PROGETTO GO’EL “ al fianco dell'oppresso nel suo cammino di liberazione ” MARZO-APRILE
2012
IN EVIDENZA Editoriale di Giovanni Paolo Ramonda.
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Campagna contro gli F35: Leggi, firma Pag. 11 e fai firmare l’appello.
Caccia a tutti i costi.
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Si potenzia lo interscambio militare Israele/Italia.
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Italia: armi leggere in aumento.
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Diritti in ControContro-Luce: Colombia
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In Italia ci sono 70 bombe atomiche ma nessuno lo sa
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Progetto Go’El
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In questo numero Anche questo numero affronta questioni di "VITA O DI MORTE". Questo mese sotto la lente di ingrandimento di questo bollettino ci sono gli ARMAMENTI, fulcro e leva di realtà paradossali. Quasi ovunque si guardi o si ascolti, si parla e si narra di missioni di Pace. Difesa della patria, orgoglio per le proprie radici, tutela dei propri territori, dei propri interessi e dei propri popoli. E’ un ritornello fatto di titoli che quasi fanno da preludio ad una melodia di valori alti, se non altissimi dai toni così giusti da sembrare quasi "paradisiaci" che risponde alla controversia situazione mondiale con gli impegni di istituzioni che hanno a cuore l'altro e che si prodigano per costruire la pace. Tuttavia, se si va solo un pochino oltre i titoli del ritornello, ad un tratto, ci si accorge che la melodia non è fatta di cori angelici, ma di rimbombi. E quei rimbombi, l’ascoltatore attento si renderà conto che non sono neanche l’annuncio di un temporale estivo. Con un poco di attenzione in più distinguerà fra quel frastuono l’eco di devastanti bombe seminate come se si stesse coltivando un campo e poi ascoltando sempre meglio distinguerà le grida in lontananza di gente a cui è stata rubata la festa del proprio vivere tranquillo e lento e che oggi urla straziata perché massacrata dagli stessi strumenti che si usano per le cosiddette missioni di pace. Sono pianti e lamenti di madri e padri che vegliano sul corpo senza vita di figli armati dei giocattoli di morte dalle Mafie, dalle Milizie, dai Poteri forti. Vogliamo offrirvi un viaggio! Forse un po’ crudo, ma reale per condividere che troppo spesso quella melodia, a cui spesso non abbiamo il tempo di dedicare la dovuta attenzione, spesso nasconde con la giustificazione di difendersi o creare occupazione, l’effetto collaterale della morte che anziché creare Pace devasta ogni possibile ponte verso la riconciliazione. Non vogliamo continuare ad essere machiavellici, noi crediamo che i mezzi contengano il fine e che se si vuole costruire la Pace non ci sia altra voce che la nonviolenza, il perdono e la riconciliazione.
Domenico e Nicola SERVIZIO OBIEZIONE E PACE “ASSOCIAZIONE COMUNITÀ PAPA GIOVANNI XXIII”
PROGETTO
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Editoriale
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DI GIOVANNI PAOLO RAMONDA
La vita umana va rispettata sempre, a nessuno è lecito distruggere direttamente un essere umano innocente, come abbiamo visto questi giorni in Siria dove si attuano massacri utilizzando strumenti di morte come le armi. Anche se la legittima difesa è prevista per chi ha responsabilità della vita altrui, non deve mai comportare un uso della violenza cieca. Gesù di Nazareth è venuto a dire “ beati gli operatori di pace”, proponendo anzitutto la pace che parte dal cuore. L’uomo del dolore che ben conosce il soffrire propone il perdono e la riconciliazione come nuova via per la fraternità mondiale, senza più la necessità di armi “ volgeranno le loro lance in falci e i loro fucili in aratri “. E’ l’odio che porta ad armarsi, a difendersi dal fratello, a farlo fuori. La pace nel mondo è necessaria e porta il nome nuovo di sviluppo, di investire risorse non più per gli armamenti , ma per dare lavoro, case, educazione, sanità, cultura, senso religioso. La pace allora diventa frutto della scelta di giustizia, di una nuova economia di condivisione, dove le risorse condivise si moltiplicano. L’equa distribuzione e la tutela dei beni delle persone, la libera comunicazione tra gli esseri umani, il rispetto della dignità delle persone e dei popoli produce la pace. Noi sappiamo come anche in caso di guerra è fondamentale che si trattino con umanità i civili, i prigionieri. Si devono condannare le distruzioni di massa come lo sterminio di un popolo o di una minoranza etnica, e se qualcuno li ordina bisogna disobbedire. I primi cristiani sono stati maestri nell’obiezione di coscienza e nella disobbedienza civile a partire da San Massimiliano martire. Bisogna evitare a tutti i costi il ricorso alla guerra, evitando l’accumulo di armi e il commercio e riconvertendo l’industria bellica. Questo è possibile e necessario. Uniamo a tutto questo una preghiera incessante che unisca tutti gli uomini e donne di buona volontà e tutti i credenti perché venga concesso da Dio il dono della pace.
Foto: Anna Bonecher
Giovanni Paolo Ramonda è il Responsabile Generale della Comunità Papa Giovanni XXIII dal 2008. E' colui che ha raccolto la faticosa e bella eredità di don Benzi, il fondatore. Laureato in pedagogia e con un magistero in scienze religiose, Paolo dal 1984 è sposato con Tiziana e con lei "condivide" una casa famiglia di 15 persone.
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Caccia a tutti costi Acquistare i 131 caccia bombardieri F35 nell'ambito del programma Joint Strike Fighter costerà all'Italia almeno 15 miliardi di euro. Una campagna e molte voci chiedono da tempo di evitare questa spesa. Fino ad ora la risposta dei fautori del progetto era stata: “Le penali sono troppo alte”. Ma l'inchiesta di Altreconomia dimostra una cosa diversa. Francesco Vignarca “Non credo proprio che sarà così” pare abbia detto il neo ministro della Difesa, l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, a chi gli chiedeva se i “sacrifici” imposti dal Governo avrebbero riguardato anche le spese militari. “La crisi non fa venire meno funzioni fondamentali come la Difesa”. E i pacifisti potranno pure avere il diritto di esprimere la propria opinione ma “che sia corretta è da vedere” ha concluso il ministro. Su questo tema il caso emblematico è quello dei cacciabombardieri d’attacco Joint Strike Fighter F-35, il programma militare più costoso della storia guidato dagli Stati Uniti in compartecipazione con altri 8 Paesi tra cui l’Italia (che è partner di “secondo livello” come la Gran Bretagna). Da tempo e da più parti si chiede che questa spesa (i conti parlano per l’Italia di almeno 15 miliardi di euro in 11 anni) sia cancellata, o almeno ridotta, anche perché le stime di costo per ciascuno dei 131 velivoli che il nostro Paese si è impegnato ad acquistare hanno sfondato tutte le previsioni iniziali. “Impossibile -è la risposta più utilizzata-: il prezzo delle penali sarebbe maggiore della fattura di acquisto”.
le di fine 2009 è scaricabile qui a lato) stabilisce che qualsiasi Stato partecipante possa “ritirarsi dall’accordo con un preavviso scritto di 90 giorni da notificarsi agli altri compartecipanti” (par 19.4). In tale evenienza il Comitato Esecutivo del Jsf deciderà i passi successivi e il Paese che ha deciso di lasciare il consorzio continuerà a fornire il proprio contributo, finanziario o di natura operativa, fino alla data effettiva di ritiro. Il Memorandum mette comunque al riparo tale mossa da costi ulteriori. In caso di ritiro precedente alla sottoscrizione di qualsiasi contratto di acquisto finale degli aerei nemmeno i costi di chiusura della linea produttiva, altrimenti condivisi, potrebbero essere imputati (par. 19.4.2) e “in nessun caso il contributo finanziario totale di un Paese che si ritira -compresi eventuali costi imprevisti dovuti alla terminazione dei contratti– potrà superare il tetto massimo previsto nella sezione V del Memorandum of Understan-
milioni (di euro) previsti complessivamente ed in autonomia per l’impianto Final Assembly and Check Out (Faco) di Cameri. L’insediamento costituirà il secondo polo mondiale di assemblaggio degli F-35, ed è stato voluto fortemente dal governo italiano in cooperazione con i Paesi Bassi. Cameri è la sede in cui Alenia (un’industria privata in un insediamento produttivo pubblico) dovrebbe costruire le ali (ma solo quelle sinistre) del velivolo. L’appalto è stato assegnato alla società controllata da Finmeccanica per subcontratto. Fatti due conti, il totale degli oneri già determinati a carico del contribuente italiano ammonta a 2,7 miliardi di euro. E ci si potrebbe fermare qui.
ding” (par. 19.4.3). E cosa stabilisce questa sezione? Che i costi non-ricorrenti e condivisi di produzione, sostentamento e sviluppo del progetto siano distribuiti, secondo tabelle aggiornate a fine 2009, in base al grado di partecipazione al programma di ciascun Stato. Per l’Italia ciò significa, nell’attuale fase (denominata “PSFD”: Production, Sustainment, Follow-on Development), una cifra massima totale, calcolata a valori costanti del dollaro, di 904 milioni.
La documentazione ufficiale dell’operazione si trova sul sito www.jsf.mil. Da questa si evince qualcosa di ben diverso: l’uscita del nostro Paese dal programma non comporterebbe oneri ulteriori rispetto a quelli già stanziati e pagati per la fase di sviluppo e quella di pre-industrializzazione. Lo prevede il “Memorandum of Understanding” del Joint Strike Fighter (in pratica, l’accordo fra i Paesi compartecipanti) sottoscritto anche dall’Italia con la firma apposta il 7 febbraio del 2007 dall’allora sottosegretario Giovanni Lorenzo Forcieri (governo Prodi). La sezione XIX del documento (l’ultim o aggiornamento ufficia-
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Niente di più, in caso di ritiro prima di un qualsiasi contratto di acquisto dei velivoli. Addirittura agli Stati Uniti è concesso, nel paragrafo 19.7, un ritiro unilaterale dal programma sebbene il totale previsto di 2.443 aerei da acquistare (cioè il 75% del totale) impedisca nei fatti di compiere tale scelta. Proprio sulla base di queste parti dell’accordo Norvegia, Canada, Australia e Turchia hanno di recente messo in discussione la loro partecipazione al programma, in qualche caso arrivando a una vera e propria sospensione. Alle spesa che l’Italia ha già pagato per il programma Jsf occorre aggiungere inoltre il miliardo di euro circa pagato per la precedente fase di sviluppo SDD (System Development and Demonstration) e i circa 800
La situazione sarebbe completamente diversa in caso di sottoscrizione già avvenuta del contratto di acquisto degli aerei: non più un accordo tra Stati partner per la suddivisione di costi di un progetto congiunto, ma vero e proprio ordine di acquisto inoltrato all’azienda capo-commessa Lockheed Martin. In tale caso l’investimento andrebbe a lievitare sia per il costo in sé dei 131 velivoli previsti, sia per le penali in caso di ritiro che sicuramente l’impresa Usa non mancherebbe di esplicitare. Per questo Lockheed Martin ha cercato, negli ultimi anni, di premere per la costituzione di un consorzio di acquisto tra alcuni dei Paesi del progetto.
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Già dal 2007 i manager del board JSF hanno incoraggiato, con la promessa di prezzi più bassi, i partner a sottoscrivere contratti di acquisto. Ma questa ipotesi prevedeva sanzioni: qualsiasi cliente avesse annullato o ritardato le consegne avrebbe dovuto compensare gli altri membri del consorzio per l’aumento dei costi unitari derivanti. Una spada di Damocle che non è piaciuta a nessuno, tanto che fonti del governo australiano hanno dichiarato “morta” la trattativa già a fine 2009. Fonti militari ci confermano oggi che nemmeno lo Stato italiano, dopo il Memorandum del 2007, ha firmato ulteriori accordi a livello governativo. L’impatto per le nostre tasche sarebbe ben diverso se l’Italia continuasse sulla strada intrapresa, arrivando a firmare un contratto con Lockheed Martin. L’ultima “Nota aggiuntiva allo stato di previsione per la Difesa” disponibile (quella per il 2011, perché nella Legge di Stabilità di fine anno del governo Berlusconi nessun dettaglio è riportato, nemmeno per i tagli lineari già previsti dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti) stanzia per tutta la fase di acquisto dei 131 caccia ipotizzati, da completarsi nel 2026, un costo complessivo di 13 miliardi di euro. In realtà le più recenti stime basate sui dati del Pentagono proiettano il costo finale di ciascun esemplare a più del doppio dell’ipotesi iniziale elaborata dai tecnici del programma; ciò significa che la fattura per l’Italia (compresi anche i propulsori, pagati a parte) potrebbe tranquillamente ammontare -e stiamo parlando di stime in continua crescita- ad almeno 15 miliardi di euro. Soldi da pagare in
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corrispondenza dei singoli contratti d’acquisto, spalmati su più anni. Senza contare che, in particolare per i progetti aeronautici, i costi maggiori si hanno con il mantenimento e la
nuovo approccio al procurement militare ottenendo alti risultati “con un’attenzione stringente al controllo di costo”. La crescita vertiginosa del prezzo ha dimostrato ben altra
gestione dei velivoli.
realtà.
Dando retta alla tabella che distribuisce la produzione dei velivoli per singolo anno e singolo Paese, invero un po’ datata, l’Italia dovrebbe iniziare ad acquistare aerei nel 2012 (4 esemplari) per finire nel 2023 (10 esemplari con picco di 13 aerei tra il 2016 e il 2018). Le consegne effettive sono previste due anni dopo la firma di ciascun contratto. Proiettando il tutto in termini monetari ciò comporterebbe un costo dai 460 ai 1.495 milioni di euro all’anno da qui al 2023, con un costo medio annuale di almeno 1.250 milioni. Eppure sarà difficile vedere un “dietro-front” del nostro Paese su questo progetto, almeno per mano del Governo “tecnico” attualmente in carica. È stato infatti proprio l’attuale ministro della Difesa Di Paola a firmare, con una cerimonia a Washington nel giugno 2002, l’accordo per la partecipazione italiana da un miliardo di euro alla prima fase SDD (come si vede nella foto accanto, diffusa dal Dipartimento della Difesa USA e disponibile sul sito del progetto JSF). Secondo il direttore del programma JSF del tempo Jack Hudson, l’ammiraglio Di Paola (a quell’epoca Segretario generale della Difesa) è stato un “formidabile sostenitore per il Jsf in Italia; la sua appassionata energia e la sua visione sono state di valido aiuto per il completamento dei negoziati”. Peccato che, durante i discorsi ufficiali, Di Paola non sia stato buon profeta nell’affermare che con il Jsf si sarebbe sperimentato un
Visto che la “foglia di fico” delle penali si è rivelata solo fumo negli occhi, sarebbe il caso di mettere realmente in discussione un programma che ci costerà circa oltre un miliardo di euro all’anno solo per l’acquisto degli aerei, poi da mantenere. Nemmeno la giustificazione del ritorno industriale pare plausibile (si favoleggia del 75% dell’investito) e soprattutto sono da ridimensionare fortemente le stime occupazionali legate alla partecipazione dell’industria italiana al progetto. Le parti sociali, in particolare sindacali, hanno stabilito in 200 (più 800 nell’indotto) i posti di lavoro creati, mentre il ministero della Difesa prevede 600 occupati alla struttura FACO di Cameri. Non certo i 10.000 impieghi raccontati per anni da politici e manager compiacenti con il programma. Studi recenti dimostrano che spostare un miliardo di dollari dalla Difesa al comparto delle energie rinnovabili aumenterebbe del 50% il tasso di occupazione: addirittura del 70% se re-investiti in ambito sanitario. Un mondo senza conflitti, secondo i calcoli dell’australiano Institute for Economics and Peace che elabora il Global Index of Peace avrebbe creato un valore economico positivo di 8.000 miliardi di dollari, con un terzo di questa cifra derivante dalla riconversione dell’industria bellica.
http://www.visionofhumanity.org/gpi-data/#/2011/scor
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Le vendite di armi leggere italiane in aumento di Fonte: Archivio Disarmo - 19 gennaio 2012
L’export di armi italiane di armi leggere ad uso civile ha registrato un ulteriore incremento nelle vendite nel biennio 2009-2010: oltre un miliardo di euro con un rilevante aumento di circa il 10% rispetto al biennio precedente. E’ quanto emerge dal nuovo rapporto “Armi leggere, guerre pesanti 2011” dell’Archivio Disarmo. In particolare tra il 2009 e il 2010 la crescita si attesta a circa il 17%. Le esportazioni sono per la maggior parte dirette verso USA e UE, ma l’Asia passa da 28 milioni di euro nel biennio 20072008 ad oltre 142 milioni nel biennio successivo.
L’Istituto di Ricerche Archivio Disarmo, facendo seguito ai precedenti rapporti sulle esportazioni di armi italiane di armi leggere ad uso civile, pubblica il nuovo “Rapporto 2011” da cui emerge un forte incremento sulle vendite. Nel biennio 2009-2010 l’Italia ha esportato complessivamente oltre un miliardo di euro (1.024.275.398) in armi leggere ad uso civile, precisamente 471.368.727 nel 2009 e 552.906.626 nel 2010 con un rilevante aumento di circa il 10% rispetto al biennio precedente. In particolare tra il 2009 e il 2010 la crescita si attesta a circa il 17%.
La ricerca dell’Archivio Disarmo su fonte ISTAT evidenzia che le esportazioni sono per la maggior parte dirette verso Stati Uniti e Paesi membri dell’Unione Europea. L’aumento più significativo per valore è sicuramente rappresentato dall’Asia passata dall’importazione di circa 28 milioni di euro nel biennio 2007- 2008 ad oltre 142 milioni nel biennio considerato. L’Italia ha esportato armi comuni da sparo anche nel continente africano e nel Medio Oriente dove la situazione di molti Paesi, già critica negli anni passati, nel periodo recente è esplosa con l’ondata rivoluzionaria che ha portato al capovolgimento dei sistemi politici e centinaia di morti e feriti.
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Emerge l’esportazione verso Paesi sottoposti a embarghi internazionali sulle forniture di armi (Cina, Libano, Repubblica Democratica del Congo, Iran, Armenia e Azerbaijan) e verso Paesi in cui sono in atto conflitti e in cui si riscontrano gravi violazioni dei diritti umani (la Federazione Russa, la Thailandia, le Filippine, il Pakistan, l’India, l’Afghanistan, la Colombia, Israele, Congo, Kenia, Filippine ecc.). In particolare dalla ricerca emergono alcuni casi di esportazioni a Paesi in conflitto e dove avvengono gravi violazioni dei diritti umani. L’Italia ha esportato armi da fuoco in tutta i Paesi nordafricani interessati quest’anno dalla “primavera araba”: l’Egitto,
tati da pistole, fucili e loro parti ed accessori. Dallo studio emergono le contraddizioni derivanti dal fatto che le procedure e i divieti previsti per le armi comuni da sparo (previste dalla legge 110/75) sono diverse dal quelle previste dalla legge 185/90 che si occupa dei trasferimenti di armi ad uso militare, una tra le discipline più avanzate a livello internazionale. E’ opportuno ricordare che, come ha più volte messo in luce l’ONU, spesso attraverso vendite legali si passa poi a successive forniture a soggetti che di questi strumenti fanno un uso non consentito, finendo per armare anche la delinquenza organizzata, formazioni terroristiche, la Tunisia e in particolare la Libia che ha ricevuto oltre 8,4 milioni di euro, totalmente rappresentate da pistole e carabine Beretta e fucili e Benelli finite nelle mani del settore di Pubblica Sicurezza del Comitato Popolare Generale (l'istituzione di Governo Libica), col grave rischio che possano essere state utilizzate per la repressione in atto negli ultimi mesi. Sono state fornite armi, proiettili ed equipaggiamento militare e di polizia usati per uccidere, ferire e imprigionare arbitrariamente migliaia di manifestanti pacifici in Paesi come la Libia, la Tunisia e l'Egitto e tuttora utilizzati dalle forze di sicurezza in Yemen. Lo Yemen ha importato dall’Italia una cifra pari a 487.119 euro di armi e oggi versa in una situazione di conflitto che ha provocato centinaia di morti; la dura repressione del governo, nei confronti delle manifestazioni popolari verificatesi a sud del Paese, ha causato molte vittime tra manifestanti e civili. Destano gravi dubbi, per la possibilità che siano usate per compiere violazioni del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani, le esportazioni di armi nell’Africa Sub-Sahariana in: in Congo (Brazaville), Kenya e verso la Repubblica Democratica del Congo verso cui sono state esportate munizioni per un valore di 81.152 euro malgrado l’embargo dell’Unione Europea e dell’Onu in vigore dal 1993; nel conflitto tra le vittime si annoverano numerosi civili e gli attacchi indiscriminati da parte di tutte le forze in
campo, anche verso la popolazione civile, stanno creando un popolo di sfollati e rifugiati. La Cina, tra il 2009 e il 2010 ha acquistato dall’Italia armi civili, munizioni ed esplosivi per un valore di oltre 3 milioni, in violazione dell’embargo, imposto dal Consiglio Europeo nel 1989 in seguito ai fatti di Piazza Tienanmen, che mira proprio a tutelare i diritti umani. L’Honduras è stato teatro di un conflitto interno durante il 2009 e nella regione dell’Agùan è stato imposto uno schieramento militare permanente a causa delle manifestazioni dei contadini contro aziende agricole private che spesso sono sfociate in episodi di violenza. L’Italia ha esportato verso il Paese più di 600 mila euro di materiali totalmente rappresen-
bande paramilitari ecc. Come avviene già a livello europeo, ancora una volta appare necessario considerare, per i controlli sulle esportazioni, le armi comuni da sparo alla stregua delle armi leggere ad uso militare alla luce dell’ormai accertata pericolosità della loro presenza soprattutto nei numerosi scenari di conflitto che costellano i cinque continenti; conflitti in cui le armi, dalle più piccole alle più sofisticate, contribuiscono alla radicalizzazione della violenza e delle difficili condizioni postconflittuali con impatti devastanti sulle popolazioni. .
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In Italia ci sono 70 bombe atomiche ma nessuno lo sa «Nessun governo italiano di centrodestra o di centrosinistra, non negando e non dicendo, ha mai ammesso la presenza di arsenali atomici sul nostro territorio nazionale, anche se all'estero tutti sanno quante sono e dove sono», spiega lo storico e docente universitario Maurizio Simoncelli. E dice: «la Nato mostra difficoltà ad abbandonare la vecchia mentalità di difesa e deterrenza, di cui le armi nucleari tattiche sono un pilastro».
Silvia Cerami La guerra fredda è finita da più d vent’anni, la Seconda guerra mondiale da più di mezzo secolo, eppure le bombe nucleari tattiche statunitensi sono ancora in Europa. Armi con una potenza distruttiva pari a 900 volte quella delle bombe di Hiroshima o Nagasaki. Bombe dislocate anche in Italia, a Ghedi Torre, vicino Brescia e Aviano, in provincia di Pordenone.
Bombe nucleari che «dovrebbero essere trasportate dai nuovi cacciabombardieri monoposto F35». Già. Quelli di cui l’Italia vorrebbe dotarsi per un costo complessivo di 15 miliardi. Anche se con qualche ripensamento del ministro della Difesa Giampaolo Di Paola. Tutto questo benché l’articolo 11 della nostra Costituzione sancisca il ripudio della guerra come strumento di offesa e l’Italia abbia firmato e ratificato il Trattato di non proliferazione nucleare.
Professor Simoncelli, perché nonostante il discorso di Praga del presidente Barack Obama e il clima di distensione maturato in questi ultimi anni, volto al ritiro della armi nucleari, non si è arrivati ancora ad una revisione strategica della posizione dell’Alleanza Atlantica che consenta il ritiro delle armi nucleari tattiche dal territorio europeo? La Nato con la nuova Dottrina Strategica adottata a Lisbona nel 2010 ha attribuito un ruolo minore alle armi nucleari tattiche statunitensi in Europa, ipotizzandone anche un possibile ritiro. Questa nuova Dottrina Strategica della Nato, però, ipotizza tali ulteriori riduzioni su una base di reciprocità con la Russia, condiPROGETTO
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zione che non si richiedeva negli anni immediatamente successivi alla guerra fredda e che presuppone pertanto Mosca come un nemico. Va notato che la Nato mostra difficoltà ad abbandonare la vecchia mentalità di difesa e deterrenza, di cui le armi nucleari tattiche sono un pilastro. In Europa, ancor più che in America, vi sono alcune forti resistenze ad un cambiamento significativo. D'altro canto, Washington ha compiuto atti significativi, sia ritirando le armi nucleari B -61 da Ramstein (Germania) e da Lakenheath (Gran Bretagna), sia riducendone più della metà (dalle 480 dell’amministrazione Bush alle 200 stimate dell’amministrazione Obama). Il nuovo presidente statunitense ha poi dichiarato nel 2010 con la Nuova Dottrina Nucleare l'intenzione di voler ritirare i circa 320 missili nucleari Cruise mare/terra Tomahawk.
Quante sono le testate nucleari presenti in Europa e in quali Paesi? Quando parliamo di armi nucleari dobbiamo fare alcune precisazioni. In primo luogo dobbiamo fare la distinzione tra armi nucleari strategiche, di solito a lunga gittata, particolarmente distruttive e con funzioni deterrenti, e quelle tattiche, di minore potenza e gittata, ma il cui utilizzo è previsto in alcuni casi nei campi
di battaglia. Inoltre in Europa vi sono tre paesi dotati di tali arsenali, come la Francia, la Gran Bretagna e la Russia. La Francia possiede circa 290 testate nucleari dispiegate (più 10 nei depositi), mentre la Gran Bretagna ne ha 160 (più 65 nei depositi). La Russia ne ha 2.427 dispiegate (di cui 2.000 circa tattiche, più altre 8.570 nei depositi). A questi arsenali vanno aggiunte le bombe nucleari tattiche statunitensi poste sul territorio europee durante il periodo della Guerra Fredda. Si stima che attualmente siano tra le 150 e le 200 bombe Usa B61 dislocate su cinque paesi in sei basi: Belgio (Kleine Brogel, 10-20 bombe). Germania (Büchel, 10-20 bombe), Italia (Aviano, 50 bombe; Ghedi Torre, 10-20 bombe), Olanda (Volkel, 10-20 bombe), Turchia (Incirlik, 60-70 bombe). Tali bombe sono trasportabili da squadroni aerei di F16 e Tornado, con un raggio d’azione massimo di circa 1.400 km (senza rifornimento in volo). Secondo le ipotesi attuali, in futuro tali bombe dovrebbero essere trasportate dai nuovi cacciabombardieri monoposto F35 di quinta generazione con capacità stealth, il cui costo è raddoppiato rispetto a quello previsto inizialmente (da 52,5 milioni di dollari a 9 2,4 stimati) e di cui l’Italia vorrebbe dotarsi con 131 esemplari per un costo complessivo valutato di oltre 15 miliardi di euro.
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Infine, va ricordato che, un sottomarino dotato di missili nucleari è una minaccia invisibile e difficilmente individuabile che si può muovere da un mare ad un altro, rappresentando una minaccia superiore sia alle armi nucleari tattiche, sia a quelle strategiche posizionate nei silos, autotrasportate o aviotrasportate.
Quali sono gli stati Europei contrari alla rimozione e perché? Il paese che mostra le maggiori resistenze è la Francia, seguita da Ungheria e Lituania. Parigi non intende ridiscutere la politica del nuclear sharing temendo sia che si indeboliscano le garanzie di sicurezza garantite dall'attuale sistema, sia di perdere il proprio ruolo di primo piano nucleare in ambito europeo.
Queste armi sono state «il collante dell’Alleanza». Quali forme più utili di condivisione di oneri o più tangibili della solidarietà dell’Alleanza si potrebbero adottare? Appare necessario uno sforzo di fantasia, per così dire. Gli alleati Nato dovrebbero cercare sistemi di solidarietà e di unione all'interno dell'Alleanza non basati esclusivamente sulle armi nucleari tattiche. Bisognerebbe preparare un pacchetto di proposte per la Revisione del Potenziale di Difesa e Deterrenza cercando in particolar modo di rassicurare la Francia, in merito al suo ruolo e al suo arsenale nucleare.
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Quale funzione di sicurezza strategica per nucleari tattiche dal territorio dei Paesi i paesi della Nato rivestono le armi nu- dell'Europa orientale suoi ex-alleati, schiecleari tattiche presenti sul territorio euro- randone diverse sui propri confini e costipeo? Storicamente, le armi nucleari tattiche erano state schierate in Europa al fine di prevenire un possibile attacco militare sovietico di tipo convenzionale o nucleare su scala limitata. Tutto questo appare ormai superato sia militarmente, sia politicamente. La Nato è talmente forte dal punto di vista convenzionale che appare improbabile un attacco russo. Tali armi, forse, potrebbero servire solo per contrattare al tavolo dei negoziati con la Russia una riduzione degli arsenali nucleari tattici. Come è stato notato, in realtà la Russia detiene le sue per cercare di compensare la superiorità convenzionale della Nato e non per bilanciare il dispiegamento delle armi nucleari tattiche statunitensi in Europa. Così di fatto, mantenendo le nostre armi nucleari tattiche, anche la Russia è giustificata a non parlarne. Quindi sono inutili militarmente e politicamente.
Perché non si riesce ancora a trovare un accordo con la Russia che rifiuta di negoziare sulla questione fino a che gli Stati Uniti non avranno trasferito le loro armi nucleari tattiche dall'Europa al proprio
tuendo così una minaccia per i Paesi Nato. Teoricamente Mosca potrebbe attaccarci, ma non mi sembra che i rapporti Ue e Nato con la Russia facciano prevedere un'escalation di questo genere. Gli Usa, invece, non hanno ritirato tali armi dall'Europa e Mosca lo avverte come una minaccia. Servono misure di rafforzamento della fiducia e non l'installazione di basi o di missili da una parte o dall'altra.
È vero che il governo italiano né smentisce né conferma la presenza delle testate nucleari in Italia? Nessun governo italiano di centrodestra o di centrosinistra, non negando e non dicendo, ha mai ammesso la presenza di tali arsenali sul nostro territorio nazionale, anche se all'estero tutti sanno quante sono e dove sono. Gli italiani sono trattati come minori che non devono sapere.
Qual è la forza esplosiva e la capacità distruttiva delle bombe nucleari B61 presenti in Italia?
Le armi nucleari tattiche B61 sono bombe gravitazionali, che devono essere lanciate da aerei costruiti appositamente o compatibili (F16 o Tornado). La loro potenza territorio? distruttiva è pari a 900 volte quella delle Non va dimenticato che Mosca, dopo la bombe di Hiroshima o Nagasaki, con una fine dell'Urss, ha ritirato le proprie armi potenza variabile (a seconda del tipo) da
0,3 a 170 chilotoni.
Quali costi di manutenzione ci sono per queste testate? Ovviamente, sui nostri bilanci della Difesa non vi è alcuna indicazione circa i necessari costi di manutenzione di queste bombe, dato che servono personale di sorveglianza, edifici, manutentori ecc. È tutto segreto, almeno per i cittadini italiani. I costi rientrano probabilmente nella voce di spesa relativa alla partecipazione alla Nato, ma non sono disponibili i dati analitici. Il non far conoscere tali informazioni non è casuale, poiché in una società democratica i cittadini potrebbero aver qualcosa da obiettare in merito, come, ad esempio, sta avvenendo adesso in Italia nel caso dei 15 miliardi di euro destinati ad acquistare i cacciabombardieri F35, per di più in un momento di gravissima crisi economica e di tagli drammatici allo stato sociale, alla sanità e all'istruzione.
I siti nucleari in Europa rispettano gli standard di sicurezza o come affermano alcuni documenti del Dipartimento della Difesa USA e numerosi attivisti? Secondo un rapporto riservato dell'Air
Force degli Stati Uniti, già nel 2008, risultavano a rischio alcune basi Nato in Europa, a causa della mancanza di misure di sicurezza considerate come standard dal Pentagono e non messe in atto dai paesi alleati. Tra queste veniva segnalata la base di Ghedi di Torre, in Provincia di Brescia. E questo è stato ribadito in un recente rapporto di Greenpeace del febbraio 2011.
mente contraddittorie ed incoerenti, anche quelle d'ispirazione cattolica o progressista, quando, pur essendo al potere, non riescono a operare in sintonia con i principi in cui affermano di credere (almeno a parole). Quando poi altri governi come quello di Teheran si muovono nello stesso senso, i governi occidentali si fingono indignati per il comportamento minaccioso dell'Iran. Insomma, due pesi e due misure. Per di più, in Italia un dibattito politico ampio e approfondito sul modello di difesa e sulle conseguenti opzioni non è mai stato presente in tempi recenti nei programmi delle nostre forze politi-
Perché allora se l’Italia ha firmato e ratificato il Trattato di non proliferazione nucleare - che si basa su tre principi, ossia disarmo, non proliferazione e uso pacifico del nucleare - ci troviamo ad avere decine di ordigni nucleari americani sul nostro territorio? che.
Qui tocchiamo un nodo nevralgico della nostra politica e della nostra Costituzione. Da un lato si affermano solennemente il ripudio della guerra (art. 11 della Costituzione) e l'impegno a non dotarsi o ospitare armi nucleari (artt.1 e 2 del Trattato di Non Proliferazione Nucleare), dall'altro si opera in tutt'altra direzione, sia partecipando a vere e proprie guerre, sia ospitando tali arsenali nucleari, sia acquisendo sistemi d'arma (come gli F35) utili per un bombardamento nucleare. Le nostre forze politiche si dimostrano così clamorosa-
Di fatto gli Stati Uniti possono decidere l’impiego delle armi nucleari senza il permesso del governo italiano? Ufficialmente si è sempre parlato di "doppia chiave", per cui le bombe B-61 statunitensi di Ghedi Torre potrebbero essere utilizzate solo se noi fornissimo il mezzo di trasporto, cioè i caccia bombardieri italiani Tornado. Quelle di Aviano sarebbero, invece, esclusivamente ad uso degli aerei americani. Parlo sempre con il condizionale, poiché non so effettivamen-
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Promossa da: Rete Italiana per il Disarmo - Campagna Sbilanciamoci - Tavola della Pace Seconda fase della campagna di pressione (originariamente lanciata da Sbilanciamoci! e da Rete Italiana per il Disarmo) affinché il Governo italiano rinunci all'acquisto dei cacciabombardieri F-35 "Joint Strike Fighter" Oltre alle adesioni online la campagna ha già raccolto nella prima fase circa 16.000 firme cartacee di sostegno.
Il 25 febbraio scorso si svolta in tutta Italia una giornata di mobilitazione e di raccolta di firme per chiedere la rinuncia da parte del Governo italiano all’acquisto degli aerei militari F35 ad alta tecnologia, un programma che ad oggi è costato agli italiani già 2,7 miliardi di euro e ne costerà - in caso di acquisto di 131 aerei - almeno altri 15 solo per l’acquisto dei velivoli, che potrebbero scendere a 10 miliardi se come anticipato dal Governo, l’acquisto potrebbe essere ridotto a 90 aerei (il prezzo unitario si alzerà, secondo l'azienda produttrice
La Rete Disarmo ha già messo in cantiere prossimi appuntamenti in cui coinvolgere i soggetti della società civile ed ecclesiale, come la nostra Comunità, che ne fanno parte : - 25, 26, 27 maggio a Firenze, nell’ambito di Terra Futura, la Rete Disarmo sarà presente al Piazzale della Pace antistante l’ingresso con tavoli per la raccolta delle firme e con iniziative di animazione ;
- 8, 9, 10 giugno si terrà a Roma il Forum della Pace organizzato da Rete Disarmo, Sbilanciamoci, Tavola della Pace e Tavolo Interventi Civili di Pace, il cui scopo è di avviare un momento di riflessione e confronto tra le diverse esperienze del movimento della pace in Italia, per discutere e interrogarsi su cosa significa oggi promuovere una cultura di pace in un contesto di grandi crisi come quello che stiamo vivendo. A questo evento sono stati invitati personalità internazionali quali Vandana Shiva e Johan Galtung che aiuteranno a sviluppare e ad arricchire il confronto.
Lockheed Martin). Complessivamente arriveremo ad un impatto tra i 15 e i 20 miliardi nei prossimi anni, senza contare il mantenimento successivo di tali velivoli. La Comunità Papa Giovanni XXIII, che fa parte della Rete Disarmo, ha aderito alla giornata di mobilitazione, organizzando la raccolta delle firme sia con il “passaparola” interno alla Comunità, che con iniziative pubbliche (è stata data notizia di almeno 12 iniziative su tutto il territorio nazionale). In tutto sono state raccolte dalla Comunità Papa Giovanni XXIII nella giornata di sabato, circa 4.000 firme. A Rimini, hanno partecipato all’iniziativa anche i caschi bianchi, che in quel periodo stavano facendo un percorso di formazione al servizio civile all’estero nella Casa della Pace di Mercatino Conca. Il gruppo di volontari nel pomeriggio di sabato ha animato la piazza centrale della città invitando tutti i passanti ad andare al banchetto a firmare.
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Mercanti di morte
Missili, satelliti e aerei d'Israele per le forze armate italiane Si potenzia l'interscambio militare tra Italia e Israele: importeremo nuovi sistemi missilistici, satelliti spia e aerei di pronto allarme, mentre esporteremo i caccia-addestratori M-346 che possono essere utilizzati per le azioni di bombardamento. Un import-export a beneficio del complesso militare industriale e tutto a danno dei contribuenti italiani.
15 MARZO 2012 - ANTONIO MAZZEO Può essere equipaggiato con tre differenti tipologie di testata bellica a seconda dell’uso: anticarro, antifanteria e per la distruzione di bunker. Lo “Spike” è l’ultimo gioiello di morte prodotto da Rafael, una delle più importanti industrie militari israeliane. Si tratta di un missile aria-terra a corto raggio destinato agli elicotteri d’attacco. La prima versione, denominata “Er”, è capace di colpire bersagli fino a una distanza di 8 chilometri. Gli israeliani però hanno in produzione un modello con una gittata superiore ai 25 chilometri, lo “Spike Nlos”, dotato di un sensore elettro-ottico e infrarossi e di un apparato di ricerca laser. Secondo la World Aeronautical Press Agency i nuovi missili made in Israele saranno utilizzati dagli Eurocopter Tiger e Puma e dagli AW-129 Mangusta prodotti da AgustaWestland (gru ppo Finmeccanica). I Mangusta sono quelli dei raid dell’esercito italiano nei principali teatri di guerra (prima in Iraq, adesso in Afghanistan). Gli elicotteri, in numero di 60, sono in dotazione al 5° reggimento AVES “Rigel” di Casarsa della Delizia (Pn) e del 7° “Vega” di Rimini, inquadrati nella Brigata Aeromobile “Friuli”. I Mangusta vantano già una terribile potenza di fuoco: mitragliatrici FN da 12,5 mm, cannoni da 200 mm a canne rotanti e missili AGM -114 “Hellefire”, BGM-71 “Tow” anticarro, FIM-92 Stinger” ed MBDA “Mistral” antiaerei. Con gli “Spike” si amplierà il ventaglio operativo degli elicotteri d’assalto mentre ne uscirà ulteriormente rafforzato l’interscambio bellico RomaTel Aviv e la partnership strategica tra le rispettive forze armate. Dopo le recenti esercitazioni in Sardegna e nel deserto del Negev in compagnia dei cacciabombardieri d’Israele, l’Aeronautica militare italiana ha deciso d’installare a bordo degli elicotteri EH101 e degli aerei da trasporto C27J Spartan e C130 Hercules un nuovo sistema di con-
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tromisure a raggi infrarossi, denominato “Dircm - Directional infrared countermeasures”. Il sistema sarà sviluppato e prodotto dalla società Elettronica Spa di Roma assieme all’israeliana Elbit e comporterà una spesa di 25,4 milioni di euro. “Le prime consegne sono previste per la fine del 2013”, spiegano al ministero della difesa. “Con il Dircm, l’Aeronautica italiana sarà la prima forza armata europea a dotarsi di un sistema con tecnologia non americana per la difesa dai Manpads (Man-portable air-defense systems), missili che possono essere lanciati con sistemi a spalla e che rappresentano oggi una delle minacce più pericolose in fase di decollo ed atterraggio”. Il contratto con Elettronica-Elbit ha preceduto di qualche mese l’ordine del governo israeliano di 30 caccia-addestratori “avanzati” M-346 Master di Alenia Aermacchi (altra azienda Finmeccanica). I velivoli sostituiranno entro il 2015 i vecchi A-4 Skyhawk utilizzati dalle Tigri volanti del 102° squadrone dell’aeronautica israeliana per formare i nuovi piloti dei
cacciabombardieri e come mezzo di supporto alla guerra elettronica. L’M-346 potrà essere utilizzato pure per attacchi al suolo con bombe e missili aria-terra o antinave e comporterà un giro d’affari di circa un miliardo di dollari. La manutenzione dei velivoli, per una durata di venti anni, sarà invece affidata alla joint venture TOR costituita dall’industria aerospaziale israeliana IAI e da Elbit Systems. Secondo quanto trapelato sui media statunitensi, per l’acquisizione dei cacciaaddestratori italiani, Washington potrebbe offrire ad Israele una somma pari al 25% del valore della commessa nell’ambito degli aiuti militari previsti dal fondo US foreign military financing (FMF). Il Pentagono avrebbe confermato che l’Agenzia statunitense per la cooperazione alla difesa e alla sicurezza avrebbe avviato colloqui ufficiali con il ministero della difesa israeliano per concordare che alcune componenti degli M-346 Master prodotte negli USA (come ad esempio i motori turbo F124 di Honeywell e altri sistemi avionici) siano acquisite con i
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del mese tra il premier Monti e le autorità israeliane, in cambio degli M-346, l’Italia si doterà innanzitutto di due satelliti elettro-ottici di seconda generazione “Ofeq” il cui costo è stimato in 200 milioni di dollari. dovrebbero essere lanciati entro il 2014. Gli Ofeq, prodotti dalle Israel Aerospace Industries (IAI) ed Elbit, “verranno lanciati entro il 2014, saranno al 100% italiani e verranno gestiti da una stazione terrestre italiana”, scrivono in Israele.
fondi FMF. Un “aiuto”, dunque, condizionato a favorire il complesso militare industriale statunitense. Non altrettanto vantaggioso per l’Italia il contratto firmato tra il governo israeliano ed Alenia Aermacchi. Esso prevede infatti come contropartita che il nostro paese acquisti materiali bellici in Israele per un valore non inferiore al miliardo di dollari, in particolare sistemi satellitari spia e aerei radar. Per il memorandum of agreement che sarà firmato entro la fine
Alle forze armate italiane giungeranno poi due velivoli di pronto allarme (Early warning and control - AEW&C) Gulfstream 550 con relativi centri di comando e controllo, prodotti dalle aziende IAI ed Elta Systems. Il costo complessivo dei due velivoli è stimato in 760 milioni di dollari, più del doppio di quanto era stato previsto nel 2009 dall’allora ministro della difesa Ignazio La Russa per la messa a punto del sistema “multisensore e multi-missione” JAMMS (Joint
airborne multisensor multimission system), incentrato sui Gulfstream 550. “Il costo stimato del programma ammonta a 280 milioni di euro a valere sul bilancio ordinario della difesa e avrà durata di sette anni”, aveva spiegato La Russa ai
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parlamentari della Commissione difesa alla vigilia del voto (unanime) a favore del JAMMS. “Esso supporterà le operazioni delle forze nazionali e alleate impegnate in operazioni militari in Patria e fuori dai confini nazionali nel controllo e nella sorveglianza dello spazio aereo”. Dei 760 milioni previsti, quasi 500 andranno all’acquisto dei due velivoli AEW&C e i restanti 260 per finanziarne i costi logistici e la manutenzione per un periodo di 15 anni dalla loro consegna, fissata tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015.
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Diritti in Contro-Luce Contro Colombia, terra di una bellezza disarmante, fatta di colori, profumi, suoni che attraversano i sensi e penetrano nel profondo. Una natura che incanta, che cattura, che contamina e resta addosso. Una terra fertile, generosa, tanto ricca da suscitare l’interesse di molti, da far dimenticare i più basilari diritti umani, da far perdere la testa. Colombia, terra-teatro di massacri, sfollamenti, torture, terra che suda il sangue di vittime innocenti cadute per mano dei gruppi armati: i principali attori di questo cruento spettacolo. Da una parte la guerriglia, forza armata a stampo populista marxista, che nasce negli anni 60’ (FARC, Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) con lo scopo di una rivoluzione sociale, dall’altra oltre all’esercito ufficiale, i paramilitari, forze di estrema destra sostenute dai latifondisti e da un settore del governo, che alla fine degli anni 80’ si raggruppano nelle Autodifese Unite della Colombia (AUC). Dopo anni di scontri e violenze entrambi i gruppi armati si avvicinano al narcotraffico, obiettivo delle AUC è quello di contenere l’espansione della guerriglia, sottrarle le terre per poterle controllare militarmente. La Colombia si trova a vivere una realtà di costante violenza: i gruppi guerriglieri organizzano attentati dinamitardi e centinaia di sequestri di persona ogni anno, i paramilitari minacciano e sterminano intere comunità di civili se sospettate di collaborare con la guerriglia. Davanti ai terribili e numerosi crimini commessi dai paramilitari si sveglia l’attenzione internazionale e molti governi fanno pressione perchè l’allora presidente Alvaro Uribe Velez (2002-2010) prenda provvedimenti. Inizia così un processo per la reintegrazione dei gruppi armati nella società, previa consegna delle armi: tra il 2005 e il 2008 circa 35.000 militanti avrebbero consegnato le armi. Emerse in seguito che gran parte di queste smobilitazioni fu fittizia, furono pagati civili perché si fingessero paramilitari nelle cerimonie di consegna delle armi. Nonostante le cerimonie di consegna delle armi, gli abusi dei gruppi paramilitari sono continuati. Alcuni paramilitari smobilitati si sono nuovamente riuniti in bande criminali e altri gruppi hanno costituito nuove organizzazioni paramilitari, continuando a commettere violazioni dei diritti umani. Con lo demilitarizzazione dei paramilitari scoppia lo scandalo della para-politica: 33 deputati, tra cui il presidente della camera e cugino di Uribe sono sotto processo. In questi 40 anni di guerra civile tutte le parti in conflitto, dalle forze di sicurezza ai paramilitari e ai gruppi della guerriglia, si sono rese responsabili di diffuse e sistematiche violazioni dei diritti umani e di violazioni del diritto internazionale umanitario. In questa cruenta guerra per la contesa della terra, chi più ha pagato è chi questa terra la vede come unica fonte di sostentamento, chi da generazioni ha imparato a prendersene cura, chi semina il campo pur non sapendo se sarà ancora suo quando dovrà fare il raccolto: i campesinos.
Davanti ad una così difficile realtà le reazioni possono essere innumerevoli, e il punto di vista può fare la differenza. Per chi sta fuori, per i grandi paesi che osservano sconcertati il cancro della Colombia, fatto di massacri, gruppi armati fuori controllo, coltivazione ed esportazione della cocaina, la soluzione è portare aiuto militare, schiacciare, eliminare le cellule malate finanziando l’esercito, mettendo altra carne sulla fornace della guerra. Questo è ciò che hanno scelto gli Stati Uniti con il Plan Colombia, il finanziamento di progetti per la lotta alla guerriglia e al narcotraffico. Sostenere un esercito che in varie occasioni ha suscitato dubbi sulla sua condotta, significa illudersi di poter circoscrivere l’organo da attaccare, voltare lo sguardo per non guardare la reale metastasi. Per chi c’è dentro la situazione terminale è forse più chiara e allora la scelta è tra due possibili: conformarsi al contesto violento oppure sovvertire il tutto con la propria esistenza, seminare pace con una resistenza nonviolenta. Il Plan Colombia nasce come accordo bilaterale nel 1999 siglato dal presidente colombiano Andrés Pastrana Arango e da Bill Clinton, con l'obiettivo di generare una rinascita sociale ed economica. Il piano è continuato con i governi Uribe e Santos e le varie amministrazioni statunitensi, evolvendosi è divenendo nel tempo un piano essenzialmente militare. Frutto della guerra non è solo la morte, anche il guadagno ha una sua parte rilevante: Europa e Stati Uniti non lo ignorano. Il 27% delle armi del gruppo paramilitare è stato prodotto ed esportato dai paesi dell’Unione Europea, in particolare l’Italia nell’ultimo decennio ha esportato di armi piccole e leggere ad uso civile per un ammontare di 5,2 milioni di euro, inoltre attraverso il Plan Colombia, le diverse aziende statunitensi hanno realizzato un controllo dei ricchi giacimenti minerari presenti nel sottosuolo colombiano. Pare poi che con lo scopo di raggiungere gli obiettivi di produttività voluti dagli Stati Uniti per concedere al paese i finanziamenti per il Plan Colombia (Piano Colombia), l’esercito abbia ricorso al fenomeno dei “Falsos Positivos”. Membri dell’esercito colombiano uccidevano numerosi civili innocenti per farli passare come guerriglieri morti in combattimento, le vittime venivano sequestrate o avvicinate con l’inganno, venivano assassinate e rivestite con una tuta mimetica con il simbolo delle FARC, almeno 1.157 vittime (2.000 stando alle ONG). Chi ha scelto la forza, ha scelto le armi, ha scelto la morte, chi ha scelto la pace, la soluzione del conflitto, la fine della violenza, ha scelto la Comunità di Pace di San Josè de Apartadò.
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Luce Dal 1997 i membri della Comunità di Pace chiedono di poter vivere nella neutralità, di non essere coinvolti nel conflitto armato, chiedono di poter coltivare le terre che gli appartengono, che gli consentono di sostenersi. Ma vivere da neutrali in questa terra torturata sembra impossibile e ad oggi più di 200 persone appartenenti alla comunità hanno perso la vita. L’ultimo atroce massacro è avvenuto il 21 febbraio del 2005, quando un gruppo di paramilitari, accompagnati da membri dell’esercito ufficiale, ha brutalmente ucciso 8 persone, tra cui 3 bambini. La Comunità nonostante il dolore non si è mai fermata, ha sempre trovato la forza di guardare avanti e il suo cammino per la pace è proseguito, costituendo un vero esempio per tutta l’umanità: “l’odio non ci porterebbe la pace, ci farebbe sentire malati: moralmente malati! L’odio marcisce i cuori, è la peggior malattia che un uomo può avere”. Così dice Brìgida Gonzàles, membro della Comunità di Pace, che con la sua arte tiene vivo il ricordo delle vittime e di un passato da non dimenticare. La Comunità di Pace di San Josè ha scelto la nonviolenza e la vive e la ri-sceglie davanti ad ogni ingiustizia. Vivere seguendo i principi della nonviolenza significa riconoscere come primo valore l’uomo, adoperarsi perché un’azione nonviolenta risvegli la sua coscienza, la faccia emergere dall’abisso di prepotenza e odio in cui è affossata. Significa vivere sapendo che arrivare a sera non è scontato, che la
lotta per la pace sveglia ogni giorno un nuovo nemico. Vivere scegliendo di spendere la propria vita per la giustizia, senza abbandonarsi all’illusione che questa scelta cambierà la realtà corrotta circostante, ma con la profonda convinzione che non esista modo migliore per vivere.
Sara, Operazione Colomba Varese F., Ucciso il capo delle Farc, guerriglie e governi corrotti si dividono il Sud America, la Stampa, 12-11-2011 www.operazionecolomba.it Martinez Pinella I.L. (a cura di), Guerre e conflitti nel mondo: Colombia, Istituto ricerche internazionali - Archivio Disarmo, novembre 2011
www.operazionecolomba.org
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Al fianco dell’ oppresso... Nel 1998 da una intuizione profetica di don Oreste Benzi, nasce liberazione dei deboli ed oppressi nascono le intuizioni e le il Progetto Go’El, all’interno della Comunità Papa Giovanni XXIII.
azioni nonviolente di lotta.
L’anima del Progetto Go’El è garantire il sostegno diretto a per- Da questa consapevolezza e da queste intuizioni si sono svilupsone e gruppi che, dal basso e sempre optando per la scelta pate nel tempo diverse azioni di intervento : assoluta di nonviolenza, lottano nelle proprie società, per la Al fine di sostenere gruppi e associazioni locali nello sviluppo di tutela e affermazione dei diritti umani. strategie di promozione dei diritti umani abbiamo promosso Come nella tradizione biblica, il Go’El era al fianco dell’oppresso l’avvio di microprogetti di cooperazione decentrata in campo e camminava con lui verso la liberazione, così il Go’El odierno educativo, formativo ed informativo. La forza della consapevocondivide le battaglie, le fatiche, a volte la disperazione degli lezza dei propri diritti violati e la capacità di intuire nuove strade ultimi.
di crescita, possono aprire strade di liberazione inaspettate!
Sempre con la forza della nonviolenza per rimuovere le cause Abbiamo inviato giovani volontari opportunamente formati presso i partner locali delle azioni progettuali nella consapevogeneratrici di ingiustizia. lezza che come la loro presenza può contribuire positivamente Nella visione della costruzione di una società più giusta per tutti con il proprio lavoro, al miglioramento delle attività del progete soprattutto per i più deboli, quella che don Oreste Benzi defito, così la loro esperienza di condivisione diretta con chi lotta niva come “la società del gratuito” – dove non esistono più opper affermare i propri diritti, può formare ed educare positivapressi e oppressori, poveri e ricchi, ma tutti possono godere dei mente il giovane ai valori della solidarietà e giustizia. Nulla è più beni della Terra, secondo il proprio bisogno - ogni persona ha determinante di una testimonianza diretta, nell’operare il camdiritto a esercitare pienamente i suoi diritti. biamento! La strada assegnata al Progetto Go’El è di supportare quelle Abbiamo promosso azioni di informazione dal basso ed autoparti della società civile che nei diversi contesti e aree si impeprodotta nella consapevolezza che la testimonianza, il racconto gnano per costruire la “società del gratuito”. diano valore e coerenza all’esperienza di condivisione diretta La peculiarità del Progetto Go’El si basa sulla consapevolezza nel fare una informazione che parli al cuore delle persone e che un cambiamento radicale di questo sistema sociale vessato- porti l’opinione pubblica ad aprirsi ad una analisi approfondita rio possa avvenire solo partendo dalla costruzione di relazioni sulla realtà i fatti. Vedendo non si può far finta di non sapere, e umane profonde, tra chi è oppresso, chi lotta per l’affermazione non si può fare a meno di denunciare. E’ una responsabilità ! dei diritti negati, e chi si mette in suo ascolto e decide di sosteE questo, nell’impegno del Progetto Go’El, il nostro dare voce a nerlo. Da relazioni umane importanti che hanno al centro la chi non ha voce.
Servizio Obiezione e Pace Progetto Go’El “Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII”
goel@apg23.org