Gigi Mazzullo la mia storia

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raccolta da Tiziana CalzĂ

Gigi Mazzullo La mia storia

Gigi Mazzullo La mia storia raccolta da Tiziana CalzĂ


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Gigi Mazzullo La mia storia raccolta da Tiziana CalzĂ

Milano, dicembre 2006


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Mio Padre Quinto Decio Pantanico 4


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Infanzia

Sono nato a Milano nel 1920. Mi hanno raccontato che appena nato ho sgranato gli occhi guardando il sole. Certo, come tutti i neonati non vedevo, ma mi è stato detto che c’era una bellissima giornata di sole, col cielo molto azzurro e questo è stato di buon auspicio. Era una Milano “ancien regime”, sicuramente più semplice dell’attuale, molto più lenta nei ritmi, più pulita di ora, forse più precisa. Qualche giornalista ha detto che “era una Milano da amare”; non so se c’è un po’ di esagerazione ma io la ricordo così, con grande affetto. Il nostro quartiere era chiamato l’Isola, perché era una zona compresa fra la ferrovia ed il fiume Lambro, un’isola speciale dove c’era molta vita di quartiere, c’erano molte “teppe”, dei ragazzi di strada. Ricordo che spesso si accendevano delle battaglie fra quelli di via Borsieri contro quelli di via Garigliano. Via Borsieri era famosa ai tempi anche per l’alto numero di ladri. Mio papà era di Messina, il quindicesimo figlio di ventidue, per questo si chiamava Quinto Decio Pantanico, era medico chirurgo, vice primario del Fatebenefratelli, percorreva giornalmente, a piedi, proprio questa via e poi il ponte e Corso Como e da buon meridionale, portava con sé sempre la pistola. La cosa era risaputa tanto che tutti lo chiamavano “el dutur de la pistola” lui che non avrebbe sparato mai neanche ad un topo, e non avrebbe fatto male ad una mosca. Per me è stato una persona meravigliosa, un esempio, un faro; ancora ades5


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so io lo adoro, perché penso che un uomo così nella vita lo si incontri una volta sola. Era di una limpidezza assoluta, la parola data per lui era sacra. Quando accordava la fiducia a qualcuno era una cosa totale, completa, ed i pazienti spesso diventavano suoi amici. Mamma era una Severgnini di Caravaggio, una bergamasca tosta ma saggia, prima risolveva i problemi concreti, solo dopo si occupava dei risvolti morali, psicologici… Basti pensare che mio padre le passava una cifra mensile, ma lei era così avveduta che riusciva di nascosto a metterne via sempre una parte, per farsi un gruzzoletto. Era capace di fare qualche chilometro a piedi per trovare cose che costassero meno, rivoltava il cappotto di mio padre quando era usurato, facendolo sembrare nuovo, faceva in casa anche i nostri vestiti. Il più delle volte poi quel gruzzolo lo spendeva per me. Ricordo che una volta addirittura andò al “Paradiso dei bambini” che era il negozio di giocattoli più caro di Milano e comprò per me un monopattino francese di metallo chiamato Mobilette che aveva due pedali. Tutti gli amici lo vollero provare, io ne ero un po’ geloso, ma non dicevo mai di no, ne approfittarono tutti finché si ruppe in modo irreparabile e dovetti buttarlo. Un altro episodio che la riguarda è quello del nostro battesimo. Mio padre era iscritto alla Massoneria, e come tale non era religioso, dunque noi figli non eravamo battezzati. Arriva un giorno che mio padre viene operato di calcoli, mia madre allora fa un voto: “Se lui si salva, faccio battezzare i miei figli!” L’operazione andò bene e lei mantenne la parola data: fummo battezzati tutti e tre insieme nella chiesa di S. Maria alla Fontana, io avevo già dodici anni, e avendo superato l’età giusta, mi risparmiarono la cresima. Mio padre non disse nulla perché accettava di buon grado tutto ciò che mia madre decideva. Eravamo tre fratelli. Mia sorella Rosita era la più intelligente in famiglia, era laureata in farmacia e ha praticato la professione per tantissimi anni. É sempre stata una 6


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a, b. Tino, Rosita e io c. Moadre Tina Severgnini e mia moglie Marisa 7


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donna eccezionale, distratta da morire, come farmacista forse addirittura pericolosa, avrebbe potuto darti qualsiasi cosa al posto del medicinale giusto, ma intelligente in modo speciale, con dei colpi di genio, che le venivano all’improvviso. Diceva delle cose pazzesche per i tempi. Ad esempio si dichiarava assolutamente atea! Aveva le sue stranezze. Un giorno chiamò disperata mia mamma gridando: “Non riesco più a staccare i piedi da terra, un raggio di sole me li ha trafitti!” E se ne stava ferma davanti alla finestra incapace di muoversi. Nella storia familiare è famoso anche un altro episodio che la vede protagonista. Papà era appassionato di astronomia, ci insegnava la posizione delle varie costellazioni nel cielo e poi ci interrogava con una raffica di domande: “Dov’è Mizar? Dov’è la Polare? Dov’è Arturo della costellazione di Bootes?” Una sera, alla fatidica domanda di mio padre: “Questa, che stella è?” mia sorella, che non le ricordava mai, gridò felicissima: “É Pellegrini!” che era un nostro amico di nome Arturo. Da allora nel nostro lessico familiare la stella Pellegrini ebbe un posto indimenticabile. Il fratello minore, Agatino detto Tino, era invece un po’ chiuso, timido, partecipava pochissimo alla vita sociale della famiglia, ma era intelligente tanto che era un forte giocatore di bridge e giocava ogni giovedì sfidando validi avversari. É stato impiegato di banca per anni; entrambi purtroppo sono morti qualche anno fa. La nostra casa era situata fra via Marsala e via Solferino; nella parte più interna, in una costruzione fantastica con giardino e campo da tennis, abitava la contessa Lina Erba, figlia del famoso Carlo Erba della omonima azienda farmaceutica, sposata al Conte Castelbarco. Abitavano con lei i nipoti Umberto, Dodo e Jolli, nostri amici e compagni di avventure. Io e mia sorella eravamo molto vivaci e ci scatenavamo a fare le cose più strane. Avevamo tutti le biciclette e il cortile era frequentato da ragazzini di tutte le età; giravamo fra le aiuole, chi gridava, chi si scontrava, chi cadeva, per la disperazione di chi abitava a pian terreno. C’era sempre qualcuno che esasperato ci gridava di smetterla. 8


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La più arrabbiata con noi era una vecchia contessa di nome Pierina, una figura ieratica sempre vestita di nero. A pensarci aveva anche ragione, perché ne combinavamo una ogni giorno. Sul cortile si affacciavano le vetrate dello studio di un architetto, famoso pittore, Gigiotti, noi con i fucili a pallini sparavamo bucando i vetri e i disegni dei suoi progetti. Passavamo il tempo libero a combinare in continuazione scherzi. Salivamo spesso sui solai, oltre il quarto piano, ci si poteva accedere da ogni scala ed erano comunicanti fra loro, naturalmente solaio e tetto erano una attrazione forte per noi. Ci aggrappavamo al cavo in acciaio che legava il parafulmine, per raggiungere il bordo esterno del tetto, dove c’era la grondaia, ed il divertimento era far morire di paura le signore che passavano in strada. Uno di noi, molto forte, teneva sollevato per la cintura di cuoio dei pantaloni un compagno più piccolo, e lo faceva sporgere dal tetto. Gridavamo alle passanti: “Signora, signora!” Loro rimanevano lì paralizzate dal terrore, a guardarci a testa in su, e noi a ridere soddisfatti... Oppure buttavamo giù dal tetto qualcosa, ricordo un gatto che approda miagolando nel cunicolo dei rifiuti aperto. Siamo stati diffidati dal continuare dai vigili urbani, ma noi con una “faccia di tolla” unica, cercavamo di negare sempre. Che incoscienti! Eravamo proprio dei piccoli mascalzoni.

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I Mazzullo prima del terremoto del 1908 10

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Radici

Nonno Luigi, (n. 1829) era ricchissimo, aveva tante proprietà terriere: oliveti, vigneti, un castello, case coloniche e perfino una montagna. Aveva sposato Rosa Cacciolo (n. 1839) e con lei aveva avuto quindici figli. Aveva partecipato ai moti del 1848 e all’avventura garibaldina, militando nella compagnia di volontari di D’Ondes, ed era stato giornalista e Segretario della Camera di Commercio di Messina per molti anni. Era convinto della necessità di aprire una strada dal suo paese Mandanici fino al mare, a Roccalumera, senonchè questa strada non si faceva mai, allora il nonno la fece costruire a spese sue! Dodici chilometri di strada, dal suo paese al mare! Io lo ho conosciuto a cinque anni d’età, quando mi sono imbarcato per la Sicilia, in un mitico viaggio di scoperta delle mie radici, con mio padre, mia madre e i miei fratelli per conoscere i nonni e tutta la numerosa famiglia. Quando, dopo il viaggio in treno e l’attraversamento in ferry boat, siamo sbarcati all’imbarcadero di Messina, abbiamo trovato quattordici carrozze, con non so quanti parenti ad aspettarci. Ci hanno portato a casa dove ci attendeva nonna Rosa ed il resto della famiglia. Entrammo in paese, appena fuori casa, seduti sulle panchette stavano degli uomini. Come spesso succede al sud, facevano passare il tempo ricordando, chiacchierando e commentando le vicende del giorno. Tutti si fermarono incuriositi ed un vecchio cieco al passaggio di mio padre disse commosso: “Sento la voce di don Pantanico!” Papà era al colmo della felicità, abbracci, strette di mano, l’aria eccitata 11


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del ritorno a casa. Ero molto colpito perché il vecchio voleva baciare le mani in segno di rispetto anche a me, che ero un bambino. Mio padre non stava più nella pelle dalla gioia e il clima di commozione ed euforia travolse anche noi bambini, passavamo da un invito a pranzo all’altro, da una casa all’altra. Ho un ricordo indelebile anche del pranzo patriarcale dai nonni. Un tavolo enorme, i nonni a capotavola, con due nurse sempre al loro fianco e tutti i figli in ordine di età dal più grande al più piccolo, da un lato i maschi, dall’altra le femmine. I cibi venivano portati in tavola su un grande vassoio, sollevato da due servitori. Tutti i ragazzi avevano dovuto laurearsi, chi in medicina, chi in ingegneria, delle ragazze nessuna aveva potuto studiare: secondo la mentalità del tempo, nessuna doveva uscire di casa. Mio padre mi fece visitare le terre e mi diceva: “Questo suolo che calpesti è tuo! Questa casa è tua!” Era la prima volta che ne parlava; pensate che a mia madre non aveva mai detto di essere un possidente! Ritrovare le sue radici gli aveva forse ridato l’orgoglio per la sua famiglia e per i suoi averi. Le cose in quel momento non stavano andando per il meglio; nel dicembre del 1908 un terribile terremoto aveva distrutto la città di Messina e aveva fortemente segnato le proprietà di famiglia, il castello era stato completamente distrutto, le case avevano subito grossi danni. Non solo, il sisma aveva causato tante morti nella famiglia. In seguito, quando mio nonno fece le divisioni per l’eredità, combinò una specie di puzzle, destinando a ciascun figlio un pezzo di terra qui, uno là. Tanto che quando mio padre fu costretto a vendere questo modo di dividere costituì un problema, perché non era un blocco ben definito, ma proprietà sparse, un ettaro qui, tre ettari là. Ci ha messo lo zampino anche la mafia: l’ultimo terreno che ho venduto era a Patti, l’ho fatto valutare da un amico ingegnere, che stabilì la cifra di 300 milioni di lire; noi ne abbiamo ottenuti dodici milioni in tutto, me lo hanno venduto come agricolo e subito dopo la mafia locale lo ha fatto diventare edificabile! 12


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Monumento a Luigi Mazzullo a Mandanici 13


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Mio Padre Quinto Decio Pantanico


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Il patatrac

Era il 1927, io avevo sette anni, quando in casa successe il “patatrac”. Mio padre, uomo venuto dal sud, sognava per me un futuro da industriale, nella Lombardia industriale. Diventò molto amico di un suo paziente, Stefano Minossi, proprietario di una fabbrica di cuscinetti a sfera e appassionato di caccia come lui. Quasi ogni domenica uscivano con la macchina di Minossi e andavano a caccia. Questa amicizia sembrava così forte che quando io ed i miei fratelli ci ammalammo di pertosse, allora si cercava di far cambiare aria ai bambini ammalati, ci ospitò a turno nella sua casa che stava all’interno della fabbrica di cuscinetti a sfera che possedeva alla Bovisa. Sembrava che senza di lui non potessimo vivere, io in particolare ero proprio innamorato di lui perché era stato un precursore dell’aeronautica. Nella sua casa infatti aveva appeso degli ingrandimenti fotografici di vecchi aerei, che ai miei occhi di appassionato di volo erano meraviglie. Mi prometteva inoltre che mi avrebbe costruito un piccolo aeroplano, ed io ero così infatuato che credevo a tutto ciò che mi diceva. Ad un certo punto il Minossi chiese a mio padre se gli poteva prestare del denaro, perché aveva un momento di difficoltà e lui gli prestò una cifra enorme, ma rifiutò assolutamente qualsiasi ricevuta, perché “tra amici basta guardarsi negli occhi!” Domenica dopo domenica continuarono a trovarsi in amicizia, e una bella sera dopo la caccia, Minossi che probabilmente aveva già preordinato un piano, lo fece bere fino ad ubriacarsi e gli fece firmare, in stato di incoscienza, una montagna di cambiali, per cifre enormi. 15


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Il giorno seguente papà non ricordava nulla di quello che era successo, e tutto per un poco continuò come se nulla fosse. All’improvviso arrivò il fallimento totale della ditta. Mio padre, che nel frattempo era diventato suo socio, si ritrovò a dover rispondere come il proprietario, anzi si ritrovò da solo, perché l’altro, con quella che diceva essere la moglie, era fuggito in America. Solo, con questa montagna di debiti, proprio non sapeva come uscirne. Per fortuna aveva amici carissimi che lo stimavano molto, e avrebbero fatto qualsiasi cosa per aiutarlo, fra questi un agente di borsa di Milano che coprì interamente la cifra per allora enorme. Mio papà assicurò la restituzione entro certi tempi, dandogli carta libera di vendere e svendere tutte le sue proprietà in Sicilia. Per restituire quei soldi chiesti in prestito, tutto fu venduto. Molto più tardi si venne a sapere che lo stesso fratello ed i parenti che avevano curato le vendite si erano intascati il cinquanta per cento dell’incasso. Così vanno le cose talvolta fra i “buoni parenti”. Papà non reagì perché aveva bisogno di questi soldi e si ritrovò senza più una lira a ricominciare completamente da capo. Questa storia però lo aveva proprio avvilito, lo aveva buttato a terra soprattutto nello spirito, perché si sentiva tradito nella fiducia accordata a quello che credeva un amico. A questo punto mia madre, che è sempre stata una donna eccezionalmente pratica e che non si faceva emozionare quasi da niente, prese in mano la situazione. Siccome non aveva nemmeno sospettato l’entità della ricchezza del marito, non si perse nei lamenti o nei rimpianti; con molta intelligenza, mi tenne a casa da scuola e mi obbligò ad accompagnare mio padre dovunque andasse. Era convinta che essendo il figlio prediletto lo avrei protetto da brutti pensieri. Non dimentichiamo che era il famoso “dotur dalla pistola”, e avrebbe potuto reagire drasticamente. Se usciva lo seguivo, se andava ad operare, io lo aspettavo fuori dalla sala operatoria, per un mese restai attaccato a mio padre. Forse anche per questo, si costruì fra me e papà un rapporto fortissimo, 16


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di una affettuosità unica. Quando tornava a casa nelle giornate invernali, con i piedi congelati, ero io che gli facevo il bagno ai piedi sorvegliando che l’acqua non fosse troppo calda, io che gli tagliavo le unghie. Era di un’eleganza molto precisa e fin dal suo arrivo a Milano aveva cominciato a farsi fare le scarpe da un calzolaio in Corso XXII Marzo, in materiale leggerissimo, e portava sempre e solo quelle, sia d’estate che d’inverno. Comunque ero io il primo che gli correva incontro, avevo una confidenza con lui, sconfinata, anche quando da grande avevo dei problemi, ricorrevo a lui. Ricordo una volta che gli ho detto: “Papà, ho contratto una malattia venerea da una di quelle donne”; allora c’erano i postriboli e l’iniziazione sessuale dei ragazzi avveniva così. Ma lui non si è scomposto e mi ha detto: “Stai tranquillo, è successo anche a me, prendi questa medicina!” e me la sono cavata in pochi giorni. Tornando al periodo che seguì il patatrac, piano piano tornò la calma in famiglia, la situazione economica fu sanata e papà si dedicò alla sua professione; aveva perso tutto, ma pazienza, avrebbe anche potuto andare peggio, ci sarebbe potuta essere anche la galera. Mamma Tina anche quella volta ebbe ragione.

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Il volo: toccare le nuvole con le mani!

Avevo una passione che sovrastava tutte le altre: quella per il volo. Ho sempre amato il sole ed il cielo in tutti i suoi aspetti, quando era azzurro ma anche quando era attraversato da certe nuvole bianche, soffici, leggere che avrei voluto toccare con le mani! Soprattutto ero attirato e meravigliato da ciò che volava: da tutti gli uccelli, dai colombi ai falchi, alle rondini. Ero innamorato in particolare del volo delle rondini, così semplice, bello, fluido, armonioso. Da giovinetto ho cominciato a costruire degli aero modelli. Inizialmente inventavo delle “cose” che mi si rompevano fra le dita, poi pian piano costruivo “cose” che riuscivano a decollare, era una gioia di breve durata perché facilmente crollavano e si rompevano. Mia mamma mi assecondava, mi comprava quello di cui avevo bisogno. A Milano allora c’era un solo posto dove si comperavano i materiali che servivano, ad esempio il legno di balsa che è uno dei più leggeri, poi le ruote in gomma già pronte, le eliche, che erano troppo difficili da costruire da soli. Avevo l’appoggio di mia madre, mio padre invece mi lasciava fare, ma si fingeva disinteressato. Guardandomi in giro, con un po’ di intuito e con l’aiuto di questi pezzi, ho costruito tanti bei modellini volanti. Appena avevo tempo libero caricavo i miei modelli in spalla, inforcavo la mia bicicletta ed andavo a Taliedo, nella zona bassa dell’aeroporto, dove mi trovavo con degli appassionati di aero modelli. Avrò avuto circa quattordici anni, quando a Taliedo cominciarono ad or19


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ganizzare dei corsi di volo a vela. Provavamo il volo sugli Zugling, che a parte le ali, erano così rudimentali, che sembrava di volare su una scopa della strega! Facevamo dei salti di pochi metri, tramite il traino di un elastico teso e poi mollato, si riusciva a fare un volo alto due e tre metri e lungo circa cinquanta. Si doveva cercare di non andar giù di muso, di non rovinarsi, di non rovinare l’aeroplano. La scuola era diretta da un maresciallo in pensione, un certo Broggini, il quale aveva sempre in mano un bastone e gridava, urlava, come se volesse sempre picchiarci, mentre in realtà era un papà per tutti! Dopo un periodo di questi voli si è passati ad un modello più vero, chiuso, chiamato Cantù, col quale potevamo fare dei voli già abbastanza alti, qualche virata e atterrare. Eravamo mossi da un grandissimo entusiasmo, andavamo in giro orgogliosi con la maglia con scritto “Reale Aeroclub di Milano”, al quale eravamo tutti iscritti; la sede era in via Ugo Foscolo ed era diventata un luogo di ritrovo per noi ragazzi. Lì incontrai tante persone, per esempio una vecchia signora che era la madre della prima pilota italiana donna, che è morta nel deserto del Sahara, la Gheby Angelini, una figura leggendaria. La mamma mi prese in simpatia, mi regalò una foto della figlia con autografo; aveva proprio dell’affetto per me, forse perché nel gruppo ero il più giovane e il più appassionato, con quella voglia di andare nel cielo e toccare le nuvole. Dopo l’ultimo corso di volo a vela, che mi valse il brevetto B, avevo vinto in premio un corso di volo a motore per ottenere il brevetto civile a motore. Ma non avevo l’età. Contemporaneamente mio papà pur non sapendo nulla di questo, aveva speso mille e settecento lire per pagarmi lo stesso corso, a Taliedo. Abbiamo cominciato con aerei poco impegnativi come lo S4, fino ad arrivare al Caproni 100 e finalmente ho ottenuto il brevetto di pilota civile: così mi sono guadagnato la mia aquila! Volare era il mio interesse principale, perciò la scuola passava in secondo 20


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piano, studiavo poco, passavo da una scuola all’altra. Era mia mamma poveretta che si doveva occupare del mio percorso scolastico, metteva al lavoro tutte le sue amiche, mi iscriveva ad una scuola, la cambiava, ma io andavo sempre abbastanza male, perché il mio pensiero era solo per il volo. Per avere successi scolastici, non bastava certo solo la mia memoria che è sempre stata ottima e vivere di rendita di quanto ascoltavo qua e là; era troppo il tempo che trascorrevo con gli aeroplani, per gli aeroplani. Finalmente sono arrivato al diploma di perito industriale all’Istituto Feltrinelli e con quel diploma avevo il diritto di iscrivermi all’Accademia Aeronautica.

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All’Accademia

All’Accademia aeronautica di Caserta c’erano solo trecento posti, su tremila partecipanti al concorso, ho fatto gli esami e sono arrivato solo al trecentodecimo posto, così ho visto le mie speranze bruciate per un soffio! Ma non mi lasciavo certo abbattere, ho fatto un corso per allievi ufficiali piloti di complemento, per un brevetto militare. A me non interessava la carriera militare, ma era meravigliosa per le possibilità di volo che mi offriva. Sono stato prima a Pistoia, ospitato in una caserma che era un vecchio palazzo del centro, dal quale tutti noi allievi ci spostavamo in bicicletta fino all’aeroporto. Eravamo in trenta in una camerata con una sola grande finestra, “Trenta e una finestra!” era diventato il nostro motto. C’erano ragazzi da tutte le parti d’Italia, laureati o diplomati in tutte le discipline. Durante il corso volavamo con aeroplani Sai 202, a due posti affiancati, chiusi, dei begli aeroplani, facili. Ho fatto il mio primo decollo da solo, mi sono piazzato primo, anche perché avevo già il brevetto civile, ero dunque facilitato al pilotaggio. Quel brevetto è stato veramente “indimenticabile” per me, ma non nel modo che intendiamo di solito! I miei compagni hanno voluto festeggiarmi, mi hanno portato in un ristorante dove c’era una bellissima ragazza di nome Fiammetta, e probabilmente è stata un’esperienza indimenticabile anche per lei. Hanno co23


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minciato un giro di liquori, ma mentre loro ne bevevano uno, io dovevo berne il doppio, il triplo, ad un certo punto sono crollato sotto il tavolo, quasi in coma, e questo non sarebbe niente, hanno dovuto tirarmi fuori in due, trascinandomi a spalla ed in qualche modo mi hanno portato in caserma e sistemato sulla branda. Per farmi rinvenire, si sono divertiti a darmi degli schiaffi, uno schiaffo tira l’altro, si sono stufati e sono andati a letto, io sono stato lì a rantolare tutta la notte. Al risveglio io urlavo e basta, senza potermi spiegare, loro erano addirittura stufi perché li disturbavo, il fatto è che non si erano accorti di avermi fatto uscire la mascella dalla mandibola. Il dottore poi con una manovra me la rimise a posto, ma con un dolore indicibile: ero rimasto tutta la notte con la mascella fuori posto! Sono tornato dopo anni, con mia moglie, a rivedere Fiammetta e si ricordava ancora…. Ho fatto poi un altro corso per volo acrobatico, con aerei importanti il Ro 41, un biplano che permetteva di fare delle facili acrobazie. Non facevamo acrobazie in pattuglia, come siamo abituati a vedere dalle Fiamme tricolori, ma singole. Si andava in vite. Per andare in vite bisogna mettere l’aereo al minimo del sostentamento, così cade lui, tu non lo controlli più, poi fai una certa manovra che contrasta la caduta, devi spingere invece di tirare, è innaturale perché sembra di accelerare la caduta, in questo modo invece l’aereo si mette dritto e tu riprendi il controllo. Questo deve avvenire naturalmente prima di toccare terra; le prime volte fa un po’impressione, ma poi ci si abitua a tutto. Facevamo anche il “looping”, una volta chiamato il giro della morte, è una stupidaggine: si piglia velocità, fai il giro completo, ti rovesci e poi torni giù, con un cerchio verticale; poi tante altre cose. Per farla breve ho imparato a volare. Non sono mi stato un pilota bravissimo, sono stato un pilota mediamente bravo. Finito il corso di ufficiale di complemento, mi sono iscritto un’altra volta, all’Accademia, che aveva sede nel Palazzo reale di Caserta. Un posto meraviglioso! 24


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Sono stato ammesso come uno degli ultimi, dei trecento posti: per il rotto della cuffia! L’Accademia l’ho fatta con un entusiasmo, con un amore tale che riuscivo bene, perché riuscire nello studio era condizione per andare a volare, alla fine sono uscito uno dei primi. Ho scalato tutti i posti e alla fine dei tre anni, sono uscito secondo. Pesantissima l’Accademia e stupida! C’era una mentalità fascista al massimo, tutta la giornata era organizzatissima: sveglia alle cinque del mattino, una parte della giornata era dedicata allo sport: tennis, nuoto, bocce, cavallo, però non potevamo scegliere quale, dovevi seguire il programma, anche se non avevi voglia. Era obbligatorio il passo dell’oca, sempre, anche se ci trovavamo a passare nel grande Piazzale dei gagliardetti, solo in due, eravamo ridicoli ma non si poteva fare altrimenti. La possibilità di punizioni incombeva sempre, in libera uscita controllavano se avevi la pancera anche in estate. Allora si cercava di farsi furbi, tagliavamo una striscietta e la facevamo sporgere dai pantaloni per simulare la presenza della pancera. La nostra filosofia spicciola si riassumeva in questa frase: “Non è proibito fumare in fila, è proibito farsi trovare!” Per nuotare c’era una bella piscina, dovevamo aspettare il fischio di un istruttore che chiamavamo in greco “Calomelano”, (un prodotto farmaceutico nero…) perché era un uomo della Farnesina, vestito in nero sempre col fascio; al suo fischio tutti in acqua. Cercavamo di nuotare tutti verso il bordo, perché al fischio di uscita, l’ultimo andava in cella. Dunque un ultimo c’è sempre no? Così per tutte le altre discipline: regole stupide. Poi lo studio tipo liceo, con compiti in classe, voti e punizioni se il rendimento era scarso. I nostri professori erano gli stessi dell’Università di Napoli ed i programmi gli stessi del primo biennio d’ingegneria. A tutto questo si aggiungevano moltissime altre materie di tipo squisitamente aeronautico che riempivano al massimo le giornate. Le “libere uscite del sabato” e domenica erano condizionate dal profitto scolastico e dalla disciplina dimostrata. 25


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Tutti a casa!

L’otto settembre 1943 ci sorprese all’improvviso. “Tutti a casa!” fu la parola d’ordine. Ognuno se ne scappò verso casa. Abbiamo vissuto quel momento con sgomento ma anche con gioia. Sgomento perché abbiamo visto sfasciarsi l’esercito, per l’incertezza del momento, per l’incapacità di previsioni per il futuro, gioia perché essendo figlio di un socialista, mi dava molto fastidio ascoltare i trionfali bollettini di guerra che finivano sempre col saluto al duce e al re. Io tornai a Milano, la mia famiglia fortunatamente era stata ospitata in un bellissimo appartamento nella villa dei conti Castelbarco a Imbersago; a loro faceva comodo avere in casa un dottore e poi eravamo amici. Una villa con un parco enorme che ora è stata comprata da Moratti. Diventai molto amico di Carlo e Luigi di Castelbarco, che correvano in automobile nei circuiti e ne possedevano due. Con Luigi ho costruito delle automobili e dei piccoli modelli; aveva fatto arrivare dall’America un motore a scoppio microscopico ed io in quel periodo ero diventato “il Gigi delle automobili.” Sul lato sud della villa c’era una galleria di quaranta metri arredati con quadri di grande valore e quando sono arrivati i tedeschi, hanno requisito tutto, io però non avevo problemi, avevo tutti i documenti della Todt, una organizzazione che reclutava le persone per lavori, avevo dei permessi per la sera e la notte. Anzi, siccome ero molto robusto i tedeschi avrebbero voluto che facessi degli incontri di boxe... Stando lì ho conosciuto un sacco di persone, i “signori” di Milano, i più bei nomi della aristocrazia milanese, i Visconti di Modrone, i De Medi26


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ci, ed ho trascorso un periodo di spensierata libertà. Ero considerato sempre un “enfant prodige” mi presentavo bene con i miei maglioni dell’Accademia; averla frequentata era considerato un segno distintivo, quindi mi aprivano le porte delle ville, mi cercavano. Ed è stato lì che ho conosciuto il professore Aldo Carpi, famoso pittore. Anche lui finito poi a Mauthausen e si è salvato proprio per la sua abilità di fare ritratti, in cambio dei quali ebbe un trattamento migliore. Al ritorno diventò poi il direttore dell’Accademia di Brera. Frequentavo la famiglia e diventai amico dei figli, in particolare di Paolo, allora quindicenne. Paolo è morto nel campo di sterminio di Ebensee dove è morto pure il figlio dei farmacisti Lepetit, proprietari delle industrie farmaceutiche. Proprio Paolo un giorno mentre parlavamo della situazione italiana e dell’attività partigiana, mi disse: “Senti, perché non vieni con noi nei partigiani, ti presento Cappello.” Cappello era il nome di battaglia di un avvocato molto conosciuto a Milano di nome Luciano Elmo che era il presidente del partito Liberale clandestino dell’alta Italia. Dopo una conoscenza approfondita con entrambi mi trovai d’accordo su tutto, capii che ci poteva essere un altro modo di vivere, diventai avverso al regime, mi caricai d’entusiasmo ed entrai nel Partito liberale clandestino, con il nome di battaglia di Carlo Leoni; sono stato registrato così anche a Dachau. Andavamo nello studio dell’avvocato Elmo a prendere ordini e direttive, e ben presto mi sono messo a capo di un gruppo di ragazzi, giovani studenti, quasi tutti figli di questi proprietari di ville, con i quali siamo andati su in Valtellina, nella montagna vicino a Morbegno. Del gruppo, oltre a me è tornato a casa solo Piccaluga, del quale sono fraterno amico. Lassù in montagna alloggiavamo in una cascina, scontri militari per fortuna non ne abbiamo mai avuti, ma eravamo armati. In un armadio di casa mia, a Milano, tenevamo tante pistole e bombe a mano. Mia madre era terrorizzata e mi fece chiamare da suo fratello che era il Presidente del Banco di Sicilia a Milano, perché “mi rinsavisse”. Non ci riuscì naturalmente e dopo la guerra lo rimproverai di non averci aiutato. Più che guerriglia facevamo politica, dovevamo reclutare più 27


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gente possibile fra i giovani che avrebbero dovuto presentarsi ai comandi tedeschi. Cercavamo di convincerli ad entrare nella Resistenza sottraendoli alle ordinanze che intimavano di presentarsi ai comandi militari, pena la morte. Avevamo tutto l’indispensabile per difenderci ed offendere, ma il nostro ruolo era politico, togliere il sostegno della gente ai nazifascisti. Non era facile perché potevi trovare quello che ti denunciava. Era un lavoro psicologico, per avere qualche successo ti dovevi conquistare la fiducia delle persone. Eravamo collegati alla città e ad Elmo, tramite alcuni collaudatori delle moto Guzzi, che aveva la fabbrica a Mondello e che facevano per lavoro il giro di tutta la valle. Ci portavano informazioni, viveri e altro. Da lì ogni giorno scendevamo in città per fare delle operazioni. In tre abbiamo anche rapinato la cassa della Edison, operazione ordinata e disposta dal Partito. Per la verità eravamo d’accordo con il direttore, comunque siamo entrati, armi in pugno, pronunciando la formula di rito: “In nome dell’Italia e del popolo italiano consegnate il contenuto della cassaforte.” Mi hanno consegnato i soldi, cinquantamila lire, una bella somma; all’uscita avevo un appuntamento con un gruppo di finanzieri delle Fiamme gialle, ma quelle erano arrivate in anticipo e vedendo che non uscivamo, se ne andarono. Allora ho inforcato la mia bicicletta, parcheggiata lì sotto e sono corso dall’avvocato Elmo. C’era un sacerdote, io gli ho detto: “Mi dia la sua benedizione, perché io ho rubato!” Il prete sorridendo mi rispose: “Dai, non ti preoccupare, lo sai che i soldi in clandestinità non sono mai abbastanza!” Si sono messi a contarli, li hanno divisi un po’ per uno, per le spese, il resto lo portammo su in montagna per tacitare e risarcire i contadini delle perdite subite a causa della nostra presenza. Noi dovevamo pur mangiare, così a qualcuno è sparita anche una mucca, anche se non per opera mia…

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Dai Gap a San Vittore

Un giorno mi viene chiesto di tornare a Milano per un’operazione urgente: tentare di ricomporre un Gap che era stato distrutto per la spiata di qualcuno. Io avrei dovuto scovare la spia, ma certo trovarla a Milano non era cosa semplice. Elmo non se la sentiva di agire da solo, sapeva che conoscevo molta gente, quindi scelse me ed alcuni compagni del gruppo. Giunsi a Milano di mattina, feci colazione in un ristorante clandestino di Piazzetta della Scala, dove si poteva mangiare senza i bollini della tessera. Avevo con me i soldi della rapina, ordinai una bella porzione di pollo, un pasto da re, in quel periodo di restrizioni. Ricordo ancora il suo sapore, la mia soddisfazione. Fu l’ultima cosa bella di quel terribile giorno e di un terribile lungo incubo che sarebbe finito solo nell’aprile 1945; da allora, a casa mia, il 31 di luglio di ogni anno si mangia il pollo per ricordare quel giorno. Tutto soddisfatto andai da Elmo. Salgo per andare al terzo piano, di viale Regina Margherita, la portinaia mi ha fa un cenno, ma io non capisco, ero sicuro di me, baldanzoso, arrivo su e da dietro la porta un tedesco mi punta la pistola alla schiena. Avevo con me tutti i miei documenti falsi, ma anche, stupidamente, un biglietto da visita di mio padre. “Se lo scoprono, arresteranno anche lui!” pensavo. Allora stando contro un calorifero sono riuscito a far scivolare il biglietto sotto un soprammobile, un cane di ceramica che stava sopra la lastra di marmo copri termosifone. Mi hanno perquisito, mi hanno strappato la fodera della giacca e hanno trovato sul fondo della giacca un rotolino di carta, dove tenevo numeri 29


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telefonici vari, compreso quello di uno dei capi della Edison, questi numeri li avevo un po’ criptati, una criptatura da ragazzi però, trovare la chiave sarebbe stato facilissimo. Ero disperato. Mi fanno scendere, mi mettono in macchina e via verso il carcere di S. Vittore. A San Vittore mi danno quattro sberle e mi mettono in cella, col numero di matricola 1270, nel quinto raggio, cella d’isolamento numero quattordici: ero considerato pericoloso. Mi ritrovo solo, ad un certo punto mi tocco in tasca e ti trovo il rotolino che pure non era sfuggito alla perquisizione! Facevano anche delle stupidaggini per fortuna… Lo ho fatto in mille pezzi e l’ho mangiato. Dopo mi sono sentito più tranquillo, anche se c’erano tante scritte sui muri fatte anche col sangue, e potevo sentire le urla di quelli che venivano torturati durante alcuni interrogatori. A me hanno spento sigarette sulle gambe e mi hanno dato delle botte. A guerra finita li ho riconosciuti, erano dei giostrai, brutta gente, diventati sbirri della Gestapo; in seguito furono giustiziati. Il cibo, orribile, mi veniva passato attraverso lo spioncino, c’era un bugliolo di legno dove dovevi fare tutto, con un barattolo d’acqua, la mattina lo dovevi svuotare in un bugliolo più grande, che passava con un carrello. Una sola volta ci hanno portati alle docce, senza però permetterci di asciugarci. Un giorno, si apre lo sportello, vedo uno che mi guarda. “Gigi!” dice “Ma sei proprio Mazzullo!” Era un mio compagno di scuola che faceva lo “scopino” cioè l’addetto alle pulizie. “Senti io qui, sono Carlo Leoni, non tradirmi ti prego”. Non mi tradì anzi riuscì a portarmi del cibo, una volta perfino del burro, ma lo pregai di darlo a Paolo Carpi, che essendo un ragazzino, di fame ne aveva certamente più della mia. In tutto il periodo del carcere, mio padre mi è stato vicino, in un modo che ancora mi commuove. Non andava all’ospedale, veniva davanti a San Vittore, si sedeva su una panchina, fuori del carcere, solo per starmi vicino, fermo lì solo per farmi compagnia; chissà quali erano i suoi pensieri, forse stavo meglio io dentro che lui fuori a fare i conti con la sua ansia, la preoccupazione per il figlio. Poi è arrivato il giorno che ci hanno pre30


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so e messo sugli autobus per Gries. Sapevamo solo che saremmo passati da Como. Avevamo un certo Pagani, un campione di moto che faceva servizi per la Guzzi; passava a darci informazioni e ci aveva assicurato che saremmo passati per il lato ovest del lago di Como, dove i partigiani avevano minato dei ponti, e ci sarebbero state buone possibilità di essere liberati. Invece il convoglio prese la strada est e purtroppo siamo arrivati a destinazione senza intoppi. In seguito hanno arrestato anche Elmo, gli fecero fare certi percorsi a piedi, in giro per Milano, seguito da un militare in borghese. Lo obbligarono ad esempio a prendere un aperitivo da Zucca e chiunque gli facesse un cenno di saluto, fosse stato anche solo un cliente o un conoscente che non c’entrava nulla con la Resistenza, veniva fermato interrogato, arrestato. É stato portato via non con noi, ma subito dopo lo hanno messo su un convoglio bestiame, per la Germania, invece è riuscito a sollevare delle tavole di legno del fondo del vagone e nel momento in cui il treno ha rallentato verso Bolzano, si è buttato giù, fratturandosi il naso su una delle traversine, ma è riuscito, dopo che è rinvenuto, ad andare in un convento di suore di clausura. Da lì si è rifugiato in Svizzera, dove è rimasto fino alla fine della guerra. La regola era che se uno tentava di scappare, avrebbero fucilato tutti gli altri del vagone, ma non hanno fucilato nessuno, perché non se ne sono accorti. Ne facevano tanti di appelli, ma potevano sbagliare anche loro, per fortuna.

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Nel campo di Gries

Era il 17 agosto del 1944 quando arrivammo al centro di smistamento di Gries, alla periferia di Bolzano, vicino all’ex stabilimento della Lancia. Ci hanno riuniti, inquadrati, qui ho avuto la fortuna di fare conoscenza col capo campo, un giovane deportato, il maggiore Armando Maltagliati, che parlava anche tedesco. I capo campo portavano una fascia rossa al braccio, erano responsabili dell’ordine, dell’inquadramento, della disciplina del campo; rispondevano delle fughe, della distribuzione del rancio. In questo modo le SS se non succedeva niente, erano tranquilli, mangiavano, dormivano, avevano la loro bella villetta al centro. Ad un certo punto ho avvicinato il maggiore e gli ho riconosciuto un anello. Gli ho chiesto: “Tu sei del corso Orione dell’Accademia di Caserta!” “Come fai a saperlo?” chiede sorpreso. “L’ho fatta anch’io!”rispondo. “Mi devi fare un piacere, dice allora lui, devi diventare Blockhaltester del blocco A. Non ti preoccupare non è una cosa rischiosa, non succede niente qui” Mi tranquillizzò ed aveva ragione. Accettai e per tutto il tempo che rimasi, fino al 7 settembre del 1944, la situazione fu tranquilla, mi occupavo solo della sveglia e della distribuzione del rancio. C’era ancora cibo, si poteva addirittura comprare della roba, fra i tanti che c’erano, ricordo Olivelli un ragazzo che tornato dalla Russia, diventò giovanissimo rettore del Collegio Ghisleri di Pavia ed è stato poi beatificato. 32


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Olivelli che faceva l’interprete, mi raccontava tra l’altro che leggeva le lettere che un SS del campo scriveva a casa. Diceva: “Ah come mi mancate voi e i fiori del mio giardino!” ed altre frasi che rivelavano sentimenti umani, e noi eravamo sconcertati. Il nemico aveva umanità, come era possibile? Come capo blocco ho agito con correttezza e umanità con tutti, non mi si può imputare niente, ma avevo la fortuna che per via di questo ruolo, potevo entrare anche nel blocco femminile e nell’infermeria. Così ho conosciuto diverse persone, anche importanti: una, la signora Carla Ucelli di Nemi, moglie del professor Guido, fondatore del Museo della Scienza e della Tecnica, una Tosi di Legnano, gente ricchissima che quando mi sono sposato mi hanno fatto un regalo di nozze, una Madonnina in ceramica che conservo. Conobbi anche una signora che era la moglie morganatica di Badoglio. Lei mi ha raccomandato: “Se io non tornassi, ti prego, vai da Badoglio e digli di aver cura di nostro figlio.” Lei non è tornata ed io sono andato da Badoglio che mi ha ricevuto nella sua casa lussuosa con tanti camerieri, ascari che servivano a piedi nudi. Parlando in mezzo piemontese mi disse: “Ah questo fiol, pensa che tipo, quando io gli ho detto che è morta sua madre, lui è andato a teatro!”. Credo che il figlio abbia fatto poi carriera militare, quanto al padre sono convinto che avrebbe potuto fare qualcosa per la moglie, ma non l’ha fatto. C’era una sedicente duchessa, Carla Ferretti di Castel Ferretto, una donna singolare, molto simpatica che era stata arrestata all’Hotel Roma di Torino, non so con quale imputazione. Quando l’hanno presa era in tenuta da cavallo, con gli stivali e tutto il resto, ed era ancora vestita così a Gries. Del resto come eravamo, così ci hanno internati. Faccio una parentesi, io ero vestito con un paio di braghe da operaio, non c’erano ancora i jeans, ma erano di una stoffa rustica simile, indossavo una bella camicia, una bella giacca; ma quello che di meraviglioso avevo, che a Milano erano in pochi a possedere, erano i mocassini di Mariconti, il 33


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non plus ultra della moda artigianale italiana. Erano fatti a mano, su modello indiano, morbidi, costavano una cifra enorme per me. Li ho portati fino a quando all’arrivo al mio secondo campo, Flossenbürg, me li hanno tolti e sostituiti con degli zoccoloni di legno. Mi ha fatto veramente dispiacere perché godevo di queste scarpe, tanto che mi sentivo un po’ diverso dagli altri. Nella realtà non sono mai stato diverso da nessuno, ma il mondo va così, si è contenti di cose assurde... La duchessa mi ha anche infastidito dopo la guerra, perché eravamo giovani e lei si era invaghita di me, io stavo bene come fisico, ma ero un tale deficiente… Mi ha scritto da tutte le parti del mondo, mi ha quasi perseguitato, scriveva: “Vieni, ci sposiamo a Città del Capo, dove ho dei possedimenti!” Poi ad un certo punto mi arriva, da un avvocato svizzero, una lettera. Nella lettera c’è una fattura di un sacco di cose acquistate da lei, dal conto di una scuola di equitazione, a tante altre frivole cose, e mi si dice: “Essendo lei il fidanzato della duchessa deve saldare il suo conto!” Questo accadde due o tre anni dopo la fine della guerra e naturalmente rifiutai. L’esperienza di Gries fu per me di breve durata; seppi in seguito che dopo la partenza del nostro gruppo, il campo divenne un inferno, la sopraffazione e la barbarie più feroce presero il sopravvento.

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Da Flossenbürg a Dachau

Ad un certo punto ci portano alla stazione di Bolzano, ci mettono su uno di quei vagoni, come bestiame: direzione Flossenbürg. Facevano anche tappe lunghe, senza mangiare, senza bere; alle fermate ci passavano vicino delle persone anche donne, magari con una bottiglia d’acqua in mano, facevano finta di non vedere. É la guerra, e nella guerra si odia, si ama, ci si salva, si salvano gli altri, si uccide. C’è chi è molto generoso e chi fa cose orribili. Ora al mondo, crediamo in tante cose, ma sono convinto che dovremmo credere in un solo Dio evitando le guerre, tutte le guerre: quelle di religione, quelle razziali, quelle per la supremazia, quelle per rapinare gli altri popoli delle loro ricchezze, guerre politiche e per le risorse energetiche. Invece sembra che le guerre non finiscano mai. Ah il mondo è proprio sbagliato! Io ho fatto l’Accademia militare odiando sempre la guerra. Odiavo chi la pensava, chi la faceva. Mi piaceva solo la tecnologia del volo! Torniamo a Flossenbürg, era vicino a alla Polonia, ed è stato l’inferno. Ci sono rimasto dal 9 settembre al 7 ottobre 1944, nel blocco 22, matricola 21506. Niente di peggio. Perfino Dachau è stato niente a confronto! Era talmente rigido il regime che appena arrivati ci avevano avvisato: “Non guardate mai negli occhi un ufficiale delle SS., vi può costare quindici frustate”. Ho visto massacrare la gente col bastone. Ho visto far morire la gente con getti di acqua gelata sul cuore. Lì, avevamo il compito di portare delle enormi pietre squadrate sui fian35


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chi di una collina, pietre che servivano come gradini di una scala. Una scala che non aveva mai fine, una scala senza significato che non portava da nessuna parte… Questi blocchi enormi venivano portati a spalla da quattro cinque prigionieri; allora eravamo ancora abbastanza in carne, forti, solo che quei disgraziati delle SS, mettevano sempre le persone più piccole al centro, cosicché in realtà i pesi li portavano i due esterni. Ho visto cose inenarrabili. Poi, per fortuna, hanno fatto una scelta per dividerci ed inviarci ad altri campi. La scelta era fatta in base a chi sapesse leggere il calibro, dovevi dire come si adopera, cosa vuol dire “centesimale”, ad esempio, conoscenze banalissime, ma se uno non le sapeva…. Il gruppo prescelto era destinato ad una fabbrica dove almeno avevamo un tetto. Allora come un forsennato, sulla terra disegnavo, facevo dei segni per spiegare agli altri che non sapevano, come si doveva rispondere. Qualcuno in questo modo si è salvato. Lo ho detto anche ad Olivelli e anche lui si è dato da fare per salvarne altri. É riuscito a venire con me a Kottern bei Kempten, dove c’era una fabbrica che era stata bombardata. La parte interrata era però ancora attiva e facevamo le dime per le V1/ V2. A Kottern nel blocco 5 rimasi dal 9 ottobre 1944 fino al 7 aprile 1945. I più giovani andarono invece a Herzbruck a scavare nella roccia tunnel sotterranei e caverne da usare come rifugi, lì sono morti tantissimi. Tutti quelli che ho conosciuto sono morti. Non se ne è salvato nessuno. Ho la foto ed i nomi. Nessuno, proprio nessuno. Solo Enrico Piccaluga di Milano, anche lui legato al gruppo di Elmo si è salvato, ma a Muhldorf. Eravamo italiani, francesi, lussemburghesi, russi, l’unico linguaggio usato per tutti erano i pugni i calci, le gommate con i tubi di gomma. Dovevi stringere i denti e non dare soddisfazione, perché se piangevi ed imploravi era peggio, si divertivano a farlo di più. C’erano cuccette a tre piani per dormire ed eravamo tre per cuccetta, una cuccetta di ottanta centimetri: due di piedi ed uno di testa, tutti costretti per mancanza di spazio a stare sul fianco. Così erano le notti. La sveglia era scandita dal solito “linguaggio comune”: grida, spintoni “Aufstehen! Aufstehen!” La parola che risuonava più spesso era “Schnell, 36


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schnell!”, seguita da “Arbeit!” Una vita di minaccia e percosse. Lavorare, lavorare, lavorare. Quando uno non rendeva abbastanza, veniva trasferito a Dachau. Ricordo che un giorno un compagno che neppure conoscevo mi ha dato un filo di ferro con infilate due patate pregandomi di metterlo vicino alla stufa che stava al centro del reparto dove ero costretto a lavorare. Io, sia pure con grandi titubanze accettai. Venni scoperto, mi portarono in una stanza dove alcuni ragazzi della Hitler Jugend cominciarono a prendermi a calci e pugni fin quasi a farmi svenire. Alla fine del lavoro tornammo al campo. Mi misero al centro del piazzale e mi fecero portare un grande cartello con scritto in tedesco: “Sono un ladro ed un sabotatore!” Nevicava e il cortile era tutto fangoso, i compagni furono costretti a girarmi attorno. Certamente pensavano che fossi veramente colpevole e immaginavo la loro rabbia. Qui svenni davvero e mi ritrovai nella mia cuccetta, portato da mani pietose. Dopo un mese circa, accusai dolori allo sterno, mi si era formato una specie di bubbone causato da una forte infezione. I tedeschi ebbero stranamente compassione, fui portato in infermeria e visitato da un’infermiera che parlava italiano. Un dottore in camice bianco mi fece un profondo taglio con un bisturi, per far uscire il pus, senza anestesia. Urlai a più non posso; l’operazione si concluse con una fasciatura con una specie di carta crespa applicata sulla ferita e la mia spedizione al reparto lavoro. Dio solo sa come sono guarito! Ad un certo punto, il 26 maggio 1945 io ed altri divenuti ormai incapaci di lavorare, fummo spediti a Dachau. Dachau è stato il primo campo, fu aperto nel 1933, prima per rieducare quei tedeschi che non approvavano il regime, diventando poi un vero e proprio campo di concentramento. Sono arrivati i russi, i polacchi, poi tutti noi fino ad arrivare a cifre enormi. I prigionieri venivano portati nei campi a fare lavori agricoli, o a sterrare, ripulire le traversine dei binari. Dachau è stata l’Università della tortura, della sevizia, tanto è vero che tutti gli ufficiali SS, destinati a diventare capi di campi, venivano addestrati qui e poi inviati altrove. 37


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Noi fummo chiusi subito nel blocco 23, il blocco dei “morituri” inabili al lavoro, quindi destinati alla cremazione. Aspettavamo il nostro turno perché i forni crematori, perché pur lavorando a ritmo serrato, non ce la facevano a star dietro a quelli che morivano, ogni giorno, di sfinimento o di tifo. I cadaveri venivano ammucchiati sul retro del Blocco, di fronte alla quarta “Stube” in attesa di smaltimento. C’era un freddo intenso ma di giorno non potevamo stare nelle baracche, dovevamo stare fuori al freddo, proibito parlare, fare capannello. Avevamo inventato un sistema per riscaldarci: fare “le stufe”, cioè ci mettevamo due di spalle poi altri sempre di spalle, fino a formare un grosso gruppo. Allora il calore dei corpi si conservava molto alto all’interno di quella stufa umana, all’esterno si sentiva un po’ di caldo alla schiena ma si restava gelati davanti. La stufa era comunque proibita, se ci scoprivano erano manganellate. La disciplina era fatta ad uso e consumo del divertimento delle SS. Proprio nel Blocco 23 dove eravamo già dei mezzi cadaveri, arrivava all’una il rancio con bidoni di alluminio grandi come quelli per la benzina. Una brodaglia dove c’era di tutto, dalle foglie ai rami secchi, distribuivano normalmente i polacchi. (Avevamo un triangolo rosso con indicata la lettera iniziale della nazionalità.) Ci si metteva in fila con una gamella improvvisata. Se ti lamentavi ti davano solo l’acqua, quando non ricevevi una mestolata in faccia. Solo metà veniva distribuito. Poi i capi blocco sistemavano noi da una parte, il bidone rimasto dall’altra e davano il via ad una corsa all’arrembaggio, per puro divertimento. Scene terribili, quotidiane.

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Un angelo all’Inferno

Le giornate trascorrevano in un oblio interminabile: la solita fame, il solito freddo, le solite conte e le solite percosse dei capi blocco, spesso senza ragione, e la solita brodaglia, una volta al giorno. Veramente molti di noi non avvertivano nemmeno più i morsi della fame, come se ci fossimo abituati al digiuno. Anche le zuffe per leccare i rimasugli di zuppa, al fondo dei bidoni non avvenivano più. La distribuzione della cosiddetta “minestra” fatta di rape secche, foglie ed altri elementi non identificabili, in una brodaglia giallastra avveniva solo per coloro che potevano ancora andare a ritirarla, assieme alla fetta di pane nero (ogni giorno più sottile). Io, sempre più spesso, non riuscivo ad alzarmi dalla cuccetta del secondo ripiano del “castello” proprio in fondo alla quarta stube. In quel periodo, erano tanti i moribondi che le SS, bontà loro, non ci obbligavano a restare tutto il giorno fuori dalla baracca, come era sempre avvenuto. Tempo prima dividevo il giaciglio con due compagni russi che però morirono, prima l’uno poi l’altro, durante la notte. Ricordo che il primo fu rimosso da alcuni compagni e portato fuori al solito posto, quando morì il secondo me lo lasciarono lì accanto per quasi due giorni. Successivamente prese posto accanto a me un giovane italiano di Roma, non solo perché s’era fatto spazio ma anche perché nella stube (come del resto in tutto il Blocco 23) c’erano pochissimi italiani, forse due o tre. Questo ragazzo, dopo un paio di giorni senza dire una parola, cominciò a parlarmi spinto forse da un estremo bisogno di comunicare ed esprimere tutta la sua angoscia interiore. Così mi disse che era ebreo e che si chiamava Piperno di cognome ed abitava a Roma, nel ghetto, con la sua fami39


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glia. Mi disse che era stato portato a Dachau da Auschwitz, dove avevano eliminato entrambi i suoi genitori ed una zia. Simpatizzammo subito, forse perché aveva intuito che il suo racconto mi aveva commosso e rattristato. Ricordo che, con le lacrime agli occhi, ci abbracciammo istintivamente come fratelli. Quel ragazzo, penso, non avrà avuto più di sedici - diciassette anni ed era malconcio come la maggior parte di noi, ma vedendo il mio stato di estrema debolezza che, spesso, non mi permetteva di scendere per mettermi in fila per la distribuzione del rancio od anche solo per andare ai “bagni”, cercò di aiutarmi in ogni modo. Quando costatò che neppure col suo aiuto potevo alzarmi per andare a prendere la mia razione di “minestra” lui, uno sconosciuto, decise di aiutarmi al massimo. Sarei rimasto senza la possibilità di alimentarmi, anche perché a nessuno era consentito ritirare razioni altrui. Così Piperno, mosso da pietà umana si impose e mi impose una soluzione incredibile: della sua razione mi imboccava la parte solida ed egli si accontentava della brodaglia. Così riuscii a sopravvivere fino al giorno non lontano della liberazione, mentre lui, proprio pochi giorni prima ebbe un ben diverso e triste destino. Questo angelo custode, questo ragazzo ebreo, fu fatto affluire nell’AppelPlatz assieme alla maggioranza degli ebrei, dei russi, e degli ex nazisti tedeschi presenti nel lager, fatti partire sotto scorta in piena notte per un destino senza ritorno.

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La liberazione

La liberazione dal campo di Dachau avvenne il ventinove aprile del 1945 alle ore 17 e 50. Capivamo che stava succedendo qualcosa, perché sentivamo i colpi di cannone, sempre più vicini, sempre più vicini. Mi dissero poi che all’improvviso erano entrati quattro americani su una camionetta guidata da un tenente donna, con la pistola in mano della divisione “Rainbow”, Arcobaleno. I tedeschi si arresero perché avevano capito che dietro stava arrivando il grosso dell’esercito. Circa duemila SS. riuscirono a scappare, e ne rimasero circa duecento, dei gradi più bassi, ad esempio quelli che erano sulle torrette. Gli americani rimasero inorriditi da ciò che stavano trovando, tanto che io ho un rapporto dove c’è scritto: “Il vocabolario americano non ha nessun termine che possa descrivere ciò che stiamo vedendo”. C’erano fuori delle baracche montagne di cadaveri, lasciati lì perché i forni crematori non ce la facevano più a stare dietro alle nostre morti continue, continuavamo a morire di fame, debilitazione, malattie e i morti si accumulavano. C’è da capire che gli americani in preda all’orrore, abbiano fucilato molti aguzzini SS che non erano riusciti a scappare, direttamente, senza pensare al processo. Una reazione istintiva. Poi è cominciato un carosello di camion, con operatori cinematografici che hanno ripreso tutto ciò che vedevano, tutto a parte l’odore della morte che impregnava ogni cosa; una situazione indicibile. Io sentivo gente che urlava di gioia “Sono arrivati, siamo liberi!” Potevo sentire, sì, ma non mi potevo muovere perché come tanti altri ero 41


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inebetito dallo sfinimento, sarei morto di lì a poco, se non fossero arrivati. Allora gli ufficiali, viste le condizioni dei superstiti, hanno cominciato a distribuire ogni ben di Dio: scatole di tonno da cinque chili, scatole di cacao, di cioccolata, di tutto. Naturalmente quelli che avevano la forza e la capacità di farsi avanti li afferravano. Io per fortuna non ho avuto la forza di prendere niente, ma debolmente pensavo “che fortunati quelli!” Il giorno stesso erano già morti, passati dalla privazione più tremenda alla superalimentazione, guidati non dalla la fame e dalle possibilità dello stomaco, ma dalla fame degli occhi. Qualcuno ha buttato giù cinque chili di tonno ed è morto avvelenato. Gli americani se ne sono accorti ed allora hanno ritirato tutto ed hanno cominciato con le iniezioni di vitamine, e poi la cosa si è un po’ normalizzata. Si sono formati dei Comitati nazionali dei prigionieri, belgi, francesi, polacchi. Abbiamo pensato subito: “Adesso ci porteranno a casa!” Niente di tutto questo. Prima di tutto la maggior parte di noi era intrasportabile, eravamo talmente conciati… Qualcuno è scappato riuscendo a raggiungere amici. Io ero lì che aspettavo e stavo male. Sono stato sistemato in una palazzina del villaggio delle SS fuori del campo. Ricordo ancora il senso di sgomento provato entrando: tutto era rimasto intatto, c’erano ancora le tavole imbandite, come se le SS fossero ancora lì. Io però stavo sempre male, sono stato messo in un letto, due o tre giorni dopo il vice presidente del Comitato italiano Monsignor Manziana, diventato poi vescovo di Crema, (nel campo c’erano duemilaottocento sacerdoti internati, di diverse nazionalità e religioni), ha visto che mi usciva sangue dalla bocca: una emottisi dovuta alla tubercolosi che non sapevo di avere. Pioveva, ma è corso a cercare un medico militare e me lo ha portato lì, mi ha dato delle fiale che hanno fermato l’emorragia. Mi è rimasta la cicatrice sul polmone, ma mi hanno messo a posto. Piano piano, i miei compagni del blocco della palazzina numero 15 che stavano meglio di me, andavano in giro a raccogliere viveri. Dopo l’arrivo americano, la gente della bellissima cittadina di Dachau, diventò generosa. Ci davano latte bur42


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ro e ciò che potevano. Pensare che fino al giorno prima facevano finta di non vedere e non sapere niente, quasi fossero ciechi, anche se sicuramente vedevano le colonne di persone che entravano, che uscivano per andare a lavorare, sentivano il fumo dei forni e l’odore di morte! Io ed i miei compagni per riprendere la parvenza di una forma normale, mangiavamo degli intrugli di burro, latte, marmellata, uova, delle bombe con migliaia di calorie. In questo modo io aumentavo di circa 900 grammi al giorno. Alla fine ero tornato quasi al mio peso ma non ero realmente in forma, ero solo gonfio, con la pelle traslucida, le gambe che sembravano attaccate al rovescio, alle cosce facevo il giro con quattro dita, le caviglie invece erano gonfie, i piedi enormi. Non potevo stare in piedi a lungo, in seguito con l’aiuto del bastone riuscivo a combinare qualcosa. Piano piano mi sono rimesso abbastanza. Sono entrato nei comitati internazionali per dare il mio aiuto agli italiani, che erano all’incirca un migliaio. Mi hanno incaricato di far parte di un Comitato internazionale che si occupava dei Crimini medici (“medical crimen”) Faccio un esempio: dal nostro campo partivano tanti prigionieri prestati alla Bayer, la quale iniettava loro la malaria per testare gli antidoti, o altre malattie. Ci sono molte ditte che con grandissima disinvoltura hanno utilizzato queste cavie, con la scusa che tanto stavano ugualmente per morire. Nel Comitato io dovevo soprattutto fare l’ascoltatore, perché parlavo pochissimo l’inglese e quella era l’unica lingua usata. Ora per fortuna nel Comitato Internazionale di Dachau si parla francese e tedesco e ci troviamo a Monaco una volta all’anno. Recentemente ho dato le dimissioni ma ha raccolto il testimone mio figlio. Il presidente del Comitato era Giovanni Melodia, figlio di un pastore protestante messinese. Melodia fu un grande storico della deportazione, con capacità organizzative fortissime, un uomo meraviglioso per tutti, autore di tanti libri, vicepresidente era monsignor Manziana, poi un gruppetto nel quale ricordo Abate John e Piccaluga, che era il più conciato di tutti. Enrico Piccaluga con altri tre aveva tentato la fuga il 2 gennaio 1945. Non tutti parlavano tedesco, speravano di non essere riconosciuti, ma mentre 43


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tutti nel campo avevamo i capelli rasati corti noi italiani ed i russi, unici fra i prigionieri, portavamo una striscia rasata a zero centrale sulla testa (come Mohicani al contrario), dunque li avrebbero individuati subito. Si sono rifugiati nella chiesa di Krajburg, non so chi li abbia denunciati, comunque sono stati catturati. Li hanno riportati a Dachau e internati nella compagnia di disciplina in attesa della codanna a morte. Tre sono morti, anche Piccaluga era stato dato per spacciato; senonchè nel frattempo, c’è stato l’arrivo degli americani, la liberazione. Lo ricoverarono all’ospedale e quando si riprese da tutte le lesioni che aveva, diventò prezioso per tutti. Nel Comitato organizzavamo i rientri, mano a mano che la gente si ristabiliva, a scaglioni. Scrivevamo, battendo su una macchina sgangherata e stampando a ciclostile, un giornalino chiamato: “Italiani a Dachau” che usciva tutti i giorni, scritto da Melodia. La cosa veramente stranissima era che in quei due tre mesi di campo, dopo la liberazione, io non ho mai pensato a casa, non ho mai pensato a Milano, ai miei genitori, né nel bene né nel male, come se non ci fossero più. Ho vissuto uno strano senso di estraniazione, mi chiedo ancora oggi, come ho fatto a non pensarci, forse quella era una dimensione talmente diversa, da essere lontanissima, distante, forse era un modo di proteggerci dal dolore e poi c’era il dovere di fare qualcosa di utile lì. Soffrivo solo quando vedevo partire i primi rientri, organizzati dal Vaticano e dalla Croce rossa, perché pur non pensando alla famiglia e a Milano, in Italia capivo che dovevo andarci anch’io. Molti non sanno che in quel tempo la Croce rossa internazionale aiutava con dei pacchi i prigionieri perché sapeva dell’esistenza dei campi. Ma la Croce rossa italiana come quella russa, non avendo mai pagato le tasse a quella di Ginevra, non era inserita nel circuito internazionale, dunque tutto ciò andava a nostro discapito, a noi italiani non arrivava proprio nulla. Ciononostante si formarono i primi convogli. Successero allora tante cose che potrei anche definire “spiritose”. Melodia mi disse ad esempio un giorno: “Ti affido una squadra di SS fai 44


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fare loro le pulizie e sistema le reti attorno al campo. Ormai, vista la sconfitta, gli SS rimasti erano diventati miti come delle pecore e obbedivano senza storie. Io distribuivo loro le sigarette americane, davo loro tutto quello che era considerato un diritto, l’unica cosa che mi sono permesso di pretendere era, che quando passavano davanti a me dovevano fare il “Mutze auf, Mutze zu”, “berretto giù e berretto su”. Fa sorridere dopo tanti orrori, che pretendessi solo questo: che al mio passaggio si togliessero il cappello. Non mi sono vendicato, non ho picchiato, né punito, né fatto nulla di male a nessuno, solo questa “stupidata” un’impennata di orgoglio e dignità.

Nuzzo Martinelli ed io a Dachau dopo la liberazione

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Il ritorno

Dal 29 aprile, giorno della liberazione, erano passati due mesi ed io non sapevo niente dell’Italia, non avevo ricevuto né pacchi, né notizie. Dopo aver organizzato tanti convogli per gli altri, finalmente arrivò anche il mio turno: giunse un messo del Vaticano e venne organizzato un trasporto per il 21 giugno, proprio il giorno di S. Luigi, mio Onomastico! Il comando del nostro convoglio, era nelle mani di un maggiore americano di origine italiana, un certo Nolfo, il quale aveva avuto una macchina e questo programma: accompagnarci a Milano. Lui, poi, avrebbe proseguito per la Sicilia dove avrebbe rivisto i suoi parenti. Così è stato. Il Convoglio era formato da trenta autocarri, con trenta persone per autocarro, tutti italiani e quindici autoambulanze. Io ero capo colonna, sedevo sull’auto guidata da Nolfo. Nei magazzini delle SS pieni di roba italiana, avevamo trovato tante cose fra cui tessuti Marzotto, Boffi e altre marche pregiate; prendemmo tutti qualcosa da portare a casa in regalo, io avevo scelto una grande pezza di un meraviglioso tessuto nero, che ho regalato, al mio ritorno, ad un sacerdote che aveva la tonaca tutta lisa… Così ci siamo avviati sulla via del ritorno. C’erano tanti posti di blocco americani, io avevo un megafono, bastava che io gridassi: “Convoy” e dietro a noi seguiva il convoglio. La frenesia era quella di correre, correre e correre, così ad un certo punto li abbiamo distaccati. Appena dopo il Brennero e ci arriva una comunicazione. “Guardate che non hanno fatto passare le vostre autoambulanze, perché 46


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sono arrivate in ritardo e mancano i documenti!” Sono dovuto tornare indietro a prenderle e riportarle con noi. Ci siamo fermati un po’ a Bolzano, per fare una merenda. Mi è venuta voglia di vedere le vetrine, il passeggio, la normalità della vita di una città, che io avevo dimenticato. Mi sentivo veramente ricco perché un sacerdote mi aveva regalato una banconota da 50 am lire. Vedo una bella gelateria. Entro, ordino un cono gelato, lo pregusto e chiedo: “Quant’è?” “Cinquanta lire” mi sento rispondere. Tutto quello che avevo! Quando ho visto tutta la mia ricchezza andarsene via in un solo gelato, mi sono chiesto cosa potesse mai essere successo all’Italia. In un attimo compresi che doveva esserci stata una svalutazione enorme, a causa della guerra e della crisi economica… Quando ero partito il gelato costava sui 40 centesimi, non lire! A Bolzano non trovammo certo un’accoglienza calorosa, la gente era indifferente al nostro passaggio. Molti SS erano proprio di Bolzano o altoatesini, come ad esempio quelli morti nell’attentato di via Rasella, per cui l’ambiente era piuttosto ostile. Riprendiamo il viaggio, arriviamo a Brescia, ci accoglie il cardinale in persona ed offre a tutti un pranzo nei cortili del vescovado. Io come capo colonna venni invitato assieme a Nolfo alla mensa privata del Vescovo, un ambiente bellissimo, era la prima volta che mangiavo con la tavola imbandita a festa, candelabri, belle posate d’argento! Il prelato si fece raccontare la mia storia. Ad un tratto mi dice: “Ma tu hai genitori, parenti?” “Ah sì, è vero!” rispondo stupito. Quel pensiero mi colpì nel profondo come una novità. “Io posso farti telefonare a casa con una linea speciale, perché i collegamenti telefonici normali sono interrotti.” Allora senza riuscire a pensare a nulla, trepidante faccio il numero e con un filo di voce dico: “Signora, lei è la moglie del professor Pantanico?” “Sì” “Sono un amico di Gigi, Gigi sta arrivando! Scusi queste mie domande, ma siccome sono stato molto con lui, conosco tutta la sua famiglia, mi dica, come stanno i figlioli e il professore come sta?” “Bene, bene.” A quel punto riesco a dire fra le lacrime che mi strozzava47


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no la voce: “Mamma, sono io!” Commozione generale, pianti di qua, pianti di là, mia mamma che urlava a mio fratello: “É Gigi, è lui, è vivo!” Le loro voci di sotto fondo, un’emozione fortissima, indimenticabile. “Quando arrivi? Come stai?” Brandelli di conversazione che non so ripetere; felicità. E lì mi è tornata in mente tutta la mia vita familiare, come se i sentimenti avessero nuovamente trovato una via di espressione, come se avessero girato un interruttore. É stata una fortuna che il Vescovo mi abbia fatto fare quella telefonata altrimenti sarei arrivato, impreparato, non solo io, ma anche i miei familiari. Arrivati a Milano siamo dovuti andare tutti in piazza Fontana, al Vescovado, dal cardinal Schuster, e abbiamo dovuto non dico perder tempo ma quasi, rispetto alla voglia, ormai pressante, di essere nuovamente a casa. Poi finalmente chi ha proseguito con le macchine, chi sui camion, chi verso Trieste, chi per altre destinazioni e di tutto si è occupato il Vescovado. Sistemati tutti, alla fine Nolfo mi ha portato personalmente a casa. Tutti gli abitanti della casa erano in strada ad aspettarci. C’era anche mio padre. Mia madre invece era su al quarto piano, non poteva scendere perché si era fatta male ad una gamba Le avevano detto che ero stato fucilato e lei era andata fino a Bolzano per saperne di più e riavere almeno i miei effetti personali, ma saltando giù da un camion, si era quasi rotta una gamba. Così non poteva scendere ma si stava sporgendo fin troppo per vedermi, per tentare di riconoscermi; prima della liberazione ero arrivato a pesare 37 chili ed ora tornavo gonfio e molto molto diverso. Si sporgeva ed io temevo potesse cadere. L’emozione più grande della mia vita. L’abbraccio di mio padre è stato senza parole ma ci siamo detto tutto, quasi si fondessero le nostre due anime.

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Lentamente alla normalità

Appena tornato mi sono preso una di quelle piccole rivincite che fanno sorridere. Ho voluto fare un giro in centro, camminavo tutto vestito di bianco, con la fascia tricolore al braccio, con scritto Comitato italiano, sostenuto dal mio bastone. Ho fatto piano piano via Solferino, arrivo in piazza Duomo, c’era ancora il Motta. Mi siedo ad un tavolino, e chiedo se avevano la torta a forma di tronchetto d’albero, che avevo sognato tante volte. Mi chiedono se ne voglio una porzione: “Me lo porti tutto intero!” ho detto e me lo sono mangiato tutto. Invece c’è un episodio del mio ritorno che non mi perdonerò mai. Due giorni dopo il mio ritorno ero a tavola con i miei, c’era mio padre, mia madre ed i miei due fratelli, tutto bello, la gioia del mio ritorno, atmosfera calda e c’era anche il nostro gatto Mignin. Il poveretto mi venne vicino a strusciarsi per farmi le feste, io non so perché, ho preso lo spargi pepe e gli ho tirato il pepe sul muso. Ha fatto un salto da pazzo perché gli sarà andato negli occhi. Mia madre molto pratica, lo ha portato in bagno, lo ha messo sotto l’acqua, mia sorella invece si è alzata in piedi inviperita e mi ha detto una frase: “E questo che hai imparato nei campi?” Io ero sconvolto e proprio non so perché lo ho fatto: un gesto così gratuito, un gesto di cattiveria su un animale innocente, io che adoro gli animali. Forse solo uno psicologo me lo saprebbe spiegare. Non mi rendo conto di come sia potuto succedere. Forse veramente qualcosa di nazista mi era rimasto attaccato. É stato un periodo difficile dal punto di vista emotivo. 49


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Incontro con il console italiano 50

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Mio figlio Gianluca ed io a Dachau per la cerimonia commemorativa del 2001 51


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La pena più grande era forse il rimorso di essere sopravvissuto; quasi tutti quelli che ho conosciuto sono morti. Ho la foto ed i nomi. Nessuno, tranne Enrico Piccaluga. Il ritorno che era stato inizialmente così gioioso, poi si è fatto straziante, una serie di telefonate, di visite. Arrivavano i parenti dei miei compagni morti che volevano sapere il perché, il come: “ Sono la mamma di…Lei lo ha conosciuto?” “Sì.” “Dove è ora?” “É morto”. “Come è morto?” Era la domanda inevitabile a cui si arrivava, come facevi a dirglielo, anche se lo sapevi? Come fai a raccontare ad una che il figlio è morto a bastonate… Molte volte, per fortuna, non lo sapevi, veramente. Comunque la vita prende il sopravvento. A parte le prime settimane dopo il ritorno, per circa dieci anni, non ho più parlato di quella esperienza. Non ho sofferto, non ho fatto soffrire gli altri. Ho ripreso il mio posto nell’esercito e solo quando mi sono congedato dall’aeronautica, nel ‘62 circa, ho ripreso a parlare di quella esperienza. Appena ho chiuso con la vita militare che mi impediva di aderire alle varie organizzazioni politiche, già il giorno dopo il mio congedo, mi sono iscritto all’Associazione Ex Deportati a Torino. Lì ho ritrovato amici, reduci sopravvissuti come me; assieme si ricordava, si discuteva sulle diversità delle esperienze e si comparavano i vari campi. Volevano che scrivessi un libro, ma non me la sono sentita. Avevo paura di falsare la realtà, di caricare troppo alcuni particolari, di sminuirne altri. Abbiamo vissuto in un mondo così irreale che si ha sempre questa paura. Tante cose le ho rimosse davvero, e le ho apprese dai racconti degli altri, un amico mi raccontava che ad un certo punto, senza che nessuno mi dicesse niente, stavo con la faccia rivolta verso il muro, in castigo, mi puni52


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vo da solo, di niente. Questo fatto lo ho dimenticato completamente e non ho ragione di dubitare dei racconti dei miei compagni. Comunque dopo di allora ho letto tantissimi libri sull’esperienza. Mi sorprende che nei libri più recenti si è attenuato moltissimo il senso della paura della disperazione, della bestialità umana. Trovo ancora difficile comparare questi racconti, sono così diverse le esperienze di ognuno, anche se vere, che ti lasciano sconcertato; ed è una delle ragioni per la quale non ho voluto scrivere un libro. Sono ritornato anche recentemente a Dachau con mio figlio, ora c’è un Museo meraviglioso, con un monumento un bronzo di 40 metri, opera di uno jugoslavo. Rientrando in Italia devo ricordarmi… Ho ancora un libricino scritto a Dachau nei giorni seguenti alla liberazione. A matita vi ho annotato i nomi e gli indirizzi dei miei compagni di prigionia, 55 per la precisione, e qualche nota sui tipi e i caratteri di ognuno. Ma la cosa che mi fa sorridere è una lunga lista di cose da ricordare e di desideri, che riporto fedelmente, perché penso raccontino in modo semplice ma suggestivo quel momento: il ritorno alla vita, il desiderio di dimenticare, di uscire dal caos dalla fame e dalla sofferenza. La voglia di affermare prepotentemente il bisogno di essere circondato da cose belle e comode come una rivincita contro la cattiveria del mondo.

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Rientrando in Italia devo ricordarmi: • D’andare nella tipografia di Via Agnello per ottenere se possibile quella mia carta da lettera che pagai L.250 verso il 15 luglio 1944 e che non ritirai perché dovevo portare il clichet dello stemma da imprimere sulla carta stessa. • Andare alla SAFAR per dar notizia della morte dell’Ingegner Innamorati avvenuta in Dachau il 29 aprile 1945. • Che ogni sabato mattina in Galleria del Corso (Caffè Agà) verso le ore 12 è facile trovare compagni conosciuti in vari Lager di Germania. • Progettare una villetta moderna con tutte le comodità per mezza collina ed una per la periferia di città per il col. Balcani. • Devo andare a Motta (Madesimo) da don Luigi Re (p.v.)• Andare possibilmente con Papà, Mamma, Rosita e Tino a Velati e al “Ceppo” non dimenticando di acquistare pane fresco e ossocollo come faceva la Mamma una volta… • Andare alla Madonna del Sacro Monte. • Organizzare un pranzo della “porchetta” o delle festività saltate. 21 giugno 1945 S. Luigi • Andare dall’orologiaio in piazza Fontana le mie 500lire che mi deve. • Farmi confezionare con urgenza l’abito di gabardin che mi ha regalato la mamma. • Farmi fare da C. Colombo un paio di scarpe “mocassino” in camoscio marrone tabacco chiaro. • Farmi confezionare un paio di camicie in seta grigio (in Galleria da Toro) • Acquistare qualche paio di belle calze di seta • Acquistare qualche bella cravatta e un paio di guanti. • Farmi confezionare un berretto di camoscio della medesima tinta dei guanti e delle scarpe. • Farmi regalare da Papà una bella pipa inglese. • Farmi regalare da Papà quell’anello d’oro con tre brillanti. • Dalla Mamma vorrei farmi regalare un bell’impermeabile • Desidererei che qualcuno, probabilmente Mimi mi regalasse un buon accendisigari. • Appena mi sarà possibile dovrò andare a Loreto (Ancona) per voto alla Madonna degli aviatori. • Devo leggere il Vecchio ed il Nuovo Testamento per voto e GR. •Farmi fare da Gloria quel poullover a gillet che ho trovato sulla rivista 54


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americana di Gaby. • Acquistare un magnifico paio di occhiali da sole. • Farmi regalare da qualche amico un portasigarette. • Regalare alla mamma e a Rosita il libro dell’Artusi. • Andare a Genova da Fioresi per la pasta col pesto e la focaccia • Farmi probabilmente a mie spese un abito bianco. • Andare a Pavia da Belli e Magenes. • Farmi una scorta di sigarette, liquori dolci (Cherry brandy ecc.), marmellate e frutta sciroppata. • Farmi un equipaggiamento completo e molto chich da cavallo. • Acquistare una valigia da pic-nic completa. • Rifare il necessaire da disegno. • Farmi regalare da Rosita una bella vestaglia da camera in sourà, dalla Mamma un bel pigiama da notte e un paio di pantofole da camera. • Dal Papà desidero avere una bella valigia da viaggio( ma a baule- armadio) • Col tempo e coi denari desidererei avere un plaid di pelo da spiaggia. • Da Luigi Castelbarco desidero regalato un bel bastone. • Devo andare al Santuario di Caravaggio per rendere grazie alla Madonna. • Rinnovare l’iniziazione alla R.U.N.A. • Rinnovare la licenza di volo e fare domanda per il rilascio e le prove eventuali per il brevetto civile di II grado. • Devo fare a piedi la via Crucis del Sacro Monte di Varese per promessa alla Madonnina di quel Santuario. • Andare alla pasticceria di Via Montenapoleone per le pastine da the e le torte di cui mi ha tanto parlato l’ing. Migliorini. • Farmi regalare un orologio. • Quando sarà possibile vorrei avere una collanina d’oro con medaglia e un braccialetto pure d’oro come quello di Luigi Castelbarco. • Farmi regalare un bellissimo portafogli. • Farmi regalare una bella penna stilografica e una matita automatica. • Sempre quando mi sarà possibile, desidero acquistare un piccolissimo apparecchio radio americano da viaggio. • Al più presto desidero acquistare una piccola automobile. • Desidero acquistare una macchina da scrivere portatile. • Un tavolo da disegno. • Devo regalare a Nuzzo Martinelli una buona piccozza da roccia. • Passare un po’ di giorni in Valcuvia da Enrico Piccaluga. • Acquistare dello yogurth “Vittadini”. 55


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Marisa

Nel ‘48 ho conosciuto Marisa, la ragazza che sarebbe diventata mia moglie. L’ho incontrata ad una festa, io ufficialetto, lei una bella ragazza, ricordo che era estate e faceva molto caldo. Io mi sono tolto anche la camicia, facevo il bullo, addirittura per farmi notare ho fatto un salto dalla finestra del pianterreno atterrando in giardino, cercando di fare colpo. Dopo di allora per parecchio tempo non ci siamo più visti, una sera il mio amico Uberto mi invita ad andare con lui in un locale molto chic di via Diaz. Non ero mai stato in un posto così, mi sentivo un po’ strano, fra questi tavolini agghindati, le luci soffuse. Marisa mi ha rivisto e si è incuriosita di me. Tornata a casa ha provato a telefonare ad uno dei tanti Mazzullo, era proprio il mio numero di casa. Lei lasciò il suo numero. Io la richiamai ed abbiamo cominciato ad uscire. Un giorno lei e mia sorella vennero insieme ad assistere ad una parata e mi sono trovato con loro da un lato ed un’altra ammiratrice dall’altro…ed io non sapevo chi guardare! Mia sorella mi prendeva in giro e diceva sempre a Marisa: “Ma come fa a piacerti, ma guarda quant’è brutto!” Quasi un anno dopo ci siamo sposati, al Santuario della Madonna di Loreto, che è la protettrice degli aviatori. L’avevamo scelta per questo ma anche perché se ci fossimo sposati a Milano avrei dovuto invitare tanta gente chic che conoscevo, con spese e tanti legami per l’abbigliamento, a Loreto ci sentivamo più liberi. Ero impiegato come ufficiale a Malpensa, avevo comprato una vecchia Opel, un residuato bellico ma che mi serviva per trovare la morosa. Ce 57


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ne andammo a Loreto in macchina io, Marisa, suo fratello e suo zio. In treno ci raggiunsero mio padre mia madre ed il frate francescano che ci avrebbe sposato. Era padre Gianantonio Agosti da Romallo in val di Non, anche lui reduce dei campi di sterminio come noi, un poliglotta che confessava in Duomo in cinque lingue, e che aveva confessato anche dei futuri Papi. A Flossenburg lo avevano umiliato, gli avevano tagliato la barba, lo avevano messo tutto nudo, preso in giro, calpestato. A Dachau si era trovato, se così si può dire, un po’ meglio, perché c’erano due blocchi solo per sacerdoti con ben 2800 sacerdoti. Era un uomo piccolo, ma carismatico, era solito portare i libri nel cappuccio ed aveva un solo vizio: fiutare il tabacco, così portava con sé un grandissimo fazzolettone a quadri. Il matrimonio fu una cosa anche “divertente” perché lui non aveva sposato mai nessuno, così non sapeva bene come dovesse procedere la cerimonia religiosa. Io ero in alta uniforme con la sciabola e la fascia azzurra, Marisa in bianco. Dopo la cerimonia si avvicinarono molti curiosi e lui si divertiva a scandalizzare la gente ricordando episodi della nostra vita: “Ti ricordi com’era quando eravamo in galera?” E la gente si stupiva… Successe di tutto: mia mamma aveva perso il cappello e lo dovemmo improvvisare, non si trovava il bouquet per la sposa… Dopo il matrimonio io Marisa e suo fratello Massimo, andammo a Napoli. Giravamo in tre e Marisa in pantaloni, sembrava un ragazzetto, tanto che ci chiedevano dove fosse la sposa! Ricordo il nostro primo appartamento al Vomero, e il primo giorno in cui Marisa si mise a cucinare quel ricordo ci fa ancora sorridere: voleva fare bella figura, mi presentò una bella insalata ed ecco che neanche a farlo apposta fra le foglie di scarola, troviamo un verme grosso e peloso…

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Il sorriso di Marisa

Marisa con sua madre Tecla 59


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Brindisi 1947

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Lecce 1948 61


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I nostro matrimonio Santuario di Loreto, 21 agosto 1950 con Padre Gian Antonio e i miei genitori

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I miei figli

Poi sono arrivati i miei due figli Mirrina e Gianluca. Ho amato ed amo molto i miei figli. Non ho parole per descriverli, sono molto orgoglioso di entrambi, li stimo e sono contento di sentire che mi hanno sorpassato in tante cose. Mirrina così intelligente, lavoratrice, con il dono dell’amicizia, distribuisce affetto a chi la incontra ed ha la casa sempre aperta per tutti. Mi ha regalato la mia nipote Guendalina che è un fiore, un amore, che vorrei poter proteggere perché il mondo oggi è pericoloso. Gianluca così bravo e geniale, sa risolvere i problemi più complicati, ed ha il dono della didattica, riesce a spiegare in maniera semplice anche le cose più complesse. Sono cresciuti nelle case per gli ufficiali, con frequenti cambi di città, perché essendo militare mi spostavano continuamente di sede, ma questo non significava solitudine poiché anche i miei colleghi giravano e capitava di incontrarsi nuovamente. Fra di noi c’era spesso un clima di famiglia allargata, mentre noi padri andavamo al lavoro le case rimanevano con le porte aperte e i nostri figli andavano su e giù dalle scale come se fossero tutti di una sola famiglia. Erano sempre a pranzo una volta qui, una volta di là. C’era insomma una bella vita comunitaria, era meno bello quando tornando a casa ho dovuto dire che qualcuno dei miei colleghi era caduto; tutti erano poi vicini alla persona che aveva avuto la disgrazia e si sentiva un grande calore. Fra questi vicini ricordo Vito, che abitava sul nostro stesso piano; i suoi figli erano coetanei dei miei ed erano molto legati, sua figlia Giulia è tut65


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t’ora l’amica d’infanzia più cara di mia figlia Mirrina. Fin da piccoli mi piaceva sorprendere e stupire i miei figli. Ad esempio potevo arrivare a casa con un pallone meteorologico, oppure per il compleanno di Mirrina sono stato capace di tappezzare il giardino con del ghiaccio secco, quintali di ghiaccio secco, per simulare le nuvole. Mi piaceva creare occasioni di festa e prepararle per tempo lavorando di creatività, ad esempio fabbricavo vestiti da carnevale anche complicati. Ne ricordo uno in particolare: era un costume da damina, ed io avevo costruito dei cerchi in filo di ferro per rendere il più ampia possibile la gonna. Mirrina lo indossò tutta eccitata ma non passava più dalla porta di casa e la dovemmo calare dalla finestra del primo piano perché partecipasse alla sfilata. Per giorni facevo puzzare la casa di carta messa a macerare per costruire segnaposti particolari in cartapesta dipinta, decorazioni per le loro torte di compleanno ed oggetti in legno sempre per le loro feste. Ogni Natale costruivo una scenografia diversa, una volta ho decorato l’albero con nastri colorati che finivano ognuno in un posto diverso: sotto una poltrona, dietro un mobile. Ad ognuno avevo legato un regalo per trasformare la festa in una specie di caccia al tesoro. Frequentavo la specola di Brescia e proprio in quel periodo c’è stata un’eclissi di sole ed io ho volato con un biposto più in alto di tutti per fotografarla, proprio per loro. Ricordo che ho costruito anche una volta stellata con le costellazioni coperte di fosforo in modo che luccicassero al buio: era un modo per trasmettere conoscenze ma soprattutto di farli divertire.

Io e Mirrina all’aereoporto di Ghedi 66


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Gianluca

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Mirrina

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Gianluca e Elena

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Guendalina e Cesare

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Amici, come fratelli

Subito dopo la mia famiglia nella mia scala di valori ci sono gli amici. L’amicizia per me non si può rinnegare, o è totale, ed allora ci puoi contare in pieno, o non è amicizia. Per un vero amico puoi sacrificarti, un’amicizia a metà non ha valore, non ha proprio significato. Io ho il piacere di aver avuto amici che per me sono stati come fratelli, non tanti, ma molto importanti perché nell’amicizia ho sempre dato ma ho anche sempre tanto ricevuto. Da tempo mi trovo in uno stato di salute per cui ho bisogno di aiuto in tutto: non cammino più, devo essere messo a letto, trasportato in bagno, accudito. Mi sento un po’ prigioniero di questa condizione, a volte sono proprio stufo di vivere, poi ci ripenso e dico: “Tutto sommato ho degli affetti per i quali vale ancora la pena di vivere”, è una titubanza che mi balena di volta in volta, e mi rende di buono o di pessimo umore a seconda dei momenti. In questo momento ad esempio, sono molto preoccupato per mia moglie Marisa che forse si dovrà operare e lei è preoccupata per me, perché non sa come lasciarmi, con chi lasciarmi. In questa situazione o gli amici vengono da me, altrimenti io non posso più andare da nessuno, posso solo pensare, ricordare, telefonare, ma sono un pensiero importante. Li rivedo spesso di notte, in una forma di dormiveglia, di sogno ad occhi aperti. In quei momenti mi arrivano immagini come sprazzi di luce dal passato, mi tornano in mente tante cose, le rivedo, le risento, partecipo. Parlo con me stesso di notte. Qualche volta al mattino tutto mi sfugge, altre volte invece mi ricordo bene quello che ho pensato. Vorrei raccontare in particolare dei quattro amici più importanti: Enrico Piccaluga, Enrico Magenes, Leo Yeni e Oskar e Marianne Krug. Di Enrico Piccaluga ho già parlato perché è stato con me a Dachau; è ri74


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masto tuttora amico carissimo, telefona ed è venuto a trovarmi più volte. Era un atleta, grande appassionato di barca a vela; ne ha una sul lago Maggiore, non può stare senza barche. Molti anni dopo che è uscito da Dachau è riuscito a realizzare un suo sogno: la traversata dell’Atlantico. Oggi vive a Lisanza sul lago Maggiore dove ha creato un piccolo villaggio privato, abitato dai famigliari. Davanti alle case c’è un grande prato con balconata che dà direttamente sul lago: un luogo bellissimo. Fa consulenze come ingegnere, dunque sta bene economicamente, ma è stato colpito da due grandissime disgrazie: la morte di entrambe le figlie in incidenti. Questo ha fatto sì che in realtà non gli sia rimasto nulla, perché gli mancano le uniche due vere gioie della sua vita. Con lui c’è tutt’ora un grande legame anche se ci vediamo meno per via delle mie condizioni attuali. Un altro grande amico è Leo Yeni. Proviene da una famiglia ebraica, di origine greca, eravamo compagni di scuola e molto amici, frequentavo la sua casa ed i suoi genitori. Tutto quello che toccava con mano riusciva a farlo bene, ha cominciato a costruire modelli di navi in legno, facendo tutto dal disegno, al lavoro di intaglio a traforo, al montaggio, era proprio un artista. Poi ci siamo persi di vista, nel 1938, in seguito alle leggi razziali, lo hanno buttato fuori dalla scuola e da allora per anni io non l’ho più visto. Devo dire che ho sofferto tanto per la nostra separazione, ma non mi sono reso conto della questione politica, non mi ricordo di essermi interrogato se fosse o non fosse giusto. Dopo tanti anni, nel 1972, arriva una telefonata: era lui, in Italia per un tour delle città d’arte, in veste di guida di un gruppo di sue allieve. Ci siamo incontrati e da quel momento ci siamo ritrovati come se ci fossimo lasciati solo il giorno prima. Grande commozione, qualche pianto, baci ed abbracci e poi abbiamo ricominciato a parlare delle nostre vite come se non ci fossimo mai separati. Durante quel suo primo viaggio mi ha anche fatto un ritratto che mi ha regalato. Mi ha raccontato che i suoi genitori erano stati uccisi ad Auschwitz e della sua famiglia era rimasto solo qualche cugino. Lui era emigrato prima in Francia dove aveva frequentato l’Accademia delle Belle Arti, poi in America, dove aveva raggiunto dei cugini. A New York aveva iniziato l’attività artistica come pittore, cominciando a fare delle mostre, integrando con l’insegnamento. Ha abitato per un periodo ad Island, una zona che dà sull’Oceano in un villaggio di chalet in legno; ora ha un appar75


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tamento in un grattacielo che dà sul fiume Hudson a New York e l’altro a Miami. Dopo quel primo incontro, sono venuti spesso in Italia, prima con la moglie Rose, poi, dopo la morte di quest’ultima con la nuova compagna, una allieva di poco più giovane. Anche lei è una persona con la quale è molto piacevole stare, appassionata d’arte e lei stessa scultrice, con tre figli, due suoi e uno adottato. Ha avuto un grave incidente di macchina che per fortuna tramite l’assicurazione le ha fruttato tantissimi soldi. Siamo andati a trovarli più volte e lui quando arriva, non va in albergo, dorme sul divano perché vuole avere più tempo possibile per stare a parlare con me: siamo proprio come fratelli. Poi vorrei parlare anche di Enrico Magenes, professore universitario a Pavia in matematica superiore, uomo di grande cultura, membro dell’accademia dei Lincei. Un genio di una modestia e una semplicità eccezionali, se si pensa che le sue pubblicazioni sono state tradotte in tante lingue, compreso il russo. Ad un certo punto della mia vita, come ho brevemente accennato, mi sono trovato in difficoltà economica, senza lavoro. Forse avrei potuto superarle vendendo la mia macchina o altre cose, ma non volevo pesare sulla mia famiglia. Mi sono rivolto a lui. Quando ha saputo della mia situazione, è venuto da me con il libretto degli assegni e mi ha detto: “Qui c’è un assegno già firmato. Scrivi quello che vuoi” Mi è sembrata una cosa grande, ero in imbarazzo, ho scritto “Quattro milioni” che allora erano proprio tanti soldi. E intanto gli dicevo: “Ma sei sicuro che te li darò?”. E lui tranquillo “Scrivi. Va bene!” Glieli ho ridati tutti, poco per volta e verso la fine ho dovuto insistere perché li accettasse. Un gesto che nemmeno un fratello forse fa, che mi ha permesso di ricostruirmi senza pesare su nessuno. Questa è vera amicizia, le amicizie nate nei campi di concentramento sono state davvero importanti, anche se lui come Piccaluga è uno che non ha mai voluto parlare troppo di quella dolorosa esperienza. Non ci è più voluto tornare, forse per non soffrire troppo. Posso capire, anch’io non ho voluto scrivere, fino ad ora, perché inizialmente c’era la paura di non essere creduti, poi quella di falsare i fatti. Due amici importanti sono infine Oskar e la moglie Marianne Krugg, tedeschi, lei sulla cinquantina, lui in pensione da poco, di Kottern in Baviera, una cittadina dove c’era un campo di prigionia nel quale sono stato. Hanno due figli, una femmina e un maschio che sta studiando teolo76


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gia. Sono così generosi che quando siamo stati loro ospiti, nella loro casa che si apre su una distesa di prati verdi, ci hanno dato la loro camera da letto e hanno dormito sul sofà e quando vengono in Italia a trovarmi, lui mi dice sempre, molto seriamente: “Se hai bisogno di aiuto, io sono in pensione, dunque chiama che arrivo.” La nostra amicizia è nata a Dachau, li ho conosciuti in occasione delle commemorazioni annuali, alle quali per spirito civile, non mancano mai. Io ero presente in quanto rappresentante del Comitato internazionale di Dachau presso l’Associazione deportati italiani. Per anni, finché le mie condizioni di salute me lo hanno permesso, ho partecipato all’ Assemblea generale annuale. Ora ci va mio figlio Gianluca al quale ho passato il testimone, non solo perché non sono più in grado di andare, ma anche perché vogliamo che ci sia un passaggio di memorie ai più giovani, alle generazioni successive. I Krugg mi hanno colpito perché pur non essendo ebrei, pur non avendo parenti fra le vittime, sentono il peso di ciò che è stato e vogliono che non se ne perda la memoria, veramente persone meravigliose. Hanno coinvolto tutta la loro cittadina nella raccolta di fondi e sono riusciti a far erigere un monumento ai deportati. Hanno voluto che fossi presente all’inaugurazione, è stata proprio una bellissima cerimonia, io ho fatto un breve discorso alla presenza sacerdoti di tre confessioni diverse: ebraica cattolica e protestante.

Io con Leo Jeni

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Bruscamente a terra…

Come ho già accennato lentamente dopo l’uscita da Dachau ritornai alla mia vita di prima anche dal punto di vista professionale. Dopo qualche giorno, mi misero nelle mani del professor Cesabianchi, un luminare della medicina italiana del tempo, che mi curò dalla tubercolosi e in seguito, a guarigione avvenuta, mi aiutò ad occultare la cartella clinica, per poter rientrare nell’Aeronautica militare. Naturalmente ho dovuto fare addestramenti speciali per poter ritornare a volare, ma pian piano sono ritornato abile come prima, anzi ho guidato i Jet, i cacci e riprendere a volare presto, mi ha aiutato a riprendere il contatto con la normalità della vita. Ma non ci furono solo belle esperienze; il primo incontro con i rischi presenti nel lavoro di pilota lo feci un’estate in cui volavo al IV stormo “Baracca”, allegato al IX gruppo. Ero a Capodichino, in una calda giornata d’agosto, mi dicono: “Sali su questo aereo e portalo a Ghedi, la base di Brescia” Era un Mustang, F51, un caccia americano, bellissimo, con motore Roll-Royce. Parto e volo a 4000 metri d’altezza. Che fosse per il caldo estivo o per la sottotuta in lana, non so, fatto sta che mi addormento; l’aereo nel frattempo volava tranquillo, ma lentamente scendeva. Ad un certo punto il motore si ferma, e allora mi sveglio bruscamente, scopro che ero già arrivato a circa 1500 metri, di furia giro la maniglia del primo serbatoio di carburante che era proprio fra le gambe del pilota, e riesco a rimetterlo in quota! Dopo di allora, le cose sono andate avanti bene, ho fatto tantissime ore 79


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di volo, 600 solo col Mustang! Questo episodio, è una cosa da nulla, se paragonato ai tre gravi incidenti che mi sono capitati in seguito, dai quali sono uscito sempre miracolosamente illeso. Il primo incidente è accaduto il 21 agosto 1951. Dovevamo andare, in formazione di 11 apparecchi, guidati dal maggiore Veneziani, vicino all’Aquila, in un poligono con gli aerei carichi di armi per esercitarci a sparare. Si organizza la cosa ma manca un apparecchio. Allora mi dicono che devo andare io, con un aereo prestatomi dall’altro gruppo. I nostri aerei avevano le ogive dell’elica verdi, quelle del X gruppo erano rosse. Partiamo, atterriamo a Bagni di Tivoli, Guidonia, poi ci dirigiamo verso l’Aquila. Eravamo ancora bassissimi a meno di centocinquanta metri di quota, io stavo per unirmi agli altri, verso l’esterno della formazione, quando il motore non va, “pianta” cioè si ferma. Se il motore non funziona, un aereo è un ferro da stiro, una massa inerte, l’unica cosa da fare è contrastare la caduta puntando verso il basso, per imprimere velocità; con la velocità stai in aria senza, mentre senza vai giù. Faccio una picchiata ed una strusciata su un prato. L’aereo si è praticamente distrutto, ho perso l’elica, il motore, due pezzi d’ala, di integro rimaneva ben poco: io ed i timoni dietro. Io, miracolosamente illeso, inizialmente ho stentato a mettere a fuoco il rischio corso: mi sono addirittura arrabbiato perché non trovavo più i miei occhiali Ray-ban. Subito non mi sono reso conto di dove fossi capitato, mi ero fermato contro una rete metallica e dietro questa rete c’era la Scacchieri, una fabbrica di esplosivi! Mi si avvicina qualcuno, credo un pastore, con una sigaretta accesa, ho la prontezza di gridare: “Noo, non avvicinarti!” ero infatti completamente inzuppato di benzina visto che si era rotto il serbatoio posteriore, ed ero pronto per fare un bel falò. Grazie a Dio l’ha capito. Arriva il direttore della fabbrica di esplosivi, tutto tremante con il cognac. Se l’è bevuto prima lui, talmente era terrorizzato. C’era da capirlo, bastavano cinquanta passi più in là e sarebbe saltato in aria tutto lo stabilimento! Dopo qualche ora è arrivato un bimotore da trasporto con l’amico Ceoletta, e mi hanno riportato a Napoli. Mi hanno visitato ed hanno verificato che stavo bene, allora ho potuto 80


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28 agosto 1951 Bagni di Tivoli

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11 novembre 1953 Monte Giordano 82

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nuovamente volare, come d’uso, sul posto dell’incidente, che questa era la regola del volo, per non lasciare zone d’ombra e vincere la paura. Un incauto mio compagno, nel frattempo, aveva avvertito mia moglie dell’incidente e dell’atterraggio di fortuna. Quando sono ritornato a casa, l’ho trovata molto preoccupata e tremante. Allora le dico:“Andiamo a mangiare una pizza da Ciro, che ci tiriamo su il morale e festeggiamo!” Era proprio l’anniversario del nostro matrimonio. Ci sediamo, tiriamo un sospiro rassicurante e ci stringiamo le mani, e ad un certo punto, in un tavolo vicino al nostro sentiamo raccontare proprio il mio incidente! É stato divertente perché ad un certo punto non ho resistito ed ho detto: “Lo so io come sono andate a finire le cose, sono io quello dell’atterraggio!” Bel modo di festeggiare l’anniversario, no? Ero stato trasferito a Grottaglie, vicino a Lecce, una punizione, per via di una litigata, nientemeno che col Segretario generale dell’Aeronautica: un generale a quattro stelle. Ci avevo litigato perché ci aveva assegnato una casa bellissima con vista mare, a Posillipo, poi all’ultimo momento, l’aveva assegnata a qualcun altro, di suo maggiore gradimento. Facevo buon viso a cattivo gioco, ma non mi piaceva stare lì. Non mi piaceva quel tipo di aerei, gli Heldiver della Marina militare, non mi piaceva l’addestramento antisommergibili, per di più c’era un comandante che mi stava antipatico da morire, ma bisognava adattarsi. Grottaglie era allora un paese strano, grande come Monza, 30.000 abitanti, ma come mentalità solo un “paesone”. Ricordo che quando misero in funzione il primo semaforo, tutti gli abitanti erano lì in massa a guardare! Un giorno devo andare a Catania, a portare un plico sigillato che era nientemeno che il codice segreto militare della Marina; non eravamo in guerra, ma perderlo o farlo capitare in mani inadatte, era una cosa gravissima per me e per tutti. Pilotavo l’Heldiver biposto, dietro c’era un osservatore, senza comandi, imbragato come me, il guardiamarina Salvatore Valerio da Napoli. Era l’11 novembre 1953 e da Catania ripartiamo per Grottaglie. Quasi subito mi accorgo che il motore non funziona regolarmente. Arriviamo nel Golfo di Crotone, dove c’è un piccolo aeroporto, ma ave83


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va piovuto molto ed era tutto nel fango, faccio un atterraggio “pennellato” e i tecnici presenti mi dicono che tutto va bene. Un po’ rassicurato decollo di nuovo e puntiamo verso il Golfo di Taranto, arrivati prima di Montegiordano il motore comincia a scoppiettare, prima leggermente, poi sempre più forte, poi vedo delle fiamme. Era uscito dell’olio che mi ha oscurato la parte dei finestrini verso il mare, poi ad un certo punto il motore è sbiellato, si è rotto tutto e si è fermato. Non c’era la possibilità di gettarsi col paracadute, la quota non ce lo permetteva. Verso il mare non vedevo bene, intravedevo solo dei massi, che rendevano impossibile l’atterraggio, dall’altra c’era la montagna, pianura non ce n’era, che fare? Non so chi mi abbia aiutato, per chi crede sarà stata la Madonna, per gli altri qualcos’altro. Comunque “qualcuno” mi ha aiutato perché ho visto una specie di valletta fra i massi e sono riuscito ad infilarmi dentro. Ho fatto o forse sarebbe meglio dire“mi hanno fatto fare” un atterraggio meraviglioso, nel senso che io ho portato l’aereo in quella valletta quasi a fermarsi per aria, tenendolo in bilico, e l’ho portato ad incollarsi a terra, con il rischio altissimo che si rovesciasse. Non so come ho fatto a trovare quel buco, proprio non lo so. Il guardiamarina diceva: “Mi sono fatto male un po’ al ginocchio!” Intorno a noi il disastro. “Ringrazia il cielo che è andata così, al tuo ginocchio penseremo poi, prima andiamo a portare questo plico al sicuro dai carabinieri.” dissi. Sulla strada passò un camion che ci fece salire tutti e due. Ad un certo punto vediamo un mezzo militare sulla strada costiera, faccio segno erano ufficiali di marina che saputo dell’incidente ci venivano incontro con il whisky di rito Che gioia incontrarli! Poi arrivò anche il comandante seccato perché gli avevamo fatto fuori un aereo. Come se a me fosse piaciuto trovarmi in quel frangente! Marisa nel frattempo aveva saputo dell’incidente, glielo avevano raccontato minimizzando. Entro dalla porta di casa, lei mi tocca e senza una parola, sviene! Si era tenuta dentro tutto, ma era talmente tesa che ha avuto questa reazione incontrollabile. L’unica cosa che mi è sempre spiaciuta nei due incidenti è stata che pur 84


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avendo chiesto un rapporto sulle cause, se fossero per difetti di fabbrica o per altro, non ho mai più saputo niente. Questa segretezza è una routine e un malcostume dell’aeronautica. Sono rimasto ancora un po’ a Grottaglie, abitavamo in una bella casa isolata dove c’erano soffitti a volta dipinti con angioletti, circondata da un prato che si raggiungeva con una scalinata. L’ambiente era di campagna: trovavamo le pelli della muta delle bisce in giro per il prato e di notte sentivamo un sacco di rumori: erano le mucche che pascolavano tutt’attorno. Per far sentire che la casa era abitata, avevo detto a Marisa di sparare qualche colpo in aria per scoraggiare i ladri. Sempre a Grottaglie, conobbi un tale che si chiamava Vittorio Cumin. Un giorno gli ho detto: “Stammi vicino, prova a fare “un tonnan in coppia”. Scoprii così che pur tanto giovane e alle sue prime esperienze di volo, era un fenomeno, così “naturalmente” bravo che lo segnalai a Ghedi, alla Pattuglia acrobatica nazionale. “Prendetelo! Qui è sprecato!” dissi a Ceoletta. Lo presero infatti, ottenne il trasferimento a Ghedi e diventò per cinque anni il capo Pattuglia, andò perfino in America. Il terzo incidente a confronto di questi è una stupidaggine. Sempre con il Mustang. Ero in coppia con un altro, dopo l’atterraggio io stavo davanti a lui e mi stavo dirigendo verso l’hangar; devo aver rallentato, lui non se ne è accorto e mi è entrato dentro: sentivo botte ai piedi e che mi stava mangiando la coda. Ho cercato di accelerare ma ci siamo trovati con due aeroplani da aggiustare, niente in tutto. Dopo Capodichino sono stato a Bergamo, volavo con gli Spitfire. Con questi ho volato finché non si consumavano, tanto è vero che una volta facendo un looping tutto il quadro comandi mi si è staccato e mi è caduto addosso e dovevo tenerlo con le mani! Poi come succede, li hanno venduti credo agli arabi, anche se ormai erano rottami. Sono stato poi a Brescia, ho volato con i Vampir: i primi Aerei a reazione inglesi, bellissimi ma con una bassa autonomia, cioè con poca scorta 85


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di carburante, infatti quando sono andati a prenderli cinque nostri piloti in Inghilterra, nessuno è arrivato in aeroporto, sono andati tutti fuori, chi atterrando in un campo, chi altrove, hanno tutti e cinque rovinato gli aerei. In seguito sono stato a Roma in un ufficio importante allo Stato Maggiore e di nuovo a Brescia.

A bordo del F84F 1961

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Contrasti

Il primo dopoguerra è stato, ed è comprensibile, un periodo selvaggio, con brutti episodi di intolleranza verso i fascisti, ritorsioni, un periodo in cui era difficile ripristinare la legalità. Ad esempio c’è stata la caccia a quelli che avevano aderito alla Repubblica di Salò. Anche all’interno dell’esercito si sentivano delle ripercussioni. In un primo tempo era stata promulgata una legge che decurtava i fascisti di due gradi. Una specie di epurazione. Ma solo un anno dopo la legge è stata abrogata, e i fascisti hanno riavuto grado e arretrati. Io in quel periodo mi sono trovato a Capodichino, con degli ex ufficiali alle mie dipendenze, l’anno seguente me li vedo ritornare come superiori. Situazioni paradossali, ma non la prendevo male, io ero appassionato al volo, badavo a quello. Come ho già detto, io mi entusiasmo della meccanica di un aereo, del volo, ma non ho interesse per le armi e la violenza; ho fatto il pilota militare solo per risparmiarmi tanti soldi, che né io né mio padre avevamo. Anche da partigiano non ho mai sparato a nessuno. Pur di volare accettavo di andare a fare i collaudi degli aerei revisionati, anche di domenica. Ho trasportato dei Mustang fino a Decimomannu, è una tratta lunga, volavo da solo, sul Tirreno, con un aereo che aveva problemi, eppure andavo. L’unica cosa che mi incuteva un po’ di timore erano i voli notturni, voli strumentali, lì ero titubante, non mi sono mai tirato indietro ma non mi piacevano, odio il buio, ho bisogno del sole della luce. Ho avuto più paura lì che non durante i miei atterraggi di fortuna. Per carattere, pativo la gerarchia, la disciplina. Infatti ne ho anche combinate di tutti i colori in Aeronautica: a Roma una volta ho ap89


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profittato di un passaggio di un 133, un grosso aereo di trasporto, fino a Pisa, ci ho caricato la mia nuovissima cinquecento bianca, con la quale sono poi andato in viaggio con Marisa. Un’altra volta, quando stavo a Dobbiaco ed ero comandante del Reparto Trasporti, ho preso un piccolo aereo e ho portato un amico a fare un volo sulle Alpi. Era bellissimo, c’erano delle vedute meravigliose sulle montagne innevate. Un’altra volta ho portato mio padre a Milano. Oppure quando ancora ero fidanzato e Marisa lavorava in ufficio alla periferia di Milano, sorvolavo la sua zona a bassa quota, per salutarla, facendo spaventare i passanti. Cose vietate, ma in realtà scorribande innocenti, fatte per puro divertimento. Per altri versi invece, sono anche stato scomodo nell’ambiente militare. Ho un forte senso dell’onestà, mi piace approfondire le cose, non riesco a venire a patti con la corruzione. Un giorno arriva un tenente colonnello che mi dice: “Senta comandante, ci sarebbe da ordinare un certo numero di collimatori ottici della Galileo.” Si aspettava un approvazione senza discussioni, ma erano cifre dell’ordine dei miliardi. Io mi sono fatto lasciare tutta la documentazione tecnica, l’ho esaminata e ho bocciato l’ordine, perché secondo i miei calcoli quel collimatore sarebbe entrato in funzione quando già i nemici sarebbero passati! Lo ritenevo una spesa inutile. Ho portato la mia relazione al capo di Stato maggiore, ma è successa “l’ira di Dio”. Nel II reparto avevano già fatto il contratto, probabilmente avevano già incassato una tangente. Li ho avuti tutti contro, ho ricevuto un sacco di insulti, si dice ci sia stato anche un suicidio, ma ho fatto ciò che credevo giusto. Un altro episodio col quale mi sono fatto altri nemici, è stato quello delle “avio pen”, penne speciali che scrivono sui vetri. Bene, avevamo allora in Italia novantacinque aeroplani da caccia e piloti pochi di più, beh hanno ordinato otto milioni di matite! La stessa cosa succedeva per le commesse degli impermeabili, tutti i figli, i parenti degli ufficiali, dei marescialli li avevano, per me era intollerabile questo modo di utilizzare i soldi pubblici. Allora ho ordinato che ci fosse una striscia gialla dietro, in modo tale che 90


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venissero utilizzati solo dai militari. Mi hanno fatto una vera e propria guerra per questo, e ho avuto tanti nemici, ma anche degli amici, per fortuna. Fra questi ricordo ad esempio il generale Francesco Sforza, comandante del III reparto e della VI Brigata, che odiava la corruzione e mi voleva un gran bene. Mi telefonava con la sua voce tonante chiamandomi sempre con il mio secondo nome Asmodeo e mi scriveva delle lettere esagerate in cui mi dipingeva come un genio e mi esprimeva la sua grandissima stima. Aveva un nome storico molto importante ma era invece figlio della giornalaia che stava fuori della Accademia di Caserta; aveva fatto l’Accademia, con grande volontà e sacrifici, diventando generale di squadra aerea, uno dei massimi gradi. É stato anche responsabile della Casa dell’aviatore, lì ci ha ricevuti e fatti servire come re, durante il nostro viaggio di nozze Tornando a me, ho fatto carriera fino ad un certo punto, poi l’ho lasciata per ragioni mediche, in pratica per le conseguenze dell’internamento nei campi. Mi hanno messo in aspettativa a stipendio completo. Stavo bene perché potevo svolgere altre attività e avevo due stipendi, ad esempio sono andato in Messico per la Olivetti. L’esperienza però non è durata molto, perché, quando stavo per farmi raggiungere dalla famiglia, la Olivetti ebbe un crollo e ci mandarono tutti a casa. Nel frattempo in base ad una legge di Pertini, per la quale tutti i comandanti partigiani militari guadagnavano un altro grado, sono diventato d’ufficio Generale di brigata, anche se il grado reale più alto avuto è stato colonnello. Sembrerà strano ma di quel periodo non conservo nessun cimelio; mio figlio Gianluca, da piccolo, mi ha distrutto giocando quasi tutto: le mostrine, la sciabola! Altri ricordi preziosi come la medaglia d’oro dello Stato Maggiore dell’aeronautica e la croce d’oro dei venticinque anni di volo, mi sono stati portati via dai ladri.

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Inventarsi una nuova professione

Ho fatto diversi lavori in seguito. Tornato in Italia dopo l’esperienza del Messico, l’amico fraterno Piccaluga mi ha offerto la direzione di una piccola azienda metalmeccanica per la produzione di cavi d’acciaio per cementi precompressi. L’azienda, la “Tensacciai” era di proprietà di quattro imprenditori che non potevano interessarsene. Io, pur senza una preparazione specifica nel settore, accettai la nomina e dovetti ricercare la localizzazione dell’officina, degli uffici, e contattare il personale idoneo. L’acquisizione dei contatti e le lavorazioni cominciarono lentamente ma poi tutto procedette con soddisfazione. Il mercato e la concorrenza erano però fitte di ostacoli continui… Dopo un paio d’anni un ingegnere chiese di acquistare la ditta, me compreso. Così venni “venduto” e non fu una vita serena, anche perché imperavano dei giovani ingegnerei incompetenti e totalmente a digiuno di quelle tecniche di lavorazione ma che pretendevano di sapere tutto. Alla prima occasione mi presentai alla sede milanese della ditta Losinger che aveva sede a Berna. Fui subito assunto e per due anni tutto andò benissimo. Riuscii a far costruire dei particolari meccanici in Italia, a circa metà prezzo degli originali svizzeri. Costruimmo moltissimo e con successo, ma anche qui avvenne un momento di incomprensione e rottura. Mi licenziai! Trovai subito, con l’aiuto di un amico potente in politica, un contatto con un signore che aveva la licenza di produrre vernici speciali per elementi subacquei e centrali atomiche. Fui nominato direttore generale ad uno stipendio così elevato da far venire qualche dubbio. É vero che dovevo relazionare quotidianamente a lui tutti i particolari di questa azienda, ma 92


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ben presto mi accorsi che lui aveva un’altra azienda che usava gli stessi prodotti a prezzi molto più vantaggiosi per lui. Arrivai al punto di rischiare una denuncia, data la posizione di responsabilità che occupavo. Ci fu un chiarimento piuttosto burrascoso che mi costrinse a dare le dimissioni. A questo punto mi sono trovato in difficoltà: avevo cinquant’anni e mi mancava una qualifica specifica. La fortuna non mi abbandonò perché, un amico mi aiutò economicamente come ho già raccontato, e tramite mia suocera, ottenni un incontro con un’importante titolare di rappresentanze di filati e tessuti di aziende nazionali. Questo inizialmente mi offrì uno stipendio fisso e una percentuale sulle vendite, subito dopo però ritirò l’offerta dello stipendio e mi assunse come collaboratore. Di filati e tessuti non ne sapevo proprio niente, ma piano piano riuscii a entrare anche in quel mercato e via via mi adattai alla nuova attività. Il lavoro era per me difficile e noioso in quanto si trattava di vendere ed io non ero certo un buon venditore. Un certo Sironi della “Cotonfil” era pronto ad offrirmi una percentuale doppia ed io non esitai a passare a questa nuova ditta, dove trascorsi un altro paio d’anni con discreto successo economico. Ma l’amico Sironi morì ed io non andavo d’accordo con il suo socio. Di nuovo dovetti trovarmi un altro lavoro. Lo trovai, ma gli anni passavano ed io lo sentivo pesante, faticoso, umiliante. A questo punto decisi con Marisa di mettere fine ad ogni attività e di fare una vita di accorta economia, pur senza rinunciare a nulla. I tempi migliorarono, arrivarono degli aumenti di pensione ed ottenemmo dal Comune di Milano un appartamento piccolo in periferia ma a costo molto basso, questo ci riportò una situazione economica di nostra soddisfazione. Riflettendo sugli anni lavorativi succedutisi all’esperienza di pilota, penso proprio di essere stato bravo a passare senza difficoltà da un lavoro all’altro, da una tecnologia all’altra, adattandomi a mondi e modi di lavorare così diversi! Il tempo è passato e gli anni sono trascorsi uno dopo l’altro così, quasi senza di me. Ora sono vecchio, anzi vecchissimo, e da alcuni anni, come ho già detto, non sono più deambulante in seguito ad una neuropatia al midollo spinale: forse un “ricordo” dei miei atterraggi di “fortuna” che a distanza di anni malvagiamente riaffiora. 93


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Per finire

A questo punto cercando di leggere il tempo al contrario, non posso che considerarmi fortunatissimo. Fortunatissimo di aver avuto dei genitori impareggiabili. Fortunatissimo di aver avuto una moglie che, da oltre mezzo secolo, mi è compagna innamorata e affettuosissima, da me ricambiata. Fortunatissimo di aver avuto due figli stupendi e indescrivibili per intelligenza e impegno. Mi basta poi considerare che ho superato malattie gravissime e due paurosi incidenti di volo, uscendone incolume, per considerarmi veramente fortunato. Per questo ringrazio Dio, il Dio “unicoâ€? dell’esistente al quale credo e prego.

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Ringrazio......per la realizzazione di questo libro: Tiziana per essere stata tante ore con me a registrare la mia storia Marco per avere reso "bella" l'impaginazione Loredana per essersi occupata della sua stampa Mirrina per aver insistito che raccontassi i miei ricordi Gianluca, Guendalina, Elena e tutti quelli che amo e che mi amano per aver dato un senso alla mia vita e sopratutto Marisa per essere al mio fianco e volermi bene nonostante il mio non facile carattere.


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