicinanza fra le due sette nel paese di Morano nella provincia della Calabria Citra, l’attuale Morano Calabro. _______________ Note: 1 G.Schiavone, Massoneria Risorgimento, Democrazia, Foggia, 1996, p. 12. 2 A. Baretta, Le Società segrete in Toscana nel I de-
Massoneria
cennio dopo la Restaurazione, Torino, 1912, p. 11.
M.Cavallotti), Roma-Milano, 1904, pp. 153-54.
3 A. A. Mola, Italia. Un Paese speciale. Storia del Risorgimento e dell’Unità, I, Le radici, Torino, 2011, p. 79.
11 A. Saitta, Filippo Buonarroti. Contributi alla storia della sua vita e del suo pensiero, I, Roma, 1950, p. 97.
4 A. Baretta, Le Società segrete…, cit., passim.
12 Ibidem.
5 M. Novarino, Fratellanza e Solidarietà, Torino, 2008, p. 22.
13 R. Soriga, Le società segrete e i moti del 1820 a Napoli, in “Rassegna storica del Risorgimento”, fasc. straord., Roma, 1921, pp. 170-71.
6 G. Schiavone, Massoneria…, cit., p. 20. 7 G. Carducci, Letture del Risorgimento Italiano, Bologna, 1895, p. XXXV. 8 I. Montanelli, l’Italia giacobina e carbonara 1789-1831, Milano, 1998, pp. 307-313. 9 F. Della Peruta, Il mondo latomistico della Restaurazione, in G. Berti, F. Della Peruta (a cura di), La nascita della nazione. La Carboneria. Intrecci veneti, nazionali e internazionali, Rovigo, 2004, p. 12. 10 J.L.S. Bartholdy, Memorie sulle società se-
grete dell’Italia meridionale e specialmente sui Carbonari (traduz. dall’inglese di Anna
14 M. Novarino, Fratellanza e ..., cit., p. 40. 15 A.A. Mola, Introduzione, Statuti Generali dei Liberi Muratori pubblicati in Napoli nel 1820 (1821), Foggia, 1986. P.42: La Comtesse d’Haussonville (1845) di J.D.Ingres; p.43: Ritrattino di Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein, conte e poi principe di MetternichWinneburg (1773-1859); in basso lettera autografa di un carbonaro (collez.priv.); p.44: Spada con dragona, primi ‘800; p.45: carta della penisola italiana dei territori post-restaurazione; p.46 in alto: Bandiera dei carbonari intervenuti alle 5 giornate di Milano ; p.46/47: Ristampa del 1863 degli ‘Statuti’ di Napoli del 1820.
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Simbolismo
I miti e la scienza: Apollo e Dioniso Paolo Maggi
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ietzsche, tutti noi lo sappiamo, è stato un profondo conoscitore della cultura della antica Grecia, ma la sua maggior grandezza è stata probabilmente l’essere riuscito a pensare come pensava un greco dell’età classica. E così è stato in grado di intuire che il pensiero greco, padre di tutta la cultura occidentale, si fonda su due grandi pilastri: la filosofia e la violenza1. Se ogni grande civiltà ha il suo mito di fondazione, quello della Grecia antica e, dunque, dell’Occidente intero, è probabilmente l’Iliade. E il proemio di quest’opera è un’esplicita dichiarazione d’intenti: Μῆνιν ἄειδε, θεά, Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος οὐλομένην. Come tutti noi abbiamo studiato a scuola, Vincenzo Monti tradusse questi versi con: “Cantami, o Diva, del pelide Achille, l’ira funesta”. Ma la traduzione di quel μῆνιν da cui, a cascata, sgorga tutta l’opera e forse tutta la nostra storia, è stata dal Fratello Monti, opportunamente edulcorata. Quella parola ha un significato molto più forte di ira funesta, e andrebbe più correttamente tradotta come furia omicida. Dunque: “Cantami, o Diva, del pelide Achille la furia omicida”. E certo, Achille, di furia omicida ne dimostrò non poca. Filosofia e furia omicida: queste sono le due polarità, uguali ed opposte, su cui si fonda la nostra civiltà. Perché, a ben guardare, sono le stesse due polarità su cui si fonda la nostra mente. E se a qualcuno dovesse momentaneamente sfuggire quanto la nostra cultura è stata da sempre legata alla logica e alla razionalizzazione della furia omicida, basti ricordare gli enfatici proclami di guerra che hanno sistematicamente accompagnato tutta la nostra storia e le sue infinite guerre, almeno fino all’ultimo conflitto mondiale. Fino a pochi decenni fa la virtù, l’eroismo, sono stati sempre proporzionali a quanti nemici si riusciva ad eliminare. E sempre nel modo più truculento possibile. Ancor oggi, questa cultura appare solo momentaneamente sopita, almeno entro i ristretti confini del mondo occidentale, sebbene la furia omicida sia ancora la struttura portante della maggior parte dei film d’azione che vediamo, dei fumetti e dei libri di avventura che leggiamo. Ne La nascita della tragedia, Nietzsche simboleggia queste due grandi forze della mente umana con due divinità greche:
Apollo e Dioniso. Apollo è luminoso, razionale, misurato, equilibrato. È la filosofia. Dioniso invece è oscuro, viscerale, selvaggio, difficile da comprendere e ancor più da domare. È la violenza. La metà dionisiaca della nostra mente, aggressiva e selvaggia, è l’eredità lasciataci
Simbolismo Vi è stato un tempo in cui gli dei dell’Olimpo abitavano la terra. In quel tempo essi erano in armonia tra loro, pur avendo caratteri profondamente diversi e a volte opposti. Vi è stato un tempo in cui gli dei dell’Olimpo convivevano pacificamente con gli uomini. In quel tempo gli uomini, specchiandosi nel volto degli dei, vedevano i loro stessi volti. Riconoscevano i propri vizi e le proprie virtù, le proprie miserie e le proprie grandezze, i propri odi e i propri amori. Vi è stato un tempo in cui gli dei dell’Olimpo e gli uomini erano la stessa cosa.
dai nostri progenitori animali. Dioniso è una divinità primigenia, legata ai culti originari della vegetazione e della fertilità. È il nume del vigore animale. E deve convivere con Apollo, innesto razionale sul tronco della nostra animalità ancestrale. Ma Dioniso è anche la riserva energetica della nostra mente, da cui Apollo ricava risorse indispensabili per i suoi progetti intelligenti. E, dato che stiamo parlando delle due polarità che governano le dinamiche della nostra mente e della nostra civiltà, è facile immaginare che i confini fra loro siano spesso piuttosto indistinti e che, non di rado, Apollo si tramuti in Dioniso e viceversa. Certo, Apollo è razionalità, logica, filosofia. Ma anch’egli non è privo di violenza. La sua violenza è quella dell’arco e delle frecce che scaglia. È la violenza del pensiero, e delle parole che esso genera. Perché anche la parola può colpire e uccidere. Certo, Dioniso è istintivo, violento, selvaggio. Ma è anche passionale, sa amare con tutto sé stesso, è pieno di energie fresche, coltiva la fantasia e l’ arte. Perché arte, amore e irrazionalità hanno, in Dioniso, la loro radice comune. Apollo e Dioniso sono le due metà di una medesima unità: “armonia contrastante come dell’arco e della lira” diceva Eraclito. E, in realtà, in età arcaica, l’arco e la lira, i due simboli rispettivamente di Apollo e di Dioniso, si costruivano entrambi congiungendo, in due diverse inclinazioni le corna del capro, animale, non a caso, sacro a Dioniso. Cambiando l’inclinazione, lo strumento cambiava la sua finalità: generava morte o bellezza2. E basta assai meno di quanto si creda per passare dall’arco alla lira e viceversa. Da Apollo a Dioniso e viceversa. E qui, in questo enigmatico gioco delle parti, chi uccide è l’arco di Apollo. Chi canta la bellezza della vita è la lira di Dioniso. La violenza di Apollo è molto più raffinata, agisce attraverso il pensiero e la paro49
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la, colpisce da lontano. Quella di Dioniso è invece una violenza brutale, immediata, fisica. Ma sono comunque due forme di violenza. Nel nostro cervello Apollo e Dioniso si incontrano, si scontrano, si confrontano e convivono. Da migliaia di anni. E non è possibile alterare quest’armonia senza alterare irreparabilmente la mente stessa. La via per contrastarne la violenza non è quella di uccidere Dioniso. È un’altra. Così nella mente di ognuno di noi come nella società. Secondo Nietzsche, la cultura dell’antica Grecia è vissuta in ar50
monia tra queste due forze, fino all’arrivo di Socrate, con la sua influenza su Euripide1. E la tragedia, secondo Nietzsche, morirà suicida proprio per mano di Euripide che, abbandonato il gioco di armonie tra Apollo e Dioniso, metterà in scena da quel momento in poi un’unica arida maschera: quella del razionalismo socratico sotto la quale, ancora più insidiosa, si nasconde la nostra violenza. Da quel momento, nella civiltà occidentale, è iniziato il dominio di Apollo su Dioniso. E questo ha generato un’insanabile perdita di armonia.
È come, per un orientale, lo yang senza lo yin. Come il maschile senza il femminile. La luce senza il buio. Il bianco senza il nero. La chioma senza le radici. Infatti, molti secoli dopo, Carl Gustav Jung ha descritto le due polarità della nostra mente, quella apollinea e dionisiaca, come parti di un albero, le cui radici sono la componente più istintiva, primordiale, animalesca del nostro io, e le cui chiome si innalzano fino a toccare le vette del divino: “Come la psiche si perde in basso nella base organico materiale, così essa trapassa in alto in una forma cosiddetta spirituale, la cui natura ci è poco nota come ci è poco nota la base organica dell’istinto”. L’inconscio di Jung è un universo magmatico, privo di polarità, dove coesistono indistinte le due metà della nostra mente: l’istinto animale e la pulsione al sacro. L’inconscio dionisiaco è un’enorme fonte di energia e vitalità da cui la nostra mente può attingere forza, ma che ci può anche creare parecchi problemi. Infatti il nostro lato oscuro della luna è costretto ad una scomoda convivenza con l’altro inquilino anche più ingombrante di lui: il nostro io razionale e apollineo, quell’insieme di costumi e di valori sociali e culturali con cui la famiglia e la società ci hanno plasmato dalla nascita3. L’uomo, per Jung, deve darsi un obiettivo: riuscire a plasmare una propria autonoma personalità in cui Apollo e Dioniso convivano in armonia. Questo è possibile solo se si è disposti ad esplorare il nostro inconscio, a imparare a conoscerlo e a portarlo alla luce del sole4, 7. Dunque Jung ha sottratto Apollo e Dioniso al dominio del mito e li ha avvicinati al mondo della scienza. La medicina poi, in epoca ancora più recente, ci ha fornito ulteriori indizi della presenza nel nostro cervello di qualcosa di assai simile alle due divinità: i nostri due emisferi cerebrali, di cui ho discusso in un mio precedente articolo8. Insomma, per plasmare la nostra personalità dobbiamo far dialogare le nostre due divinità interiori. Apollo deve incontrarsi con Dioniso. Non ucciderlo. Questo processo è definito da Jung come percorso individuativo, forse l’unica cosa, ci dice il grande medico svizzero, per cui la vita vale la pena di essere vissuta. Ma perché la ragione possa immergersi in questo viaggio nel profondo di noi stessi è necessario
conoscere il linguaggio con cui l’anima si esprime. In questo consiste il dialogo con il nostro inconscio. Di questa materia è fatto in sostanza, il percorso individuativo. Jung scoprì come Dioniso e Apollo si parlano e giocano a scambiarsi tra loro i ruoli durante uno dei suoi viaggi alla ricerca di simboli, miti e riti delle culture primitive. Egli assistette alla danza eseguita in primavera dalla tribù australiana dei Wakandi intorno ad una buca scavata nel terreno e modellata in modo da imitare i genitali femminili. I guerrieri danzavano intorno a questa fossa per tutta la notte tenendo le lance erette dinanzi a sé e conficcandole nella buca. In questo incantesimo di primavera è chiara l’evocazione sessuale. Ma si tratta solo dell’aspetto apparente del cerimoniale. In realtà l’intera cerimonia è un rituale magico di fecondazione della terra. Il linguaggio del simbolo e del rito avevano incanalato l’energia e l’aggressività che proviene da un istinto sessuale in un progetto culturale collettivo: quello di rendere fecondo il raccolto della propria terra. “Il segreto dell’evoluzione della cultura sta nella mobilità e nella dislocabilità dell’energia psichica”6 dice Jung. Dunque l’energia psichica, secondo Jung, è dislocabile. In altre parole la violenza, la dionisiaca furia omicida non potrà mai essere repressa, ma può essere dislocata, trasferita in un progetto. Può certamente essere un progetto razionale, ma non solo. Ricordiamoci sempre che Dioniso è violenza ma anche arte e amore. Dioniso e Apollo insomma possono lavorare fianco a fianco. E lo fanno quando dialogano fra loro. Lo fanno utilizzando il rito. Secondo Konrad Lorenz9, la ritualizzazione della violenza non è un meccanismo esclusivo dell’uomo, anzi, è tipico degli animali. Soprattutto dei più aggressivi, come le specie predatrici. I comportamenti degli animali, molto più di quelli umani, sono infatti ricchi di rituali: sequenze di gesti convenzionali che hanno il compito di dirottare le spinte aggressive verso canali innocui ed evitarne gli esiti dannosi (chiunque di noi ha avuto esperienza di coabitazione con animali domestici conosce bene il ruolo che, in questo, riveste il gioco). Anzi, come ricorda Lorenz, rispetto agli animali, nella specie umana la ritualizzazione dell’aggressività è di gran lunga più difficoltosa. Perché lo sviluppo
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di adeguati meccanismi di inibizione naturale dell’aggressività nell’uomo, richiede secoli, un tempo non compatibile con le esigenze legate alla sopravvivenza di un qualsiasi nucleo sociale. Viceversa, secondo Lorenz, lo straordinario sviluppo delle capacità mentali dell’essere umano gli avrebbe consentito di mettere in atto una sofisticata tecnologia di distruzione. Insomma, la debole efficacia dei mezzi di ritualizzazione dell’aggressività nell’uomo sarebbe compensata dal grande potere della cultura. E se questo, da una parte, ha rappresentato un vantaggio evolutivo straordinario, dall’altra, ha limitato il ricorso alle ritualizzazioni. Dunque il predominio di Apollo su Dioniso, che ha caratterizzato la civiltà postsocratica, ha coinvolto anche la sfera dell’aggressività, che è diventata un micidiale gioco d’intelligenza. La lira di Dioniso, miscela primordiale di aggressività animalesca, passione e arte, ha variato la sua angolazione ed è diventata arco, che scocca armi ben più violente: il pensiero e la parola. La violenza non è più gestita con l’innocuo e naturale strumento del rito. È gestita con le armi della cultura. L’uomo è in grado di razionalizzare la vio-
lenza, dandole una giustificazione logica. Ed ora è difficilissimo sradicarla. Il rito dunque, come intuì Nietzsche, è il mezzo più naturale, efficace e innocuo a disposizione della mente umana per neutralizzare l’aggressività senza reprimerla. E il suo paradigma si ritrova proprio nei riti dionisiaci. Qui l’adepto ritornava alla sua condizione di animalità ancestrale. Il momento culminante del rito consisteva nella caccia ad un animale selvatico (quasi sempre il capro, il tragos) che veniva ucciso a mani nude, quindi fatto a pezzi sul posto e mangiato ancora caldo e sanguinante. A partire dal VI secolo poi, questa brutale procedura arcaica fu progressivamente sostituita con rappresentazioni simboliche e canti corali. Dalla liturgia dionisiaca che accompagnava il sacrificio della bestia, nacque poi la tragedia. In coerenza con queste idee è la teoria del capro espiatorio (o teoria vittimaria) elaborata da René Girard, che sarebbe alla base di tutte le religioni arcaiche10. La violenza che si sviluppa in ogni società, e che si consuma in genere in micro-conflitti, tende prima o poi a concentrarsi su una sola vittima sacrificale. Così la folla si raccoglie unanime attorno al malcapitato di 51
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turno e lo distrugge. Esattamente come accadeva al capro durante i riti dionisiaci. La scelta del capro espiatorio è, in genere, legata alla sua diversità rispetto al gruppo. Magari perché è portatore di un qualche handicap, come la claudicanza o l’eccessiva bruttezza, o perché fisicamente differente dagli altri: è di un colore diverso. O perché ha idee diverse dagli altri. Secondo Girard, l’eliminazione della vittima fa sfogare la violenza da cui ciascuno è posseduto, e ciò ha sul gruppo un impatto emotivo di valore incalcolabile. La vittima, a questo punto, appare contemporaneamente come l’origine del conflitto e come la responsabile della pace miracolosamente ritrovata. Così diventa sacra per quella comunità, perché è stata prodigiosamente capace di scatenare la crisi e di ripristinare la concordia. In altre parole, ha potere di vita e di morte sul gruppo: è il suo dio. Successivamente, ritualizzando l’evento vittimario originario, se ne riprodurranno gli effetti miracolosi. Così nascerebbe anche il mito, come racconto dell’evento sacrificale. Ma quali sono i riti, oggi, radicati nella nostra società, che si incaricano di canalizzare l’aggressività individuale o di gruppo? A ben vede52
re, non sono poi tanto numerosi. Uno dei pochi esempi sono le competizioni sportive, figlie – anche queste – della cultura greca, dove il simbolo della vittoria consisteva in una corona di alloro. La stessa corona di cui, guarda caso, venivano adornate le Menadi durante i culti dionisiaci. Certo i riti religiosi odierni non possono più essere considerati meccanismi di sublimazione dell’aggressività. Come ci dice infatti lo stesso Girard11 anche questi conservano la perfetta struttura dell’uccisione rituale del capro espiatorio, con un divino capro espiatorio (l’agnus dei) linciato dalla folla, e con la sua successiva commemorazione nel sacrificio rituale simbolico dell’eucaristia. Tuttavia, mentre i miti arcaici erano costruiti sulla menzogna della colpevolezza della vittima, perché raccontavano l’avvenimento visto dalla prospettiva dei linciatori, i riti religiosi moderni affermano categoricamente l’innocenza della vittima. E come poter affermare il contrario? In questa maniera però, sostiene sempre Girard, hanno contribuito alla scomparsa di quell’ordine culturale basato sulla violenza sacrificale, sul quale riposava l’equilibrio delle società antiche. E i riti iniziatici? In tutti i principali riti
iniziatici possiamo trovare importanti elementi di sublimazione dell’aggressività. Chiarisco subito, e a scanso di equivoci, che sarebbe riduttivo considerare queste realtà così ricche e complesse, solo una forma, sia pure di grande efficacia, di canalizzazione delle nostre pulsioni dionisiache. Ma non vi è dubbio che questa sia una importante componente della loro struttura e della loro funzione. Almeno dei riti strutturati in maniera più complessa ed articolata. Infatti, se noi vogliamo abbracciare la tesi della ritualità come antidoto alla nostra aggressività originaria, dobbiamo anche ricordarci della tesi di Lorenz: si tratta di un processo certamente lento e difficoltoso. Forse anche per questo molte grandi tradizioni iniziatiche dell’antichità si snodavano nei classici sette gradini della saggezza. In un’altra occasione ho parlato dell’importanza dei riti nell’accompagnare i principali cambiamenti della vita di un individuo12. Ma quale più importante cambiamento di quello che ci fa transitare da Dioniso ad Apollo? Quello che vorrei proporre in questa sede, è la rilettura dei Riti in Massoneria e, soprattutto dell’intero ciclo del Rito Scozzese Antico e Accettato, nella
chiave di un progressivo e articolato processo di sublimazione delle nostre pulsioni originarie, di graduale transizione da Dioniso ad Apollo, nel binario dell’antica e naturale sapienza della ritualizzazione dell’aggressività, senza che uno dei due numi uccida l’altro, ma in quel processo di armonica transizione dall’arco alla lira di cui parlava Eraclito. Alcuni sostengono che l’introduzione dei Riti nel corpo della Tradizione massonica dopo la Riforma del 1717 sia stata un inutile appesantimento dei tre Gradi dell’Ordine. Le accuse di volta in volta rivolte agli Alti Gradi sono andate dall’esibizionismo nobiliare, alla rivendicazione di lontane (e fasulle) origini cavalleresco-templari, fino a quella di rappresentare una scarica di irrazionalità in periodi di positivismo e razionalismo. Una risposta a questa critica, che da subito accolse le prime proposte di creazione degli Alti Gradi, potrebbe essere proprio la necessità di affrontare la trasformazione complessiva della nostra personalità. E i tre Gradi ereditati dalla rudimentale tradizione della Massoneria operativa non erano certo sufficienti ad esaurire questo ambizioso scopo. Indubbiamente i tre Gradi dell’Ordine affrontano efficacemente il processo di presa di coscienza del proprio sé. Ma, da soli, non possono bastare a risolvere il problema assai più grande della sublimazione della nostra componente dionisiaca. Probabilmente questa è la principale ragione per cui i primi ordinatori degli Alti Gradi, da Ramsay a di Grasse-Tilly hanno avuto il felice intuito di ispirarsi a tutte le precedenti grandi tradizioni iniziatiche. Va comunque detto chiaramente che i tre Gradi dell’Ordine sono una parte fondamentale e irrinunciabile per lo sviluppo degli Alti Gradi e che, già in essi, appaiono chiari elementi di sublimazione rituale della violenza. Basti pensare alla simbologia dell’ara sacrificale, o alla leggenda dell’uccisione del Maestro. Non è certamente questa la sede più opportuna per affrontare analiticamente la rilettura dei Gradi del Rito Scozzese in chiave di sublimazione della violenza originaria. Ma è difficile sfuggire al fascino allusivo di quel simbolo collocato proprio nel 4 Grado, la porta di passaggio dall’Ordine al Rito: la corona di alloro e di ulivo. L’alloro, simbolo dei riti dionisiaci e l’ulivo, pianta sacra ad Apollo. Anticipan-
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do molto schematicamente una trattazione che sviluppo altrove, voglio solo ricordare che, dopo aver affrontato nei primi due gradi della Massoneria azzurra, la presa di coscienza del sé, inizia un processo simbolico in cui le nostre energie dionisiache sono canalizzate in una grande battaglia interiore contro le componenti negative della nostra personalità, in un processo di progressivo perfezionamento del nostro io. È anche sfruttato nella Ritualità massonica il meccanismo del capro espiatorio, con la trilogia mitologica del Maestro Hiram, di Cristo e di De Molais, che si sviluppa dal 3° al 33° grado. Ma, a differenza di ogni rito religioso arcaico o moderno, il Massone non riveste né il ruolo di carnefice, né quello di adepto del capro espiatorio, ma si identifica in esso. In questa maniera imparerà la preziosa lezione di vedere il mondo dalla parte delle vittime sacrificali. Imparerà inoltre che ogni portatore di idee nuove dovrà responsabilmente affrontare, se occorre, anche tale ruolo. E poi, in ogni Grado, guardando con attenzione, possiamo leggere simbologie che richiamano alla violenza, stemperate e sublimate in un processo di progressiva trasformazione del sé. A volte è violenza del singolo, a volte è di gruppo. A volte è violenza fisica, a volte è intellettuale. A volte è violenza mascherata da giustizia, a volte da guerra santa. Ma sempre la ritualità la dissolve in un
processo interiore e la sublima facendo transitare il simbolo, in pace e in armonia, dalle mani di Dioniso, a quelle di Apollo. _______________ Bibliografia: 1 F. Nietzsche. La nascita della tragedia, Milano, 1977. 2 G. Colli, Dopo Nietzsche, Milano 1974. 3 P. Maggi. I simboli fra scienza e tradizione iniziatica. Officinae giugno 2011. 82-85. 4 M. Gauquelin. Come Jung vedeva l’Uomo. in Pianeta n. 3, Leup Firenze luglio-agosto 1964, pag. 32. 5 C.G. Jung. Psicologia e alchimia. Traduzione di R. Bazlen, rivista da L. Baruffi. Torino 1995. 6 C.G. Jung. Simboli della trasformazione. Torino, 1970, pag. 237. 7 C.G. Jung. La dinamica dell’inconscio. Torino, 1976, pag. 202. 8)P. Maggi. Del cervello degli anziani, dell’eterna giovinezza e del pensiero iniziatico. Officinae. Giugno 2014. 60-63. 9 K. Lorenz. Il cosiddetto male. Milano 1974. 10 R. Girard. La violenza e il sacro. Milano 1980. 11 R. Girard. Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Milano 1983. 12 P. Maggi. Medicina e ritualità. Officinae. Marzo 2014 86-89. P.48: I kuroi gemelli di Delfi; p.49: La cosiddetta ‘Maschera di Agamennone’; p.50: Copia romana di Apollo con la cetra; p.51: Cratere con la leggenda di Dioniso e i pirati; p.52: Pittura vascolare con Dioniso e una Menade; p.53: Dettaglio da un vaso attico di Apollo con cetra e faretra.
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Donne...
parte II
‘‘Le donne son venute in eccellenza...’’
Paolo Aldo Rossi
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...Antique
L
a persecuzione contro le streghe, il moralismo controformistico e riformistico, le grandi crisi economiche e politiche del XVII secolo riportarono indietro l’orologio della storia e permisero che le paure sorte nel 1500 non continuassero ad aver libero corso in quanto non v’era più al cuna ragione di temere che che la temuta emancipazione giungesse a compimento. Ma quale emancipazione? Sul piano morale no di certo! L’insulto di Eva prende in quest’epoca anche le forme di Pandora e di Tiamat (la perfida femmina dell’epopea di Gilgamesh), la donna è il seme della perdizione, vorace mostro di lussuria, distruggitrice di amicizie e patrimoni, vincitrice dell’arcidiavolo Belfagor e, sicuramente, semence des cornes (tour operator per i frequenti viaggi che i maschi devono fare in Cornovaglia o fra Corneto e Corniglia). Quando dico donna - è François Rabelais a parlare - dico un sesso tanto fragile, tanto variabile, tanto mutevole, tanto incostante e imperfetto che la natura mi sembra (parlando con onore e reverenza) aver perduto il buon senso con cui ha creato e formato tutte le cose, quando ha fatto la donna. E un poco più tardi il Bocchini, principe dei misogini felsinei, tuona nel Lambertaccio: Donna? Che donna? Basilisco infame, che l’uomo uccide col guardarlo in faccia, lupo vorace, che l’ingorda fame
con le viscere altrui sempre discaccia; cagna rabbiosa che d’ingiuste brame dove giunge co i denti o sbrana o straccia, avoltor, ch’a frenar l’ingordo vizio rode il cor ad ogn’uom e il cambia in Tizio. Vipera maledetta, Aspe maligno, che morde il corpo e l’anima avelena tiranna che col cor d’aspro macigno pon senza colpa i schiavi a la catena, tigre affamata di pensier sanguigno che salassa col dente in ogni vena, aquila che i figliol altrui strapazza provandogli nel Sole e poi li ammazza Coccodrillo che essendo a l’uom congiunto lagrima e ammazza nell’istesso punto E scusatelo se è poco! A suo dire sta ancora benevolmente scherzando. Al suo con fronto San Giovanni Crisostomo, San Cipriano, San Bernardo, Tertulliano, il Siracide sono contenuti, quasi campioni di femminismo. Sulle basi solidissime di un diritto filiato dalla morale, una lex positiva derivata dalla lex naturae, a sua volta conseguente alla lex aeterna, non ci si poteva aspettare che dalla inferiorità morale non derivasse una netta inferiorità giuridica. Il Lasca scherza, ma non troppo, quan-
do ne Il Frate afferma che gli statuti e le testimonianze delle donne sono come la commedia senza autorità e senza fede. Le leggi connubiali sono concordi a lasciare costantemente la donna in soggezione del padre, del marito e dei figli maschi adulti, essa resta costantemente sotto un regime di tutela. Non a caso la questio princeps sul diritto delle donne è ancora nell’età dell’Alciato e di Erasmo la “an mulier homo sit?” Ulteriore conseguenza della imperfetta personalità giuridica è l’assoluta inferiorità politica della donna; la sua assoluta sottomissione rappresenta una delle colonne portanti della società, il metterla in forse, il solo parlare di parità, il voler associare le donne al governo è sovvertimento dell’ordine etico, sociale, politico e religioso. I casi di donne regine o reggenti sono o tollerati per forza di cose o considerati esempi di sconvenienza morale. L’illuminato Jean Bodin, nel tracciare le linee della monarchia tollerante e della dot trina moderna dello stato, usa la più feroce e becera intolleranza verso le donne. La sua Demonomanie des sorciers è certo, 55
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con il Malleus Maleficarum, il più feroce documento antifemminile del suo tempo. La pretesa parità giuridica si trasforma in procedimenti giudiziari in cui la presunta strega - è detto a chiare lettere - se confessa va messa al rogo e se nega l’addebito va bruciata a maggior ragione in quanto è Satana a consentirle di negare sotto tortura. E sì che Jean Bodin viene acclamato come il giurista e il politologo più illuminato del secolo. Vi furono anche, e non pochi, difensori delle donne, assertori della loro parità (e a volte superiorità) morale, dei loro diritti giuridici e politici. Sono spesso i grandi maestri del pensiero rinascimentale: Marsilio, Pico, Agrippa di Nettesheim, Erasmo, Cusano, Montaigne, Giordano Bruno, ma anche letterati minori come il Gelli che afferma: 56
… essendo tenute le donne da voi per schiave e per serve e non per compagne come richiede il giusto, cosa tanto empia e tanto contro all’ordine della natura che niuno altro animale che voi ardisce di farla, o il Bandello che sostiene che la moglie cattiva è quella che il marito maltratta e tiene per schiava, il cardinal Vicerè Pompeo Colonna che scopre nella cugina Vittoria l’esempio più fulgido della parità dei sessi. Ma in tutta questa congerie di polemiche sul diritto, la morale e la politica, gli argomenti pro e contro l’inferiorità della donna sono consueti, stantii, ormai banali e consunti a forza d’esser adoperati. Le argomentazioni nuove vengono fornite dalla fisiologia e dalla psicologia. La tradizione classica l’aveva considerata un
maschio mancato, priva di funzione procreativa e di capacità raziocinante. L’Enneas mulierum di Ludovico Bonaccioli e il Della nobiltà delle donne di Ludo vico Domenichi sono della stessa epoca. Nel primo il medico di Lucrezia Borgia sostiene la patente inferiorità fisiologica della donna in quanto vaso passivo, recipiente di aride semenze, voragine di frigidità e di appetiti, contenitore di sconvenienti umori, fetida fontana del flusso mestruale, foemina necans in quanto mestruata che uccide con il solo sguardo. Tema questo ossessivamente ricorrente nell’immaginario virile a guisa di vera e propria patologia della fantasia: il Serpetro nel Mercato delle meraviglie della natura narra di donne che versano mestruo dagli occhi, dal naso, dalla bocca, dalle orecchie, dalle mammelle e “quel che fa più maraviglia - cito - ad una monica scorreva ogni mese per il dito anulare”. Con una tal abbondante e differenziata produzione di veleno la femmina assassina contamina l’intera natura e le superstizioni riportate da Columella e Plinio ricorrono senza posa e ripercorrono l’immaginario collettivo in crescendo. Cristoforo Landino si crogiola a tradurre un noto e indiscutibile brano della Naturalis historia pliniana: … niente è più mostruoso cosa ch’el mestruo delle donne Per la venuta di questo i mosti inforzano, gli orti si seccano, le seminate biade diventano sterili. E nesti periscono. Le fronde e pomi degli arbori dove si pongono, caggiono ... el ferro e ‘l rame pigliano ruggine ... E’ cani che lo gustano arrabbiano ... Le formiche lo sentono e gitono quello che portano, ne mai più lo tolgono. Un autentico flagello ecologico, dai suoi orifizi emanano fetori, umori, fluidi ammorbanti e tossici. Al contrario il Domenichi sostiene che la donna è del tutto superiore all’uomo sul piano fisiologico. In primo luogo “l’uomo non concorre alla generazione, altramente che faccia il quaglio o presame a fare il cacio”, secondariamente, essendo umide, “facilmente s’estendono fino al suo termine”, in terzo luogo: “ch’elle ciascun mese per i luoghi più segreti del corpo mandano fuora le superfluità concette e di queste restano mirabilmente purgate”; ciò fa sì che il corpo femminile sia un perfetto meccanismo
ad autoregolazione metabolica, mirabile strumento capace di autodepurarsi e il vituperato mestruo diviene il talismano della salute: “i mestrui e le loro altre purgazioni ... non ci danno tanto argomento di bruttezza, ma di leggiadria e dilicatezza”. Ma il Domenichi non è una voce solitaria, al contrario fa parte di un coro polifonico che recita la parità fisiologica. Cusano, a partire dalla parità procreativa di maschio e femmina, aveva superato l’ostacolo dell’inferiorità morale della donna, Pompeo Colonna catechizza la cugina Vittoria sul fatto che l’inferiorità fisiologica della donna è un’ideologia culturale e non uno stato di natura. La lunga teoria dei medici padovani del 1500 porta a compimento un immensa mole di lavoro propedeutico sulla fisiologia femminile e si comincia a mettere in dubbio il fatto che Galeno mai avesse sezionato corpi femminile e che Mondino de’ Liuzzi, anche se certamente l’aveva fatto, non aveva saputo vedere. Vesalio contesta l’anemia e la fisiologia dell’utero dei galenici, Alessandro Benedetti e Michele Savonarola coniugano la pratica ostetrica con la conoscenza anatomica, Gabriele Falloppia perfeziona la descrizione anatomofisiologica dell’utero scoprendo le tube uterine e descrive le funzioni del clitoride, si sviluppa l’embriologia preparando le grandi sintesi di Harwey e di Malpighi e finalmente si riscoprono due donne-medico del Medioevo: Trotula di Salerno e Hildegarde di Bingen. E anche il baluardo dell’inferiorità del sexus imbecillior incomincia a mostrare delle crepe e dà tutti i segni del suo imminente sfaldamento. Resta l’inferiorità psicologica, o meglio l’incapacità che la donna ha di apprendere arti e scienze virili, anche se le venissero opportunamente insegnate. E ancora una volta ci viene in aiuto Burckardt che, a fianco della affermazione della parità di posizione, esemplifica dicendo che “l’educazione della donna, almeno nelle classi più elevate era essenzialmente uguale a quella dell’uomo”. Purtroppo, a fronte di un’affermazione così impegnativa e meritevole d’essere, se i dati storici lo consentissero, sviluppata a fondo, egli non trova di meglio che tirare in gioco l’ideale della “donna-uo-
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mo” (la femmina educata ad avere mente e animo virile) o, in seconda battuta, esibisce un certo numero di esempi di “poetesse”, “attrici”, “cortigiane” e “dotte prostitute”. In buona sostanza null’altro che la permanenza del modello classico che in Grecia era stato rappresentato da un lato con il mito delle Amazzoni e dall’altro nella nota sintesi dell’Anonimo del IV secolo - Abbiamo le cortigiane per il piacere, le concubine per i nostri bisogni quotidiani e le mogli per darci dei figli -, modello questo cristallizzato a Roma dove ad esempi di femmine dissolute e avide di potere si contrapponevano le virtuose Lucrezie e Cornelie sempre pronte a ribadire che il loro ruolo consiste e s’esaurisce nel “nutrire i figli e filare la lana. Il Rinascimento, e Burckardt ne è buon testimone, non solo riaccoglie in pieno l’ideale classico di donna, ma perde progressivamente di vista quanto di nuo-
vo e diverso era venuto alla luce nel corso del Medioevo cristiano sulla specificità dell’essere e del sentire in chiave “femminile”. La Virtus resta, infatti, la tipica caratteristica del vir e la “domina” in grado di comandare sui sentimenti e sulla volontà di un grande uomo deve avere un animo da maschio in un corpo da femmina. Ecco cosa consiglia Galateo (Ep. 3) a Bona Sforza: Incipe aliquid de viro sapere, quoniam ad imperandum viris nata es ... Ita fac ut sapientibus viris placeas, ut te prudentes et graves viri admiretur, et vulgi et muliercularum studia et judicia despicias” [Sei nata per comandare sull’uomo e quindi dedicati a studi virili, fatti ammirare dagli uomini sapienti, accorti e forti, e disdegna i giudizi e gli studi volgari e femminei]. Si tratta della promessa sposa di Sigismondo re di Polonia, tessera di un 57
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mosaico politico costruito nei termini dell’opera d’arte e quindi necessitante di essere adeguata alle regole del gioco. E se questi sono i consigli offerti alla donna-virile, vediamo quelli dati alla donnafemminile. In sintesi con l’Aretino: “Tanto puttana in letto quanto donna da bene altrove” ecco la ricetta per “governare su Roma e Romagna”. La figura di “Nanna che insegna a la sua figliola Pippa l’arte puttanesca” non è iperbolica ed eccezionale, come farebbe pensare il consueto mestiere di provocar scandali del suo Autore, ma emblematica. Se il Galateo ed Angelo Mai son prodighi di consigli alle donne di illustre casata onde queste possano acquisire la virtus del dominio, Lorenzo Venier, Francisco Delicado, Jacques du Bellay e il celeberrimo Aretino non sono da meno nei confronti delle cortigiane che avevano come modello Imperia, colei che di sé poteva dire: Non è di tante stelle adorno il cielo A quanti Prelati, Vescovi e Mercanti. Feci d’oro costar ogni mio pelo Marchesi, Duchi, Ambasciatori tanti. Ancora una volta tocca domandarsi: quali furono le tipiche figure di donna 58
di cui il Rinascimento ci ha lasciato ricordo? Energiche e risolute virago capaci di tener testa nell’intrigo politico agli uomini più considerevoli e Veneri letterate nei cui salotti colti e raffinati passavano, accanto a squisitezze poetiche, regalie e benefici. Caterina Sforza e Isabella Gonzaga fanno parte del primo gruppo, Imperia, Tullia d’Aragona, Veronica Franco e Gaspara Stampa del secondo. Che poi esistessero anche altri generi di donne “venute in eccellenza” nelle arti ove avevano posto cura è cosa molto meno conclamata. Vi furono sì monache colte come Angela Merici, Battistina Vernazza, Maria Vittoria Fornari Strata, Orsola Benincasa, mistiche-veggenti come Caterina da Racconigi, agiografe quali Paola Gambaro Costa, poetesse come Cassandra Fedele e Vittoria Colonna, pittrici come Artemisia Gentileschi, umaniste come Isotta Nogarola e Olimpia Morato, ma “qualunque all’istoria abbia avvertenza” ha memoria delle epigoni di Artalice, Camilla, Lucrezia, Zenobia di Palmira da un lato e di Saffo, Aspasia, Messalina dall’altro.
A queste pensa l’Ariosto quando appunto scrive: “Le donne antique hanno mirabil cose fatto ne l’arme e ne le sacre muse”. A queste due particolari figure di donna, la virago e la cortigiana letterata, l’età rinascimentale prestò particolare attenzione. A voler esemplificare faremo due nomi: la virile Caterina Riario Sforza, signora di Imola e di Forlì, e la femminilissima Imperia, immagini reali di una sottile e insinuante paura, incarnazioni di Deimos e Fobos: donna intelligente, letterata, forte, coraggiosa e di inestinguibili appetiti carnali la prima, femmina colta, umanista, dolce, astuta e ingannatrice la seconda. Caterina eredita uno stato costruito a prototipo del nepotismo e fa di tutto per mante nerlo opponendosi al duca Valentino. Tiene corte aperta a ogni sorta di attività ludiche, letterarie, scientifiche, intrepida nelle armi; divoratrice di opere medico-farmaceutiche, sa essere estremamente competente nelle pratiche afrodisiache, a lei ricorrono e concorrono tutto uno stuolo di pazienti e praticanti. Conoscitrice di Galeno e Avicenna, si comporta come una strega di villaggio e sa rinforzare e sopire gli ardori d’amore, conosce i segreti per far ingravidare e sgravidare, sa le misure e le contromisure dei filtri d’amore. Il suo ricettario d’amore è una vera e propria miniera per l’erotologo e le sue conoscenze della sessualità sono davvero straordinarie. Caterina non conosce limiti, prova e
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sperimenta tutto ciò che le possa calmare i suoi robusti appetiti e, da autentica professionista, cataloga, analizza, studia i più intimi recessi della fisiologia e della psicologia del sesso. Figlia del proprio secolo non conosce limiti e mostra una libertà di costumi e una sfrontatezza che non potevano che lasciare nel maschio un terribile senso di frustrazione per esser stato da lei abbondantemente superato quale campione del “molto luxuriare”. D’altro lato Imperia, la professionista del piacere sessuale, la cortigiana angelicata, punta di un iceberg che ha sotto di sé una innumerevole schiera di prostitute, dalle oneste a quelle di candela. Ricercate, idolatrate, odiate, disprezzate, temute, le cortigiane rappresentano l’altra forma dell’emancipazione; quella di Caterina da Forli o di Isabella di Ferrara è eccezionalè e frutto di fortuna, quel-
la delle Imperie normale e frutto di studio nell’arte della cortigianeria. Femmine castratrici e divoratrici di patrimoni non possono che suscitare l’ira dei moralisti e al riguardo valga come emblematico esempio il Berni che, antesignano della teoria di Karl Kraus per cui la donna è un utile sostituto dell’onanismo, solo che ci vuole un ché di fantasia in più, sceglie di adoperare la fantasia piuttosto che frequentare i salotti delle cortigiane, adducendo a motivazione, l’avaro petrarchista, che non ha alcuna intenzione di buttare i suoi soldi. In definitiva sia la virago che la cortigiana sono donne che ricordano al maschio la verità di quanto affermava il Bandello: “Insomma, io conchiudo che di rado avvenga che, quando una donna delibera far alcuna cosa, che l’effetto non segua secondo il disegno della donna”. Una bruciante sconfitta, insomma, inferta al vir
che sempre aveva creduto di poterle domare con la forza e che invece come l’eroe perraultiano della Griselidis deve affermare che la donna è: un crudele nemico smanioso di totalmente tiranneggiare l’uomo infelice che si lascia soggiogare. Una paura che fa il paio con l’attuale misandria delle femministe alla Germain Greer, l’autrice dell’Eunuco femmina, la quale scrive: “Le donne non hanno chiaro quanto gli uomini le odiano”. Meglio sarebbe lasciar l’ultima parola a un autentico poeta, il Verlaine di Sagesse: Beauté des femmes, leur faiblesse, et ces mains pales / qui font souvent le bien et peuvent tout le mal.
P.54/59: Illustrazioni e particolari di soggetto femminile tratti da manoscritti miniati di varie epoche.
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Giardini massonici parte II
La loro architettura in Europa tra il Settecento e i primi del Novecento Jean Marc Schivo
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a Grotta … appena se ne chiudono le porte, la grotta diventa come una camera oscura in cui compaiono come in un dipinto il Tamigi e tutto il panorama che lo circonda, i ruscelli, i monti e i boschi formano una specie di quadro in movimento. Quando la grotta viene illuminata artificialmente offre agli occhi un altro prodigio: è tutta incrostata di conchiglie miste a frammenti di specchi angolari allorché vi si appende una lampada di alabastro, si vede un’infinità di raggi luminosi rifrangersi da ogni parte nella grotta. Così A. Pope descrive a Edmond Blount la grotta del giardino di Twickenham. La caverna, antitesi del costruito emergente, luogo altro, luogo dell’evento magico per eccellenza, trova nei più significativi giardini massonici uno spazio di grande rilievo, è il gabinetto di riflessione, il luogo delle grandi iniziazioni, della rinascita, “esse non sono null’altro che una preparazione della morte al mondo profano, … e per quanto riguarda l’iniziazione stessa, lungi dall’essere considerata una morte, essa è al contrario considerata una seconda nascita come pure un passaggio dalle tenebre alla luce.” (René Guénon) La grotta assume forme ricche di significati magici e allegorici, diventa esperienza tattile, ma anche luogo di confronto e di stupore in cui le allegorie esoteriche si mescolano in un mondo parallelo e il tempo non è più quello della luce, ma quello dell’introspezione, spazio naturale, ma talvolta anche costruzione geometrica o un insieme di questi. In questo senso la grotta del giardino di Boboli a Firenze è particolarmente significativa, alternando atmosfere magiche a precisi simbolici esoterici dislocati in tre spazi in successione. Al primo dedicato alla natura e alle sue metamorfosi fa seguito quello quadrato dedicato ai quattro elementi per terminare con l’ultimo di forma ovale, simbolo dell’uovo filosofico e della trasformazione che esprime l’ampiezza del mondo sotterraneo in un logico processo alchemico di rinascita. La grotta diventa assimilabile con il suo costruito fatto di segni, simboli, protuberanze, sculture, specchi, rimandi allegorici e preannuncia quel mondo esterno che sarà il luogo fantastico, quello delle fabriques, delle architetture effimere che
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costituiranno la scacchiera e l’emergenza del percorso massonico. Lo Spazio della Meditazione Il giardino massonico prevede nella sua composizione geometrica uno spazio finalizzato alla serenità e alla contemplazione e rievocando articolate geometrie del passato offre al visitatore la possibilità di ripercorrere preziosi momenti di storia che saranno gli artefici di questo nuovo modo di ricercare il luogo dove compiere la propria metamorfosi interiore ed esteriore, inserendosi nel sublime processo delle trasformazioni. Il giardino idilliaco, Hortus conclusus, è concepito come schema protetto, suddiviso in origine in quattro quarti, al cui centro si trova la fontana della giovinezza e l’acqua, simbolo della vita, espressione di quella ricercata purezza medievale evocativa della bellezza dell’Eden in una visione scenografica cristallizzata. Il giardino si contrappone alla vita reale della città, al di fuori dei suoi muri. Anche qui come nel labirinto la sapienza alchemica si presta a diventare strumento e guida. Michael Mayer, medico, alchimista e musicista, nel suo trattato filosofico Atlanta fugiens (1618), prezioso compendio di scritti, allegorie e incisioni, incrementa il contributo alla comprensione dell’indissolubile dialogo tra uomo e natura anche attraverso una più ampia visione astronomica e musicale. L’opera diventa, infatti, una raccolta di musiche rosacrociane che verranno successivamente utilizzate in molte logge massoniche. Il giardino va ben oltre la semplice materia, riesce a tradursi in poesia, musica, alchimia: “Chi vuole penetrare nel giar-
dino filosofico senza la chiave è come un uomo che vuole camminare senza i piedi”, tre serrature, tre cinte murarie e altre allegorie rappresentano le prove iniziatiche, le tre trasformazioni alchemiche prima di raggiungere il centro dell’Albero Filosofale, un albero che Nicolas Flamel configura nei suoi scritti come una grande quercia cava da cui sgorga l’acqua che servirà ad annaffiare le piante e a sostenere una nuova crescita interiore. Allegoria simbolica di un dialogo imprescindibile, la storia del giardino come la sua costruzione è la storia della conoscenza di se stessi, un processo che l’alchimia non può non prendere in considerazione. Se dunque soltanto la natura possiede il sapere, dovrà pur essere la natura a predisporre la ricetta e questa sua arte sta naturalmente davanti al medico. Da essa deriva l’arte, non dal medico. Per la qualcosa il medico deve procedere con perfetto inten61
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dimento partendo dalla scuola della natura … che altro è la natura se non la filosofia, e la filosofia che cos’altro se non la natura invisibile. Colui che conosce il sole e la luna, e tenendo gli occhi chiusi sa che aspetto hanno il sole e la luna, costui ha il sole e la luna dentro di sé (Paracelso). In questo percorso iniziatico il parco e il giardino diventano guida risanatrice, medicina per eccellenza per comprendere l’essenza magica delle piante e il loro ruolo nell’organizzazione dei loro spazi. Elemento di connessione con gli astri e i loro movimenti il giardino non resta circoscritto alla scenografia del colore o alle sensazioni olfattive, ma diventa un preciso strumento di riconnessione tra macrocosmo e microcosmo, specialmente per mezzo degli orti botanici spesso inseriti nel suo disegno complessivo. Ognuna delle essenze presenti, struttura vivente finalizzata alla trasformazione dell’uomo grazie alle sue caratteristiche curative, esprime un vero e proprio programma ideologico. L’orto rappresenta nel complesso percorso iniziatico il luogo dove arte, natura e astrologia si intersecano e diventano grammatica ermetica e dove le virtù celesti si condensano per stabilire un nuovo dialogo con il cercatore. Il filosofo esperto delle cose natali e degli astri, che propriamente noi siamo soliti chiamare mago, opportunamente congiunge le cose celesti alle terrene, non diversamente dall’agricoltore attento agli innesti, che su un vecchio tronco impianta un giovane pollone (Ficino). 62
Ogni pianta assume quindi valore cosmico e astrologico poiché soggetta all’influsso del pianeta come a quello del caldo, del freddo, dell’umido e del secco. L’orto diventa così luogo magico e curativo in quanto luogo di precisa corrispondenza planetaria in cui la pianta diventa nutrimento cosmico, essenza di rigenerazione e trasformazione. Oltre ad avere un aspetto curativo magico, le piante di differenti specie e dimensioni concorrono con la loro struttura alla costruzione del giardino esoterico: … nella crescita della pianta sono all’opera forze che reagiscono alla forza della gravità. Caccian fuori dalla terra i germi, incontro al sole. Sono forze che vengono determinate dal cosmo, esse si revelano ad esempio, nel modo in cui le foglie si ordinano attorno al gambo e ancora: … come il giardiniere non deve essere distratto da altre cure e passioni, così non si può interrompere il corso tranquillo che segue la pianta per raggiungere il suo pieno sviluppo definitivo o temporaneo. La pianta assomiglia a quelle persone ostinate, dalle quali si può otternere tutto, purché si prendano dal verso giusto. Nessuno forse più del giardiniere ha bisogno di un occhio calmo, di una tranquilla coerenza, per compiere a ogni stagione ad ogni ora tutto ciò che è opportuno.” (J. W. Goethe, iniziato nel 1780 nella loggia Anna Amalia alle tre rose) Quello che Goethe descrive è un dialogo sottile che s’instaura tra il giardiniere
e le parti dinamiche che definiscono questo tempio a cielo aperto. Più Maestro Venerabile che giardiniere il suo costruttore deve saper analizzare le necessità di ogni pianta e nella sua gemmazione, aiutarla nel dialogare con le altre, organizzando una conformazione dinamica per ottenere un giardino armonico, dinamico e mutevole, ricco di spunti creativi e inserito in una struttura iniziatica unitaria. Le Piante della Saggezza In questo quadro di rappresentazione consapevole delle forze universali il raffronto del concetto di Tempio come simbolo di costruzione con quello più specifico del simbolismo vegetale sottolinea quello che da millenni le culture più attente custodiscono con saggezza. L’insieme di piante, colori, profumi, visioni che costituiscono la base di questi giardini fa rivivere in un unicum urbano le più antiche presenze arboree e la loro storia, storia di alberi che hanno assecondato gli eventi iniziatici dell’uomo e le sue scelte in ogni epoca. In particolare l’acacia è per molti il simbolo per eccellenza del messaggio di immortalità e rigenerazione. È la pianta con cui Dio ordinò di costruire l’Arca dell’Alleanza rappresentando con la sua durezza la fedeltà e la solidità contro ogni aggressione e con i suoi fiori bianchi la purezza e il senso di rinascita. Molte altre assumono altrettanto importanti significati nella configurazione dei giardini, ognuna con una specifica caratteristica simbolica e iniziatica, ma l’ulivo, la quercia e l’acacia rappresentano la trilogia simbolica e ancestrale per eccellenza essendo le piante che assecondano le fasi evolutive da un grado all’altro. Apprendista, Compagno e Maestro hanno un rapporto diretto con il melograno, il grano e l’acacia, ma spetta all’ulivo il ruolo di decorare il bastone del Maestro delle Cerimonie. L’ulivo è l’albero che può crescere e riprodursi solo se il suo attacco a terra resta pulito e non contaminato da arbusti o rovi, così come deve essere la mente dell’iniziato nell’abbandonare i pensieri della vita profana e le loro interferenze durante la ricerca interiore, dentro e al di fuori del Tempio. La quercia, che non ha una reale presenza nel Tempio, assume nei giardini il suo ruolo simbolico. Con le radici che la ancorano profondamente nel terreno delimita con i rami e il tronco possente uno spazio per-
fettamente sferico, associato alla longevità, espressione del legame tra terra e cosmo, simbolo di immortalità che viene spesso rappresentata con il cedro del Libano. Nel melograno ritroviamo il simbolo della fertilità e della rigenerazione interna, simbolo del saper vedere oltre la materia apparente, della nuova vista. La spiga di grano, cara alla filosofia alchemica, è segno dell’abbondanza ciclica: I contadini affidano alla grassa terra il grano dopo averla manipolata con i loro rastrelli. I filosofi hanno insegnato l’arte di spargere l’oro in nivei campi sottili come foglie. Per far questo osserva bene: come l’oro germogli, te lo mostrerà con uno specchio il frumento. (L’alchimista come agricoltore, M. Mayer) La tuia, più piccola del cipresso, esprime un’immortalità ancora da realizzarsi, la mimosa è simbolo di potenza e sicurezza, la canna palustre o siringa, pianta cara a Pan con la quale costruì il suo flauto, è il simbolo sonoro di movimento e principio fecondante della natura. Il frassino, Axis Mundi per eccellenza, rappresenta la fecondità e immortalità, il platano, dalle foglie simili a quelle della vite, il ricordo mitologico della trasformazione, il pioppo, pianta cara a Ercole, la dualità dell’essere, il cipresso “albero della vita”, dal fogliame sempre verde e dalle pregiate resine, come il bosso, è anch’esso simbolo d’immortalità soprattutto nei paesi nordici ed è talvolta adoperato nella realizzazione del Maglietto. Infine l’alloro, pianta sacra ad Apollo, simboleggia anch’essa l’immortalità, ma quella acquisita per mezzo della ricerca e della vittoria finale. La betulla, legata alla mitologia celtica per eccellenza, esprime la purificazione e la rinascita con il mutare della corteccia in primavera. Al termine di questo percorso ideale troviamo la magnolia, punto di convergenza finale, simbolo del centro e di purezza grazie ai vistosi fiori bianchi. All’opposto la rosa, manifestazione per eccellenza dell’amore mistico, possiede nella sua composizione geometrica la scienza dei numeri sacri. Vedete per esempio nei fiori, che non hanno soltanto un colore, e tuttavia questi colori coesistono in un’unica cosa e il fiore è una sola cosa, e ogni colore per se stesso mostra, a sua volta, le più diverse gradazioni. Lo stesso deve intendersi anche in
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ordine alle diverse specie di virtù che stanno nelle cose. (Paracelso) Questa sequenza di piante e fiori assume un ruolo fondamentale nella conformazione dei giardini massonici diventando linguaggio attivo e articolato, scrittura e codice di un’urbanistica tracciata per guidare il viaggiatore occasionale in una prima fase di riflessione e affiancarlo in tutto il suo processo di trasformazione. Quindi è evidente che solo lo studio e la comprensione della simbologia delle piante
può rivelarne il ruolo e il posizionamento nella costruzione di un giardino. Il giardino iniziatico diventa così tracciato lineare, asse di congiunzione, labirinto, spazio informale, costruzione geometrica, axis mundi, mondo sotterraneo, luce, emergenza, paesaggio ricco di infinite varianti arboree e floreali, sempre unico nelle sue molteplici variazioni, ma, come avviene nelle Officine e nei Templi, sempre espressione di un solo linguaggio e di una sola finalità. 63
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Dalla letteratura alla poetica del paesaggio Il giardino assume il ruolo di paesaggio complesso, poetico, romantico. Non più unicamente ancorato alla terra, diventa scrittura, sogno, ricordo. E’ il giardino filosofico che si rifà all’accademia di Platone, luogo del confronto immaginario di una natura sostegno della ricerca e della bellezza. Tra il Settecento e l’Ottocento la pittura e la letteratura diventano i principali sistemi di rappresentazione di questi luoghi e fonte continua d’inspirazione. Auguste Lenoir, Hantal Strohmayer, Hubert Robert, Jaques Sablet e altri descrivono nei loro dipinti tematici in stile roman64
tico l’essenza e l’atmosfera di questi parchi anticipandone sovente la composizione finale dove natura ed elementi simbolici dell’architettura “colonne, archi, templi, piramidi, invogliano a viverne l’esperienza.” H. Robert, il più grande pittore paesaggista francese dell’epoca, trascorre dieci anni a Roma familiarizzando con la cultura del luogo, con i capolavori rinascimentali e le grandi ville degli Albani, Borghese e Farnese. La contaminazione è inevitabile. Le sue invenzioni pittoriche riproporranno il mondo dell’armonia italiana e più specificatamente la bellezza del mondo romano nello splendido giardino massonico di Méréville, dove subentrò
all’architetto François – Joseph Bélanger tra il 1786 e il 1790. L’equilibrio dei grandi maestri e delle loro architetture saranno alla base della riorganizzazione del parco e la sua maestria gli consentirà di realizzare scorci pittorici particolarmente realistici. La composizione del parco ritorna al gusto della pittura in un momento dove la natura è ancora intesa come completamento della vita sociale. Per vie diverse la letteratura e la poesia non restano estranee a questo processo di comunicazione e immaginazione dello spazio. Qui è di una bellezza senza fine. Ieri sera mentre attraversavamo laghi, canali e boschi, mi ha molto commosso il modo in cui gli dei avevano concesso al principe di creare attorno a sé un sogno. Quando si passeggia attraverso di esso, è come una fiaba; ha l’aspetto dei Campi Elisi; nella dolce varietà si scorre verso il resto; l’occhio non è attratto da alture e dal desiderio di un unico punto, si va in giro senza chiedere da dove si è venuti e da dove si sta andando. La vegetazione offre in maggio il suo momento più bello e l’insieme manifesta la bellezza più pura. Come in una visione pittorica Goethe descriveva le sue sensazioni nelle Affinità elettive (1809), colpito dal maestoso linguaggio della natura che i suoi sensi sapevano recepire: ... conduciamo subito il nostro amico sino in cima perché non creda che il nostro retaggio e la nostra dimora si limitino a questa piccola valle; lassù la vista è più libera e il petto s’allarga … per questa volta, rispose Carlotta, dobbiamo arrampicarci ancora su per il vecchio sentiero, ch’è alquanto faticoso: fra poco però spero che i miei gradini e ripiani condurranno fino in vetta più comodamente. Giunsero così per le rocce, fra boschetti e cespugli, fino alla sommità, che non era una superficie piana, bensì un dosso prolungato e fertile. Il villaggio e il castello, situati dietro, non si vedevano più. In fondo si stendevano ampi stagni; dall’altra riva li costeggiavano verdi colline; infine, sull’ultimo specchio d’acqua calavano a picco rupi scoscese, che lo limitavano bruscamente, riflettendo sulle superficie le loro forme spiccate. Laggiù nella gola, dove un torrentello scendeva ad alimentare gli stagni, un mulino seminascosto pareva con le sue adiacenze un piccolo ed invitante luogo di riposo. In tutto il semicerchio che si
Architettura dominava con l’occhio s’alternavano variamente conche ed alture, boschi e cespugli, il cui verde tenero prometteva per la stagione più avanzata uno spettacolo di straordinario rigoglio. Gruppi d’alberi isolati attiravano pure qua e là lo sguardo. Specialmente si distingueva per la sua bellezza, ai piedi dei nostri osservatori, una massa di pioppi e di platani quasi in riva allo stagno centrale. S’ergevano e s’allargavano freschi e sani, nel pieno rigore del loro sviluppo. Qui tutte le forme trovano il loro posto: la foresta, il labirinto, la pausa, l’architettura, il riposo, la discesa e la salita, la difficoltà, il vento, la comprensione finale … il dipinto letterario è diventato vita: Nessuno si sente a suo agio in un giardino che non abbia l’aspetto dell’aperta campagna; nulla deve far pensare ad un artificio, ad una costruzione, vogliamo respirare in assoluta libertà. Goethe esprime la stessa purezza contemplativa che molti anni prima J. J. Rousseau comunicava contemplando il parco di Ermenonville, oggi parco Jean Jacques Rousseau, voluto dal marchese René de Girardin, appartenente a una famiglia di tradizione massonica, dove ritrova quella serenità tanto ricercata dopo essere stato ridotto al silenzio su mandato della polizia per i suoi scritti Les confessions. Il filosofo iniziato nella Loggia delle Sette Sorelle del Grande Oriente di Francia denunciava infatti nei suoi scritti una società che giudicava corrotta in opposizione alla purezza della natura, quella natura così presente nel finale di questo stupefacente parco. Anche se meta di occultisti come Cagliostro, Franz – Anton Mesmer, il conte di Saint Germain e altri il parco esprime perfettamente la visione naturalistica comune sia al Marchese che a Rousseau. R. De Girardin nel trattato De la composi-
tion des paysages, ou des moyens d’embellir la nature autour des habitations et joignat l’agréable à l’utile precisa: “Ce n’est ni en architecte, ni en jardinier, mais en poète et en peintre qu’il faut composer des paysages”. Il più grande parco massonico di Francia esprime quindi in chiave naturalistica una visione politica del ruolo della natura nello sviluppo della società. Oltre alle fabriques che ripercorrono con coerenza le fasi maggiormente importanti della storia mediante la loro architettura, il parco viene concepito per adattarsi al sito esistente senza contrastarlo per diventare una struttura sostegno per le collettività locali di tipo agricolo. In conseguenza sarà privo di recinzioni e sbarramenti secondo il principio di integrazione di città e territorio. In questo spazio ricco di messaggi simbolici il tem-
pio della filosofia moderna, opera del pittore H. Robert, rappresenta un testamento per le generazioni future, un inno al progresso umano. Sei colonne, ognuna dedicata a un filosofo - Newton (lucem), Descartes (nil in rebus inane), Voltaire (ridiculum), Rousseau (naturam), W. Pen (humanitatem), Montesquieu (justitiam) - e un settimo elemento a terra, che porta incise due scritte “quis hoc perficiet” e “falsum stare non potest”, caratterizzano questo tempio incompiuto a significare l’eterno ruolo della filosofia come strumento di ricerca e libertà. P.60: Il giardino massonico di Méréville di Hubert Robert, 1790; p.61 in alto un Fauno (dettaglio della grotta del Giardino di Boboli) e in basso l’uscita dalla grotta del Parco di Emeronville; p.62: L’alchimista come agricoltore, tavola dall’Atalanta Fugiens, 1618; p.63: Frontespizio dell’Azoth con l’albero filosofale; p.64: La piramide stile neo egizio del Parc Monceau; p.65: Parco di Emeronville, Tempio della filosofia moderna e a sin. dettaglio della colonna ‘Voltaire’.
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Nel ricordo del Fratello Mauro Francaviglia (1953-2013) Vincenzo Ciancio
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ono nella veranda di casa mia davanti alle azzurre acque dello Stretto di Messina – seduto sul divanetto in ferro battuto dove usualmente, nella pausa dopo cena, trascorrevamo le ultime ore della nostra giornata di lavoro prima di salutarci per il riposo notturno. Era quello il momento in cui, lasciati nei fogli i lunghi e laboriosi calcoli matematici delle nostre ricerche, cercavamo di liberare la nostra mente dal sintetico rigore delle formule, abbandonandoci, con la gioiosità di fanciulli, ad interpretazioni – anche fantasiose – dei risultati ottenuti nel nostro studio quotidiano. Era un gioco, amato da entrambi, tentare di violare gli inflessibili vincoli della razionalità matematica convinti, come siamo sempre stati, che quest’ultima è il servo fedele della mente intuitiva del ricercatore. Le nostre riflessioni sul profondo significato delle as66
sunzioni adottate nella costruzione di modelli fisico-matematici per la descrizione di processi termodinamicamente irreversibili si intrecciavano con il concetto di spazio-tempo di Minkowski e la dilatazione temporale di Einstein con il suo mirabile Principio di equivalenza di massa ed energia fino a spingerci a immaginare probabili travolgenti orizzonti che potevano delinearsi con eventuali applicazioni tecniche delle onde gravitazionali, come già avvenuto con la scoperta e l’impiego delle onde elettromagnetiche. L’ultima nostra discussione ha avuto come oggetto l’eterna dicotomia fra la struttura discreta e continua della geometria dello spazio-tempo, osservando che, nell’ottica della moderna chiave quantistica, il famoso Paradosso di Zenone potrebbe non essere più visto come tale e che l’Ordine ed il Caos finiscono di essere pensati come stati fisici contrappo-
sti ma possono assumere il ruolo di naturali e interagenti basi di sviluppo di nuovi processi evolutivi. Intuizioni, in embrione, che erano il nostro piccolo segreto su cui ci proponevamo ritornare nel prossimo incontro. Ma, ora, quell’incontro non potrà avere più luogo, almeno nello spazio-tempo in cui io sono rimasto e che Tu hai lasciato per raggiungere punti di osservazione che non mi è dato sapere. Il posto da Te occupato nel divanetto della mia veranda è vuoto ma, liberando la mia fantasia, immagino che Tu possa sentire i miei pensieri. Hai voluto essere cremato e, per Tua volontà, le Tue ceneri sono state sparse in una collina prospiciente la costiera amalfitana che tanto amavi. Vedo in lontananza, sull’orizzonte dello Stretto messinese, cirri di porpora nel tramonto giornaliero che volge alla fine. Mi piace convincermi che quella leggera striscia di nuvo-
le sia Tu, che sorridi vedendomi in affanno per le domande che mi pongo, da sempre, davanti alla maestosa complessità della Natura. Caro Fratellone Mauro, ancora una volta mi congedo da Te con il consueto appellativo che l’un l’altro abbiamo sempre usato per chiamarci in questi ultimi 30 anni di collaborazione scientifica, ricamata nel tessuto della nostra reciproca stima e di una amicizia profonda e mai interrotta, ma non riesco a decidermi se dirti Addio o Arrivederci in quanto i miei occhi si annebbiano se tento di guardare al di là della barriera della nostra morte corporale. Il cuore mi sussurra di salutarTi con un semplice, amorevole e fraterno Ciao. Il Tuo Fratellone Enzo. \
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auro Francaviglia nasce a Torino il 22 giugno 1953 e muore, improvvisamente, a Cosenza il 25 giugno 2013. Si laurea in Matematica, con lode e menzione onorevole, presso l’Università di Torino il 9 luglio 1975. A soli 27 anni, nel 1980, vince il concorso nazionale di Professore Universitario di 1° fascia e viene chiamato a coprire il posto di Professore Ordinario di Fisica Matematica presso l’Università di Torino. In 38 anni d’insegnamento universitario ha tenuto centinaia di corsi regolari e di seminari presso l’Università di Torino e corsi di Dottorato presso altre sedi universitarie italiane (Bari, Università della Calabria, Messina, Perugia, Salerno), oltre a corsi di aggiornamento per insegnanti presso la SIS dell’Università della Calabria. Alcuni tra i suoi allievi diretti hanno intrapreso e concluso una brillante carriera nell’insegnamento universitario, sia in Italia che all’Estero. Da sempre attivo nella Ricerca Scientifica a livello Nazionale e Internazionale, ha fatto più volte parte di Comitati di Valutazione della Ricerca in Italia e all’estero e di Commissioni Ministeriali di Concorso (per ciascuno dei tre livelli di insegnamento: Professore Ordinario, Professore Associato e Ricercatore Universitario). È stato Direttore dell’Istituto di Fisica Matematica “J. L. Lagrange” dell’Università di Torino e co-direttore dell’E.S.G. (Evolutionary Systems Group) dell’Università della Calabria. Responsabile scientifico di numerosi progetti di ricerca nazionali e internazionali, i suoi studi sono stati rivolti ai metodi geometrici
nella Fisica e, più in particolare, alla Relatività Generale, campi in cui ha raggiunto una grandissima notorietà internazionale partecipando a quasi duecento congressi in Italia e all’Estero, in cui ha tenuto – su invito – apprezzate conferenze. È autore di 380 pubblicazioni scientifiche a stampa, di 11 voci scientifiche per Enciclopedie edite a cura di Treccani, di 4 monografie scientifiche. Membro fondatore dal 1984 del Comitato di Redazione della rivista scientifica internazionale “Journal of Geometry and Physics”, pubblicata dalla casa editrice North-Holland di Amsterdam; Associate Editor della rivista scientifica internazionale “Journal of General Relativity and Gravitation” dal 1998 (Springer-Verlag. Heidelberg); membro del Comitato di Redazione della rivista scientifica internazionale “International Journal of Geometrical Methods in Modern Physics”, dal 2003 (pubblicata dalla casa editrice World Scientific di Singapore) di cui è Editore Principale dal 2013; Editor in Chief della rivista “The Open Journal of Mathematics” (Bentham Publ. Co.), dal 2011; membro del Comitato Editoriale della rivista “APLIMAT Journal of Applied Mathematics” (Università di Bratislava), dal 2008; membro del Comitato Editoriale della rivista “Advances in Mathematical Physics” (Hindawi), dal 2010; membro del Comitato Editoriale della rivista “APPS - Applied Sciences” (Balkan Society of Geometers, Bucuresti), dal 2013; membro del Comitato Editoriale della rivista “AHS - Advances in Historical Studies” (Scirp), dal 2013; collaboratore, inoltre, come esperto revisore (referee), di alcune tra le più importanti riviste internazionali del suo settore scientifico. Membro del Comitato Scientifico della Collana di Studi Filosofici “Metamorphoseon” edita da Aracne Editrice (Roma); Membro del Comitato Scientifico della Collana di Studi Filosofici “Filosofia e Scienza” edita da Aracne Editrice (Roma). Vincitore del “Premio Bonavera” dell’Accademia delle Scienze di Torino nel 1977. Socio Corrispondente dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti di Messina dal 1996. È stato molto attivo anche nel campo dell’associazionismo culturale e del volontariato. Filatelista di spicco in campo nazionale e internazionale è stato Vicepresidente della Federazione tra le Società Filateliche Italiane dal 1995 al 2003 e Direttore del-
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la rivista filatelica “Il Foglio dell’UFS”. Ha pubblicato numerosi studi di filatelia e storia dei servizi postali (varie decine di articoli e due vaste monografie). Per oltre sei anni è stato consigliere dell’USFI (Unione Stampa Filatelica Italiana). Collezionista di Storia Postale e di Filatelia, con le sue collezioni ha ricevuto riconoscimenti nazionali e internazionali (medaglie d’oro e di oro grande). E’stato chiamato a far parte quale membro della Consulta per la Filatelia e le Carte Valori Postali del Ministero delle Comunicazioni. Cultore e conoscitore di Storia dell’Arte dall’Antichità ai nostri giorni, si è interessato anche dei profondi rapporti tra Arte e Scienze Matematiche. Profondo cultore di Templarismo e di Esoterismo, in tutte le sue forme e accezioni, anche in questo campo ha tenuto svariate conferenze in Italia. Ha approfondito, in particolare, il Pitagorismo, l’Apocalisse di San Giovanni, l’Esoterismo di Dante e l’opera di Gioacchino da Fiore. Ha portato a termine la stesura di una monografia di circa 800 pagine sugli aspetti esoterici e scientifici del Numero. In lui si individua la figura di un profondo conoscitore della storia e della filosofia di pensiero della Massoneria di Rito Scozzese Antico e Accettato e di valente studioso di religioni e filosofie medio ed estremo-orientali (Islam, Taoismo, Buddhismo, Induismo). Il fratello Mauro Francaviglia (1953-2013)
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I libri sono pericolosi perciò li bruciano Pierluigi Battista, Rizzoli, Milano 2014, pp. 154, € 11,00
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critto da un noto editorialista del Corriere della Sera, il libro, almeno a quanto consta, è l’ultimo, in ordine di tempo, a riconsiderare il tema del rogo dei libri. Per la sua delicatezza e complessità, argomento sempre vivo ed attuale. Anche in ambito massonico. Come sta a comprovare l’articolo di Giuseppe Ivan Lantos, dal titolo evocativo I roghi del Talmud, comparso in questa stessa rivista al numero 2 del giugno 2014. In precedenza, ci permettiamo di richiamare il nostro saggio Sui roghi dei libri, ivi, nn.2 e 3 del giugno e settembre 2011 da pag. 46 a pag. 51 compresa. Saggio che, di buon grado, segnaliamo, anche perché l’Autore presenta la materia da una prospettiva di indubbio interesse. Per molti versi, anche originale, non solo dal profilo degli interrogativi posti, ma anche dall’angolo prospettico delle risposte date. Che, fra l’altro, recano con sé anche la demolizione di luoghi comuni che, abitualmente, accompagnano i libri. La prima domanda che si pone l’A. attiene alla identificazione degli autori di roghi, vecchi e nuovi. Chi sono costoro?
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Contrariamente a quanto, in una prima approssimazione, si sarebbe tentati di credere, non siamo affatto in presenza di barbari, né di ignoranti. All’opposto, i cultori dei roghi, secondo l’A., sono sempre e soltanto gli schiavi della superbia intellettuale, costretti da un dottrinarismo astratto a comportarsi con la spietatezza più disumana. Fanatici che vogliono esercitare la tirannia di una dottrina in contrapposizione ad altre idee apprese proprio dai libri, che conoscono perfettamente per averli costantemente praticati. Come Mussolini, che “si vantava”, con il suo intervistatore, “di avere divorato un sacco di libri” (pag. 101). Come il Führer, che “aveva un culto feticistico dei libri” (pag. 19), posseduti in numero rilevante. Conservati con maniacale cura. Tanto da portare con sé “una parte” – si noti – della sua originaria biblioteca persino nel bunker della disfatta composta “di oltre sedicimila volumi !” Come Pol Pot, che, “in gioventù”, a Parigi, aveva frequentato con profitto la Sorbona (pag. 17), “terrorizzato dal potere dei libri, che avevano nutrito il suo famelico fervore rivoluzionario” (pag. 17 cit.). Come Khomeini, uomo colto, che, nel suo esilio parigino, aveva divorato quantità immense di libri. Come Mao, che conosceva bene i libri, per essere stato, da giovane, “un diligente bibliotecario di Pechino” (pag. 22), dove, fra i tanti volumi che gremivano gli scaffali, “fece la scoperta di quelli di Marx, che gli avrebbero cambiato per sempre la mente e la vita” (ivi). A conferma, come osserva il Nostro, che “bibliomania e biblioclastia sono andate troppe volte a braccetto nella storia” (pag. 17). Come a dire che l’odio verso i libri nasce in chi li ha “troppo amati” (pag. 39), che, perciò, appunto, ben li conosce nel loro valore esplosivo quando divergono dalle architetture, audaci e palingenetiche, teorizzate, prima, con formule solenni, concretizzate, poi, in termini imperativi e, quasi sempre, disumani. Il rogo assume allora il significato di una bruciatura di una idea da parte di chi “è dominato da un’Idea. Dalla Idea assoluta e sacra, che fa della propria esclusività e superiorità un culto esigente, da portare fino alle estreme conse-
guenze” (pag. 25). Il che spiega – anche se ovviamente non giustifica – perché i roghi dei libri avvengono ormai perfino nelle piazze virtuali dei social network dove i libri vengono bruciati in effigie per mezzo di uno smartphone. Anche oggi, “dove si predica o si predice la fine del libro” (pag. 26), resta il falò disinfettante a comprovare l’odio verso il libro e la gioia dell’intollerante che accende il fuoco purificatore del morbo che, di mano in mano, passa con il trasferimento del volume. Il che risponde tanto al vero che i libri vengono bruciati perfino nelle pagine dei romanzi. Come accade nel Don Chisciotte dove, per guarire il protagonista, malato a tal segno da non riuscire più a distinguere la realtà dalla finzione, con il pieno accordo tra il curato, il barbiere e la governante, si ricorre al rimedio – sicuro - di realizzare un falò con tutti i libri di cavalleria che hanno traviato il protagonista del primo capolavoro del romanzo moderno (pagg. 88 e 89). La constatazione – variamente documentata – che, dietro i falò, antichi e moderni, troviamo, di regola, grandi figure di intellettuali, bibliofili appassionati, consente all’Autore di concludere affermando che non risponde affatto al vero il convincimento, pur largamente diffuso, che “leggendo” i libri, “ci si elevi e si attinga una dimensione più nobile dell’esistenza” (pag.96). La lettura di un libro non rende ex se “gioiosamente una persona migliore” (ivi). I libri, come, scrive l’Autore, rendono soltanto “diversi” ma “diversi non significa necessariamente migliori, più buoni, più civili, più gentili, più garbati” (ivi). Infatti, come ci permettiamo di scrivere, quello che è decisivo è lo spirito con il quale si legge. Sicché, chi è educato alla tolleranza sarà sempre in grado di rispettare convintamente le altrui opinioni, pur, eventualmente, dissentendo. A differenza dell’intollerante che, proprio perché tale, non potrà mai astenersi dal ricorrere alla ferma riprovazione e, ove detenga il potere, al metodo infallibile del rogo. Quanto dire, altrimenti, che decisiva è – e rimane – sempre la capacità critica del lettore. Anche perché è una “favola che la letteratura sia un arsenale di sane virtù morali” (pag. 99). Dante, come impietosamente sottolinea Blo-
om, “gioisce degli eterni tormenti che infligge ai suoi nemici personali, Dostoevskij predica l’antisemitismo, l’oscurantismo e la necessità della schiavitù umana. Spenser si rallegra addirittura del massacro dei ribelli irlandesi” (pag. 99 cit.). Citando Bloom, l’Autore conclude definitivamente ribadendo che la lettura, anche degli scrittori più bravi, “non farà di noi cittadini migliori” (pag. 99). Lo stesso Goethe, con il suo Dolori del giovane Werther, ha causato una epidemia di suicidi (pagg. 90-91). Tanto da avere ricevuto perfino una lettera accorata dalla madre di un ragazzo, che si era tolto la vita, che lo turbò profondamente per il rimprovero, nella stessa contenuto, di essere stato imprudente per avere messo nelle mani di giovani inesperti un ordigno pericolosissimo (pagg. 92-93). La letteratura osserva – e documenta – il Nostro, in genere, è una “antologia di tutti i peccati” (pag. 100). Causa, inoltre, l’effetto di destabilizzare le persone, dal momento che “crea insoddisfazione per la vita che si fa” (pag.95) perché “ci costringe a essere gli stessi mentre vorremmo essere molti” (pag.99). Secondo il Nostro è generalizzato il convincimento che la pratica dei roghi sia circoscritto al passato, ai tempi bui dell’ignoranza, all’epoca delle eresie, insomma, ad uno “stadio ormai concluso della nostra civiltà” (pag. 59). Pur sempre, tuttavia, dominato da uomini, dei quali tutto si può dire tranne che fossero “rozzi ed incolti” (pag. 44). Se è vero, e lo è, che, al vertice della fase iniziale, e più dura, della reazione romana all’offensiva della Riforma, si trovano “grandi figure di intellettuali, bibliofili appassionati” (pag. 45), uno per tutti, quel Bellarmino, che, sicuramente, fu uno dei più importanti studiosi della sua età. Così come del pari erano amanti dei libri gli inquisitori gesuiti dotati di ricche e “magnifiche biblioteche” (pag. 107). Ugualmente uomini di libri erano i voraci lettori perennemente alla caccia di opere destinate a incrementare l’Indice dei libri proibiti, la cui abolizione risalente al 1966, singolarmente non ricordata dal Nostro, dovrebbe, comunque, già essere un avviso della insostenibilità di quel luogo comune ! Vero è – scrive l’Autore - che si sono bruciati più libri nell’evo moderno che in tutte le epoche del passato oscurantista. Il che può anche non fare piacere ai figli dei Lumi “campioni di tolleranza e di rispetto per le idee altrui” (pag. 59). Che “i roghi dei libri” costituiscano, però, “parte integrante di una modernità che si voleva laica, civilizzata, addomesticata, tollerante” (pag. 63), secondo l’Autore, è, invece, verità storica inoppugnabile, nei termini, purtroppo, anche più crudi, proprio perché la violenza, perfino
brutale, dei roghi moderni si è manifestata, così come avvenne in passato, nei confronti di eresie. Il Nostro argomenta l’assunto sostenuto, documentandolo puntualmente, con richiami impressionanti ad imponenti dati oggettivi che confermano la tesi propugnata, secondo la quale la persecuzione dei libri, lungi dal costituire una “archeologia, lontana da ciò che siamo noi oggi” (pag. 63 cit.), è, invece, una malattia ampiamente diffusa nel presente. Nel XX secolo, la pratica incendiaria è stata, infatti, “una specialità di tutti i totalitarismi, nessuno escluso” (pag. 111). I fascisti, con le loro squadracce, hanno bruciato i libri nelle sedi dei partiti e delle Camere del Lavoro (pag. 112), ma pure nelle sedi delle Logge, evento non ricordato, invece, nel testo segnalato! Oltre al gigantesco falò acceso sulla Opernplatz di Berlino il 10 maggio 1933, si sono, infatti, macchiati di questa pratica anche i falangisti (pag. 116), i gorilla di Videla (pag. 117), nonché l’Unione Sovietica sotto il giogo di Stalin (pag. 118 ivi), dove il regime assassinava i suoi poeti, nonostante adorasse “moltissimo la poesia” (pag. 123), facendo dire alla moglie del poeta Osip, assassinato nel 1938: “Solo da noi hanno rispetto per la poesia, visto che uccidono in suo nome” (pag. 123 cit.). Con la differenza acutamente messa in luce dal Nostro che, mentre i roghi nella Germania nazista venivano accesi con “arroganza spettacolare” (pag. 127), nell’Urss, invece, “sbrigavano quella pratica con sobria diligenza burocratica” (ivi). L’elenco dei roghi prosegue con quanto avvenuto nella Polonia dominata dal regime comunista (pag. 128 e 11). Sotto il regime di Mao, la c.d. Rivoluzione culturale è stata fonte di un autentico “sabba di fanatismo sanguinario e iconoclasta” (pag. 137) che ha divorato milioni di libri (pag. 136). In Cambogia, il delirio fu reso da Pol Pot ancora più furioso. Ricorda, infatti, il Nostro che si è arrivati al punto di frantumare gli occhiali sfilati ai condannati a morte perché, “in possesso di quegli strumenti costruiti apposta per vedere e leggere, non potevano che essere colpevoli in quanto potenziali lettori” (pag. 139). Sempre in Cambogia si assiste al tristissimo fenomeno di figli che denunziano i genitori per avere commesso il “crimine borghese” di possedere una biblioteca. Quella biblioteca che dovrebbe, invece, esistere in ogni casa, secondo il motto benedettino – ricordato dall’Autore a pag. 48 -: “Claustrum sine armario est quasi castrum sine armamentario” (Un monastero senza biblioteca è come una fortezza senza arsenale). L’ombra dell’utopia funesta e del fanatismo alimenta i roghi dei libri nell’Islam (pag. 141) che, oltre ai libri, conside-
ra pericoloso pure il sesso. Con la conseguenza che là si vogliono “bruciare insieme (o lapidare) i libri e le donne insubordinate) (ivi). Né si tace su quanto accadde nel 1989 quando l’ayatollah Khomeini emise la fatwa su Salman Rushdie, colpevole di avere scritto il romanzo I versi satanici. In quel paese, infatti, oltre a bruciare il libro (ritenuto) blasfemo nelle pubbliche piazze, furono, altresì, mobilitati milioni di musulmani per colpire a morte lo scrittore e i traduttori di quell’opera. Operazione riuscita nei confronti del traduttore giapponese sgozzato. Fortunatamente, invece, attuata solo in parte nei confronti dei traduttori norvegese e italiano, si fa per dire, rimasti solo feriti! Sull’intera vicenda, ricca di altri risvolti, si può leggere a pag. 145. La storia dei roghi dei libri sembra, dunque, che non debba, davvero, mai avere fine perché il fuoco, intenzionalmente purificatore di un presunto contagio, è destinato ad ardere ogniqualvolta si affacciano sulla storia nuovi fanatici, che in intellettuali, conformisti e servili, hanno poi rinvenuto i loro più validi ed efficienti alleati ! Tanto che, smentendo quello che può apparire come un ulteriore motivo di incredulità, l’Autore, ancora una volta sulla scorta di una documentazione inoppugnabile, si sente, invece, autorizzato ad affermare “che la storia dei roghi dei libri” è sempre – e soltanto – “una guerra fra intellettuali” (pag. 124). Fra le forme abiette di servilismo al potere – e duole doverlo ricordare – va annoverato poi anche quella della quale si è macchiato il pure amato Pablo Neruda, che “tesseva panegirici di Andrej Vysinskij, il grande inquisitore dei processi – farsa degli anni trenta” (pag. 124). Chi ama i libri, come pure l’odierno recensore, non può poi deplorare la distruzione delle rinomate biblioteche di Londra dove andarono distrutti, sotto i bombardamenti della Luftwaffe, ben venti milioni di volumi (pag. 32) e, a parti rovesciate, quelle di Dresda, Amburgo, Monaco, Stoccarda, Berlino, Francoforte, dove i bombardamenti della Raf hanno causato l’incenerimento di almeno dieci milioni di libri (pag. 33). Ma questa, come correttamente osserva l’Autore, è un’altra storia, visto che la distruzione di questo patrimonio della umanità “era solo una parte dell’apocalisse che si era scatenata sulle persone e sulla città” (pag. 33 cit.). Più precisamente, un inevitabile risvolto di quelle “idee assassine” che ha caratterizzato il Novecento dei totalitarismi e degli stermini di massa (pag. 31). “Nessun aereo si era”, infatti “alzato in volo con il compito di bombardare e distruggere specificatamente una biblioteca, di devastarne gli scaffali, di ridurne in cenere i libri pericolosi” (pag.33).
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Fenomeno quello sopra accennato ben diverso, dunque, dalle distruzioni delle biblioteche attuate proprio con il proposito di distruggere i libri ivi contenuti ! Come, nei tempi passati, è avvenuto per la celebre biblioteca di Alessandria, che, al culmine della sua espansione, arrivò a contenere settecentomila rotoli di papiro. Ma questo l’Autore non lo dice, mentre, invece, dedica a Ipazia la bella pagina 60 e alla distruzione della biblioteca del Serapeo, la “figlia” della grande biblioteca alessandrina, così chiamata, perché, di quella gigantesca raccolta, altro non era che una semplice dipendenza, un altrettanto felice ritratto, definendo “quasi uno scherzo della storia” (ivi) la circostanza che il capo dei fanatici Parabalani si chiamasse “Pietro il lettore” ! Così, come nei tempi più recenti, è accaduto per l’avvenuta distruzione delle 251 biblioteche ebraiche di Varsavia, Poznari e di Lublino ad opera dei nazisti o, in epoca ancora a noi più vicina (1992), della biblioteca di Sarajevo. Santuari del libro – spesso imponenti, sempre silenziosi – profanati dall’intolleranza e dalla intimidazione di chi si sente investito della missione di creare un “un uomo nuovo”, dando alle cose, prima, un ordine diverso e, poi, esercitando sulle stesse, un ferreo controllo. La Storia insegna che il potere tende a prevaricare. Nessun dominio si può, tuttavia, esercitare sulla memoria individuale perché la mente è luogo, per definizione, inaccessibile. Anche al potere più occhiuto e feroce. Se è, infatti, possibile ordinare di tacere, non è invece possibile imporre di dimenticare. Se vuole conseguire un qualche risultato apprezzabile, il potere può, dunque, esercitarsi solo sulla memoria collettiva, quanto dire, sul libro. La memoria individuale, per farsi bene sociale, mezzo di consapevolezza e di liberazione, non ha, infatti, altra via che trasformarsi in libro. Che, per definizione, al contrario, è, invece, strumento drammaticamente esposto ai tentativi di cancellarlo, distruggerlo, o magari, più semplicemente espellerlo dai percorsi della circolazione, o con la censura (tema appena sfiorato dall’A.), o, appunto, con la distruzione. Il rogo dei libri si annida, dunque, in questo “contrasto irriducibile” (pag. 154) fra quanti vedono, nel libro, un’idea non conforme ai canoni fissati d’imperio e quanti, invece, si rifugiano, “nella libertà interiore difesa da un libro”, attuando, a questa stregua, una resistenza silenziosa (ivi). Come, con ancora maggiore lucidità, ha messo in luce L. Canfora nel suo prezioso libricino Libro e libertà, (Laterza, Roma-Bari, 1994) dalla lettura proficua e suggestiva. L’Autore si interroga allora se possa mai sussistere almeno la speranza che si possa sfidare, con successo, la minaccia di migliaia di
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roghi. Per quanto possa apparire ingenuo, al quesito posto viene data una risposta positiva. In chiave ottimistica, conforme soprattutto, all’assunto di fondo, secondo il quale i libri “non vanno distrutti, anzi vanno salvati” (pag. 13). Non solo perché il Nostro riconosce pur sempre valido il rifugio della memoria, ma anche, e soprattutto, perché contro la barbarie dei roghi ravvisa una strategia di difesa nella “rete” che, per quanto divenuta “luogo di intolleranze e fanatismi sconfinati” (pag.
invece, intenti ad appiccare il fuoco per bruciare i libri altrui, con conseguente perdita di credibilità, perché non si può minimamente prestare fede “a chi proclama principi universali di tolleranza, facendosi porta bandiera di un’altra intolleranza” (pag. 108). Il libro segnalato va letto e, soprattutto, meditato. Anche perché, con acume, demolisce molti luoghi comuni, pericolosamente assunti quasi ad altrettanti miti. A. Binni
La memoria e il potere. Censura intellettuale e roghi di libri nella Roma antica Mario Lentano, LiberiLibri – Macerata - prima edizione 2012, ristampa 2013. pp. 171, € 16,00
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150), si pone, tuttavia, come un serio “ostacolo” all’opera intenzionalmente distruttiva degli “aguzzini e devastatori di libri” (pag. 27), posto che, oggi, tutte le biblioteche più importanti del mondo hanno portato in rete il loro prezioso materiale. Per questo, secondo l’A., il web è “comunque qualcosa di benemerito. Di cui essere umilmente grati” (pag. 27). Anche se l’arma decisiva – secondo chi scrive – rimane la lotta al fanatismo attuata con l’intelligenza perché la fonte di ogni Male – intolleranza compresa – è socraticamente solo l’ignoranza. Al termine della lettura del libro segnalato ci sembra di potere affermare che non sono pericolosi i libri, quanto, invece, coloro che li leggono. Per questo, i libri vanno, comunque, salvati, anche perché, spesso, educano il lettore. Specie, se chi legge, è dotato, occorrendo, di capacità critica. Per questo non può che considerarsi con favore e anzi pienamente condividersi l’appassionata difesa che l’Autore ha fatto dei libri. Così come parimenti non può non associarsi alla severa condanna riserbata dal Nostro ai c.d. intellettuali, tanto di destra, quanto di sinistra, trovati a difendere i propri roghi, spesso,
otere e cultura sono termini fra loro naturalmente inconciliabili perché, notoriamente, il primo tende di norma, quanto meno, a contenere e, più spesso ancora, a rendere sterile la capacità creativa – eversiva della seconda. Come recita il suo sottotitolo, il saggio proposto ripercorre e narra la storia di questa incompatibilità nella Roma antica. In tutte le sue varie forme e sfaccettature. Modalità, fra le quali – come è il caso di dirlo! – brilla particolarmente quella censoria più radicale costituita dalla pratica del rogo dei libri, come annessa intenzionale damnatio memoriae. All’opera vanno riconosciute molte benemerenze. Compresa quella di avere riproposto all’attenzione degli studiosi un argomento, invero, troppo a lungo, trascurato. Come è dato desumere, con certezza, dalla documentazione richiamata (a pag. 149). Tuttavia, non solo per questo, è parso doveroso ripercorrere del saggio gli aspetti salienti. Indugiando pure su quelli che, al recensore, sono apparsi come i più interessanti, quanto meno, a fini divulgativi. Senza, ovviamente, l’intenzione di svilire l’opera, sunteggiandone il contenuto. Si è voluto, semmai, suscitare curiosità, per indurne poi alla lettura. Come va da subito anticipato, oltremodo proficua e vantaggiosa. Il lettore, attento, rinvenirà, infatti, abbondanti stimoli per nutrire la propria riflessione. La prima manifestazione culturale di Roma antica è costituita dal teatro che, fino alla metà del II secolo a.C., continua a essere considerato come una tribuna previlegiata e, insieme, una trincea avanzata per combattere una battaglia culturale aperta perché il commediografo si rivolge al proprio pubblico senza censure. Si ricorda, così, dapprima, Nevio, la cui absi-
dua maledicentia verso le famiglie più in vista lo farà, però, cadere in disgrazia. Per il suo atteggiamento spregiudicato, fu, infatti, gettato in carcere, per finire poi, una volta liberato, tutti i suoi due ultimi anni di vita in esilio in Africa. Il che la dice lunga sulla libertà di parola! Più prudente rispetto al suo prestigioso predecessore (“Alla larga ! Quella posizione non mi piace affatto”, commenta un personaggio di una sua commedia), si rivela, invece, Plauto (“Quello dai piedi piatti”). Terenzio si mostra, invece, libero nel suo manifestarsi, avendo osato, in una società quant’altri mai patriarcale, come quella romana, ripensare, in termini sia pure soltanto velatamente critici, la relazione fra padri e figli e, dunque, la miglior forma di educazione nella commedia Adelphoe (I fratelli), andata in scena nel 160. Non senza sconcerto del pubblico, imbarazzato per la relatività dei valori ivi sostenuta, e pure dei suoi potenti padroni, dei quali veniva accusato essere un semplice prestanome. Sicché la sua stessa decisione di imbarcarsi per la Grecia, “a quanto pare alla ricerca di nuovi copioni teatrali”, va pure letta come la conseguenza di una “incrinatura dei rapporti con il suo ambiente” (pag. 38). A conferma di una difficoltà esistente fra la libertà creativa e il conformismo in atto tutelato dalla tradizionale cultura latina, con i suoi schemi rigidi, ancora dominante, perché salvaguardata dalla componente più conservatrice del Senato. Quando Roma, da piccola potenza regionale, sotto una prepotente spinta espansionistica, ha ampliato i propri orizzonti, la censura di tipo politico diviene più frequente ed incisiva, sempre ad opera del Senato, che, per tutta la età repubblicana, è rimasto il cuore della vita politica. Significativa manifestazione di questo nuovo corso, si registra, nel 181 a.C., con la rigida disciplina dettata per i riti dionisiaci, ispirata dalla necessità di porre fine allo scandalo dei Baccanali: fenomeno che aveva destato una notevole preoccupazione, avendo investito l’intera penisola (pag. 30), e nel 161 a.C., quando, con decreto, vengono espulsi da Roma filosofi e retori greci, malvisti per il relativismo dei valori dagli stessi predicato. Il richiamo ai “costumi degli antenati” costituisce poi la ratio sottesa a quel provvedimento verosimilmente ispirato da Marco Porcio Catone, passato alla storia con l’appellativo di censore, al quale, come noto, va ascritta la definizione di oratore, quale vir bonus dicendi peritus destinata a far scuola e ad essere ripetuta nei secoli: formula sulla quale il Nostro avanza osservazioni (che si leggono a pag.46), per certo, non inutili. Al 92 a.C. risale, invece, la chiusura d’autorità della scuola dei Retori latini così autodefinitisi.
Sembra poi quasi uno scherzo della storia il fatto che, proprio in questo periodo, dalla provincia laziale, sia poi giunto a Roma Cicerone “destinato a diventare il più grande oratore latino di tutti i tempi, nonché autore a sua volta di manuali di retorica che faranno scuola almeno fino al Rinascimento” (pag. 44). Il capitolo 5 è dedicato alla magnanimità di Cesare che, pur fortemente contrariato per i versi di Catullo – come lo stesso Catullo attesta e riferisce – si mostrò, invece, nei confronti del poeta del tutto tollerante, dando, col che, dimostrazione e prova di una grandezza d’animo “che non fu ereditata, se non in minima parte, dal figlio adottivo del dittatore assassinato, colui che avrebbe davvero e durevolmente trasformato Roma in un impero” (pag. 51). Emblematica, in questo senso, è la vicenda – narrata dall’A. nel capitolo 6 – che, il 7 dicembre del 43, ha visto l’uccisione di Cicerone sulla spiaggia di Gaeta battuta dal vento. Abbandonato al suo destino, nonostante fosse stato il suo Maestro, Cicerone - come emerge dall’aneddoto raccontato da Plutarco, riferito dal Nostro (alla pag. 36) - diventa, invece, per l’ancora timido e prudente Ottaviano, un difensore della patria, anche se “la patria per la quale Cicerone si era battuto ed era morto fosse tutt’altra rispetto a quella reinventata e costruita da Augusto” (pag. 57). Giulio Cesare non ebbe il tempo di organizzare una propria politica culturale, della quale, però, anche a fini eventualmente censori, intravide l’importanza, tanto da avere elaborato il progetto di istituire a Roma la prima biblioteca pubblica. Progetto, cinque anni dopo la morte del dittatore, realizzato dal cesariano Asinio Pollone (sul che, vds la pag. 50). L’atteggiamento di Ottaviano nei confronti dell’argomento censura muta a seconda della evoluzione della importanza dallo stesso assunta nella città di Roma. Com’è noto, Augusto iniziò la sua supremazia politica facendo riferimento alle virtù repubblicane, che si impegnò a ristabilire. In questo periodo si limitò ad imporre verità “di regime”. Quando, invece, nel 12 a.C., riesce, finalmente, a ricoprire la carica di pontefice massimo – nel suo ostentato rispetto della legalità repubblicana, il principe aveva, infatti, dovuto pazientemente attendere la morte del sommo pontefice precedente, la cui carica era a vita – Augusto inaugurò una nuova e ben più drastica forma di censura politica. Da Svetonio, che ne dà notizia, apprendiamo, infatti, che Augusto provvide a fare pubblicamente bruciare ben duemila libri fatidici, contenenti, cioè, profezie, raccolti da ogni dove. Scelta, però, che ancora “non rompeva con la tradizione repubblicana” (pag. 65), a motivo del precedente falò di libri contenenti vaticini
avvenuto durante la repressione dei Baccanali, come ricordato da Tito Livio (pag. 65). E’ poi sempre Svetonio a darci notizia che, dal provvedimento di distruzione, furono, invece, preservati i soli Libri sibillini. Sia pure espunti delle profezie che avrebbero potuto essere utilizzate per destabilizzare l’ambiente (pag. 68). Libri sibillini dati poi definitivamente alle fiamme dal generale vandalo Stilicone, nel 408 d.C., ossia quasi mille anni dopo il loro acquisto da parte di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma. La vicenda, che ha coinvolto questi testi profetici, con ricchezza di particolari è narrata dall’A. dalla pagina 66 alla pagina 70 compresa. Il capolavoro di Augusto fu, tuttavia, altro, in quanto indirizzato a dirigere la cultura in ogni sua manifestazione. Non ci fu, infatti, virtualmente ambito che venisse tralasciato da un disegno che, mentre da un lato mirava a rendere familiare la figura del principe, dall’altro garantiva il controllo di qualsiasi produzione intellettuale ed artistica, assicurandone, nel contempo, la diffusione della sua parola d’ordine (così, in particolare, pag. 59). L’ambizioso progetto di Augusto si attua, ancora una volta, in due tempi. In un primo momento, Augusto opera attraverso il “circolo di Mecenate”, un notabile di origine etrusca che seppe tenere uniti giovani poeti focosi e inquieti intellettuali della caratura di Orazio, Properzio, Tito Livio e, soprattutto Virgilio, dosando talento e fermezza. Come riconobbe lo stesso Virgilio che ricordava di avere posto mano alle “Georgiche” sulla scorta di “ordini tutt’altro che teneri” di Mecenate (pag. 61). E’, dunque, a quelle che sono le migliori energie intellettuali disponibili che Augusto, tramite Mecenate, attua la propria propaganda, capace, però, di intervenire, “con durezza”, quando “riteneva che la posta in gioco lo imponesse” (pag. 61). Come avvenne nei confronti di Virgilio, costretto a modificare la chiusa delle Georgiche con il bellissimo mito di Aristeo e, al suo interno, quello, ancora più celebre, del suo cantore Orfeo, in luogo e invece dell’originario lungo elogio di Cornelio Gallo, poeta d’amore, amicissimo di Virgilio, che, nominato da Augusto Prefetto d’Egitto, nel 26 (o forse già nel 27) si dette la morte per ordine dello stesso principe, che non aveva gradito il tentativo del proprio prefetto di “sviluppare una politica indipendente” di “costruirsi un proprio potere temporale” (pag. 62). Una censura “chirurgica” che, come osserva il Nostro, sarà “applicata anche in altre circostanze dal potere politico romano a testi per altri versi ritenuti meritevoli di circolazione” (pag. 63). La forma più dura di controllo e di repressione è avvenuta comunque nei confronti di Ovidio, colpito, nell’8 d.C., quando aveva da poco compiuto i cinquant’anni, da un provvedimento di Augusto che lo re-
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legava a Tomi, minuscolo villaggio sulle coste del Mar Nero, agli estremi confini nord-occidentali dell’impero. Un esilio, come noto, che non ebbe fine. Colpire un intellettuale così famoso come Ovidio, autore, fra l’altro, delle Metamorfosi - “un’opera che come pochissime altre ha dominato potentemente l’immaginario e la letteratura dei millenni successivi” (pag. 72) – costituiva, infatti, non solo una dura punizione nei confronti di chi, con i propri versi, aveva con insolenza osato porsi in antitesi frontale con la politica moralizzatrice del Principe, ma anche, e soprattutto, “un monito inequivocabile contro le eventuali tentazioni frondiste di altri letterati” (pag. 75). In estrema sintesi: una punizione esemplare perché, oltre all’esilio, un provvedimento collaterale imponeva altresì la rimozione dell’opera ovidiana da tutte le biblioteche pubbliche di Roma. Comprese, ovviamente, le due fondate direttamente da Augusto, per accreditare la sua immagine di illuminato protettore della cultura, sulla quale il Principe esercitava “un controllo ferreo” (pag. 75 cit.). Non solo nella scelta di ciò che doveva essere accolto o escluso negli scaffali delle stesse. Ma pure ciò che doveva esserne espulso nel caso di autori caduti in disgrazia. Come, appunto, avvenne per Ovidio. Donde la preghiera – amara e sconsolata – del poeta, fattosi libro, da leggersi in extenso alle pagg. 76 e 77, con il relativo commento del Nostro nelle due pagine successive. L’episodio più grave di repressione del dissenso intellettuale dell’intera età augustea – che ne segna il secondo tempo – è, comunque, costituito dal provvedimento che ha colpito lo storico Tito Labieno. Del quale ha lasciato notizia Seneca il Vecchio, il quale riferisce che “tutti i suoi libri” vennero “dati alle fiamme. Una cosa nuova, mai vista prima: la condanna a morte della cultura” (Il racconto può leggersi integralmente alle pag. 82 [dove è tratta la citazione] e 83). Provvedimento che l’A. ascrive ad Augusto, insofferente del fatto che lo storico “non aveva ancora deposto gli spiriti pompeiani”, ossia una vis polemica avente ad oggetto la storia contemporanea relativa al cruciale passaggio dalla repubblica all’impero, con forte critica a quest’ultima forma di governo, con contestuale aperta predilezione per il deposto regime repubblicano. Identica sorte, di lì a poco, subirono poi i libelli di Cassio Severo, velenosi pamplet nei quali l’oratore metteva alla berlina, con rivelazioni infamanti, uomini e donne d’alto affare e, verosimilmente, pure esponenti della corte imperiale, anch’essi dati alla fiamme per ordine di Augusto in odio pure al loro autore. Personaggio, per certo, di carattere, per avere dichiarato, mentre venivano dati alle fiamme i libri di La-
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bieno: “Ora dovete bruciare anche me, perché li so a memoria” (così Seneca il Vecchio, pag. 83 cit.). Il che andava ricordato perché Cassio Severo è il primo esempio di “Uomo Libro”, ossia, di una esistenza che vanifica “lo sforzo censorio profuso dal potere per cancellare il ricordo dello storico proscritto” (pag. 87). Quando ora si consideri, da un lato, il cumulo – impressionante – dei provvedimenti che hanno colpito Ovidio, Cassio e Labieno, e, dall’altro, la circostanza che codesti provvedimenti sono stati tutti adottati “in un ristretto torno di anni, forse perfino di mesi” (pag. 89), si ha allora il quadro esatto della “cappa di piombo imposta dall’interventismo censorio dell’ultimo Augusto” (pag. 90). Intollerante – come non ricordarlo particolarmente oggi, che viene celebrato il bimillenario della morte del Divus avvenuto a Nola il 14 d.C. (?) – di tutto quanto non si conformasse alle verità di “regime”. Il che ha determinato la chiusura definitiva alla libertà della cultura. Come ben comprese lo stesso Tito Livio, che pubblicò una parte significativa della sua opera monumentale dedicata alla storia di Roma – ben ventidue libri – soltanto dopo la morte di Augusto. Ovvia misura di prudenza in un regime culturale rigido perché Augusto, al pari di tutti i suoi successori, sempre col fuoco, esercitò pure un implacabile controllo sulla letteratura scandalistica nata in parallelo alla nascita della corte. Il cui successo – allora come oggi ! – era legato alla curiosità del pubblico morbosamente attratto da notizie licenziose, tanto sul principe, quanto sulle figure di spicco del suo “entourage” (pag. 88). Il clima persecutorio peggiora ulteriormente con Tiberio, l’ombroso successore di Augusto, sotto il cui regno si celebra il processo a Cremuzio Cordo, chiamato a giudizio da clientes di Seiano, il potente prefetto del pretorio di Tiberio, così non coinvolto nell’accusa, ma, significativamente, silente nel dibattito tenutosi al Senato, in quanto, a sua volta, senatore. Anche se la sua espressione corrucciata era poi più che sufficiente “a far intendere ai membri del consesso giudicante quale decisione l’imperatore si attenda da loro” (pag. 96). La sentenza fu così pronunziata com’era già stata scritta. I libri di Cordo vengono dati alle fiamme dagli edili per ordine del Senato. L’accusato si lascia morire di fame. Sulla tristissima vicenda ha scritto famosissime pagine Tacito (Annali 4, 34-35), che, in tutta la loro bellezza, possono – anzi debbono ! – leggersi alle pagg. 93-94 e 95 del saggio proposto. Pagine, sulle quali, per la loro importanza, ritorneremo nella parte conclusiva di queste note. Qui, per esaurire il racconto, va, invece, ricordato che i libri di Cordo, come ci riferisce sempre Tacito “sopravvissero clandestinamente, passando di mano in mano”, facendosi “beffe della stolidità
di quanti credono, grazie al potere di cui godono al presente, di cancellare anche la memoria delle età future”. (Annali 4, 35.5). Dove il dileggio e la derisione al potere costituito si fanno, invero, ancora più incisivi quando si consideri che i libri di Cordo continuarono a passare, di mano in mano, ancora sotto Caligola (3741 d.C.). Come attesta Seneca in una sua lettera indirizzata a Marcia, la figlia di Cremuzio, elogiata perché, proprio grazie al suo amore filiale, lo scritto paterno “è letto, è in auge, va per le mani e per i cuori degli uomini senza timore del tempo”, mentre “presto dei suoi carnefici si taceranno anche i delitti, i soli titoli che abbiamo per essere ricordati”. Come conferma inoltre Quintiliano, che dà atto dell’opera salvata, sia pure emendata dell’elogio di Bruto e Cassio, i grandi repubblicani dei I sec. a.C. (pag. 101). Smascherata, nel 65 d.C., la congiura dei Pisoni, saranno giustiziati Marco Anneo Lucano – autore del poema epico, cupo e sanguinolento, dal titolo Pharsalia, nel quale veniva dipinto Cesare come un tiranno assetato di potere e di sangue e Pompeo come, invece, un generoso, anconchè sfortunato difensore della causa repubblicana, nonché suo zio, il filosofo Seneca, e Petronio “quasi certamente da identificare con l’autore di Satyricon” (pag. 99). Sempre in questo periodo viene mossa una accusa di sovversione contro il prestigioso giurista Gaio Cassio Longino, sulla scorta di un fatto risibile, quanto strumentale (ricordato dall’A. a pag. 99). Sotto Traiano sembra aprirsi una stagione nuova. Il culto dei grandi repubblicani del I secolo a.C. non oltrepassa però la soglia domestica (pag. 100). La memoria delle Idi di marzo continua, infatti, a rimanere materia controversa e pericolosa. La persecuzione del dissenso, inesorabile, prosegue, invece, sotto Tiberio. Nel 34 d.C., l’imperatore fece, infatti, gettare in carcere, inducendolo poi al suicidio, l’oratore, ex console e poeta, Mamerco Emilio Scauro che – come ci riferisce Svetonio – “in un sua tragedia” – Atreo – “aveva attaccato Agamennone con parole ingiuriose” (pag. 103). In verità, si trattava di un’opera che ricalcava il mito, tristemente famoso, dei figli di Agamennone - Atreo e Tieste – (pag. 104), ossia di un tema che sulle scene romane aveva conosciuto una ininterrotta fortuna. Nel passo in cui l’A. esortava uno dei sudditi di Atreo a sopportare l’ingiustizia del tiranno, come ci attesta, con ancora maggiore precisione, lo storico greco Cassio Dione, l’Imperatore, “dotto e pedante”, ravvisò, invece, una critica alla sua persona. Verosimilmente con paranoica tendenza al sospetto. Tuttavia non gratuita, perché l’allusione in questi termini era stata, in realtà, percepita dagli spettatori, sempre attenti nel cogliere ogni sfumatura che consentisse il ricordo – e, soprattutto, il rimpianto – dell’età
repubblicana. Che l’accenno fosse poi maligno è plausibile credere, visto che Seauro era personaggio ambiguo (pag. 103) e che proprio codesta equivocità aveva, in precedenza alla vicenda teatrale sopra ricordata, indotto il Senato, con l’oramai solito decreto, a dare alle fiamme ben sette sue orazioni dal contenuto ai moderni ancora oggi del tutto sconosciuto (pag. 103 cit.). Sempre sotto Tiberio il controllo sulla produzione letteraria diventa poi ancor più penetrante dal momento che finì per esercitarsi perfino nei confronti di un genere, sicuramente minore, quale la fiaba. Come ci attesta lo stesso Fedro perseguitato da Seiano, eminenza grigia, oltre che braccio armato del principe (la vicenda, qui sommariamente ricordata, occupa, invece, l’intero capitolo 13 dalla pagina 111 alla pagina 115 compresa). Né muta l’atteggiamento oppressivo sotto Domiziano che, per un caso analogo, condannò a morte Elvidio Prisco il Giovane, con l’accusa di avere alluso al suo divorzio dalla moglie in un’opera che narrava il mito di Paride ed Enone, ninfa moglie di Paride, quando quest’ultimo si recò a Sparta per rapire Elena. Si trattava di un “esodio”, ossia, di una “farsa lieve, che di norma veniva messa in scena dopo un dramma serio” (pag. 105). Anche qui, osserva il Nostro, resta difficile capire cosa abbia indotto l’Imperatore al sospetto. Forse, il fatto che, poco prima, Domiziano aveva “ripudiato la moglie dopo che quest’ultima si era perdutamente innamorata di un pantomimo chiamato appunto Paride” (pag. 106). L’A., ancora una volta, ascrive, però, l’accusa in principalità, alla “spiccata tendenza” (ivi) del popolo romano a cogliere, nelle rappresentazioni teatrali, malevoli riferimenti al potere politico. Sotto Caligola, e poi di nuovo sotto Domiziano, furono perseguitati due retori, l’uno (Secondo Carrinate), con l’esilio e l’altro (Curiazio Materno) con la condanna a morte, per avere ambedue “declamato contro i tiranni” (pag. 107). L’accusa, per entrambi, era, in verità, ancor più gratuita di quelle in precedenza elevate a carico di Scauro ed Elvidio. La “declamazione”, infatti, altro non era se non un esercizio abitualmente praticato nelle scuole di retorica. Non è, pertanto, difficile comprendere quanto arbitraria e strumentale fosse l’imputazione! Il che, però, - a conferma del clima politico plumbeo – non fece venir meno il sospetto che teatro e declamazione intendessero alludere alla realtà contemporanea e che i tiranni del mito o della finzione retorica fossero in realtà “maschere di comodo dietro le quali si celavano ben altrimenti concreti che sedevano sul supremo seggio di Roma” (pag. 109 e 110). Commenta acutamente l’A. che “proprio il timore sospettoso e occhiuto, l’ossessione del com-
plotto, la dietrologia malevola, costituiscono [altrettanti] tratti costanti, e potenzialmente molto pericolosi, della psicologia tirannica” (pag. 110). L’affacciarsi del cristianesimo nella storia, proprio a causa delle peculiarità sue proprie, che differenziano profondamente quest’ultima religione da quella romana – diversità sulle quali è utile soffermare la lettura (delle pagg. 111 e 112) – determinò una “frizione strisciante tra cristianesimo e impero, di norma silente, ma pronta a riacutizzarsi in concomitanza con particolari situazioni di crisi” (pag. 117). Quale quella dell’incendio di Roma del 64 d.C. gestito da Nerone in chiave anticristiana. La prima campagna sistematica contro il cristianesimo si registra nel 303 lanciata da Diocleziano, che, oltre al rogo delle “scritture”, previde, altresì, l’abbattimento delle chiese, l’arresto degli esponenti del clero, nonché la decadenza dalla carica per tutti i pubblici ufficiali e funzionari che si fossero rifiutati di compiere sacrifici in onore dell’imperatore. La riforma, che rientrava in un complessivo processo di rafforzamento della autorità imperiale, come noto, si risolse, tuttavia, “in un sostanziale fallimento” (pag. 119). Tanto da spalancare le porte a quanto avvenne subito dopo. Il successore Costantino – “spregiudicato e sanguinario” (ivi) – insieme al suo collega orientale Licinio, nel 313 emetteva, infatti, il ben noto “editto”. Il quale, più che un riconoscimento di parificazione del cristianesimo ad ogni altro credo, in realtà, sanciva “un’alleanza di ferro fra potere politico e nascente potere ecclesiastico” (ivi). Con la conseguenza che la religione cristiana finì, così, per divenire la religione privilegiata dall’impero. “Ancora pochi decenni” dopo “i perseguitati si sarebbero prontamente trasformati in persecutori” (pag. 119 cit.). (Su questa evoluzione si impone la lettura di G. Filorano, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Laterza, Roma-Bari, 2011). La ragione poi per la quale ciò avvenne abbisogna di essere illustrata, trattandosi di un fenomeno, per dimensioni, per certo unico nella storia. Il nuovo potere trionfante versava nella necessità di definire la propria dottrina religiosa. Quando non ricorre alla manipolazione, è costretto, perciò, a ricorrere alla sistematica distruzione, mediante il fuoco, di tutti i libri che confutavano – o che soltanto non erano semplicemente allineati – a quello che era l’insegnamento “ufficiale”. Inizia lo stesso Costantino che, oltre ad impartire ai vescovi l’ordine di gettare nel fuoco gli scritti di Ario – provvedimento inefficace perché la variante “ariana” del cristianesimo sopravvisse per secoli (pag. 125) – condanna, altresì, al rogo i quindici libri del trattato Contro i cristiani scritto, intorno al 270, dal filosofo neoplatonico Porfirio, per certo il
più articolato tentativo pagano “di negare validità e dignità intellettuale alla nuova religione” (pag. 126). Dalle successive costituzioni imperiali – conservate nel Digesto giustinianeo – apprendiamo la sistematica distruzione mediante il fuoco dei testi che, all’interno della Chiesa, illustravano dottrine non conformi a quelle riconosciute come corrette. Di codesti delitti si macchiano, nel 398, gli imperatori Onorio e Arcadio; nel 409, Onorio e Teodosio; nel 435 Teodosio II e Valentiniano, che, nel 448, tornano a proscrivere l’opera di Porfirio (il provvedimento relativo, anch’esso conservato nel codice di Giustiniano 1, 1, 3, può leggersi per esteso alla pag. 127). La rassegna dei roghi si conclude con la messa alle fiamme dei libri di Eutiche, che aveva accentuato in Cristo la presenza di una sola natura: dottrina condannata dal concilio di Calcedonia riunitosi nel 451. Il che permette all’A. di concludere, con tesi pienamente condivisa da chi scrive queste note, che la definizione della dottrina cattolica, effettuata nei diversi Concilii che si sono via via succeduti, ha avuto, come tragico effetto, quello di causare sistematici provvedimenti persecutori di proporzioni assolutamente straordinarie. Anche perché codesto fenomeno, che ha visto il potere politico tutt’altro che neutrale, si è prolungato per secoli. Sia pure per necessità. Visto che le dispute dottrinali religiose spesso si traducevano in precarietà e insicurezza sociale divenendo così “un elemento di destabilizzazione in una società già soggetta a fortissime tensioni come quelle della tarda età” (pag. 125). E’, da ultimo, interessante ricordare che il mito fondatore del diritto di controllo della cultura da parte della Chiesa si fonda sui roghi di Efeso riferiti da Paolo (negli Atti degli Apostoli 19,19). Testo, come denunzia il Nostro, manipolato dal pontefice Gregorio XVI nella sua enciclica Mirari Vos del 15 agosto del 1832, nella quale il pontefice rivendica alla Chiesa Cattolica il dirittodovere di praticare la censura, id est, “sterminare la peste dei libri”. Come si legge nella prefata enciclica (l’intera vicenda può leggersi nel capitolo 15 dalla pag. 121 a quella 123 compresa). Il capitolo n. 16 è dedicato alla “distruzione del Serapeo”: un episodio tanto noto che non merita, per certo, di essere anche soltanto sunteggiato. Così come, per la stessa identica ragione, sarebbe persino superfluo soffermarsi sulla vita e sulla tragica morte di Ipazia, narrati dall’A., con rigore storico, nel capitolo successivo. (Il testo fondamentale sull’argomento, a nostro ponderato giudizio, rimane il bellissimo saggio di Silvia Ronchey, Ipazia. La vera storia, Rizzoli, Milano, 2010. Allo stesso anno (2010), risale anche la settima ristampa del romanzo storico Ipzia. Vita e Sogni di una scien-
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ziata del IV secolo di Adriano Petta – Antonino Colavito, con prefazione di Margherita Hack, Edizioni La Lepre, che, comunque, può leggersi con vivo interesse). Il capitolo n. 17 si conclude poi con l’esplicita – e dura - condanna dell’A. alla ricostruzione dell’efferato episodio del quale è rimasta vittima Ipazia fatta da Benedetto XVI nell’udienza generale del 3 ottobre 2007. Il Pontefice, dopo avere inneggiato alla figura di Cirillo, per volere di Papa Leone XIII proclamato Dottore della Chiesa; riconosciuto santo, tanto dalla Chiesa ortodossa, quanto da quella cattolica, ha, infatti, omesso di fare anche soltanto un qualsiasi accenno al pogrom contro gli Ebrei del 414 “e naturalmente neppure il minimo riferimento all’uccisione di Ipazia nell’anno successivo” (pag. 141), scrivendo, così, sempre secondo l’A., una pagina “disgustosa” (ivi), a ragione che, nel quadro tracciato dal pontefice, “campeggia solo” l’”assassino” (ivi) di Ipazia. Per di più con “un’azione espressamente proposta come modello alla cristianità contemporanea” (pag. 140). L’“Epilogo”, che conclude il pregevole saggio, chiude il cerchio, perché si richiama alla pagina di Tacito, che lo ha aperto con una “Premessa” dal titolo oltremodo significativo: “Il divieto impossibile”. Quanto, con solennità, scrive Tacito, il massimo storico latino dell’età imperiale, nell’incipit della biografia da lui dedicata al suocero Giulio Agricola, funzionario probo, generale di valore, e, a quanto lascerà trapelare Tacito al termine dell’operetta, vittima dell’odio di Domiziano, consente, infatti, all’A., di desumere, come regola generale, la piena legittimità di “ridere del potere che presume di cancellare la memoria del passato: giacché agli uomini si può ordinare di tacere, ma non di dimenticare” (pag. 148). Del resto, se, come ha lasciato scritto Euripide, “occorre sopportare la malvagità di chi governa” – citato dall’A. a pag. 105, senza, però, indicarne la fonte – è, invece, opinione premiante, dal punto di vista politico, oltre che, ovviamente, da quello etico, tollerare il dissenso. Come fecero – è sempre Tacito a rammentarcelo in Annali, 4, 34.5 – il divo Cesare e il divo Augusto che, per accortezza politica, o “per senso della misura”, che è pur sempre espressione di giustizia, lasciarono “circolare” lettere e discorsi “pieni di ingiurie” estremamente velenose nei loro confronti (Tacito, op. loc. cit). In ordine al fenomeno della repressione intellettuale finisce così per assumere valore centrale l’insegnamento tacitiano, secondo il quale la persecuzione degli ingegni finisce, invece, per accrescerne la fama e arrecare loro gloria e vergogna, invece, ai persecutori. Un passo davvero splendido che, al momento del congedo dall’epitome fatta non può non ritrascriversi alla lettera, proprio per l’importanza che quell’insegnamento esplicita e rac-
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chiude: “E’ vero piuttosto che perseguitare le intelligenze ne accresce il prestigio; e i re stranieri, e quanti ne hanno imitato la crudeltà, non hanno procurato se non vergogna a sé stessi e gloria a quelle” (Tacito, Annali, 4, 35.5). Ci auguriamo, vivamente, che queste note inducano alla lettura del saggio, sintetizzato unicamente su alcuni temi che hanno attratto maggiormente la nostra attenzione, oltremodo, però, ricco di argomenti (si veda, ad esempio, l’interessante capitolo n. 3 intitolato “I falsari del Gianicolo”), tutti trattati con apprezzato equilibrio e ammirata conoscenza della materia in tutte le sue molteplici implicazioni. Come attesta il vasto richiamo alla “documentazione” tenuta come costante punto di riferimento e alle numerosissime fonti commentate capitolo per capitolo. Spiacerebbe, tuttavia, se l’opera fosse solamente letta, perché, a nostro sommesso, ma meditato giudizio, il libro va soprattutto meditato perché ha il potere di squadernare, innanzi agli occhi dei lettori, il pericolo, sempre attuale, della manipolazione della cultura. Pericolo particolarmente presente nell’oggi, che ci consuma, stante l’universale diffusione della incultura televisiva, che permette di constatare che – forse – non v’è più neppure la necessità di bruciare i libri perché ormai pare che scompaiano da soli ! Anche se questa pare poi essere un’altra forma, perfino più sottile, di prevaricazione, perché, è indispensabile ricordarselo sempre, laddove c’è potere, ivi c’è la inevitabile tentazione di intervenire sulle intelligenze. Diventa allora imperativo categorico non abdicare mai al principio, anch’esso scolpito da Tacito, di “pensare quello che si vuole e dire quello che si pensa”, continuando a ridere del potere, alla lunga, sempre perdente, specie quando trasforma in un martire chi intende cancellare dalla memoria. A. Binni
Andare per ghetti e giudecche Anna Foa, Il Mulino, Bologna 2014, pp. 122, € 12,00
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iù di duemila anni è lunga la storia degli Ebrei in Italia. Il saggio ne esplora, nel tempo e nello spazio, i luoghi e le modalità di insediamento. Quanto ai primi (luoghi), viene ricostruita la mappa, fittissima, degli stanziamenti che, nei secoli, tende a spostarsi dalle coste del Mediterraneo verso il Centro e il Nord della penisola. Ora con micro comunità, ora con insediamenti più consistenti, rimasti, comunque, modesti. Ora con presenze, invece, significative. Talora, destinate, tuttavia, a scomparire quando si diffondono le conversioni sotto l’effetto della
predicazione francescana che alimenterà una forte ostilità antiebraica. Come è avvenuto, fra il Trecento e il Cinquecento, che portò alla totale scomparsa degli ebrei nell’Italia meridionale. Pure in conseguenza della loro espulsione dall’intero Meridione avvenuta nel 1541. Una presenza identitaria sempre, comunque, rimasta omogenea all’interno del mondo cristiano, dotata di proprie regole, diverse per l’alimentazione Kasher (rituale); la sepoltura; per il giorno festivo; per la disciplina dei matrimoni; forte di una propria organizzazione politica, sia pure embrionale e locale, financo con una propria amministrazione della giustizia. Una sorta di mondo separato all’interno della società maggioritaria, fra le due pur differenti comunità, in un perfetto equilibrio sostanziale, rotto, solo raramente, da crisi e conflitti. Quanto alle seconde (modalità di insediamento), all’inizio trattavasi di quartieri aperti – le c.d. giudecche - chiamate pure Judee, contrade Judeorum, Juderie, ecc. dove gli ebrei vivevano in mezzo ai cristiani, senza limitazioni. Dei più antichi si sa pochissimo. I più recenti, sono, invece, documentati e riconosciuti. La loro geografia viene delineata nel capitolo 2. Dall’inizio del XVI secolo, gli spazi abitati da liberi vengono invece coattivamente trasformati in ghetti, ovvero in quartieri delimitati da mura e portoni, che aprono il ghetto al mattino e lo chiudono al tramonto, dove, nel tempo intermedio, gli ebrei vengono, di fatto, rinserrati per tutta la notte. I ghetti, di norma, chiudono ambiti abitativi già in precedenza occupati dalla popolazione ebraica. Il che determina il fatto che il ghetto è per lo più edificato nel centro della città. Come è avvenuto a Roma, a Ferrara, a Padova, a Reggio Emilia e pure a Bologna (pag. 27).
Ovviamente, si registrano, però, ghetti anche lontani dal centro della città, osteggiati perché le comunità ebraiche non volevano che il ghetto isolasse dal traffico commerciale urbano. Il primo ghetto nasce a Venezia nel 1516. E’ creato ex novo per volontà del Senato di Venezia perché gli ebrei, che non avevano mai abitato nel quartiere di Cannaregio, furono, dunque, ivi insediati d’autorità. Il nome ghetto ricorda l’A. che deriva da gheto o geto – fonderia – dal momento che l’isola di Cannaregio era nota appunto per le sue fonderie. La soluzione adottata dal Senato veneziano era il frutto di un “compromesso tra presenza ed espulsione” (pag. 55). Sostanzialmente era, comunque, volto a sancire la separazione fra ebrei e cristiani. Totalmente diversa – secondo l’A. - è, invece, la ratio sottesa alla costituzione di tutti gli altri ghetti, per essere questi ultimi “deputati all’attesa della conversione ed al controllo degli ebrei” (pag. 31), secondo la concezione ispiratrice del ghetto di Roma, per volere del Papa Paolo IV, nato come soluzione abitativa, trentanove anni dopo quello di Venezia, pur tenuto a modello, che, con la bolla istitutiva Cum nimis absurdum sancì una rigida segregazione. Non nella sola Roma, ma in tutti i luoghi dello Stato della Chiesa nei quali vivevano ebrei. A differenza dei regni iberici, che avevano scelto l’espulsione – nel 1492 decretata in Spagna e nel 1497 realizzata in Portogallo – rinunciando, di conseguenza, a convertire gli ebrei, Roma scelse, invece, “la conversione e quindi la presenza” (pag. 63), inaugurando, così, un indirizzo ideologico seguito anche da tutte le restanti città italiane. Il che marca, appunto, la diversa impostazione ideologica del ghetto di Venezia rispetto a tutti gli altri ghetti italiani. La finalità perseguita – conversione – comportava pure per gli abitanti del ghetto l’obbligo di subire una istruzione forzata attuata mediante l’ascolto sistematico di sermoni conversionistici loro rivolti. Gli occupanti venivano, inoltre, spinti al battesimo, indotto anche da facilitazioni di ogni tipo, prive comunque d’effetto. Con la sola eccezione di Roma, il ghetto è il frutto di negoziazioni fra le comunità ebraiche, la Chiesa, le autorità civili e i cristiani proprietari delle case destinate a far parte del ghetto, di fatto espropriati. Trattative, perciò, oltremodo travagliate. Anche perché per gli ebrei non costituivano materia negoziabile le proprie regole in tema di cibo; osservanza del sabato; sepoltura e preghiera collettiva. In questi negoziati assumeva inoltre particolare importanza l’accordo sul tasso d’interesse. Dovendosi aggiungere, secondo l’A., che il prestito ebraico ha assolto una notevole importanza perché le città, per il loro sviluppo, abbisognavano di liquidità. Tanto che, quando quel bisogno si affievolì, parimenti si appannò la figura del banchiere
ebreo. Gli accordi non assumevano poi, quasi mai, carattere definitivo. Come insegna quanto accadeva a Ferrara, dove, ogni dieci anni, gli ebrei erano costretti a patteggiare con il duca la loro permanenza in quella città. La c.d. “età dei ghetti”, intesi come quartieri chiusi, si protrae poi dal Cinque all’Ottocento. I portoni del ghetto di Venezia furono definitivamente abbattuti da Napoleone nel 1797. Altrove durarono, invece, più a lungo. La vita nel ghetto conosce tensioni all’interno delle stesse comunità ebraiche. Come avvenne a Ferrara, sotto il duca Ercole I, che, nel gennaio del 1493, invitò un importante numero di ebrei sefarditi, fuggiti dalla Spagna, a stabilirsi a Ferrara, concedendo loro formali garanzie e ampie facoltà (quali l’esercizio dell’arte medica; dell’artigianato; la gestione di dazi e gabelle; la possibilità di tenere botteghe di farmacia), ma non il prestito, divieto imposto dagli altri ebrei, già presenti in quella città, che esercitavano, in precedenza, quella attività, che continuarono, pertanto, a svolgerla assistiti dalla clausola di privativa. Esclusione, per altro, ampiamente compensata dalla concessione del privilegio di soggiorno perpetuo (pag. 97). Sicchè, diversamente dagli ebrei italiani, quelli sefarditi “non furono soggetti all’obbligo del rinnovo decennale del loro permesso di soggiorno” (ivi). Molto più forti risultano, invece, le pressioni provenienti dal mondo esterno. Anche se mutano da città a città, pur conservando ognuna di esse il carattere della “reclusione a metà” (pag. 67) per “più di tre secoli” (ivi). Particolarmente incisive sono poi risultate quelle operate dalla società cristiana e dalla Chiesa, che, spesso, hanno avuto l’effetto di causare un impoverimento diffuso. Così, ad esempio, a Roma (pag. 68), dove gli ebrei del ghetto, a causa dei numerosi divieti di esercitare questo o quel mestiere, finirono per potere praticare unicamente il commercio dei tessuti usati (pag. 32). A fronte di una vita così grama, “l’unica strategia di difesa possibile” fu, allora, quella “di rinsaldare al massimo i legami interni per impedire eccessive tensioni sociali che avrebbero facilitato la conversione dei più deboli” (pag. 69). Stabilità “che poteva avere i suoi lati positivi, ma che sul lungo periodo divenne soprattutto immobilismo, incapacità di rinnovarsi, chiusura” (pag. 69 cit.). E’ vero, però, che, nella età del ghetto, non ci furono persecuzioni. Anche se non mancarono i roghi! Particolarmente grave quello avvenuto il 9 settembre 1553 del calendario cristiano in piazza Campo dei Fiori dove, per ordine del papa Giulio III, furono dati alle fiamme i libri del Talmud e altre pubblicazioni ebraiche. Il che era, però, sia pure attraverso un’altra forma, lo sforzo di tenere la comunità ebraica “in uno stato di arretratezza” (pag. 69 cit.), perché, con quel barbaro sistema, si chiu-
sero “le menti”, tentando “di fermare il tempo” (ivi). La parte centrale del libro è dedicata alla storia dei ghetti di Roma, di Mantova (con un prezioso ricordo, a pag. 87); di Sabbioneta (famosa per la sua stamperia ebraica, creata da Tobia Foà), di Ferrara; di Ancona; di Livorno e di Torino (dove non manca la rimembranza della Mole Antonelliana, progettata e inizialmente costruita per diventare la nuova sinagoga della città, né (a pag. 113) l’accenno ai Foà, “considerati i fondatori della comunità ebraica piemontese” con pagine rigorose e puntuali, la cui lettura costituisce una autentica gioia per le preziose notizie che arricchiscono il lettore. Insuscettibili, però, di una loro qualsiasi epitome per il timore di svilirle. Con un’unica eccezione dedicata al ghetto di Bologna, se non fosse altro perché il recensore conserva tutt’ora abituali frequentazioni al Museo ebraico che ivi oggi si trova. Anche se, com’è ovvio, intendiamo motivare la deroga per almeno due altre e ben più importanti ragioni. La prima. Bologna, all’epoca, “era una delle maggiori città europee, illustrata dalla sua famosa università” (pag. 27). Per l’alto numero di banchi di prestito esistenti, “Bologna ben rappresenta il ruolo fondamentale del prestito ebraico nelle relazioni fra città ed ebrei, almeno nel periodo fra il XIV e il XVI secolo, prima del consolidarsi del Monte di Pietà, creato dai francescani in funzione antiebraica” (pag. 78). Infatti, ancora nel Quattrocento, sotto la signoria dei Bentivoglio, “la presenza ebraica restò salda, perché forte restò il bisogno di danaro liquido da parte delle istituzioni cittadine e dei singoli” (pag. 79). Né la situazione mutò quando, nel 1506, il papa entrò a Bologna “riaffermando il diretto possesso della città da parte della Chiesa” (ivi). Né l’istituzione, nel 1473, del Monte di Pietà, ad opera dei francescani “portò a una crisi del prestito ebraico, che continuò ad essere considerato fonte di benessere per la città e per i cittadini” (pag. 80). La seconda. Gli ebrei, che vivevano “variamente sparpagliati nelle città” (pag. 80), vengono ghettizzati sotto l’effetto della già ricordata bolla emessa nel 1555 da Paolo IV, che, in considerazione del suo valore universale, costringe nel ghetto anche gli ebrei di Bologna. Con decreto del 1556 viene poi fissata la località dove doveva essere creato il ghetto. La zona prescelta fu identificata nella “contrada dell’Inferno”: una zona della città “in cui la luce entrava a fatica: portici bassi, viuzze strette, un dedalo di vicoli, insomma un inferno” (pag. 82). Esattamente com’è ancora oggi ! Il perché gli ebrei furono poi spostati proprio in quella contrada non è domanda marginale a ragione che quella zona era – ed è – posta al centro della città. Anzi, come si legge nei documenti dei proprietari degli edifici, poi espropriati, la “più bella, sicura e saluta-
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re parte della città”, collocata com’era “nel mezzo e nell’ombelico più prezioso di Bologna” (citazioni ritrascritte da pag. 82 dell’opera). Il che mette in luce la difficoltà realizzativa del ghetto, avendo comportato, da un lato, la vendita obbligata delle proprietà immobiliari degli ebrei già cominciata nel 1555, e, dall’altro, l’esproprio in perpetuità dei beni immobiliari dei cristiani. Fatti che suscitarono gravi malumori da ambedue le parti. Anche se maggiori furono quelli dei cristiani, in difficoltà nella ricerca di nuove abitazioni, oltre che preoccupati per la riscossione del canone d’affitto, “a lungo oggetto di trattative” (pag. 81). Non sarà, poi, inutile ricordare che, nel 1569, cioè appena tre anni dopo, la bolla di Pio V Hebreorum gens sancì l’espulsione degli ebrei da Bologna, con conseguente abbattimento delle mura e dei cancelli appena costruiti. Anche se l’espulsione definitiva degli ebrei da Bologna risale al 1593. Senza, per altro, alcun effetto su quello che era stato lo spazio del ghetto, da tempo, ormai non più esistente. Rimane, da ultimo, il dubbio del perché il ghetto fu realizzato nel centro di Bologna. Dubbio che l’A. scioglie in termini condivisibili, quando scrive: “E’ possibile che la scelta fosse determinata dall’assenza di palazzi patrizi di rilievo e dal fatto che la zona era tale da consentire di costruire il recinto in modo da lasciare fuori dal ghetto tutte le chiese che ivi si trovavano” (pag. 84 e primo rigo della 85). L’Autrice, concludendo la sua analisi, sottolinea il permanere costante di stretti legami fra le città e gli ebrei che vi abitano. Anche nelle situazioni di presenza precaria. I luoghi della loro esistenza sono, dunque, parte integrante dell’Italia, perché il ghetto e prima ancora la giudecca hanno una connessione, stretta ed evidente, con il tessuto urbano. Tanto è vero che non è dato individuare caratteristiche specifiche della architettura degli ebrei. Così come la storia degli ebrei, che hanno popolato la penisola, è “una storia profondamente e intimamente connessa alla storia d’Italia, fin da quando di Italia non si poteva ancora parlare” (pag. 118). Per questo, come scrive incisivamente l’A., “Andare attraverso i luoghi e i tempi che hanno fatto la storia di questa minoranza, l’unica accettata in quanto minoranza organizzata all’interno della società cristiana, è un altro modo per cogliere nel suo insieme la storia della maggioranza” (pag. 119). Storia sulla quale ha sicuramente influito la presenza di quella minoranza, visto che, a tacer d’ogni altra considerazione, la presenza di quella minoranza ha imposto almeno l’esercizio del rapporto con l’alterità (pag. 120). Non, purtroppo, il rispetto della tolleranza, “dal momento che bisognerà aspettare Locke perché diventi un valore”. Anche se dobbiamo, poi, ahinoi, riconoscere che quel valore, nella storia, anche recente, è stato conculcato fino al punto
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di realizzare “il male assoluto”! Il che richiama alla mente dell’estensore di queste note lo straordinario libro di G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino, Einaudi, 2001 (uscito nel 1944), che, per primo, gli aprì gli occhi in ancor sua giovane età. Il volume presentato ha numerosi meriti. Innanzitutto, la chiarezza nella esposizione degli argomenti, resi ancor più perspicui dal richiamo agli stessi operato dal materiale
delle quali lo fa giacere nei sotterranei del Vaticano” (pag. 11 e primo rigo di pag. 12). In conclusione, non possiamo non sollecitare la lettura dell’agile volumetto – tale nella forma, ma non, per certo, nella sostanza ! – con la certezza che, da essa, il lettore ne trarrà sicuro – e non comune – profitto. A. Binni
Cipriano di Cartagine, Quando l’uomo diventa istrice. La gelosia e l’invidia. Edizione bilingue a cura di Lucio Colo, che ha tradotto il testo latino, autore pure di una densa e colta Introduzione allo stesso, preceduta da una accurata Nota bibliografica. Il trattato si sviluppa dalla pagina 25 alla pagina 61 compresa, Edizioni San Paolo, 2014, € 7,90.
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iconografico che punteggia il testo. Con una particolare, doverosa, menzione delle due piantine geografiche che, rispettivamente, indicano, a pag. 20, le principali presenze ebraiche nella penisola prima della età dei ghetti e, a pag. 30, la mappa dei ghetti in Italia. In secondo luogo, il rigore dell’analisi. Sicché, sebbene fruibile da un vasto pubblico, interessato a comprendere un tassello essenziale della storia italiana, il saggio, avvincente in tutte le sue molteplici sfaccettature, si risolve in una autentica lectio magistralis. Anche perché il libro è una fonte imponente di notizie e pure di curiosità. Fra le quali, ultime, la scoperta che la stella di Davide – il magen David – letteralmente “scudo di Davide” – è un simbolo “di origine non ebraica” (pag. 22). Tanto che lo stesso non compare mai fra i simboli che si rinvengono tanto nelle giudecche, quanto nei ghetti. Dove, invece, è sempre presente l’immagine del candelabro (menorah), simbolo del grande candelabro d’oro razziato dai romani, dopo che, sotto il comando di Tito, nel 70 a.C., fu distrutto il Tempio di Gerusalemme, trasportato a Roma. Come ricorda anche l’immagine scolpita nell’Arco di Tito, posto a Roma, vicino al Colosseo, per celebrare la vittoria, nel relativo bassorilievo riprodotto nel testo (a pag. 12). Candelabro “scomparso nel corso della storia, probabilmente perso”, la cui sparizione “ha dato spazio a leggende di ogni tipo, la più tenace
uando il caso irrompe nella vita può originare pure liete sorprese. Come è avvenuto per il fortuito rinvenimento di questo breve trattato, assolutamente ignoto al suo odierno recensore. Che ne segnala l’esistenza e ne raccomanda pure vivamente la lettura perché trattasi di un testo che dà molto da pensare. Anche per la sua straordinaria modernità. Il che autorizza a prescindere dal carattere propriamente cristiano che connota l’opera. Com’è ovvio, del resto, che fosse, essendone l’Autore il Vescovo di Cartagine, dove, durante la persecuzione di Valeriano, per dare testimonianza della sua fede, venne decapitato il 14 settembre 258. Risalente in epoca non anteriore al 251, il De zelo et livore di Cipriano è incerto anche nella sua finalità, rimanendo ignota la sua destinazione, propendendo gli uni per un lavoro di scrittura destinata espressamente alla pubblicazione, altri, invece, per il testo di un sermone, con finalità dunque orali. Come si è autorizzati pure a congetturare dal fatto che Cipriano insegnò eloquenza, conoscendo anche quelle che Ovidio ha definito le “verbose arma fori”, a ragione che il Nostro ivi patrocinò sostenne pure delle cause. Presumibilmente, come si legge nella Introduzione. A conferma che “degli anni della vita di Cipriano che precedono il periodo dell’episcopato si sa molto poco” (ivi). Il che però può dirsi anche per il periodo successivo. Anche se, in verità, dopo la conversione, non mancano notizie circostanziate. Tanto sulla sua vita travagliata (in particolare, durante la persecuzione di Decio [250-251]), quanto sulle sue numerose opere. Lasciando la parola a Cipriano, purgata, ripetesi, dal profilo religioso, qui volutamente non contemplato, considerata “flagello”, che “si diffonde largamente” (pag. 37) la gelosia si manifesta quando “ci si lamenta per non es-
sere stati preferiti o non si riesce a sopportare che un altro sia stato posto” (pag. 39) dove si aspira. Considerata un “flagello” che “si diffonde largamente” (pag. 37), ha il grave torto di eccitare “l’ambizione allorchè si vede un altro occupare posti più elevati” (ivi, pag. cit.). Il che “gonfia di superbia” (loc. pag. cit.). Con il risultato finale che la “discordia infuria” perché “la verità viene falsificata, l’unità (….) rotta”, perché è, “per gelosia”, che “un fratello si mette a odiare il fratello” (pag. 29). L’invidia è considerata un vulnus dell’amor proprio. “Le ferite della gelosia sono dissimulate e occulte” (pag. 41). Per questo non è ammesso “il ricorso a una cura che possa guarire” non essendo possibile rinvenire un rimedio a “quanto sta chiuso in un cieco dolore nei recessi della coscienza” (ivi, pag. 41 cit.). Dell’invidia, “tarlo dell’anima” (ivi, pag. 39), Cipriano dà una precisa definizione che, per la sua acutezza, si impone di ripetere alla lettera. L’invidia si ha quando si trasforma “il bene altrui” (virtù, felicità, meriti) in un “male proprio” (ivi, pag. 39), quando si fa “della gloria degli altri una pena per sé” (ivi). L’altrui successo crea nell’invidioso un senso di inferiorità. L’invidia finisce così per risolversi in una autentica ferita dell’amor proprio. Con una peculiarità che Cipriano individua con profonda originalità e acutezza psicologica. A differenza di tutti gli altri mali che hanno una conclusione che coincide con la loro consumazione – “il delitto finisce una volta che l’omicidio è stato commesso; il possesso della preda ferma la rapacità del brigante e il portare a compimento l’inganno rappresenta il limite del falsario” (ivi, pag. 39), la gelosia, invece, “non ha un termine”, trattandosi di “un male che permane continuamente” (ivi). Anzi. Con più progredisce colui che è invidiato, “tanto più l’invidioso brucia, nelle fiamme del livore, di un incendio più grande” (ivi). Proprio questa inevitabilità permette poi a Cipriano di svelare quello che è l’arcano dell’invidia: essere “un vizio che si ritorce contro la persona”, dal quale non si può sfuggire, perché “il tuo avversario sarà sempre con te” (ivi, pag. 43), in quanto “La rovina è chiusa dentro di te” (ivi). All’invidioso, non può, pertanto, essere dato “alcun conforto”. Odiare “chi è felice” è una “calamità senza rimedio” (ivi). Rimane ora da chiedersi la ragione per la quale l’A. di queste note abbia richiamato l’attenzione del lettore sul breve trattato segnalato indugiando su ambedue le prefate patologie dello spirito. L’interrogativo, pienamente legittimo, rinviene la sua motivata risposta nell’esperienza maturata dal recensore in tanti anni di militanza nei quali ha potuto constatare i numerosi guasti prodotti dalla gelosia e dalla invidia, vizi subdoli perché dissimulati. Sicché i loro tiri sono portati in modo occulto, procurando ferite gravi e numerose. Dunque, come avverte Cipriano, bisogna
stare, “attenti a riconoscere anche questi [colpi] e a respingerli” (pag. 27). Conoscerne la portata e, soprattutto, la genesi, aiuta a combattere e, auspicabilmente, a evitare simili mali. Per questo è parso perfino doveroso attardarsi su di un tema ben presente alla coscienza dell’uomo che, solo quando è dominata dalla oscura nube della invidia e tenebre della gelosia, cessa di essere luce e giorno. A. Binni
Biocentrism: How Life and Consciousness Are the Keys to Understanding the True Nature of the Universe Robert Lanza, pp. 214, BenBella Books Inc. Dallas - TX, USD 14,95
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n controtendenza con gli orientamenti che vedono solitamente ai primi posti nelle classifiche dei libri più letti romanzi e titoli di narrativa, il “New York Times” riporta tra il libri più letti un saggio del dott. Robert Lanza, votato come terzo miglior scienziato in vita dallo stesso giornale, esperto di medicina rigenerativa e direttore dell’Advanced Cell Technology Company, il quale è anche conosciuto per la sua approfondita ricerca sulle cellule staminali e per l’aver clonato diverse specie di animali in via d’estinzione. Il libro in questione ha un titolo complesso: Biocentrism: how life and consciousness are the keys to understanding the nature of universe. Questo titolo richiama esattamente ciò che ivi si propone, ossia una “teoria del tutto”
che prende sviluppo da ricerche all’avanguardia in campo scientifico nate intorno agli anni 60’ del Novecento durante i quali la concezione ontologica dell’esistenza, avvalorata poi da alcuni strumenti scientifici successivamente perfezionati (come la fotografia kirlian), si spingeva verso nuovi confini di conoscenza dell’Universo a noi conosciuto e della sua natura. Dall’introduzione infatti della M-theory o “teoria delle stringhe” quale spiegazione onnicomprensiva dell’universo (e di tutti gli universi possibili ed esistenti), il paradigma all’interno del quale collocare l’idea di quell’ammasso informe di infiniti sistemi planetari nel quale noi abbiamo sede è cambiato radicalmente. Le teorie di Bohm riguardo un universo olografico, che io definirei facilmente l’interfaccia grafica del sistema operativo M-theory, hanno portato ad una concezione non più antropocentrica dell’Universo ma ad una concezione che definirei coscienziale e frequenziale al tempo stesso. Se volessimo fare un piccolo excursus questa teoria, che troviamo spiegata anch’essa in testi di fisica ancora non tradotti in italian,o troveremmo facilmente che essa è avvalorata da un percorso di ricerca che ha toccato molti studiosi in precedenza, ognuno esperto di discipline molto differenti; ne cito solo alcuni: Mosè Maimonide e tutti i cabalisti e i loro studi sulla numerologia, Fred Alan Wolf nel suo Anelli temporali e torsioni spaziali: come Dio ha creato l’universo, Michael Hayes nel suo libro Il codice ermetico del DNA, Graham Hancock in Fingerprints of the Gods, i testi riguardo la “musica delle sfere” e gli harmonices mundi di Keplero, i testi tibetani sul suono in quanto vibrazione capace di modificare la natura materiale e quindi fisica per come noi la intediamo, degli oggetti e in realtà anche come quasi sempre accade i ta biblia. Leggendo questo particolare libro però ho immediatamente pensato che noi si stesse giungendo a un punto di svolta nella storia che vedrà finalmente unirsi (e in questo era profetica due secoli fa Helena Blavatsky nella sua Iside Svelata) scienza e metafisica, percezione e immaginazione, verificabilità dell’esperimento e realtà dell’atto magico (di cui parla molto bene Ernesto de Martino nel suo studio antropologico Il mondo magico). Sin dalla notte dei tempi e per questioni di mera economicità di categorizzazione mentale, l’uomo ha etichettato la realtà circostante e i fenomeni ad essa collegati tentando di arginare gli sconfinamenti della propria mente quando, ad esempio, dinanzi lo spettacolo della natura, essa vagava oltre i confini della comprensione dell’accadimento concreto e si addentrava in quello che viene definito “senso panico”, ben raffigurato ad esempio da un regista come Peter Weir nel suo Pic nic ad hanging Rock. Lo slittamento della coscienza in questo caso descritto è
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alla base di uno degli esempi che Lanza ci rende per dimostrarci come la coscienza e dunque l’intelligenza che a monte di essa risiede esistessero prima e aldilà della materia. Non può non sovvenirci a riguardo la descrizione vichiana dell’uomo che fuoriesce dal suo abbrutimento guardando le stelle mentre percorre un sentiero in un bosco; il senso di appartenenza del nostro essere a qualcosa di più grande, di misterioso e ancora non codificato è stato da sempre la spinta più forte, nell’antichità, per diventare ricercatori della verità. Il saggio in questione infatti non è dissimile dalle teorie di un illustre esobiologo, Paul Davies, i cui bellissimi libri sono stati in parte tradotti in Italia. La domanda sul come una serie di amorfi elementi in un primordiale brodo abbiano saputo “casualmente” incontrarsi e dar vita al primo organismo unicellulare, capace di respirare, nutrirsi e interagire “intelligentemente” con l’esterno, la domanda su come a livello scientifico questa “casualità” abbia dato origine alla vita su questo pianeta, richiama perfettamente l’affermazione sottesa a questo libro, ossia che la struttura dell’universo, le sue leggi, le forze costanti che sembrano essere ottimizzate per la vita, implicherebbero che l’intelligenza è il substrato sul quale la materia ha assunto la sua forma densa di senso. Questo libro infatti è una summa scritta in un linguaggio scorrevole e accessibile anche al lettore non aduso ai paradossi della fisica di un sapere millenario che richiama filosofi primonovecenteschi come Sri Aurobindo che spiega nei suoi commenti all’Isa Upanishad quanto ognuno di noi sia una “porzione” auto definitasi della coscienza generale, porzione non distaccata, solo delimitata, ma sempre appartenente alla coscienza universale suprema e onnicomprensiva. Biocentrism si snoda dunque tra semplici esempi e vicissitudini che ciascuno di noi ha
potuto verificare personalmente nella quotidianità, che riguardano la percezione di una dimensione coscienzale dell’esistenza, un piano sul quale veniamo immediatamente proiettati quando un avvenimento semplice ci mostra che, per dirla con Saint Exupery, l’essenziale è invisibile agli occhi e andando oltre ciò che vediamo non è tutto ciò che esiste. La tesi finale è che la coscienza sopravviva alla morte del corpo fisico e che dunque ad esso preesisteva, che la vita (Bios) ha creato l’universo e che essa è una forza generativa con caratteristiche inusitate, ancora da indagare. Proprio in questo le tesi a noi care dei Rosacroce, specie quelle relative all’immortalità dell’anima, corrispondono perfettamente alla descrizione scientifica che il dott. Lanza dà della nostra realtà e che ormai non possiamo non definire, dopo l’esperimento di Alain Aspect, “entangled”, con tutto quello che questo implica. Se dunque le interazioni tra elementi quantici che hanno condiviso dello spazio insieme per un breve lasso di tempo e poi vengono separati, continuano oltre le stesse categorie di spazio e tempo e l’una subisce gli effetti dell’altra a distanze ragguardevoli, cosa le unisce? Quale invisibile forza rende possibile mutazioni contemporanee superando la località cui tutti noi, ogni giorno, paiamo irrimediabilmente legati? A tutte queste domande il libro risponde con la semplicità dell’esperire quotidiano prima che con definizioni altisonanti ricche di terminologia scientifica. Per questo e poichè alcune domande ci appartengono da milleni e motivano schiere di Liberi Muratori ad arrampicarsi sulla scoscesa montagna dell’acquisizione e rielaborazione di nuove conoscenze, superate e rimesse in discussione all’appoggiare il piede sul successivo gradino della nostra inifnita scala a chiocciola, mi sento di affermare con convinzione che questo è uno dei saggi più rilevanti e allo stesso tempo accessibili sull’argomento che abbia avuto modo di leggere. Alessia Ottomanelli
Da Giolitti a Umberto II: la storia che torna Autori vari - a.c. di A. A. Mola, Centro Europeo Giovanni Giolitti per lo studio dello Stato, Cuneo 2014, illustrato, pp. 203.
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uscito nel settembre 2014 un pregevole volume, curato dal professor Aldo Alessandro Mola, storico e massonologo di chiara fama. Il libro s’intitola Da Giolitti a Umberto II: la storia che torna e comprende gli atti di due convegni organizzati a Vicoforte nel 2013. Il primo, tenutosi il 16 marzo, aveva per tema Incontro Umberto II trent’anni dopo, il secondo del
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9-11 dicembre verteva su Mito e realtà del diritto di voto dall’età giolittiana al regime. Grazie alla raccolta degli interventi ne è fuoriuscita un’opera di notevole valore che mette in luce episodi fondamentali della storia recente del nostro Paese e che contribuisce a comprendere meglio il momento attuale di travaglio e di mutamento. Contenuti del volume: Parte I: Incontro Umberto II trent’anni dopo Tito Lucrezio Rizzo, Il primato della legge morale nell’incertezza di quella civile: l’esempio del Re di Maggio. Massimo de Leonardis, Umberto di Savoia Principe di Piemonte. Aldo Giovanni Ricci, I rapporti tra Umberto II e il governo De Gasperi. Aldo A. Mola, Sul referendum istituzionale del giugno 1946: brogli, trucchi e colpi di stato … contro la lingua italiana (2 – 18 giugno 1946). Umberto partì da re e re rimase (con appendice). Mario Grandi, Ricordi di Re Umberto II. Antonino Zarcone, La notte in cui morì il Maresciallo Ugo Cavallero. Sergio Boschiero, Un ricordo di Umberto II. Gianna Gancia, Casa Savoia nella memoria della Granda. Parte II: Mito e realtà del diritto di voto dall’età giolittiana al regime. Giorgio Maria Bergesio, Introduzione. Roberto Calderoli, Cause ed effetti delle leggi elettorali: mito e realtà. Intervista di Aldo A. Mola al Sen. Roberto Calderoli, Quale legge elettorale oggi più conviene all’Italia? Antonino Zarcone, I militari nel parlamento del Regno d’Italia. Dario Fertillo, Oltre le mitologie sui sistemi elettorali. Juan José Morales Ruiz, Il Parlamento spagnolo nella transizione dal franchismo alla democrazia: dalla speranza al disincanto. Giorgio Sangiorgi, Le elezioni politiche italiane dal 1913 ai plebisciti del fascismo nella cinematografia. Aldo Giovanni Ricci, Elezioni e parlamenti nell’ideologia della sinistra radicale. Aldo Alessandro Mola, Il capolavoro di Giolitti, Ministro della buona vita. Diritto di voto e Parlamento dalle Leggi Giolitti (1912 – 1913) alla Riforma Rocco (1928) (con appendice). Oscar Sanguinetti, Il diritto di voto e i cattolici dall’età giolittiana al regime. Luigi Pruneti, Il dilemma elettorale e gli orizzonti della democrazia. La Redazione
R.L. Fenice Oriente di Roma R.L. Janua Coeli Oriente di Napoli
evidenza l’importanza che i fratelli costituenti la Loggia vogliono dare alla simbologia, elemento fondamentale della ritualità e del cammino alla conoscenza.
R.L. Araba Fenice Oriente di Vibo Valentia
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in dal primo sguardo il fregio di loggia della R.: L.: “Janua Coeli” appare come un portale aperto, che permette di visualizzare all’iniziato il cammino ed i mezzi che conducono all’Elevazione. Per incarnare la descrizione fisica di tale portale è stato scelto come modello la Porta Alchemica del Marchese di Palombara. Sugli stipiti sono evidenziati i simboli per eccellenza della Massoneria,ovvero la Squadra ed il Compasso e la Stella Fiammeggiante, mentre sull’architrave troviamo il fregio con inciso al suo interno il simbolo del globo terreste con al centro il simbolo dell’oro, come a riproporre il passaggio dal microcosmo al Macrocosmo. Tali simboli vanno a sovrastare il sigillo di Salomone, richiamo ai quattro elementi della materia; sempre sull’architrave, ai lati del fregio, troviamo la scritta “ SI SEDES NON IS “ che è stata scomposta in modo tale da poterla leggere in entrambi i modi (si sedes non is e si non sedes is), che vuole essere un chiaro invito all’iniziato sia ad oltrepassare quella porta per accedere alla Luce, sia ad astenersi, qualora quello non fosse il suo cammino. All’interno del portale troviamo il pavimento a scacchi del Tempio visto in fuga prospettica e, verso la fine, troviamo la scala a sette pioli che poggia sia sullo scacco bianco, che su quello nero. Il fatto che ci siano 7 pioli è legato alla simbologia esoterica di questo numero che offre varie letture: dai sette pianeti ai sette metalli, dalle sette operazioni alchemiche alle sette arti liberali ecc. Il desiderio che i Fratelli Fondatori intendono concretizzare è l’esperienza del Lavoro in Tempio come Porta del Cielo, come apertura verso l’Infinito e l’Oltre, con gli strumenti che la Libera Muratoria offre a coloro che l’amano e che si riconoscono come Fratelli.
a Rispettabile Loggia Fenice si propone di identificare e rendere palese il suo “modus operandi” nel mondo iniziatico: ovvero di rinnovare costantemente il significato della palingenesi nell’Essere “Risvegliato” anche attraverso i simboli i colori e le emozioni suscitate dal proprio Fregio. La Fenice con le 12 Stelle disegnate, sei da un lato e sei dall’altro, al pari del Sole che attraversa le 12 costellazioni e di Ercole che supera le 12 prove, esprime la ferrea, incessante volontà di completare L’Opera e di ricominciare daccapo sempre con accresciuta esperienza, vitalità e fervore anche quando gli ostacoli e le avversità dovessero esserle compagni. La sintesi del sigillo per sua propria identità esprime il concetto Hiramico che: “Se sapremo morire rivivremo nell’immortalità.”
R.L. Giovanni Ghinazzi Oriente di Vibo Valentia
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l sigillo della Loggia “G.Ghinazzi” all’Oriente di Vibo Valentia è costituito dai più ricorrenti simboli massonici accostati tra loro. Sono presenti la squadra, il compasso, il libro sacro, la cazzuola, il maglietto, sormontati dal sole e dalla luna. Questi simboli si presentano di colore nero su sfondo oro e vengono racchiusi in una forma circolare che compone le scritte evidenziate nella foto separate tra loro da una foglia di acacia. Detto fregio vuole mettere in
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o sono l’Araba Fenice che brucia nella sua materia e risorge dal buio e dalle sue ceneri . Crescerò, mi alzerò in volo, e come un’aquila guarderò il mio mondo, e come abbagliante angelo, siederò sul trono della Luce Eterna, non più col capo chino, ma guardando negli occhi senza pietrificare.” La Fenice era un uccello mitologico noto per il fatto di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte. Gli antichi egizi furono i primi a parlare del “Bennu”, che poi nelle leggende greche divenne la Fenice. Dal cumulo di cenere emergeva poi un piccolo uovo che i raggi solari facevano crescere rapidamente fino a trasformarla nella nuova Fenice nell’arco di tre giorni, dopodiché la nuova Fenice, giovane e potente, volava ad Heliopolis e si posava sopra l’albero sacro, «cantando così divinamente da incantare lo stesso Ra» che animò il dio Shu. «Un uccello mitologico, che non muore mai, la fenice vola lontano, avanti a noi, osservando con occhi acuti lo spazio distante. Rappresenta la nostra capacità visiva, di raccogliere informazioni sensorie sull’ambiente che ci circonda e sugli eventi che si dipanano al suo interno. La lunga vita della Fenice e la sua rinascita dalle proprie ceneri ne fecero il simbolo della rinascita spirituale nonché del compimento della Trasmutazione Alchemica, processo Misterico equivalente alla rigenerazione umana (“Fenice” era il nome dato dagli alchimisti alla pietra filosofale). Oggi ognuno di noi può assumere ritualmente la propria trasformazione (vita, morte e resurrezione) e attraverso il mito accedere alla decodificazione dei simboli stessi del percorso iniziatico, pervenendo alla rivelazione nascosta.
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I Fregi ad oggi pubblicati La sequenza dei Fregi è in ordine alfabetico per denominazione di Loggia e successivamente per Oriente.
R∴L∴ 14 Juillet Or∴di Savona R∴L∴ 4 Giugno 1270 R.G. Or∴di Viterbo R∴L∴ Ab Initio Or∴di Portoferraio R∴L∴ Ad Justitiam Or∴di Lucca R∴L∴ Aetruria Nova Or∴di Versilia R∴L∴ Alef Or∴di Viareggio R∴L∴ Aleph Or∴di Lecce R∴L∴ Aletheia Or∴di Roma R∴L∴ Alma Mater Or∴di Arezzo R∴L∴ Anita Garibaldi Or∴di Firenze R∴L∴ A.Garibaldi/A.Giulie Or∴di Livorno R∴L∴ Antares Or∴di Firenze R∴L∴ A.Toscano Or∴di Corigliano Calabro R∴L∴ Antropos Or∴di Forlì R∴L∴ Araba Fenice Or∴di Vibo Valentia R∴L∴ Archita Or∴di Taranto R∴L∴ Aristotele II Or∴di Bologna R∴L∴ Astrolabio Or∴di Grosseto R∴L∴ Athanor Or∴di Brescia R∴L∴ Athanor Or∴di Cosenza R∴L∴ Athanor Or∴di Pinerolo R∴L∴ Athanor Or∴di Rovigo R∴L∴ Athena Or∴di Pinerolo R∴L∴ Atlantide Or∴di Pinerolo R∴L∴ Audere Semper Or∴di Firenze R∴L∴ Augusta Or∴di Torino R∴L∴ Aurora Or∴di Genova R∴L∴ Ausonia Or∴di Siena R∴L∴ Ausonia Or∴di Torino R∴L∴ Bereshit Or∴di Sanremo R∴L∴ C. B.Conte di Cavour Or∴di Arezzo R∴L∴ C. Rosen Kreutz Or∴di Siena R∴L∴ Carlo Fajani Or∴di Ancona R∴L∴ Cartesio Or∴di Firenze R∴L∴ Cattaneo Or∴di Firenze R∴L∴ Cavalieri del Tempio Or∴di Roma R∴L∴ Cavour Or∴di Prato R∴L∴ Cavour Or∴di Vercelli R∴L∴ Chevaliers d’Orient Or∴di Beirut R∴L∴ Cidnea Or∴di Brescia R∴L∴ Clara Vallis Or∴di Como R∴L∴ Concordia Or∴di Asti R∴L∴ Corona Ferrea Or∴di Monza R∴L∴ Cosmo Or∴di Argentario Albinia R∴L∴ Costantino Nigra Or∴di Torino R∴L∴ D.Di Marco Or∴di Piedim.Matese R∴L∴ Dei Trecento Or∴di Treviso R∴L∴ Delta Or∴di Bologna R∴L∴ Eleuteria Or∴di Catania R∴L∴ Eleuteria Or∴di Pietra Ligure R∴L∴ Emanuele De Deo Or∴di Bari R∴L∴ Enrico Fermi Or∴di Milano R∴L∴ EOS Or∴di Bari
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R∴L∴ Epidamnus Or∴di Durazzo R∴L∴ Erasmo Or∴di Torino R∴L∴ Ermete Or∴di Bologna R∴L∴ Etruria Or∴di Siena R∴L∴ Excalibur Or∴di Trieste R∴L∴ Falesia Or∴di Piombino R∴L∴ Fargnoli Or∴di Viterbo R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Torino R∴L∴ Fedeli d’Amore Or∴di Vicenza R∴L∴ Federico II Or∴di Catania R∴L∴ Federico II Or∴di Firenze R∴L∴ Federico II Or∴di Jesi R∴L∴ Fenice Or∴di Massa Marittima R∴L∴ Fenice Or∴di Roma R∴L∴ Fenice Or∴di Spotorno R∴L∴ Ferdinando Palasciano Or∴di Roma R∴L∴ Francesco Nullo Or∴di Varsavia R∴L∴ F.Rodriguez y Baena Or∴di Milano R∴L∴ Fidelitas Or∴di Firenze R∴L∴ Filistor Or∴di San Severo R∴L∴ Fra Pantaleo Or∴di Castelvetrano R∴L∴ Fratelli Cairoli Or∴di Pavia R∴L∴ Fratelli d’Italia Or∴di Piombino R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Roma R∴L∴ G.Ghinazzi Or∴di Vibo Valentia R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Livorno R∴L∴ G.Mazzini Or∴di Parma R∴L∴ G.Biancheri Or∴di Ventimiglia R∴L∴ G.Bruno - S.La Torre Or∴di Roma R∴L∴ G.Papini Or∴di Roma R∴L∴ Galahad Or∴di Roma R∴L∴ Garibaldi Or∴di Castiglione R∴L∴ Garibaldi Or∴di Cosenza R∴L∴ Garibaldi Or∴di Mazara del Vallo R∴L∴ Garibaldi Or∴di Toronto R∴L∴ Gaspare Spontini Or∴di Jesi R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Catanzaro R∴L∴ Gianni Cazzani Or∴di Pavia R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Bari R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di Firenze R∴L∴ Giordano Bruno Or∴di R.Calabria R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Follonica R∴L∴ Giosue Carducci Or∴di Partanna R∴L∴ Giovanni Bovio Or∴di Bari R∴L∴ Giovanni Pascoli Or∴di Forlì R∴L∴ Giovanni Risi Or∴di Firenze R∴L∴ Giustizia e Libertà Or∴di Roma R∴L∴ Goldoni Or∴di Londra R∴L∴ Graal Or∴di Livorno R∴L∴ Hercules Or∴di Cagliari R∴L∴ Herdonea Or∴di Foggia R∴L∴ Heredom Or∴di Torino R∴L∴ Hiram Or∴di Bologna
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