ISFOA Istituto Superiore di Finanza e di Organizzazione Aziendale Libera e Privata Università Telematica a Distanza di Diritto Internazionale Ente di Ricerca Senza Scopo di Lucro e di Interesse Generale
DOMENICO ALOISIO
Flora SaSSo
L’UOMO E L’AMBIENTE PER UN FUTURO SOSTENIBILE
l’UmoriSmo : Un raggio nella vita
ISFOA Edizioni Accademiche Scientifiche Internazionali Digitali
Domenico Aloisio ha conseguito presso la Facoltà di Scienze Sociali ed Umane di ISFOA Libera e Privata Università di Diritto Internazionale il Diploma di Laurea Magistrale in Economia e Gestione dell’ Ambiente del Territorio e del Paesaggio con specializzazione in Diritto Amministrativo e dell’ Ambiente . Domenico Aloisio riveste il ruolo di agente della Polizia Locale in servizio presso il Comune di Milano con la qualifica di Istruttore Servizi di Vigilanza a tempo indeterminato , Categoria C4 , profilo professionale : Agente Scelto di Polizia Locale con il Grado di Assistente Esperto in forza al Comando Decentrato 1 Ufficio Permessi di Milano .
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UNIVERSITA’ ISFOA Facoltà di Scienze Umane e Geografiche Corso di Laurea in Scienze Sociali ed Umane Diploma di Laurea Magistrale in Economia e Gestione dell’Ambiente, del Territorio e del Paesaggio con Specializzazione in Diritto Amministrativo dell’Ambiente
L' UOMO E L' AMBIENTE PER UN FUTURO SOSTENIBILE
Relatore: Prof. Masullo Stefano Correlatore: Francesco Di Franco
Tesi di Laurea di: Domenico Aloisio
Anno Accademico 2020 - 2021
Indice
Introduzione Capitolo 1 – L’influenza dell’ambiente sul comportamento umano 1.1 La storia della psicologia ambientale 1.1.1
La psicologia architettonica
1.1.2
L’emergere della questione ecologica
1.1.3
La psicologia ambientale nel nuovo millennio
1.2 Benessere, qualità della vita, felicità 1.2.1
Lo spazio socio-fisico
1.3 Il cambiamento climatico e l’inquinamento: le grandi sfide del nostro tempo 1.3.1
La capacità di portata del pianeta Terra
1.3.2
La percezione del rischio
1.3.3
L’impronta ecologica
Capitolo 2 – La psicologia al servizio della sostenibilità 2.1 La società moderna e la sua ideologia alle radici del disastro ecologico 2.2. La storia del paradigma dominante in Occidente 2.2.1 La separazione tra uomo e natura 2.2.2 La Natura dev’essere dominata 2.2.3 Il diritto al massimo profitto economico personale 2.2.4 L’equivalenza tra Progresso e Crescita 2.3 Dal comportamento pro-ambientale alla sostenibilità 2.4 La psicologia al servizio della sostenibilità 2.4.1 Strategie informative
2.4.2 Definire gli obiettivi 2.4.3 Impegno 2.4.4 Sollecitazione 2.4.5 Feedback 2.5 Rinforzo positivo e negativo 2.6 La tecnologia come strumento persuasivo 2.7 L0untersezione tra economia e morale Capitolo 3 – Lo spazio urbano 3.1 Design urbano e qualità della vita 3.1.1 La scala metropolitana 3.1.2 La scala quartiere 3.1.3 La scala pedestre 3.2 Architettura residenziale e qualità della vita 3.3 Ambiente lavorativo e istituzionale Capitolo 4 – Psicologia ambientale e strutturale Conclusioni
Introduzione
La psicologia ambientale è una disciplina che studia il rapporto tra gli uomini e l’ambiente che li circonda (sia esso naturale o artificiale) e il modo in cui la loro interazione impatta sugli effetti che entrambi subiscono. Da un lato, il tema ambientale è sempre più pressante: i cambiamenti climatici e l’esaurimento delle risorse naturali sono una sorta di spada di Damocle che penzola sulla testa della nostra specie. Dall’altro, non sembra di vedere alcuna luce in fondo al tunnel: governi, comunità e individui sembrano lanciati alla massima velocità contro un muro, ma continuano a fare orecchie da mercante. La psicologia ambientale raccoglie la sfida del clima e della qualità della vita in relazione all’ambiente, non soltanto per capire meccanismi, processi, e produrre modelli e teorie, ma anche con lo scopo precipuo di intervenire e agire per modificare i comportamenti delle persone e il loro impatto ambientale. Il presente lavoro si pone l’obiettivo di offrire una panoramica storica e argomentativa sulla psicologia ambientale, sulla sua evoluzione e sulle ricerche e gli ambiti toccati nel corso dell’ultimo secolo di attività. Lo scopo finale della tesi è quello di capire se sia possibile agire per via comportamentale sulle tendenze strutturali del nostro sistema, che consuma e brucia le risorse naturali senza preoccupazione per il suo equilibrio. Accanto a questo scopo primario, si toccheranno altre idee che si intersecano e trovano nuovo senso e collocazione in relazione alla psicologia ambientale: la sostenibilità, che a sua volta si dirama in qualità della vita, benessere ambientale, soddisfazione ambientale, etc. Il concetto di sostenibilità, relativamente recente ma ormai
parte integrante del discorso pubblico e dottrinario, è infatti una bussola sia teorica che pratica e morale, attorno a cui si innesta l’azione dell’ambientalismo e della climatologia, ma anche della sociologia e della psicologia. La tesi si struttura in tre capitoli così organizzati: il primo capitolo introduce la psicologia ambientale come disciplina, tratta le sue origini e la sua evoluzione storica, la nascita del tema ambientale al suo interno e le forme contemporanee che essa assunto, passando attraverso la psicologia dell’architettura e lo sviluppo del concetto di sostenibilità, attraverso l’introduzione dei fattori di qualità della vita, benessere e felicità, che fungeranno da guida in tutta la tesi. Il secondo capitolo entra nel vivo della teoria e della pratica della disciplina, introduce le questioni e i problemi più in vista, i modelli e i principi cui la psicologia ambientale si ispira e offre prospettive sui modi in cui, con il conforto delle ricerche, sembra possibile agire per modificare i comportamenti umani in senso sostenibile. Il terzo capitolo si sofferma invece sullo spazio artificiale, in particolare quello urbano, e tratta i modi in cuila qualità della vita e il benessere nelle città siano impattati dall’organizzazione dello spazio fisico e dalla sua funzionalità. Verranno trattate le dimensioni principali, cioè quella metropolitana, quella di quartiere quella pedestre, e si passerà poi a parlare della qualità abitativa, cioè del modo in cui le case, sia come edifici che come luoghi di interazione quotidiana con il vicinato, impattano profondamente sui livelli di qualità della vita. Infine si andrà a trattare la qualità della vita sul posto di lavoro, altro aspetto della disciplina della psicologia ambientale la cui ascesa è relativamente recente e ha i primi spunti negli anni Settanta, ma che ha nel tempo assunto una grande rilevanza e gode di abbondanza di studi. Qualità della vita sul lavoro e benessere dei lavoratori sono elementi
che si intrecciano agli altri nell’ambito dell’ambiente urbano e si intrecciano, a loro volta, con l’ambiente naturale per definire in maniera olistica cosa intende la psicologia ambientale per sostenibilità. Chiudono la tesi le nostre conclusioni.
Capitolo 1: L’influenza dell’ambiente sul comportamento umano
La psicologia ambientale è la disciplina che studia l’interazione tra gli individui e l’ambiente in cui sono inseriti, sia esso artificiale o naturale1. La psicologia ambientale riconosce il profondo impatto che l’ambiente esercita sulle persone, sulle loro esperienze, sui loro comportamenti e sul loro benessere. Per quanto i temi e i problemi che tale disciplina affronta siano molto antichi, si tratta di un campo di ricerca molto recente, le cui radici più prossime sono individuabili nella seconda metà del XX secolo.
1.1 La storia della psicologia ambientale La psicologia ambientale viene riconosciuta come disciplina specifica soltanto intorno agli anni Sessanta dello scorso secolo2, sebbene vi sia generale consenso nel rintracciare i suoi primi passi all’inizio del Novecento, con le ricerche di Willy Hellpach, medico e psicologo, che per primo parlò di psicologia ambientale nel 19113. I suoi esperimenti, infatti, ruotavano attorno agli effetti che diversi stimoli ambientali (colori, forme, fenomeni naturali, esposizione al sole o alla luna o a condizioni naturali estreme) producono sugli individui. Nei suoi studi più tardi, Hellpach si occupò anche dell’analisi dei fenomeni urbani, come gli effetti dell’affollamento e della sovrastimolazione. Distinse inoltre tra diverse tipologie di ambienti, tra cui quelli naturali, sociali e storico-culturali4.
1
Steg L. e De Groot J. I. M. (a cura di), Environmental Psychology. An Introduction. 2 ed., John Wiley and Sons, USA e UK, 2019. 2 Stokols, D. (a cura di), Perspectives on Environment and Behavior, Plenum Press, New York, 1977. 3 Hellpach, W., Geopsyche, Engelmann, Leipzig, 1911. 4 Pol E., “Blueprints for a history of environmental psychology (I): from first birth to American transition”, Medio Ambiente y Comportamiento Humano, Vol. 7, No 2, pp. 95–113.
Per quanto si trattasse di argomenti cogenti alla psicologia ambientale e sociale, era ancora presto perché si potesse parlare di una disciplina indipendente. I padri fondatori della psicologia ambientale sono ritenuti essere Brunswick e Luwin5, entrambi vissuti nella prima metà del XX secolo: le loro idee, fondate sulla centralità dell’interazione uomo-ambiente nel determinare i processi psicologici, e i loro esperimenti situati in contesti di vita reale e quotidiana, piuttosto che in ambienti artificiali, furono pioneristici per lo sviluppo successivo della disciplina. Altri contributi seminali furono quelli apportati dagli studiosi tedeschi Muchow e Muchow, che apparvero la prima volta nel 19356 e si occuparono degli effetti dell’ambiente sullo sviluppo cognitivo ed emotivo dei bambini; a questi studiosi è possibile anche affiancare Simmel (1903) e Tönnies (1887), entrambi impegnati sul fronte delle condizioni di vita degli individui nei contesti urbani7. Era proprio l’esplosione dell’urbanizzazione e i suoi effetti sulla popolazione a interessare questi studiosi: essi denunciavano, con sguardo socio-politico, le condizioni precarie e insalubri cui i cittadini delle metropoli industrializzate erano sottoposti, e gli stili di vita disumani che il progresso economico imponeva loro – non è un caso che, tra gli osservatori citati tra i pionieri della psicologia ambientale e sociale vi sia Engels 8, in particolare con la sua opera “La condizione della classe operaia in Inghilterra” 9. Scuole di architettura, arte e design, come la Bauhaus, fondata in Germania nel 1919 e operante
5
Gifford, R., Environmental Psychology: Principles and Practice, 4ed., Optimal Books, Colville, 2007. Muchow, M. e Muchow, H. H., Der Lebensraum des Großstadtkindes, Riegel, Hamburg, 1935. 7 Simmel G., Die Grosstädte und das Geistesleben, Petermann, Dresden, 1903; Tönnies, F., Gemeinschaft und Gesellschaft, Fues’s Verlag, Leipzig, 1887. 8 Fleury-Bahi G., Pol E. e Navarro O. (a cura di), Handbook of Environmental Psychology and Quality of Life Research, Springer, Svizzera, 2017. 9 Engels F., Die Lage der arbeitenden Klasse in England, Lipsia, 1845. 6
fino al 1933, studiavano nuovi metodi per strutturare le città al fine di promuovere condizioni di vita più dignitose che fossero viabili ed economicamente accessibili. Sempre nella prima metà del Novecento, studi pioneristici come quello di Mayo10 cominciarono a osservare il comportamento degli individui sul posto di lavoro. Altri, come Chapman e Thomas, studiarono gli effetti dell’illuminazione delle case sui loro abitanti11, mentre Barker e Wright si dedicarono allo studio del comportamento infantile in contesti naturalistici12.
1.1.1 La psicologia architettonica Fu soltanto tra gli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo, tuttavia, che gli studi sul rapporto tra individui e ambiente vennero riconosciuti come una disciplina a tutti gli effetti. Dato il loro focus sul modo in cui diversi ambienti influenzano percezioni e comportamenti di individui e gruppi sociali, si iniziò a parlare di Psicologia Architettonica, per distinguerla dai campi più tradizionali della psicologia13. Tra gli anni Sessanta e Ottanta, la psicologia architettonica crebbe e acquisì sempre maggiore credito e interesse in ambito accademico e socio-politico. In Europa si parlava, appunto, di psicologia dell’architettura, mentre negli USA si preferiva la dicitura Environmental Design, ma l’oggetto di studio era sostanzialmente identico14.
10
Mayo E., The Human Problems of an Industrial Civilization, Macmillan, New York, 1933. Chapman D. e Thomas G., “Lighting in dwellings”, The Lighting of Buildings, Post war building studies, Vol. 12, HMSO, Londra, 1944. 12 Barker R. e Wright H., Midwest and Its Children: The Psychological Ecology of an American Town, Harper and Row, New York, 1955. 13 Pol E., “Blueprints for a history of environmental psychology (I): from first birth to American transition”, cit. 14 Fleury-Bahi G., Pol E. e Navarro O. (a cura di), Handbook of Environmental Psychology and Quality of Life Research, cit. 11
In questo periodo la disciplina si concentrava quasi esclusivamente sull’ambiente artificiale, perlopiù urbano (architettura, tecnologia, trasporti, ingegneria) e il modo in cui esso influenza il comportamento umano e il suo benessere15. Il contesto sociale e politico dell’epoca orientava l’attenzione degli studiosi su questo genere di tematiche: l’architettura contemporanea affrontava le sfide del mondo post-bellico, come la disponibilità di alloggi dignitosi o di servizi di trasporto di qualità16. Divennero centrali questioni come il modo in cui gli uffici, le case, gli ospedali o le fabbriche potessero essere strutturati al fine di incontrare i bisogni della loro utenza, oppure il modo in cui fattori di stress ambientale (temperatura, umidità, affollamento, rumore) influenzassero le prestazioni degli individui e il loro benessere17. Nacque così la psicologia comportamentale quale studio per la progettazione di edifici capaci di promuovere funzioni comportamentali. Stringer, ad esempio, descrisse18 la psicologia dell’architettura come un mezzo per aiutare individui e gruppi a costruire un’esistenza più umana e ordinata. Canter, dal canto suo, sostenne che gli psicologi ambientali fossero interessati alla soddisfazione individuale verso il proprio ambiente, aiutando gli architetti a progettare edifici che beneficino le persone e che possano essere utilizzati dagli occupanti coerentemente con le intenzioni dell’architetto19.
Bonnes M. e Bonaiuto M., “Environmental psychology: from spatial physical environment to sustainable development”, in R. Bechtel e A. Churchman (a cura di), Handbook of Environmental Psychology, Wiley, New York, 2002, pp. 28-54. 16 Pol E., “Blueprints for a history of environmental psychology (I): from first birth to American transition”, cit. 17 Wohlwill J.F., “The emerging discipline of environmental psychology”, American Psychologist, Vol. 25, 1970, pp. 303-312. 18 Stringer P., “Architecture, psychology, the game’s the same”, in Canter D. (a cura di), Architectural psychology. Proceedings of the conference held in Dalandui, UK, Royal Institute of British Architecture, Londra, 1969, pp. 7-11. 19 Canter D., “Should we treat buildings as subject or object?”, in Canter D. (a cura di), Architectural psychology, cit., pp. 11-18. 15
Fu proprio in questo periodo, nel 1969, che venne inaugurata la conferenza annuale dell’EDRA, l’Environmental Design Research Association, fondata l’anno precedente con lo scopo di promuovere l’avanzamento e la diffusione della ricerca sul design ambientale, attraverso l’incontro di numerose discipline, al fine di comprendere gli effetti dell’interazione uomo-ambiente e creare spazi ed edifici rispondenti ai bisogni degli individui e dei gruppi sociali. Fu in una di queste conferenze, nel 1972, che si introdusse per la prima volta un “indicatore della qualità ambientale”20; nel 1985 gli effetti delle modifiche ambientali vennero descritti precisamente come cambiamenti sociali, in seguito ai cambiamenti operati a livello del design architettonico, decretando così una volta per tutte il valore della nuova disciplina21. In ambito europeo, parallelamente, tra il 1969 a Dalandui (UK) e il 1998 a Eindhoven (NL) si tennero più di 15 conferenze. Fino al 1979, esse ebbero come tema la psicologia architettonica, ma già dal 1982 in avanti si prese a parlare di studi uomoambiente, da cui la trasformazione della IAPC (International Architectural Psychology Conference) in IAPS (International Association of People-Environment Studies), attiva a tutt’oggi. La crescente diffusione di interesse nei confronti della psicologia ambientale diede grande momento allo sviluppo della disciplina, che tuttavia mostrava ancora i limiti dovuti alla propria immaturità: la qualità ambientale veniva sempre ricercata attraverso strategie di design, per mezzo dell’intuizione, della creatività e della ricerca scientifica.
20
Mitchell W. J.(a cura di), Environmental design: Research and practice, Proceedings of the EDRA 3/AR 8 conference, University of California, Los Angeles, 1972. 21 Klein S. et al. (a cura di), Environmental change/social change: Proceedings of the sixteenth annual conference of the Environmental Design Research Association, EDRA, Washington DC, 1985.
Tuttavia, i costi economici, ambientali e sociali di queste soluzioni erano, sorprendentemente, ignorati dai loro promotori e non erano oggetto di studio.
1.1.2 L’emergere della questione ecologica L’assenza della questione ecologica tra i temi cardine della nuova disciplina detta “psicologia ambientale” può sembrare una contraddizione in termini, eppure è servito un lungo percorso di ricerca e discussione per giungere alla comprensione che l’ecologia non può che essere uno dei pilastri di questa branca del sapere. Nel corso degli anni Sessanta l’interesse verso i temi ecologici iniziò a fare breccia nell’ambito accademico così come in quello dell’opinione pubblica. Ciò portò alla pubblicazione di numerosi studi che si concentravano sull’inedito tema della sostenibilità, un concetto che è diventato ormai, ai giorni nostri, parte del linguaggio politico e scientifico quotidiano. I primi studi in questo campo si concentrarono sull’inquinamento dell’aria22 e acustico23 nei contesti urbani, e nel giro di un decennio presero a includere l’approvvigionamento e il consumo energetico24, così come la valutazione e la percezione dei rischi legati alle tecnologie di estrazione e di trasformazione dell’energia (fossile e nucleare)25. Nel corso degli anni Ottanta, infine, vennero condotti i primi studi relativi alla promozione di comportamenti volti alla sostenibilità, come quelli relativi alle abitudini di consumo degli individui26.
Lindvall T., “On sensory evaluation of odorous air pollutant intensities”, Nordisk. Hygienisk Tidskrift (Suppl. 2), 1970, pp. 1-181. 23 Griffiths I. D. e Langdon F. J., “Subjective response to road traffic noise”, Journal of Sound and Vibration, Vol. 8, 1968, pp. 16-32. 24 Zube E. H. et al. (a cura di), Landscape Assessment: Values, Perceptions and Resources, Hutchinson & Ross, Dowden, 1975. 25 Fischhoff B. et al., “How safe is safe enough? A psychometric study of attitudes towards technological risks and benefits”, Policy Sciences, Vol. 8, 1978, pp. 127-152. 26 Cone J. D. e Hayes S. C., Environmental Problems/Behavioral Solutions, Brooks/Cole, Monterey, 1980. 22
Il contesto culturale e politico stava evolvendo accanto a quello accademico: nel 1968 si tenne a Parigi la conferenza dell’UNESCO sulla Biosfera, tra le prime manifestazioni mediatiche di rilievo a portare il tema ecologico al centro del dibattito; quattro anni dopo si tenne la Conference on the Human Environment a Stoccolma, su richiesta esplicita della Svezia alle Nazioni Unite, al termine della quale fu approvata la UNEP (United Nations Environment Programme). Interventi come quello di Levi e Anderson27 introdussero nuovi strumenti di misurazione della qualità della vita, non più soltanto fondata sulla crescita economica basata unicamente sul PIL, ma anche su indicatori quali il benessere fisico, sociale e mentale, in relazione sia agli individui che ai gruppi, oltre alla felicità, la soddisfazione, l’appagamento, etc. Paul Samuelson, economista premio Nobel nel 1970, promosse un nuovo standard di misurazione dello sviluppo economico e sociale che sostituisse il PIL con il NEW (Net Economic Welfare), ovvero il Prodotto Interno Lordo al netto dei costi ambientali, sociali e umani causati dalla produzione e dal consumo28. Nello stesso anno in cui si svolse la conferenza delle Nazioni Unite a Stoccolma, Meadows pubblicò The Limits of Growth, capostipite di una lunghissima tradizione di critica economica, scaturita dal MIT e diretta al Club of Rome, in cui si iniziava a denunciare l’inconsistenza del principio di “crescita infinita” e i limiti intrinseci nel concepire il benessere unicamente come una diretta proporzione della crescita produttiva e del PIL29. Si trattò di un’opera che ebbe un’influenza determinante sul dibattito pubblico e accademico e che svolse un ruolo fondamentale nel promuovere e guidare la conferenza di Stoccolma.
27
Levi L. e Anderson L., Psychosocial stress: Population, environment, and quality of life, Spectrum, New York, 1974. 28 Steg L. e De Groot J. I. M. (a cura di), Environmental Psychology, cit. 29 Meadows D.H. et al., The limits to growth, Potomac Associates, New York, 1972.
Questi sviluppi del discorso sulla sostenibilità e sulla qualità della vita permeeranno poi il dibattito attraverso i due decenni successivi, fino alla fine degli anni Ottanta, e troveranno consacrazione definitiva nel corso degli anni Novanta, quando numerose discipline e nuovi metodi di analisi si intersecheranno per dare vita alla moderna psicologia ambientale e sociale.
1.1.3 La psicologia ambientale nel nuovo millennio Con il volgere del nuovo millennio la scienza, la politica e i media hanno collettivamente preso atto che i cambiamenti climatici, l’inquinamento, la deforestazione e la desertificazione sono le più grandi e urgenti sfide della nostra epoca. Termini come crescita sostenibile, consumo consapevole, energie rinnovabili, etc. sono ormai entrati nel linguaggio comune e nell’agenda politica e sociale di qualsiasi partito, movimento e istituzione nazionale e globale. L’impatto dell’attività umana sulla biosfera è generalmente riconosciuto al livello del senso comune e non soltanto in accademia, perciò la psicologia ambientale è sempre più concentrata sullo studio e sulla ricerca di strategie di condizionamento del comportamento degli individui e dei gruppi sociali, al fine di ridurre l’impatto umano e di invertire la tendenza allo sfruttamento insostenibile delle risorse del pianeta. Lo stesso concetto di sostenibilità si è ampliato e approfondito, essendo ormai principio unificatore e guida della ricerca in ambito di psicologia ambientale, interessato da aspetti economici, sociali ed ecologici che ne fanno un vero e proprio paradigma ideologico che attraversa tutti gli ambiti della società: un concetto totale30. La psicologia ambientale si è gradualmente evoluta, perciò, verso una
Giuliani M. V. e Scopelliti M., “Empirical research in environmental psychology: past, present, and future”, Journal of Environmental Psychology, Vol. 29, No 3, 2009, pp. 375-386. 30
“psicologia della sostenibilità”31. Ad oggi, la psicologia ambientale si regge su quattro elementi fondamentali: l’analisi dell’interazione uomo-ambiente, un approccio interdisciplinare, un focus sulla pratica e una diversità di metodologie di ricerca e di applicazione dei principi32. Sull’interazione uomo-ambiente diremo molto nel corso dei prossimi capitoli. Per quel che riguarda l’approccio interdisciplinare, esso è una caratteristica della psicologia ambientale fin dai suoi primordi: architettura e geografia sono tra le prime scienze a essersi intrecciate con la psicologia per strutturare questo campo di ricerca; la psicologia cognitiva e sociale, così come la sociologia in senso più generale, giocano un ruolo primario nello sviluppo teorico e metodologico; le scienze ambientali e l’ecologia, infine, offrono dati e contenuti inestimabili per analizzare l’impatto dei comportamenti umani sull’ambiente33. Il focus sulla pratica indica la propensione degli psicologi ambientali a ricercare e valutare strategie efficaci per la risoluzione di problemi reali e urgenti. L’interesse teorico, ovviamente centrale, si affianca dunque a un impegno concreto verso l’applicazione dei principi e delle evidenze scientifiche alla realtà sociale, sia su scala locale che globale. Le diverse metodologie di ricerca, infine, comprendono strumenti quantitativi e qualitativi che condividono con le altre discipline psicologiche, ma a differenza di queste ultime la psicologia ambientale non si concentra su uno specifico paradigma di ricerca,
31
Gifford R., Environmental Psychology: Principles and Practice, 4ed., cit. Steg L. e De Groot J. I. M. (a cura di), Environmental Psychology, cit. 33 Ivi. 32
ma si arma piuttosto di una varietà di metodi presi a prestito da campi di ricerca disparati, che sfrutta per osservare il medesimo fenomeno attraverso molteplici lenti34.
1.2 Benessere, qualità della vita, felicità La psicologia ambientale studia l’interazione tra uomo e ambiente al fine di determinare il modo in cui si influenzano a vicenda e impattano sul benessere individuale e collettivo. Il concetto di qualità della vita è integrativo, si situa cioè all’intersezione tra scienze umane e sociali, unendo in sé la nozione di felicità, la cui natura originaria è filosofica, con il benessere soggettivo oggetto della ricerca psicologica, così come quello fisico e mentale tratto dalle scienze mediche35. La tradizione filosofica ereditata dalla psicologia ambientale oscilla tra due approcci fondamentali36: il primo discende dalla tradizione liberale incarnata da autori come Hobbes, Locke, Bentham, Mill e Rousseau, incentrata attorno al concetto di felicità edonica, e descrive gli individui come esseri motivati dal desiderio di accrescere la propria libertà personale, la sicurezza e l’automiglioramento. È un approccio che si focalizza sull’integrità dell’individuo e sulla sua capacità e libertà di giudizio in relazione a ciò che lo rende felice. Lo stato psico-fisico in cui si traduce questa definizione di benessere è la “contentezza”, una dimensione emotiva della felicità. L’altra tradizione di pensiero è quella dell’eudaimonia, che procede direttamente dalla speculazione di Aristotele, fondata sui principi di vita buona, prudenza, ragione e giustizia. In quest’ottica, gli umani desiderano realizzare il proprio potenziale, contribuire attivamente
34
Fleury-Bahi G., Pol E. e Navarro O. (a cura di), Handbook of Environmental Psychology and Quality of Life Research, cit. 35 Gifford, R., Environmental Psychology: Principles and Practice, 4ed., cit. 36 Sirgy J., The psychology of quality of life: Hedonic well-being, life satisfaction, and eudaimonia, Springer, New York, 2012.
allo sviluppo della propria società, e raggiungere i più alti standard di moralità. È una tradizione che passa attraverso il pensiero cristiano, perfettamente incarnato dagli scritti di San Tommaso d’Aquino, ma che trova sponda anche in tradizioni religiose orientali come il Confucianesimo. Essa si concentra sugli esiti personali, sociali, istituzionali della società, come la salute, il lavoro, le relazioni, i comportamenti prosociali, la fiducia, le prospettive future37. I concetti di benessere e qualità della vita hanno dunque precedenti filosofici importanti, e sono entrati a far parte del vocabolario delle scienze economiche molto presto; queste ultime li considerano descrittori misurabili attraverso degli indicatori economici standardizzabili38. Al contrario, quando la psicologia ambientale muoveva i primi passi, il concetto di felicità era ancora considerato qualcosa di etereo, non misurabile scientificamente, appartenente più alla sfera filosofico-religiosa che a quella delle scienze economiche e sociali. Oggigiorno, tuttavia, la felicità è considerata l’anello di congiunzione che permette di misurare i livelli di benessere e qualità della vita nelle diverse compagini sociali, ed è divenuto dominante anche nelle statistiche delle rilevazioni politiche globali39. Già nel 1954 le Nazioni Unite proposero degli indicatori per misurare gli standard di vita che includevano le dimensioni della salute, della nutrizione, le condizioni lavorative e abitative, il tempo libero e i diritti umani. Negli anni Settanta, l’OCSE introdusse nuovi parametri integrativi. Questi strumenti pioneristici posero le basi per
37
Ivi. Casas F., Welfare: A psychological Introduction, PPU, Barcellona, 1996. 39 Fleury-Bahi G., Pol E. e Navarro O. (a cura di), Handbook of Environmental Psychology and Quality of Life Research, cit. 38
l’attuale World Happiness Reports, annualmente pubblicato su iniziativa delle Nazioni Unite40. Il legame tra qualità della vita e salute è rintracciabile sin dagli anni Quaranta, con vari ricercatori che hanno spianato la strada fino a quando, nel 1948, l’Organizzazione Mondiale della Sanità introdusse nel proprio vocabolario l’espressione “qualità della vita” nella sua famosa definizione della salute come benessere fisico, mentale e sociale, e non soltanto assenza di malattie41. Si iniziava dunque a riconoscere la malattia come un fatto sociale, una deviazione dalle aspettative sociali delle persone, o effetto di condizioni psico-fisiche42. Attraverso questo filone di ricerca si è giunti a espandere le osservazioni fino a denunciare le modalità con cui la globalizzazione accresce la medicalizzazione intenzionale di problemi sociali e delle diseguaglianze, e occulta le loro origini reali, che andrebbero invece ricercate in condizioni precarie sotto il profilo sociale, economico e ambientale43. Il parametro “qualità della vita” è applicabile a numerosi ambiti: dal mondo del lavoro alle condizioni fisiche dei luoghi di lavoro, da sempre temi centrali della psicologia ambientale, fino alla partecipazione civile e politica, l’occupazione, lo svago, il reddito, il consumo (indicatori oggettivi), e ancora il senso di appartenza, l’affezione, lo status, il rispetto e il potere, l’autorealizzazione, la sicurezza, la libertà e gli incentivi alla crescita (indicatori soggettivi)44.
40
Cfr il sito: www. Worldhappiness.report WHO, Preamble to the constitution of the World Health Organization, Adottato dalla International Health Conference, New York, 7 Apr 1948, 19–22. 42 Parsons T., “Definition of health and illness in light of American values and social structure”, in Gartly E., Pattiens, physitians, and illness: A sourcebook in behavioral science and health, Free Press, New York, 1958, pp- 165-187. 43 Talarn A., Globalization and mental health, Herder, Barcellona, 2007. 44 Bauer R. A., Social indicators, MIT Press, Cambridge, 1966. 41
La psicologia ambientale considera, dunque, l’ambiente come un oggetto né fisico né sociale, ma socio-fisico. In questo senso si differenzia criticamente dalla psicologia positiva, accusata di concentrarsi unicamente sui fattori individuali, come le risorse personali, i comportamenti, l’emotività, etc. D’altro canto, studiare l’ambiente come oggetto socio-fisico presenta notevoli sfide, poiché rende la misurazione della qualità della vita, del benessere e della felicità molto complessa45.
1.2.1 Lo spazio socio-fisico Uno dei punti di partenza della psicologia ambientale è l’osservazione di come uno spazio naturale si è trasformato in uno spazio artificiale, mutando la propria fisionomia fisica e psicologica fino a diventare una comunità, un territorio, un luogo significativo aldilà delle sue caratteristiche strutturali46. Topogenesi e sociogenesi si combinano a generare uno spazio socio-fisico con forti impronte psicologiche47, talmente profonde da sconvolgere gli equilibri quando esse vengono alterate o distrutte. Quando uno spazio psicologicamente significativo viene alterato, infatti, lo stesso accade alle persone, ai gruppi e alle comunità che lo abitano, poiché è lo scenario stesso in cui essi sono abituati a condurre le proprie vite quotidiane, e col quale si identificano, a essere modificato. Stravolgimenti di questo tipo provocano sempre sofferenza e hanno un costo in termini sociali e psicologici48.
Stokols D., “Conceptual strategies of environmental psychology”, in D. Stokols e I. Altman (a cura di), Handbook of environmental psychology. Vol. 1, Wiley, New York, 1987, pp. 41-70. 46 Valera S. e Vidal T., “Some Cues for a Positive Environmental Psychology Agenda”, in Fleury-Bahi G., Pol E. e Navarro O. (a cura di), Handbook of Environmental Psychology and Quality of Life Research, cit. 47 Zárate M., “El lugar urbano como estrategia de conocimiento proyectual en urbanismo”, Arquitectonics, Vol. 19, No 20, 2010. 48 Fullilove, M. T., “The Frayed Knot. What happens to place attachment in the context of serial forced displacement?” In L. C. Manzo e P. Dewine-Wright (a cura di), Place attachment: Advances in theory, methods and applications, Routledge, Oxon, 2014, pp. 141–153. 45
Gli individui si sforzano di mantenere compatibilità tra il proprio ambiente e le proprie aspirazioni, e sebbene i due elementi non siano sempre in armonia tra loro, essi continuano a cercare opportunità di crescita personale, benessere e felicità all’interno del proprio spazio familiare. Lo spazio socio-fisico può dunque essere considerato un generatore di benessere e di esperienze positive, così come il contesto nel quale gli individui hanno l’opportunità di sperimentare situazioni sociali e personali positive49. Perciò, quando le persone partecipano ai processi di progettazione dello spazio comune, non contribuiscono a cambiarne soltanto i connotati fisici, ma anche i suoi elementi simbolici e dunque generano nuove identità sia personali che sociali. È in questo senso che tali cambiamenti assumono un aspetto socio-fisico e sono fondamentali nel determinare il benessere e la possibilità di accedere a esperienze positive per tutti gli individui e i gruppi sociali50. Dunque la psicologia ambientale concepisce lo spazio come un elemento sociofisico, un incrocio di caratteristiche fisiche, esperienze psicologiche e significati sociali e culturali, che definiscono configurazioni socio-spaziali con i quali gli umani intrattengono un dialogo e interagiscono51. L’assunto di base che soggiace a questa concezione è che gli umani sono costantemente, e originariamente, collocati in un contesto, e perciò è impossibile capirne i comportamenti senza metterli in relazione con l’ambiente che li circonda52. Gli individui, infatti, appropriandosi degli spazi e interagendo con il proprio ambiente vi si legano e lo vivono positivamente, trasformando Stokols, D. , “The ecology of human strengths”, in L. G. Aspinwall e U. M. Staudinger (a cura di), A psychology of human strengths. Fundamental questions and future directions for a positive psychology, American Psychological Association, Washington, DC, 2003. 50 Valera S. e Vidal T., “Some Cues for a Positive Environmental Psychology Agenda”, cit. 51 Aspinwall L. G. e Staudinger U. M. (a cura di), A psychology of human strengths. Fundamental questions and future directions for a positive psychology, cit. 52 Sommer R., “A fish who studies water”, in Altman I. e Christensen K. (a cura di), Human behavior studies, Human behavior and environment, Vol. 11, Plenum Press, New York, 1990, pp. 31-40. 49
lo spazio in un luogo, attraverso un processo che intreccia componenti affettive, emotive e identitarie53. Non è un mistero, infatti, che i disastri ambientali, come uragani, tsunami, terremoti etc., così come le devastazioni causate dalle guerre o dall’inquinamento, hanno come conseguenza, oltre alle perdite materiali, ingenti costi emotivi e psicologici per coloro che ne sono affetti54. Qualsiasi spazio, compreso come unità di senso per una persona o un gruppo, trae i propri criteri di validità dall’insieme di significati (passati, presenti o potenziali) che è capace di supportare, così come dall’insieme di configurazioni psicologiche che è capace di rendere chiare alle persone che vi hanno vissuto o vivranno. I prodotti di tali transazioni sono sempre individuali, cioè soggettivi, ma le origini di tali significati sono sociali, ed entrambi questi livelli sono suscettibili di intersoggettività. Perciò possiamo riconoscere noi stessi e il nostro spazio in un contesto sociale, che è mescolanza di un insieme di significati elaborati, negoziati e condivisi socialmente, e che produce un “campo sociale percepito”55. In ultima analisi, porre sé stessi adeguatamente nel proprio mondo socio-psicoambientale è essenziale al fine di costruire legami positivi con il proprio ambiente e ottenere di conseguenza elementi che contribuiscono al proprio benessere personale. L’identità si configura dunque come la chiave per il benessere soggettivo e sociale. È per questo che lo studio della progettazione degli spazi artificiali è fondamentale per creare luoghi capaci di estrarre il massimo potenziale da ogni singolo individuo e garantire a
Valera S. e Vidal T., “Some Cues for a Positive Environmental Psychology Agenda”, cit. Fullilove, M. T., “The Frayed Knot. What happens to place attachment in the context of serial forced displacement?”, cit. 55 Stokols D., “Conceptual strategies of environmental psychology”, cit. 53 54
tutti il benessere psico-fisico, un’alta qualità della vita e, in generale, contribuire alla ricerca della felicità.
1.3 Il cambiamento climatico e l’inquinamento: le grandi sfide del nostro tempo Lo spazio artificiale, dicevamo, emerge in uno spazio che lo precede e che ne è condizione di possibilità: l’ambiente naturale, il nostro pianeta in quanto casa della vita. Che la nostra casa comune, la madre terra, sia in pericolo, è una consapevolezza che ben pochi, ormai, hanno il coraggio di mettere in discussione56. Che il comportamento umano e la sua “impronta ecologica” siano la principale causa della malattia di cui soffre il pianeta è un’altra certezza scientificamente inattaccabile57. La psicologia ambientale si impegna a comprendere le cause di questo comportamento al fine di offrire strategie per modificarlo, in modo da risolvere il problema ecologico alla radice58. Essa riconosce che non c’è un problema ambientale, ma un problema comportamentale degli esseri umani in quanto consumatori, produttori, pianificatori e legislatori. Le credenze, i valori, le visioni del mondo e le azioni personali e collettive ecologicamente incompatibili sono responsabili del deterioramento delle condizioni del nostro pianeta59.
1.3.1 La capacità di portata del pianeta Terra L’impatto ambientale dell’attività umana sulla terra è un tema tutt’altro che recente, sebbene l’attuale situazione presenti peculiarità senza precedenti. È sorprendente,
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Scott B. A. et al., Psychology for Sustainability. 4th Edition, Routledge, New York, 2016. Nickerson R. S., Psychology and Environmental Change, LEA, Londra, 2003. 58 Steg L. e De Groot J. I. M. (a cura di), Environmental Psychology. An Introduction. 2 ed., cit. 59 Scott B. A. et al., Psychology for Sustainability. 4th Edition, cit. 57
ad esempio, scoprire come i primi studi scientifici sul riscaldamento globale causato dalle emissioni di carbonio nell’atmosfera furono pubblicati addirittura nel 189660. Nei primi decenni del Novecento furono condotti diversi studi sulla progressiva estinzione di numerose specie animali o sugli effetti negativi di sostanze nocive emesse dalla produzione industriale: è dunque quasi un secolo e mezzo che la comunità scientifica si prodiga in ricerche che testimoniano i danni causati dall’attività umana sulla biosfera (termine coniato nel 1875)61. Ciononostante, una reale consapevolezza al livello dell’opinione pubblica in relazione a questo problema non emerse prima degli anni Sessanta del secolo scorso – a dire il vero, anche la comunità scientifica, fino ad allora, era piuttosto divisa sulla reale portata dell’impatto umano sull’ambiente, e solo di recente ha raggiunto una reale unanimità al riguardo62. La terminologia coniata dagli scienziati per discutere del problema è ricca e variegata. Un’espressione molto importante è la portata, termine preso in prestito dall’idrologia, che indica la capacità del pianeta di supportare le specie in esso viventi. Quando una specie vivente è isolata in un territorio e impossibilitata a migrare, essa deve trovare un equilibrio con l’ambiente in cui è inserita al fine di poter continuare a esistere. Nel caso in cui la popolazione cresce eccessivamente rispetto alle risorse offerte dal proprio habitat, o le sue abitudini di consumo crescono oltre la portata del proprio territorio, è altamente probabile che andrà incontro all’estinzione63.
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Weart S., The discovery of global warming, 2013, disponibile al sito: http://www.aip.org/history/climate/summary.htm 61 Scott B. A. et al., Psychology for Sustainability. 4th Edition, cit. 62 Union of Concerned Scientists, World scientists’ warning to humanity, Statement available from the Union of Concerned Scientists, 26 Church St., Cambridge, MA 02238, 1992. 63 Nemeth D. G. (a cura di), Ecopsychology. Advances from the intersection of Psychology and Environmental Protection. Volume I. Science and Theory, Praeger, California e Colorado, 2015.
Dinamiche di questo genere sono avvenute innumerevoli volte nel corso della storia della vita sulla terra, sia in relazione a specie animali che agli umani. Esempi lampanti sono rintracciabili su territori isolani, chiaramente più proni alla segregazione ecosistemica e più chiusi alle migrazioni. Ad esempio, nel 1944 la guardia costiera statunitense importò 29 esemplari di renne sull’isola di San Matteo, nel mare di Bering. Nel 1963, date le favorevoli caratteristiche dell’isola per questa specie, la popolazione di renne era cresciuta oltre i seimila esemplari. Questo mise a dura prova la portata dell’isola, che divenne sempre più brulla fino a che non fu più in grado di offrire sostentamento ai suoi abitanti. Nell’inverno del 1964 la popolazione di renne collassò, e nonostante potesse ancora supportare fino a 2,300 renne, solo il 3% di questa cifra riuscì a sopravvivere64. Un esempio umano è, invece, quello delle popolazioni dell’Isola di Pasqua, al largo delle coste del Cile, la cui popolazione, attorno al XVI secolo, crebbe così tanto che la deforestazione seguita al fabbisogno di legname e di terre coltivabili rese il suolo sempre più sterile fin quando, nel XVII secolo, iniziò l’inesorabile declino della civiltà, tanto che alla fine del secolo XIX, dei 12,000 membri di cui era composta solo duecento anni prima ne restavano appena 11165. Altri esempi storici eclatanti sono quello dei Sumeri in Mesopotamia e dei Maya nello Yucatan. Lo scenario che ci si presenta ai nostri giorni, tuttavia, è diverso da quelli descritti finora per un dettaglio non da poco: se il crollo dei Sumeri, dell’Isola di Pasqua o dei Maya avvenne senza che ciò influisse particolarmente su altre popolazioni dislocate in luoghi lontani, i cambiamenti climatici e l’inquinamento odierni assumono una
Catton W. R., “Carrying capacity and the death of a culture: A tale of two autopsies”, Sociological Inquiry, Vol. 63, 1993, pp. 202–222. 65 Ivi. 64
dimensione planetaria66. Se si considera, infatti, il pianeta come una grande isola, dalla quale l’umanità non può migrare verso un altro habitat ricco di risorse, è evidente che la sua portata ha dei limiti oltre i quali la specie umana, e moltissime altre specie viventi, non possono sopravvivere. Innanzitutto, la crescita della popolazione umana nell’ultimo secolo e mezzo è stata esponenziale. La crescita esponenziale ha la peculiarità di partire lentamente per poi accelerare con rapidità. Alla fine del XVIII secolo sarebbero serviti 250 anni per raddoppiare la popolazione mondiale, stando ai ratei di crescita dell’epoca. Ma con i ratei di crescita registrati dalla metà del secolo scorso, la popolazione mondiale, ad oggi, è raddoppiata in soli 45 anni67. In particolare, la crescita esponenziale si verifica nei paesi meno sviluppati, con medie di oltre cinque figli per donna nei paesi dell’Africa SubSahariana. Calcolare la capacità di portata del pianeta in relazione alla popolazione umana è molto complesso, in particolare poiché è necessario distinguere tra capacità biologica e capacità culturale. Dal punto di vista biologico, la portata della terra è molto maggiore rispetto a quello culturale: gran parte del nostro impatto sulla natura è dovuto allo stile di vita moderno, all’alto consumo di risorse e di energie che la produzione industriale, i conflitti e i crescenti bisogni consumistici portano con sé - se vivessimo tutti nelle condizioni dell’umanità dell’Età della Pietra, la capacità di portata terrestre sarebbe molto maggiore68.
66
Diamond J., Collapse: How societies choose to fail or survive, Allen Lane, Londra, Ehrlich, P. R. e Holdren, J., “The impact of population growth”, Science, Vol. 171, 1971, pp. 1212-1217. 68 Scott B. A. et al., Psychology for Sustainability. 4th Edition, cit. 67
1.3.2 La percezione del rischio I fattori culturali sono dunque determinanti nell’aggravare l’impatto dell’attività umana sull’equilibrio della biosfera. Questo complica ogni eventuale tentativo di risolvere il problema, poiché nel momento in cui ci si confronta con la cultura si entra nell’ambito della percezione del rischio e di numerosi fattori psicologici e sociologici che, non a caso, chiamano in causa le discipline che di questi ambiti si occupano, come appunto la psicologia ambientale. Il rischio fa riferimento a situazioni, eventi o attività che potrebbero condurre a conseguenze dannose e imprevedibili. Le componenti fondamentali del rischio sono la gravità e l’incertezza69. La negatività di un possibile evento futuro è determinata da una valutazione umana, relativa: è stato infatti affermato come il pericolo sia reale, ma il rischio sia una costruzione sociale70. A tutto questo è necessario aggiungere un’ulteriore complicazione: che il rischio ambientale ha caratteristiche uniche rispetto a ogni altra tipologia di rischio. Per prima cosa, esso presenta un elevato livello di incertezza e complessità, relazioni causali intricate e conseguenze molteplici e diffuse. Di conseguenza, esiste un rischio per l’ambiente e un rischio proveniente dall’ambiente. Secondo, il rischio ambientale è il risultato dell’azione di molteplici individui che agiscono in modi e contesti molto diversi, piuttosto che il risultato di un’azione singola: rispondere a questo rischio è dunque ben più complicato, dato che richiede la coordinazione di un gran numero di persone. Terzo, le conseguenze dei rischi ambientali sono solitamente distanti nel tempo e nello spazio rispetto al complesso di azioni che le ha provocate: le persone che le subiscono non sono
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Steg L. e De Groot J. I. M. (a cura di), Environmental Psychology. An Introduction. 2 ed., cit. Slovic P., “Trust, emotion, sex, politics, and science: surveying the risk‐assessment battle field”, Risk Analysis, Vol. 19, 1999, pp. 689-701. 70
sempre quelle che le hanno causate (per esempio, le generazioni future, o i paesi meno sviluppati)71. Alle questioni ecologiche, dunque, si intrecciano temi etici e politici, complicando così il quadro esponenzialmente. La percezione del rischio è dunque qualcosa che ha a che fare con il giudizio soggettivo degli individui in relazione alle possibilità che si verifichi un evento avverso e alla sua gravità. La comunità scientifica ha prodotto un gran numero di tecniche atte a valutare il rischio percepito soggettivamente72, dalle quali emergono molteplici conclusioni sulle tendenze e sui pregiudizi comuni alla maggioranza delle persone. Innanzitutto, gli individui tendono a basare le proprie valutazioni su metodi euristici, cioè sulla semplice intuizione a prescindere dai dati reali. Dunque emerge una tendenza a sovrastimare eventi dalla frequenza limitata e sottostimare frequenze maggiori, o a sovrastimare la tendenza che un evento si verifichi a seconda che siano in grado di riportare alla memoria esempi di eventi similari oppure no – ad esempio, studi dimostrano come la preoccupazione per il riscaldamento globale sia maggiore in quei giorni in cui le persone intervistate sperimentano temperature più elevate del normale73. Altro pregiudizio è il cosiddetto “ottimismo irrealistico”, ovvero la tendenza delle persone a credere di avere maggiori probabilità di sperimentare eventi positivi piuttosto che negativi rispetto agli altri individui – una tendenza molto presente nelle considerazioni sul rischio ambientale74.
71
Hanson A. e Cox R. (a cura di), Handbook of Environment and Communication, Routledge, New York, 2015, pp. 368–386. 72 Slovic P., “Perception of risk”, Science, Vol. 236, 1987, pp. 280–285. 73 Li Y. et al., “Local warming daily temperature change influences belief in global warming”, Psychological Science, Vol. 22, No 4, 2011, pp. 454-459. 74 Weinstein N.D, “Unrealistic optimism about future life events”, Journal of Personality and Social Psychology, Vol. 39, 1980, pp. 806-820.
Altro effetto che produce bias cognitivi è il modo in cui un problema viene posto e comunicato: l’uso di alcune parole, dati, esempi, piuttosto che altri, nella comunicazione di un possibile evento dannoso, produce effetti diversi sulla percezione soggettiva del rischio. Anche questo effetto è particolarmente evidente nella comunicazione dei rischi ambientali. Vi è poi il tema della percezione del rischio in relazione alla variabile temporale: quando possibili eventi avversi sono dilatati nel tempo o presentati come molto in là da venire, la percezione del rischio soggettivo è generalmente inferiore rispetto ad eventi la cui verificabilità è molto più prossima75. Nella percezione soggettiva del rischio entrano in gioco altre variabili psicologiche molto complesse e articolate, che hanno a che fare con i valori e la moralità degli individui e dei gruppi sociali. Per esempio, è stato osservato come persone poco inclini al rispetto di valori tradizionali (famiglia, patriottismo, stabilità) o maggiormente inclini a sentimenti altruisti (preoccupazione per il benessere del prossimo o di altre specie animali) tendono a percepire come maggiormente pressanti le tematiche ambientali e i rischi annessi76. Allo stesso modo, persone che danno valore alla natura in quanto tale mostrano maggiore preoccupazione per il tema ambientale rispetto a coloro che esprimono valori di stampo egoistico77. Gli studi nel campo dell’etica ambientale affermano che alcuni aspetti della natura (paesaggi o specie animali e vegetali) abbiano un valore e una dignità assoluti a
Gattig A. e Hendrickx L., “Judgmental discounting and environmental risk perception”, Journal of Social Issues, Vol. 63, 2007, pp. 21-39. 76 Whitfield et al., “The future of nuclear power: value orientations and risk perception”, Risk Analysis, Vol. 29, 2009, pp. 425-437. 77 Steg L. et al., “General antecedents of environmental behavior: relationships between values, worldviews, environmental concern, and environmental behavior”, Society and Natural Resources, Vol. 24, No 4, 2011, pp. 349-367. 75
prescindere dalla loro relazione con la società umana. Dalle ricerche emerge come le persone siano spesso contrarie a far prevalere alcuni valori su altri, per esempio il vantaggio economico derivante dallo sfruttamento di una risorsa naturale rispetto alla conservazione e alla tutela dell’ambiente. La psicologia ambientale riconosce dunque l’esistenza di valori sacri e conclude che costringere le persone a scegliere quali valori sacrificare, tra quelli considerati sacri, produce reazioni negative e rifiuto78. Gli individui che sostengono questi valori sacri sono più inclini a rigettare approcci mercatisti in relazione al diritto di produrre emissioni dannose per l’ambiente da parte delle aziende o dei consumatori, anche qualora si rivelassero capaci di mitigare i cambiamenti climatici: costoro sono infatti persuasi della necessità di intervenire basando l’azione su considerazioni di tipo morale, piuttosto che economico79. In ultimo, la percezione del rischio è fortemente influenzata dall’emotività. Quando un’attività suscita emozioni negative negli individui, questi ultimi tendono a considerarla maggiormente rischiosa, viceversa la percezione del rischio è attenuata da attività che suscitano emozioni positive. Differenti emozioni, ad ogni modo, a un’analisi più accurata, possono produrre effetti opposti sulla percezione del rischio, a prescindere dalla loro valenza80. Per esempio, la paura e la rabbia sono entrambe emozioni negative, ma la prima è associata a una maggiore percezione del rischio laddove la seconda a una minore81.
Hanselmann M. e Tanner C., “Taboos and conflicts in decision making: sacred values, decision difficulty and emotions”, Judgment and Decision Making, Vol. 3, 2008, pp. 51-63. 79 Sacchi S. et al., Moral reasoning and climate change mitigation: the deontological reaction toward the market‐based approach”, Journal of Environmental Psychology, Vol. 38, pp. 252-261. 80 Keller C. et al., “The reversal effect of prohibition signs”, Group Processes and Intergroup Relations, Vol. 14, No 5, 2011, pp.; Lerner J. S. e Keltner D., “Fear, anger, and risk”, Journal of Personality and Social Psychology, Vol. 81, 2001, pp. 146-159. 81 Keller et al, “Bringing appraisal theory to environmental risk perception: a review of conceptual approaches of the past 40 years and suggestions for future research”, Journal of Risk Research, Vol. 15, 2012, pp. 237-256. 78
Le emozioni vengono inoltre attivate come conseguenza di una percezione di rischio: quando una persona si concentra sulle conseguenze di una determinata azione o situazione, sperimenteranno emozioni basate sulla propria percezione delle conseguenze possibili o probabili. Nel caso di azioni o situazioni che suscitano valutazioni di tipo morale, sperimenteranno emozioni basate sulla loro etica personale e sociale, dal senso di colpa nel caso di una responsabilità diretta o disgusto e rabbia nel caso di responsabilità altrui82. In ultimo, le emozioni positive hanno un ruolo molto incisivo nella promozione di sentimenti pro-ambientali: non soltanto la preoccupazione per le sorti future del pianeta, ma anche la speranza, è capace di suscitare coinvolgimento e consapevolezza sull’importanza dell’impegno per preservare l’ambiente dai cambiamenti climatici83.
1.3.3 L’impronta ecologica Se i primi studi sulle emissioni e sui cambiamenti climatici risalgono a un secolo e mezzo fa, è a partire dagli anni Settanta del Novecento che la situazione ha preso a peggiorare esponenzialmente84. Il clima della Terra è in costante cambiamento da sempre, ma è proprio a partire da questo periodo storico che gli scienziati iniziarono a sollevare l’allarme sui cambiamenti climatici provocati dall’azione umana85 L’impronta ecologica dell’attività umana – cioè quell’unità di misura che la comunità scientifica ha da tempo adottato per indicare la velocità di consumo delle risorse e di produzione dei rifiuti rispetto alla capacità del pianeta di assorbirle86 – eccede ormai la capacità rigenerativa Böhm G. e Pfister H. R., “Consequences, morality, and time in environmental risk evaluation”, Journal of Risk Research, Vol. 8, 2005, pp. 461-479. 83 Keller et al, “Bringing appraisal theory to environmental risk perception: a review of conceptual approaches of the past 40 years and suggestions for future research”, cit. 84 Scott B. A. et al., Psychology for Sustainability. 4th Edition, cit. 85 Steg L. e De Groot J. I. M. (a cura di), Environmental Psychology. An Introduction. 2 ed., cit. 86 Wackernagel M. e Rees W., Our ecological footprint: Reducing human impact on the earth, New Society Publishers, Gabriola Island, 1996. 82
del pianeta (la sua portata) di una volta e mezza. Questo significa che servirebbe un altro mezzo pianeta Terra per continuare a sostenere la razza umana in relazione alle sue abitudini di consumo odierne. Si tratta di un incremento dell’impronta ecologica umana stupefacente, in soli cinquant’anni: solo al principio degli anni Settanta, essa aveva appena superato la capacità rigenerativa della Terra. Ad oggi, l’83% della popolazione del pianeta vive in paesi che consumano una biocapacità superiore a quella che avrebbero a disposizione all’interno dei propri confini territoriali87. Gli Stati Uniti conducono questa triste classifica: se tutti i paesi del mondo consumassero quanto lo stato americano, servirebbero quattro pianeta Terra per sostentarci88. I cambiamenti climatici causati dall’impronta ecologica umana hanno caratteristiche uniche che richiedono approcci innovativi per essere affrontati dalle discipline scientifiche, inclusa la psicologia ambientale. Innanzitutto, la loro natura globale ma con effetti diversi a seconda delle regioni del mondo considerate contrasta con le tipologie di problemi affrontati dagli ambientalisti in precedenza, di natura locale e geograficamente circoscritta, quali sono ad esempio l’approvvigionamento d’acqua e l’inquinamento acustico. I cambiamenti climatici hanno inoltre conseguenze sfaccettate, uniche nel loro genere e diverse a seconda dei luoghi presi in considerazione e della vulnerabilità delle popolazioni locali (umane, faunistiche e vegetali). Inoltre, il problema ha risvolti unici che chiamano in causa i sistemi economici e politici fondati sulla crescita e sul consumo, così come gli stili di vita e i valori dei relativi popoli, dato che sostanzialmente ogni attività intrapresa dagli individui nei paesi industrializzati comporta
Galli A. et al., “Ecological footprint: Implications for biodiversity”, Biological Conservation, Vol. 173, 2014, pp. 121-132. 88 Ivi. 87
emissioni di gas serra. Ciò significa che se si vuole affrontare il problema per davvero è necessario mettere in discussione stili di vita, sistemi economici e strutture politiche – cosa evidentemente tutt’altro che semplice. Infine, ha grande importanza il ruolo delle scelte individuali, cioè dei comportamenti e delle abitudini di consumo di ogni singola persona: la sfida dei cambiamenti climatici ci interroga come individui e come specie, e presenta ostacoli di natura complessa, diffusa, distale, etica, e politica. Per affrontarle, è necessario un doppio movimento: diffondere la consapevolezza sulla reale natura e portata dei cambiamenti climatici e sui rischi reali che tutti corrono se non si collaborerà collettivamente per affrontarli. Nei prossimi capitoli verrà affrontata la questione di come si è giunti a questa drammatica situazione e di come la psicologia (ambientale in particolare) possa contribuire a sviluppare consapevolezza e soprattutto comportamento pro-ambientali.
Capitolo 2: La psicologia al servizio della sostenibilità
Lo scopo primario della psicologia ambientale è diffondere la consapevolezza sui rischi che corre la nostra biosfera e i comportamenti necessari a tutelarla89. Il comportamento pro-ambientale, o comportamento ecologico90, è quel comportamento che cerca coscientemente di minimizzare l’impatto ambientale delle proprie attività91. Secondo alcuni accademici, questo dovrebbe essere l’unico oggetto di studio della psicologia ambientale92. Secondo altre scuole di pensiero, il comportamento pro-ambientale cerca di minimizzare i danni all’ambiente o addirittura di beneficiarlo attivamente, senza necessariamente, o esclusivamente, essere motivato da fini ecologici93. È possibile, infatti, che la scelta di – ad esempio – andare al lavoro in bicicletta sia motivata soltanto dall’essere un comportamento che fa bene alla propria salute e al proprio portafoglio, ma è anche innegabilmente positivo sotto il profilo dell’impatto ambientale, rispetto all’automobile. Come si può notare, quindi, già la definizione di cosa rientra nella definizione di “comportamento pro-ambientale” è controverso, poiché esso si differenzia dal comportamento ambientale tout-court. Il comportamento ambientale, infatti, è qualsiasi attività che cambia la disponibilità di materiali o energia nell’ambiente o altera la struttura
89
Steg L. e De Groot J. I. M. (a cura di), Environmental Psychology. An Introduction. 2 ed., cit. Schultz et al., “Using normative social influence to promote conservation among hotel guests”, Social Influence, Vol. 3, 2008, pp. 4–23. 91 Kolmuss A. e Agyeman J., “Mind the gap: why do people act environmentally and what are the barriers to pro‐environmental behavior?”, Environmental Education Research, Vol. 8, No 3, 2002, pp. 239-260. 92 Kaiser F. G. e Wilson M., “Goal‐directed conservation behavior: the specific composition of a general performance”, Personality and Individual Differences, Vol. 36, 2004, pp. 1531-1544. 93 Steg L. e Vlek C., “Social science and environmental behavior”, in Boersma J. J. e Reijnders L., Principles of Environmental Sciences, Springer-Verlag, New York, 2009, pp. 97-142. 90
e le dinamiche degli ecosistemi o della biosfera94 - quindi include comportamenti dannosi così come comportamenti benefici per l’ambiente. In sostanza, se qualsiasi comportamento ambientale, come abbiamo già detto, ha un impatto ambientale, qualsiasi comportamento umano è anche ambientale. Per comprendere, dunque, cosa contraddistingue un comportamento proambientale e, di conseguenza, promuoverne la diffusione, bisogna approcciare la questione da diversi punti di vista: storico, ecologico, sociale, psicologico, etc.
2.1 La società moderna e la sua ideologia alle radici del disastro ecologico Il concetto di sviluppo sostenibile emerge nella società moderna a partire da preoccupazioni che hanno natura variegata: sociale, culturale, economica, politica e ovviamente ecologica. La sostenibilità sistemica è dunque stata osservata da tante prospettive: c’è chi si è limitato a osservare i limiti naturale del pianeta 95 e chi invece ha posto l’accento sulle strutture sottostanti al sistema economico globale96. In generale, l’idea per cui lo sviluppo debba essere sostenibile sottintende l’assunto che le risorse sono limitate e suscettibili di esaurimento, e che sia dunque necessario imporre limiti alle attività socioeconomiche. È dunque inevitabile estendere l’analisi e la critica alle relazioni sociali e culturali che si intrecciano nella società moderna e contemporanea per comprendere in che modo esse promuovano comportamenti ecologicamente insostenibili. La dialettica economia-ecologia, quindi, è inscindibile e dev’essere affrontata dalla psicologia ambientale per produrre comportamenti antitetici rispetto a quelli che stanno causando il collasso della biosfera.
94
Ivi. Pearce D., “Economics, equity and sustainable development”, Futures, Vol. 20, No 6, 1988, pp. 595-602. 96 Redclift M., Sustainable development: Exploring the contradictions, Methuen, Londra, 1987. 95
La domanda guida che apre l’analisi non può che essere: come siamo giunti a questa situazione? Quali sono i fattori sociali che hanno prodotto comportamenti, in ultima analisi, autolesionistici, che minacciano l’esistenza stessa dell’umanità o, quantomeno, di gran parte di essa? Anche qui, non vi è una risposta univoca, ma una stratificazione di concause successive. Una prima causa risiede nell’essere una specie vivente; un’altra nell’essere una specifica specie di esseri viventi, con caratteristiche proprie; e altre cause ancora sono radicate nella storia e nel modello sociale e ideologico tipico del nostro tempo97. Qualsiasi specie vivente tende a massimizzare la propria capacità di sopravvivenza. Adattarsi per sopravvivere e riprodursi il più possibile sembra essere un tratto comune di qualsiasi forma di vita – perlomeno, questa è la conclusione dell’evoluzionismo, una delle teorie scientifiche più famose e accreditate della scienza biologica. Peculiare all’essere umano è, invece, la sua capacità di adattarsi all’ambiente modificandolo radicalmente, tanto da trasformare lo spazio naturale in spazio artificiale. Lo sviluppo incrementale della tecnologia umana ha immensamente potenziato la capacità di adattamento e, perciò, di riproduzione della specie umana; negli ultimi tre secoli, poi, tale incremento tecnologico ha subìto un balzo esponenziale talmente stupefacente da superare la nostra stessa capacità di comprenderne la portata – e gli effetti di medio e lungo termine98. Abbiamo visto come, lungo tutta la propria storia, l’umanità ha più volte impattato il proprio ambiente al punto da causare notevoli disastri, spesso autodistruttivi, ma la scala planetaria cui si è giunti nell’Età Moderna ha portato alcuni
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Scott B. A. et al., Psychology for Sustainability. 4th Edition, cit. Redclift M., Sustainable development: Exploring the contradictions, cit.
accademici a coniare la dicitura di Antropocene, per dare l’idea della portata dell’impatto umano sulla Terra99. Questo straordinario progresso tecnologico è il frutto di un paradigma ideologico, di un modo di vedere il mondo e concepire la natura umana, che è parte integrante di quella che viene definita “Civiltà Occidentale”100. Se la psicologia studia il comportamento umano a livello individuale, è impossibile per la psicologia ambientale comprendere e risolvere i problemi del comportamento ambientale umano senza prendere in considerazione gli aspetti generali della civiltà e della cultura nella quale siamo inseriti e il modo in cui condizionano i comportamenti dei singoli e la loro percezione dei problemi, dei rischi e delle possibili soluzioni101. È impossibile cambiare i comportamenti individuali senza agire sulla mentalità che li produce. Concetti cardine per comprendere quale sia la prospettiva ideologica della società occidentale sono quelli di progresso e crescita. Quest’ultimo, in particolare, è talmente introiettato nel nostro modo di concepire il mondo da rendere praticamente impossibile immaginare le attività umane a prescindere da questo principio-scopo. Il paradigma sociale dominante è intrecciato a doppio filo con gli ideali di progresso e crescita102. All’interno di questo frame, la crescita economica è sempre positiva e sempre possibile, gli umani sono chiamati a sfruttare le risorse naturali con lo scopo di accrescere la propria ricchezza e il proprio vantaggio personale, gli individui hanno il diritto di sviluppare le forze produttive per accumulare profitto personale, e la scienza e la tecnologia sono
Zalasiewicz et al., “Are we now living in the Anthropocene?”, GSA Today, Vol. 18, No 2, 2008, pp. 4-8. Pirages D. C. e Ehrlich P. R., Ark II: Social response to environmental imperatives, W. H. Freeman, San Francisco, 1974. 101 Pearce D., “Economics, equity and sustainable development”, cit. 102 Pirages D. C. e Ehrlich P. R., Ark II: Social response to environmental imperatives, cit. 99
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chiamate a superare gli ostacoli posti sulla via di questa crescita e del progresso tecnicoscientifico. Le scienze ambientali, dal canto loro, hanno preso a proporre un punto di vista opposto a quello dominante: la crescita ha dei limiti intrinseci, gli umani non sono esenti da limiti naturali, la natura ha un valore intrinseco che va oltre i vantaggi che essa offre agli umani, e il disastro ecologico è reale e minaccia la sopravvivenza stessa della biosfera e della nostra specie.
2.2 La storia del paradigma dominante in Occidente Il paradigma sociale dominante ha radici storiche lontanissime. Esso è il prodotto della lunga storia del pensiero occidentale, che getta le proprie radici nelle speculazioni filosofiche degli Antichi Greci, attraversa la tradizione Giudaico-Cristiana che ne eredita tanta parte, e si espande con l’età illuministica moderna, la Rivoluzione Scientifica, il Colonialismo, la Rivoluzione Industriale. Il suo zoccolo duro, comunque, è ben più recente, e inizia a formarsi secondo i canoni e i tratti che lo caratterizzano oggigiorno circa 250 anni fa103. È possibile riassumere i principi cardine di questo paradigma sociale in quattro punti: 1) gli umani sono separati da, e superiori alla, natura; 2) la natura può e deve essere dominata; 3) gli individui hanno il compito e il diritto di dominare la natura al fine di massimizzare il proprio guadagno economico e 4) la crescita economica può e deve continuare indefinitamente nel tempo.
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Scott B. A. et al., Psychology for Sustainability. 4th Edition, cit.
2.2.1 La separazione tra uomo e natura Le società preindustriali esistevano perlopiù in comunità relativamente piccole, si autosostentavano attraverso i prodotti della terra (caccia, raccolta, agricoltura e allevamento), costruivano edifici e utensili con materiali naturali e la routine quotidiana ruotava attorno ai cicli naturali giorno/notte e stagionali: insomma, avevano un rapporto molto più diretto e immediato con la realtà naturale di cui la nostra specie è figlia104. Il contatto diretto con la natura, che le società preindustriali sperimentavano quotidianamente, porta con sé la consapevolezza che non solo essa è viva, ma condivide molti tratti con la specie umana105. Non è un caso che tante culture indigene, ispirate a modelli spirituali animisti e antropomorfisti, si tramandano rituali, forme d’arte e pratiche che onorano gli spiriti della natura non-umana. La società occidentale pre-industriale e pre-scientifica condivideva molti di questi tratti culturali, espressi anche dagli autori che oggi riconosciamo come capostipiti del paradigma dominante: Platone, nel Timeo, parla esplicitamente di un’anima del mondo, lo stesso dicasi degli Stoici, la cui tradizione di pensiero fu ereditata dai Romani. La società industriale, invece, divide nettamente la specie umana dalla natura. Le radici filosofiche di questo nuovo paradigma nella storia umana si possono già rintracciare nel più famoso degli allievi di Platone, Aristotele, che postulò un continuum, una scala naturale di tutte le creature, secondo la quale esse possono essere classificate sulla base della quantità di anima che possiedono, e quindi sulla loro prossimità al principio unificatore divino. Inutile dirlo, secondo questa prospettiva l’umanità è la
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Sabloff A., Reordering the natural world: Human and animals in the city, University of Toronto Press, Toronto, 2001. 105 Manes C., “Nature and silence”, in Glotfelty C. e Fromm H. (a cura di), The ecocriticism reader, The University of Georgia Press, Atene e Londra, 1996, pp. 15-29.
creatura più vicina a Dio che esista sulla Terra106. Questo rende gli umani più importanti delle altre specie viventi, i mammiferi superiori alle altre famiglie animali, le piante superiori alla terra inanimata, e la materia organica superiore a quella inorganica. L’antropocentrismo aristotelico è pienamente ereditato dal pensiero illuministico che, se possibile, radicalizza ulteriormente la dicotomia uomo/natura107. Passaggio fondamentale di questa divaricazione del binomio uomo/natura è il pensiero di Cartesio, che nel dualismo mente/corpo suggerisce che soltanto la mente umana è animata, intrisa dell’anima divina. I naturalisti dei secoli successivi, come Newton, validano tale teoria presentando un universo meccanicistico strettamente regolato da leggi immutabili e matematicamente misurabili che determinano il moto degli astri e tutti i fenomeni fisici. Perciò, questa deriva del pensiero meccanicista è stata definita “morte della natura”: la natura non ha più un’anima, ma è un meccanismo paragonabile a un orologio108. La visione della natura come elemento inanimato giace alle fondamenta del paradigma sociale dominante, che separa uomo e natura e pone il primo al di sopra della seconda, un dio tra i viventi. Da ciò consegue il diritto morale percepito di manipolare e dominare la natura per scopi personali.
2.2.2 La Natura dev’essere dominata Nel paradigma sociale dominante, dominare la natura non è soltanto un diritto, ma persino un dovere, cui tutti gli sforzi intellettuali della scienza devono essere piegati.
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Scott B. A. et al., Psychology for Sustainability. 4th Edition, cit. Coll C. G., Bearer E. L., Lerner R. M. (a cura di), Nature and Nurture The Complex Interplay of Genetic and Environmental Influences on Human Behavior and Development, Taylor & Francis Group, New York e Londra, 2004. 108 Merchant C., The death of nature: Women, ecology and the scientific revolution, Harper, San Francisco, 1980. 107
Francis Bacon, il grande filosofo che pose le basi del moderno pensiero scientifico, accusava la filosofia a lui precedente di essere improduttiva, cioè di non essere capace di controllare le forze della natura al fine di accrescere la potenza degli uomini. Motivava questa incapacità nel suo essere fondata sulla speculazione piuttosto che sui dati di osservazione empirica. L’Empirismo, corrente di pensiero figlia della sua opera, riconosce la necessità di controllare la materia per essere efficace e scientificamente fondata: per poter condurre esperimenti è necessario isolare tutte le variabili al fine di osservare i fenomeni in un vacuum109. Bacon sosteneva dunque che per poter davvero comprendere i fenomeni naturali non è bene osservarli soltanto nella loro azione libera, ma è necessario costringerli e piegarli secondo le modalità dell’esperimento scientifico: in questo modo, la natura si tradisce più facilmente e quindi, mostrando le proprie variazioni dalla normalità, lascia intravedere anche le sue costanti110. Questo punto di vista di Bacon è corretto: la scienza beneficia della costrizione della natura al fine di farne emergere alcuni tratti o le leggi sottostanti. Le potenzialità espresse dal metodo scientifico hanno ispirato nella società occidentale la consapevolezza della propria capacità di dominare la natura e instillato l’idea per cui ciò sia positivo per il suo bene. Il controllo sulla natura continuò a ispirare nuovi principi che saranno cardine nello sviluppo del paradigma sociale dominante: John Locke ritenne infatti che la proprietà della terra da coltivare fosse la base su cui fondare la democrazia, e che il voto dovesse essere garantito solo ai proprietari terrieri. La proprietà, nella sua speculazione, diventa un principio che si attacca alla terra stessa, che emerge dal lavoro degli individui
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Sabloff A., Reordering the natural world: Human and animals in the city, cit. Rossi P. (a cura di), Il pensiero di Francis Bacon. Una antologia di scritti, Loescher, Torino, 1961.
allo stesso modo in cui crescono le piante coltivate, e da ciò fece derivare l’idea per cui la terra non utilizzata, non sfruttata per la produzione, fosse terra sprecata, e che tale spreco fosse, ovviamente, deprecabile. Già nel XVIII secolo, questo modo di vedere il rapporto tra l’uomo e la terra era dominante e diffuso in tutto l’Occidente.
2.2.3. Il diritto al massimo profitto economico personale L’individualismo estremizzato del paradigma sociale dominante ha la sua radice nelle filosofie politiche del XVII secolo, che emergono insieme al razionalismo materialista e gettano le basi per lo stato nazione e la sua astrazione dal dominio familiale feudale e dall’investitura divina del signore, rendendo tutti i sudditi dello stato uguali di fronte alla legge e dotati di diritti inalienabili. Thomas Hobbes (1588-1679), fra i maggiori filosofi britannici di sempre, e autore del famoso Leviatano, descrisse la nascita della società umana e delle sue dinamiche a partire dallo stato di natura, caratterizzato a suo dire da tratti radicalmente diversi rispetto a quanto era stato creduto fino a lui. La natura, infatti, è per gli umani un luogo ostile, e non una gentile madre premurosa, che presenta pericoli e minacce agli individui ovunque si voltino. Gli umani, inoltre, a differenza di quanto diceva Aristotele, non sono animali sociali, anzi nello stato di natura vivono nella condizione di “guerra di tutti contro tutti”, secondo il famoso principio homo homini lupus, per il quale ogni individuo si contende con tutti gli altri il possesso delle scarse risorse necessarie alla sopravvivenza. Dunque, l’uomo sarebbe una creatura asociale e in aperto contrasto con l’ambiente che lo circonda. È l’interesse personale a spingere gli uomini in comunità nelle quali la cooperazione garantisce maggiori chance di sopravvivenza. In questa prospettiva, non ci sono comportamenti individuali buoni o malvagi, ma strategie intraprese al fine di massimizzare il proprio profitto in uno stato di
natura la cui unica costante è la continua competizione con l’ambiente e con gli altri esseri umani. Non è dunque un istinto naturale a spingere gli umani in società, anzi il suo istinto naturale è proprio l’opposto: l’individualismo più radicale; è questo tratto a convincerli che collaborare e dividere il lavoro con altri simili sia la strategia vincente date le caratteristiche dello stato di natura. Una scelta razionale, quindi, piuttosto che un moto dell’anima irrefrenabile quale era caratterizzato da Aristotele. Sotto il profilo etico, Hobbes esclude categoricamente l’esistenza di qualcosa come “un bene superiore”, dato che ognuno desidera e ricerca cose diverse, a seconda delle proprie inclinazioni e dei propri bisogni111. Per molti versi, il pensiero di Thomas Hobbes è stato rivoluzionario e ha effettivamente posto le basi per una maggiore emancipazione dei popoli occidentali. Il suo individualismo radicale si è diffuso e ha dato grande momento al progresso sociale, politico e civile dei secoli successivi. Tuttavia, molti dei principi su cui si basa sono stati nel tempo confutati o smentiti. La darwiniana survival of the fittest, per esempio, riconosce come la cooperazione intraspecie, la solidarietà di gruppo e la rinuncia al vantaggio personale per il bene del collettivo è una strategia di sopravvivenza efficace e diffusa nel mondo animale112. In determinate circostanze, quindi, siamo in effetti biologicamente predisposti ad agire nell’interesse del gruppo piuttosto che a nostro solo vantaggio. Anche in ambito delle scienze politiche e sociali, ad ogni modo, il radicalismo di Hobbes è stato da più parti moderato nel corso del tempo. Già lo scozzese Adam Smith
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Thomas Hobbes, Leviatano, Carlo Galli (a cura di), Bur, Milano, 2011. Wilson D. S. e Wilson E. O., “Rethinking the theoretical foundation of sociobiology”, The Quarterly Review of Biology, Vol. 82, 2007, pp. 327-348. 112
(1723-1790) sostenne che i governi dovrebbero lasciare gli individui liberi di ammassare ricchezza poiché questo accumulo, nel lungo termine, avrebbe beneficiato l’intera società, secondo l’assioma per cui ciò che è bene per l’individuo è bene per il resto della comunità. La filosofia di questa epoca rivoluzionaria fu talmente influente nel pensiero occidentale da informare in maniera diretta la Costituzione dei nascenti Stati Uniti d’America, con la sua enfasi sulla non interferenza dei governi nelle vite degli individui, per rispetto ai loro diritti naturali, sostanziati nella formula secondo cui tra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità. La democrazia moderna, quindi, si innesta sull’individualismo della speculazione filosofica anglo-sassone, che fa piazza pulita degli obblighi morali degli individui verso la propria famiglia, il proprio clan o la comunità di riferimento113. L’unica responsabilità degli individui è verso sé stessi e verso il proprio benessere. Le vite di ognuno sono dunque da vivere come individuali, in competizione e separatamente dalle altre, alla ricerca della ricchezza materiale personale attraverso i diritti della libertà personale e della non interferenza dello stato. Ultimo elemento di questa disanima è il ruolo giocato dalla riforma Protestante, dalla sua diffusione a macchia d’olio negli Stati Uniti d’America e la sua radicalizzazione con i principi del Calvinismo, secondo i quali l’arricchimento personale sarebbe un indizio dell’approvazione di Dio nei confronti degli individui che riescono a ottenerlo attraverso il lavoro; i frutti di questo arricchimento, però, non dovrebbero essere spesi nel lusso sfrenato o nell’autocelebrazione, ma piuttosto reinvestiti per aumentare ulteriormente tale ricchezza114. Con questo framework di pensiero, il Calvinismo contribuì allo sviluppo della Rivoluzione Industriale e del Capitalismo.
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Scott B. A. et al., Psychology for Sustainability. 4th Edition, cit. Weber M., L’etica protestante e lo Spirito del Capitalismo, Introduzione di Giorgio Galli, traduzione di Anna Maria Marietti, Bur, Milano, 1991. 114
2.2.4 L’equivalenza tra Progresso e Crescita Nei primi anni dalla nascita degli USA, la disponibilità di terra selvaggia e di risorse, soprattutto nella corsa verso l’Ovest, sembrava estendersi indefinitivamente. Tanta ricchezza di opportunità attrasse coloni e industriali da tutti i luoghi. L’espansione verso Ovest sembrava inevitabile e desiderabile, al punto da suscitare l’idea che gli USA fossero una terra promessa e i suoi abitanti investiti di un “destino manifesto” – un’espressione che divenne presto il simbolo di una nuova epoca per il Nuovo Mondo e per i suoi colonizzatori, e accrebbe il senso di possedere un diritto inalienabile allo sfruttamento delle risorse della terra e all’arricchimento personale senza limiti115. Con questa mentalità, si affermò il legame ideologico tra progresso e crescita: il modo più efficace e più giusto di sviluppare le forze produttive e morali della nuova nazione americana era quello di occupare sempre più terra e sfruttarne un sempre maggiore quantitativo di risorse. È evidente che all’epoca sembrava perfettamente sensato considerare la crescita infinita come un’ipotesi razionale e validata dai dati di osservazione empirica: l’America del Nord era una terra pressoché vergine e vastissima, perlomeno rispetto all’Europa da cui i coloni, perlopiù, provenivano. Oggigiorno, questo modo di vedere il mondo è semplicemente insensato, di fronte ai dati di osservazione. Tuttavia, i tratti del pensiero dominante che abbiamo sin qui elencato producono un ossimoro aporetico: tornare indietro, abbandonare l’idea di crescita e progresso infiniti, significa regredire e, in ultima analisi, fallire rispetto ai
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Merchant C., The death of nature: Women, ecology and the scientific revolution, cit.
principi primi che determinano gli esiti attesi della nostra società. La sostenibilità, secondo questa prospettiva, altro non sarebbe che stagnazione.
2.3 Dal comportamento pro-ambientale alla sostenibilità Il paradigma sociale dominante è la lente attraverso la quale la nostra civiltà osserva il mondo, una lente costruita e affinata nel corso dei secoli e profondamente radicata nelle nostre strutture mentali al punto da inibire ogni capacità di immaginare alternative valide al di fuori dello schema: sfruttamento incondizionato delle risorse (ambientali e umane)-crescita infinita-progresso sociale ed economico. All’inizio del Ventunesimo secolo, perciò, l’ambientalismo, e la branca specializzata della psicologia ambientale, hanno progressivamente sostituito il concetto di comportamento proambientale con quello di comportamento sostenibile116. Il ragionamento sotteso è che è impossibile affrontare la questione ecologica senza mettere in discussione tutto l’apparato ideologico che ne è la causa: le dimensioni economiche, politiche, sociali devono affiancarsi a quella bio-fisica perché si possa davvero mettere in atto un cambiamento nei comportamenti di tutti117. Non basta, in sostanza, fare un po’ di greenwashing e di agricoltura bio per invertire la rotta che sta portando la biosfera al collasso. Perdipiù, quando al concetto di sostenibilità si associano le tematiche del benessere, della qualità della vita e della felicità, il paradigma dominante dev’essere messo a maggior ragione in discussione nei suoi fondamenti non soltanto sotto il profilo della sua capacità di riproduzione in termini di risorse-consumo, ma anche nel modo in
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Schmuck P. e Schultz P. W., Psychology of sustainable development, Kluwer, Dordrecht, 2002. Fleury-Bahi G., Pol E. e Navarro O. (a cura di), Handbook of Environmental Psychology and Quality of Life Research, cit. 117
cui il suo sostentamento si fonda sull’assiduo sfruttamento di risorse comuni (natura, qualità dell’acqua e del cibo, spazi pubblici, inquinamento dell’aria e acustico, estetica urbana, etc.) sia naturali che umane (lavoro, distribuzione dei beni, polarizzazione della ricchezza e delle opportunità, educazione, etc.). L’emancipazione dagli effetti dello sfruttamento ai fini di profitto e arricchimento personale diventa parte integrante della costruzione di una società capace di garantire quei diritti universali di libertà e ricerca della felicità che sono, sulla carta, le grandi conquiste ideologiche della Modernità. La psicologia ambientale riconosce dunque come i livelli sociali della sostenabilità siano intrinsecamente intrecciati con quelli puramente fisici, ed è impossibile affrontare questi ultimi senza contemporaneamente occuparsi anche dei primi118. Ecco perché alcuni autori hanno definito il comportamento sostenibile come un insieme di azioni effettive e deliberate che sfociano nella preservazione delle risorse naturali, delle piante e delle specie animali, e insieme garantiscono anche il benessere individuale e sociale per le generazioni presenti e future119. Il comportamento sostenibile perciò non influenza positivamente soltanto l’ambiente, ma anche la qualità della vita delle persone. Le vie che portano a comportamenti sostenibili conservano le risorse e l’equilibrio del pianeta e al contempo gettano le basi per una rigenerazione psicologica, la salute fisica e mentale e il godimento: tutti elementi che afferiscono alla categoria di qualità della vita120. I comportamenti funzionali alla sostenibilità ambientale si riflettono anche nella sfera sociale, poiché gli individui orientati verso pratiche sostenibili mettono in atto
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Schmuck P. e Schultz P. W., Psychology of sustainable development, cit. Corral-Verdugo V. e Pinheiro J. Q., “Aproximaciones al estudio de la conducta sustentable”, Medio Ambiente y Comportamiento Humano, Vol 5, 2004, pp. 1-26. 120 Brown K. e Kasser T., “Are psychological and ecological well-being compatible? The role of values, mindfulness, and lifestyle”, Social Indicators Research, Vol. 74, 2005, pp. 349-368. 119
altruismo121 ed equità122, così come comportamenti pro-ambientali123 e frugali124. Altruismo ed equità sono importanti fattori nella creazione e nel mantenimento del capitale sociale, a sua volta un indicatore associato alla cooperazione, alla fiducia, e all’operatività delle reti sociali. Molti correlati del comportamento sostenibile (emozioni verso l’ambiente, affinità verso la diversità, punti di forza e virtù del carattere, competeneze e abilità proambientali, conoscenza ambientale, etc.) sono indicatori della qualità della vita125. Tutte queste osservazioni provano l’interrelazione che corre tra sostenibilità e qualità della vita. Oltre a ciò, i comportamenti sostenibili rafforzano una serie di conseguenze psicologiche positive che sono anch’esse indicatori di qualità della vita: soddisfazione, autoefficacia, motivazione intrinseca, benessere psicologico e ricreazione, felicità e piacere. Per tutte queste ragioni, la pratica di comportamenti sostenibili dovrebbe essere promossa dai programmi educativi e dalle politiche pubbliche e sociali.
2.4 La psicologia al servizio della sostenibilità Considerati gli aspetti teorici della sostenibilità in senso generale, il passo successivo consiste nell’analizzare le strategie messe in atto dalla psicologia al fine di promuovere e diffondere comportamenti sostenibili. È possibile dividere le strategie in due macro-categorie: strategie informative, che hanno lo scopo di diffondere la
Eisenberg N. e Miller P. A., “The relation of empathy to prosocial and related behaviors”, Psychological Bulletin, Vol. 94, 1987, pp. 100-131. 122 Corral-Verdugo V. et al., “Equity and sustainable lifestyles”, in Corral V., Garcìa C. e Frìas M. (a cura di), Psychological approaches to sustainability, Nova, New York, 2010. 123 Corral-Verdugo V. e Pinheiro J. Q., “Aproximaciones al estudio de la conducta sustentable”, cit. 124 Iwata O., “Some psychological determinants of environmentally responsible behavior”, The Human Science Research Bulletin of Osaka Shoin Women’s University, Vol. 1, 2002, pp. 31-41. 125 Knight J., “Social norms and the rule of law: Fostering trust in a socially diverse society”, in Cook K. S. (a cura di), Trust in society, Russell Sage, New York, 2001. 121
conoscenza sui temi ambientali; e strategie strutturali, volte a modificare il contesto nel quale gli individui agiscono al fine di rendere i comportamenti sostenibili più agevoli e radicati nelle abitudini del maggior numero possibile di persone, fino a renderli comuni nella nostra società. Quale che sia la strategia, o l’insieme di strategie, che emergono quali più efficaci, alcuni principi devono essere chiariti fin da subito affinché si possa davvero giungere a interventi decisivi. Qualsiasi intervento, infatti, deve essere pianificato con dovizia di particolari prima di essere implementato126. Prima di tutto, i comportamenti oggetto di ricondizionamento psicologico devono essere individuati sulla base della loro reale capacità di migliorare le condizioni dell’ambiente. L’impatto del rifiuto di utilizzare buste di plastica nei supermercati o nei negozi, per quanto positivo, è ben minore rispetto alla diffusione negli stessi supermercati di cibi prodotti localmente, e perciò questa seconda istanza dovrebbe essere promossa in maniera più decisa: in sostanza, un primo criterio è quello di privilegiare un’azione indirizzata ai comportamenti maggiormente impattanti sull’ambiente, in modo da distribuire gli sforzi ricondizionanti nella maniera più efficiente possibile127. In secondo luogo, ogni intervento deve essere ben radicato nella teoria. Ciò non è importante solo dal punto di vista pratico (strutturare interventi realmente efficaci) ma anche per sviluppare validi metodi di valutazione degli interventi. Infine, gli effetti degli interventi devono essere pensati appropriatamente per poter poi essere valutati. È necessario includere misurazioni del comportamento dei soggetti
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Steg L. e Vlek C., “Social science and environmental behavior”, cit. Steg L. e De Groot J. I. M. (a cura di), Environmental Psychology. An Introduction. 2 ed., cit.
considerati prima e dopo l’intervento, architettare test pre- e post-intervento, e includere gruppi di controllo per la validazione scientifica128.
2.4.1 Strategie informative Le principali strategie informative sono: fornitura di informazioni; definizione degli obiettivi; impegno; sollecitazione; feedback129. Fornire informazioni è una delle principali e più sfruttate strategie di cambiamento comportamentale, non soltanto in ambito ecologico. Si può distinguere tra due tipologie di informazioni: quelle che istruiscono sui reali problemi da cui è affetto l’ambiente e quelle rivolte a suggerire i corretti comportamenti da intraprendere per ovviare a tali problemi. La diffusione di una corretta informazione si fonda sull’assunto per il quale la maggioranza delle persone non ha davvero una conoscenza specifica dei reali problemi ambientali e della loro portata, né di quanto sarebbe necessario fare per risolverli 130. Gli studi fin qui condotti, tuttavia, mostrano la scarsa efficacia delle strategie basate unicamente sulla fornitura di informazioni131. Più efficaci sembrano essere le campagne di informazione su misura, espressione con la quale si indica la progettazione di campagne informative ritagliate su un preciso
Corral-Verdugo V. e Pinheiro J. Q., “Aproximaciones al estudio de la conducta sustentable”, cit. Abrahamse W. et al., “A review of intervention studies aimed at household energy conservation”, Journal of Environmental Psychology, Vol. 25, 2005, pp. 273-291. 130 Schultz P. W., “Knowledge, education, and household recycling: examining the knowledge‐deficit model of behavior change”, in Dietz T. e Stern P. (a cura di), New Tools for Environmental Protection, national Academy of Sciences, Washington DC, 2002, pp. 67-82. 131 Staats et al., “Communicating the greenhouse effect to the public: evaluation of a mass media campaign from a social dilemma perspective”, Journal of Environmental Management, Vol. 45, 1996, pp. 189-203. 128 129
target, che può essere una persona o un gruppo, sulla base delle sue caratteristiche individuali132. Altra strategia che risulta molto efficace è l’informazione trasmessa attraverso modelli. Con modello si intende l’esempio di altre persone che praticano il comportamento raccomandato; questa strategia si fonda sul modello della teoria dell’apprendimento sociale133 per la quale le persone apprendono il corretto comportamento da tenere nelle diverse situazioni osservando il comportamento altrui134. L’informazione normativa, invece, riporta informazioni sull’opinione o sul comportamento altrui. Si basa sulle intuizioni della teoria della norma sociale135. Anche l’informazione normativa ha un’efficacia significativa.
2.4.2 Definire gli obiettivi La teoria della definizione degli obiettivi afferma che il comportamento individuale è sempre rivolto al raggiungimento di un obiettivo specifico e che la previsione di un obiettivo desiderabile aumenta la motivazione a mantenere un determinato comportamento. Definire gli obiettivi è massimamente efficace quando essi sono altamente desiderabili e realistici136, oltre che formulati chiaramente e ottenibili in un periodo di tempo relativamente breve. La definizione degli obiettivi aumenta la propria efficacia quando è supportata da efficaci campagne informative. Di recente, agli obiettivi individuali si sono affiancati Abrahamse W. et al., “A review of intervention studies aimed at household energy conservation”, cit. Bandura A., Social Learning Theory, Prentice-Hall, New York, 1977. 134 Sussman R. e Gifford R., “Be the change you want to see. Modeling food composting in public places”, Environment and Behavior, Vol. 45, No 3, 2013, pp. 323-343. 135 Cialdini R. B., “Crafting normative messages to protect the environment”, Current Directions in Psychological Science, Vol. 12, 2003, pp. 105-109. 136 Locke E. A. e Latham G. P., A Theory of Goal Setting and Task Performance, Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1990. 132 133
obiettivi di gruppo, la cui maggiore efficacia è determinata dalla convergenza di quelle tipologie di apprendimento dei comportamenti che abbiamo citato poco sopra, relative all’imitazione di modelli e agli esempi sociali cui i singoli sono esposti137. Gli effetti della definizione degli obiettivi sono amplificati dall’aggiunta di intenzioni di attuazione, ovvero dettagliati piani di azione che definiscano il dove, il come e il quando un determinato obiettivo dev’essere conseguito138.
2.4.3 Impegno Un intervento informativo basato sull’impegno chiede al proprio target di firmare un patto nel quale si impegna (appunto) a cambiare il proprio comportamento. Questa tecnica si affianca solitamente alle strategie informative come la definizione di obiettivi, così come all’uso di incentivi139. Questo genere di strategie, tuttavia, sono altamente dispendiose in termini di tempo e risorse, per esempio nel caso in cui il target di riferimento debba essere contattato per apporre la firma, dopo essere stato informato, individuo per individuo. Quando poi si tratta di apporre la propria firma su qualcosa, fosse anche uno studio scientifico, la diffidenza delle persone tende a essere maggiore. Questo perché molto spesso coloro che non vogliono firmare, in realtà, avevano scarse intenzioni di cambiare realmente i propri comportamenti fin dal principio – queste considerazioni mettono in discussione, secondo alcuni, la reale efficacia di strategie fondate sull’impegno personale140.
Cialdini R. B., “Crafting normative messages to protect the environment”, cit. Schweiger Gallo I. e Gollowitzer P. M., “Implementation intentions: a look back at fifteen years of progress”, Psicothema, Vol. 19, 2007, pp. 37-42. 139 Matthies E. et al., “Applying a modified moral decision making model to change habitual car use: how can commitment be effective?”, Applied Psychology: An International Review, Vol. 55, 2006, pp. 91-106. 140 Ivi. 137 138
2.4.4 Sollecitazione La sollecitazione è una delle tecniche più antiche nell’ambito dell’interventismo comportamentale ecologico. Consiste nel diffondere un messaggio scritto, o un segno simbolico, che attrae l’attenzione su un comportamento specifico relativo a una data situazione. I cosidetti prompts (spunti, imbeccate), ad esempio, sono semplici promemoria che incoraggiano gli individui a comportarsi in un certo modo141. L’uso di questi strumenti ha senso nel momento in cui si dà per scontato che il target ha già assunto un atteggiamento positivo nei confronti del comportamento richiesto, o che comunque ha già intenzione di intraprenderlo e ne vede già gli effetti positivi su di sé e sull’ambiente. La loro funzione è dunque quella di evitare la ricaduta in un vecchio comportamento che, come si sa, richiede tempo e sforzo per essere completamente rimosso dagli automatismi quotidiani142. Comunque, gli strumenti della sollecitazione (spesso definiti nudge) sono stati ampiamente criticati con l’accusa di avere effetti molto deboli e di breve termine143.
2.4.5 Feedback Come è facile intuire, con feedback si intende la fornitura di informazioni sulla performance che segue l’adozione di comportamenti sostenibili: risparmio energetico, quantità di materiale riciclato, riduzione della produzione di plastica e rifiuti, etc. La sua efficacia risiede nel fatto che i feedback forniscono dati sul legame tra determinati risultati e i cambiamenti comportamentali che li hanno permessi144.
Sussman R. e Gifford R., “Be the change you want to see. Modeling food composting in public places”, cit. 142 Bell P. A. et al., Environmental Psychology. 5e, Harcourt College Publishers, Fort Worth, 2001. 143 Ivi. 144 Abrahamse W. et al., “A review of intervention studies aimed at household energy conservation”, Journal of Environmental Psychology, Vol. 25, 2005, pp. 273-291. 141
Sembra inoltre, da alcuni studi, che i feedback abbiano maggiore efficacia quando tarati e indirizzati al livello delle famiglie, specie su alcune tematiche, come quella del consumo energetico145. Per quanto utili, l’efficacia dei feedback per sè non è molto chiara, dato che essi sono sempre utilizzati in combinazione con altre strategie di cui abbiamo detto o che diremo più avanti146.
2.5 Rinforzo positivo e negativo Le strategie informative, pur nella loro varietà, hanno una portata e un’efficacia limitate147. Le persone spesso proseguono nei propri comportamenti abituali anche dopo avere compreso le loro conseguenze negative. Secondo l’analisi del comportamento applicata148 è necessario analizzare e alterare le conseguenze del comportamento. Secondo la teoria, le persone sono motivate dalla promessa di ciò che segue ai propri comportamenti149: tendiamo verso conseguenze positive e rifuggiamo conseguenze negative. Sulla base di questa semplice teoria si strutturano gli interventi di cambiamento dei comportamenti ambientali fondati sull’offerta di ricompense e punizioni. Se il comportamento è determinato dalle conseguenze attese, non meno importanti in questo quadro sono gli stimoli che l’ambiente invia a segnalare l’opportunità o la possibilità di conseguenze determinate. Questi stimoli sono detti “antecedenti” (o attivatori), poiché precedono la risposta comportamentale. Si configura così un modello
Asensio O. I. e Delmas M. A., “Nonprice incentives and energy conservation”, Proceedings of the National Academy of Sciences, Vol. 112, No 6, 2015, pp. E510-E515. 146 Abrahamse W. et al., “A review of intervention studies aimed at household energy conservation”, cit. 147 Bolderdijk J. W. et al., “Values determine the (in)effectiveness of informational interventions in promoting pro‐environmental behavior”, PLoS One, Vol. 8, No 12, 2013. 148 Geller E. S., “Actively caring for mother earth”, in Geller E. S. (a cura di), Applied Psychology: Actively Caring for People, Cambridge University Press, New York, 2016. 149 Skinner B. F., About Behaviorism, Appleton-Century-Crofts, New York, 1974. 145
detto ABC (antecedent-behavior-consequence), che forma la base di molti interventi indirizzati al cambiamento dei comportamenti ambientali. In questo quadro, è possibile agire su due direttrici: gli antecedenti, ovvero preannunciando la possibilità di conseguenze positive o negative; le conseguenze, ovvero introducendo ricompense o punizioni per i comportamenti positivi o negativi. Gli antecedenti che promettono conseguenze positive sono detti “incentivi”; viceversa, si parla di “disincentivi”150. Quando le conseguenze risultano in un aumento della frequenza, durata, o intensità del comportamento, si dice “rinforzo”. Al contrario, conseguenze punitive sono dette “punitori”. In generale, conseguenze positive a breve termine hanno maggiore efficacia di conseguenze distanti e incerte151. Ulteriore distinzione possibile è quella tra conseguenze “naturali” o “intrinseche”, che sono effetto del comportamento in sé (benessere fisico dopo aver fatto sport) e conseguenze “extra”, che sono invece il prodotto di sistemi di ricompensa o punizione sociali. Poiché alcuni comportamenti pro-ambientali sono anche dispendiosi, in termini di denaro, tempo, o fatica (riciclare, spostarsi in bici piuttosto che in automobile, etc.) gli psicologi ambientali (ma anche i legislatori, come nell’esempio della tassa sul gasolio) hanno nel tempo ideato ricompense o punizioni che si aggiungono a quelle intrinseche152. Stabilire quando e come aggiungere conseguenze extra è naturalmente la sfida degli psicologi. Poiché i comportamenti negativi per l’ambiente sono spesso percepiti dagli individui come positivi per sé stessi (il risparmio di tempo e fatiche che deriva
150
Steg L. e De Groot J. I. M. (a cura di), Environmental Psychology. An Introduction. 2 ed., cit. Geller E. S., “Actively caring for mother earth”, in Geller E. S. (a cura di), Applied Psychology: Actively Caring for People, Cambridge University Press, New York, 2016, pp. 594-623. 152 Steg L., “Can public transport compete with the private car?”, IATSS Research, Vol. 27, No 2, 2003, pp. 27-35. 151
dall’usare un’automobile ne è un esempio, appagante soprattutto se si tratta di una bella automobile), è importante giocare sulla motivazione: si parla infatti di intervento motivazionale153. In esso, si usano ricompense e punizioni per promuovere comportamenti sostenibili. In generale gli psicologi preferiscono usare ricompense piuttosto che punizioni, poiché queste ultime limitano la libertà d’azione delle persone (le punizioni rendono solitamente un dato comportamento più difficile da intraprendere), cosa che induce le persone a una resistenza psicologica154, e quindi a una reazione inversa rispetto a quella desiderata. Le ricompense possono essere tangibili (denaro) o intangibili (privilegi, riconoscimenti). Ricompense e punizioni monetarie possono avere una loro efficacia155, ma sono in generale rischiosi, in particolare perché ragionare solo in termini economici rischia di soffocare le motivazioni di tipo morale o sociale, la cui capacità di produrre effetti comportamentali durevoli è insostituibile156. È dunque solitamente preferibile ricorrere a ricompense di altro tipo, in particolare sembrano essere efficaci la lode, gli encomi, gli elogi, etc., anche se per essere realmente efficaci devono avvenire alla presenza di relazioni sociali significative (insegnanti, genitori, amici, propri pari, etc.)157.
Geller E. S., “The challenge of increasing proenvironmental behavior”, in Bechtel R. e Churchman A. (a cura di), Handbook of Environmental Psychology, Wiley, New York, 2002, pp. 541-553. 154 Brehm J. W., A Theory of Psychological Reactance, Academic Press, New York, 1966. 155 Van Vugt M., “Community identification moderating the impact of financial incentives in a natural social dilemma: water conservation”, Personality and Social Psychology Bulletin, Vol. 27, No 11, 2001, pp. 1440-1449. 156 Lindenberg S. e Steg L., “Normative, gain and hedonic goal frames guiding environmental behavior”, Journal of Social Issues, Vol. 65, No 1, 2007, pp. 117-137. 157 Geller E. S., “Actively caring for mother earth”, cit. 153
2.6 La tecnologia come strumento persuasivo La tecnologia può essere d’aiuto nel promuovere un uso sostenibile dell’ambiente e a fini di persuasione per indurre comportamenti desiderati. La “tecnologia persuasiva”158 mira a supportare l’attività psicologica per risolvere i problemi ambientali, intervenendo nelle interazioni utente-sistema che hanno conseguenze ambientali. È evidente, ad esempio, che le nostre scelte di mobilità dipendono tanto dalle nostre preferenze e dalla nostra comodità quanto dalla disponibilità di alternative nei trasporti. Tuttavia, la reale influenza della tecnologia sui comportamenti è spesso non intesa e soprattutto sconosciuta. Certamente la tecnologia ha da sempre un ruolo cardinale nella trasmissione e diffusione delle informazioni, e quindi anche per le strategie informative il suo uso non può essere ignorato: grazie alle tecnologie informatiche, la capacità persuasiva di certi messaggi, al giorno d’oggi, può giungere a risultati prima insperati159. La tecnologia persuasiva può essere utilizzata con varie funzioni: può sostituirsi a un attore sociale capace di stabilire relazioni che formino le basi dell’influenza sociale, può essere un medium che produce esperienze persuasive e può fornire strumenti che guidino o supportino certi comportamenti160. In qualità di attore sociale, la tecnologia persuasiva applica principi che gli umani usano per influenzare propri simili attraverso i meccanismi sociali dell’approvazione, del riferimento alle norme comuni o dell’imitazione. Le persone infatti reagiscono a sistemi
158
Fogg B. J., Persuasive Technology: Using Computers to Change What we Think and Do, Morgan Kaufman, San Francisco, 2003. 159 Ivi. 160 Ivi.
intelligenti come se fossero altri esseri umani161. Sistemi intelligenti possono, dunque, esercitare influenza sociale sulle persone. In quanto medium, la tecnologia persuasiva può indurre esperienze innovative, filtrando le esperienze del mondo e trasformando così le nostre percezioni, enfatizzando elementi a scapito di altri, con stimoli sensoriali sonori, visivi, olfattivi, etc., e quindi richiamando l’attenzione su questioni anche distanti dalla realtà delle persone cui si rivolge162. In qualità di strumento, invece, la tecnologia può fornire importanti incentivi ad adottare determinati comportamenti rendendoli molto meno dispendiosi, in termini di tempo e denaro, rispetto a quanto non sarebbero senza. Comprare cibo organico con un click su internet, rispetto a recarsi in negozio o al supermercato relativo, è un’evidente incentivo a farlo più spesso. Oltre a questo, la tecnologia può essere molto utile nel costruire informazioni su misura per ogni utente o gruppi di utenti; i sistemi persuasivi, peraltro, possono essere usati per implementare schemi di apprendimento che rinforzano sistematicamente comportamenti desiderabili, per esempio tramite giochi simulativi. Altra funzione utile della tecnologia è la provisione di feedback sulle conseguenze dei comportamenti e, infine, attivare le risorse sociali dei gruppi.
2.7 L’intersezione tra economia e morale Il paradigma sociale dominante pone l’individuo e la sua libera autoaffermazione attraverso il profitto economico al centro dell’indagine sulla giustizia e sui diritti umani
161
Reeves B. e Nass C., The Media Equation: How People Treat Computers, Television, and New Media like Real People and Places, Cambridge University Press, New York, 1996. 162 Verbeek P. e Slob A., “Analyzing the relations between technologies and user behaviour: toward a conceptual framework”, Verbeek P. e Slob A. (a cura di), User Behaviour and Technology Development, Springer, Dordrecht, 2006, 385-399.
inalienabili. L’homo oeconomicus moderno è mosso unicamente dal proprio interesse egoistico, e perciò organizzare un qualsiasi genere di azione cooperativa volta a un vantaggio comune che vada anche a scapito dell’interesse immediato dei singoli che vi partecipano è non soltanto ingiusto, ma persino controproducente. Questo paradigma, nonostante la sua capacità descrittiva ed euristica sotto molteplici aspetti, è da un lato il principale artefice del disastro ambientale apparentemente irreversibile dal quale siamo coinvolti e, dall’altro, parziale nelle proprie conclusioni. È, in qualche modo, il prodotto di una volontà di trovare a tutti i costi, nei fenomeni osservati, risposte di comodo (a coloro che ci guadagnano) che si vogliono trovare prima ancora di condurre l’indagine. Se si osserva il mondo e la sua distribuzione delle risorse (e della loro consunzione), è facile comprendere come questi fantomatici diritti di sfruttamento e di arricchimento sono privilegi di pochi, mentre le conseguenze sociali sono quasi sempre sulle spalle di chi li subisce, senza goderne i frutti. I comportamenti sostenibili non possono sostenersi unicamente su considerazioni di tipo economico, e questo è evidente. Le evidenze empiriche, perdipiù, suggeriscono come non sia vero che le persone tendano sempre e soltanto a cercare il proprio vantaggio: perlomeno, non soltanto quello economico163. Consumatori che fossero unicamente interessati al proprio guadagno non si impegnerebbero a riciclare, comprare prodotti biologici a kilometro 0, utilizzare i mezzi o le biciclette invece delle automobili, raccogliere la plastica dalle spiagge, etc. Come abbiamo visto, infatti, i comportamenti umani sono mossi da tanti fattori non economici, in particolare i fattori sociali e quelli morali. Sono numerosi i paradigmi
Turaga R. M. R. et al., “Pro-environmental behavior. Rational choice meets moral motivation”, Ecological Economics Reviews, Annals of the New York Academy of Sciences, 2010, pp. 211-224. 163
psicologici che fanno risalire i comportamenti ambientali a strutturali categorie morali, emotive e sociali, che nulla hanno a che fare con il guadagno personale, se non quello della soddisfazione per aver rispettato valori cui viene data un’importanza identitaria164. Come già detto, i comportamenti pro-ambientali sono più comuni tra le persone i cui valori sono orientati socialmente e altruistici, e questo è un semplice dato di osservazione. Stanti così le cose, è proprio la trasmissione di questo genere di valori la migliore strategia da implementare per diffondere comportamenti sostenibili. Le strategie market-oriented sono fallimentari nel medio-lungo termine, e dovrebbero essere considerate come dei puntelli posti a sorreggere schemi di comportamento fondati anzitutto su principi di tipo sociale, ecologico, comunitario. Informare su pericoli e conseguenze, sui rischi e sui possibili guadagni di certi approcci piuttosto che altri in ambito ambientale serve a poco nel momento in cui le considerazioni da cui si osserva il mondo hanno basi utilitaristiche o personalistiche165. In ultima analisi, nessun intervento sui comportamenti ambientali sostenibili può essere efficace se la teoria e la pratica non uniscono considerazioni economiche, psicologiche ed etiche. Questa consapevolezza si oppone alla semplicistica visione dell’umanità offerta dal modello dell’homo oeconomicus, le cui radici culturali e speculative cominciano a rivelarsi obsolete nella realtà che viviamo. Interventi realmente efficaci devono quindi fondarsi anzitutto su un vero e proprio cambio di paradigma: per cambiare i comportamenti è necessario prima cambiare ciò in
Stern P. C. et al., “Values, beliefs, and proenvironmental action: attitude formation toward emergent attitude objects”, Journal of Applied Social Psychology, Vol. 25, pp. 1611-1636. 165 Brekke K. A. et al., “An economic model of moral motivation”, Journal of Public Economy, Vol. 87, 2003, pp. 1967-1983. 164
cui la gente crede166. Ciò non è per dire che gli incentivi o i disincentivi non siano comunque strumenti imprescindibili: come già detto, non tutto il quadro analitico dell’homo oeconomicus è fuori fuoco, semplicemente è insufficiente per dar conto della complessità dei rapporti tra gli individui e, psicologicamente, dentro gli individui stessi. Educazione, informazione, incentivi economici, sono tutti strumenti complementari e utili, e quindi nessuno di questi dev’essere trascurato. Le credenze più rilevanti fanno riferimento alle catastrofiche conseguenze del disastro ambientale, la responsabilità personale e i valori sono a loro volta responsabili di una presa di coscienza del proprio ruolo non soltanto nella propria vita, ma anche nella vita del pianeta e degli altri uomini.
Schwartz S. H., “Elicitation of moral obligation and self-sacrificing behavior: an experimental study of volunteering to be a bone marrow donor”, Journal of Personal Sociology and Psychology, Vol. 15, 1970, pp. 283-293. 166
Capitolo 3: Lo spazio urbano
Dal punto di vista della psicologia, le città possono essere considerate come fonti di comportamenti e opportunità esperienziali che altri ambienti non offrono167. Le forme urbane che informano i comportamenti individuali e dei gruppi sono influenzate dall’architettura delle città secondo diversi livelli concentrici solitamente divisi in tre macro-aree: livello metropolitano, livello quartiere e livello pedestre168. Abbiamo già visto come lo spazio urbano, la sua struttura e la sua funzione influisca in maniera determinante sul comportamento degli individui, sulle atmosfere emotive e sul loro benessere; osservare questi effetti su diverse scale è importante, dato che le moderne teorie della spazio ne fanno una questione primaria169. In questo schema, lo spazio è concepito come elaborazione culturale che lo rende “luogo” in conseguenza dell’uso che le persone ne fanno. Lo spazio è culturale e non geometrico, e assume diverso valore per gli individui secondo le diverse scale di prossimità, dai luoghi più vicini e maggiormente frequentati a quelli più distanti, in ossequio alla tendenza naturale a stringere legami significativi e personalizzati con lo spazio e i suoi elementi più prossimi. La disciplina dell’architettura urbana emerge come branca del sapere indipendente a metà del XX secolo, contenendo però già in sé i semi del proprio distaccamento dall’architettura moderna stessa170. La crescita parallela di discipline quali l’etologia, la psicologia, la psicologia ambientale e l’antropologia urbana, sospinsero l’evoluzione
167
Fleury-Bahi G., Pol E. e Navarro O. (a cura di), Handbook of Environmental Psychology and Quality of Life Research, cit. 168 Clifton K. et al., “Quantitative analysis of urban form: A multidisciplinary review”, Journal of Urbanism, Vol. 1, No 1, 2208, pp. 17-45; Lehrer J., A physicist [solves] the city, New York Times, 2010. 169 Hall T., The hidden dimension, Doubleday, New York, 1966. 170 Mumford E., Defining urban design: CIAM architects and the formation of a discipline, 1937–69, Yale University Press, New Heaven, 2009.
dell’architettura urbana verso un’area molto più complessa, ispirata dal desiderio di comprendere la relazione tra persone e spazio, e guidata da una fondamentale consapevolezza: l’organizzazione e la strutturazione dello spazio urbano impattano in maniera decisiva sulla qualità della vita e sui comportamenti dei suoi abitanti171. Il design urbano è oggigiorno considerata una disciplina ibrida172, che studia e modella le città come sistemi complessi e organizzati di persone, spazi e connessioni173, lavora nel passato, nel presente e nel futuro, e tratta con individui, gruppi e la società nel suo insieme174. I suoi obiettivi sono efficienza e soddisfazione, che intende raggiungere attraverso un processo di creazione di luoghi migliori per le persone rispetto a quanto sarebbe possibile ottenere con metodi alternativi175. In queste definizioni rientra la consapevolezza che i luoghi cambiano nel tempo, a prescindere dalla programmazione iniziale, per cui l’evoluzione urbana è un principio fondativo della disciplina. Il design urbano si occupa di strutture e valori al fine di offrire esperienze ricche e coerenti176. Determina la nostra interfaccia col mondo esterno, modula le nostre interazioni con gli altri, il nostro accesso alle scelte e i nostri legami con lo spazio. Inoltre, si occupa di veicolare una forma urbana, su scale diverse177.
Porta S. e Romice O., “Plot-based urbanism: Towards time-consciousness in place-making”, in Mackler C. e Sonne W. (a cura di), New civic art: Dortmunder lectures on civic art, Vol. 4, Niggli, Sulgen, 2014, pp. 82-111. 172 Carmona M., “Investigating urban design”, in Carmona M. (a cura di), Explorations in urban design, Ashgate, Surrey, 2014, pp. 1-11. 173 Cowan R. et al., The dictionary of urbanism. Vol. 67, Streetwise Press, Tisbury, 2005. 174 Krier L., The architecture of community, Island Press, Washington D.C., 2009. 175 Carmona M., “Investigating urban design”, cit. 176 Cowan R. et al., The dictionary of urbanism. Vol. 67, cit. 177 Krier L., The architecture of community, cit. 171
3.1 Design urbano e qualità della vita L’organizzazione spaziale della città è un fattore determinante nell’effettiva capacità di garantire un livello di qualità della vita elevato178. Dal punto di vista dell’analisi, la qualità della vita in ambienti urbani può essere divisa sotto il profilo della scala (metropolitana, quartiere e pedestre) e della dimensione (benessere materiale, sviluppo emotivo e personale, relazioni interpersonali, benessere fisico).
3.1.1 La scala metropolitana Su scala metropolitana, la qualità della vita degli abitanti urbani è determinata dalle modalità con cui servizi e strutture sono distribuiti e dalle infrastrutture che ne garantiscono l’ottimizzazione179. Una distribuzione ottimale dipende da un livello di accessibilità quanto più inclusivo possibile, assicurando che ciò di cui le persone hanno bisogno per la propria vita quotidiana sia raggiungibile con facilità e nella maniera più sostenibile possibile180. Ciò si sostanzia in modelli di distribuzione e connettività opposti a quelli delle zone specializzate e funzionaliste, associate ad approcci di pianificazione urbana moderni che favoriscano la creazione di un mosaico di centri molteplici con usi diversi e misti181. La connettività all’interno e attraverso questi centri multipli richiede infrastrutture di trasporto pubblico urbano capaci di sostituire l’attuale prevalenza del trasporto privato a mezzo automobile. Per mantenere e migliorare le dimensioni fisiche della qualità della
178
Montgomery C., Happy City: Transforming our lives through urban design, Macmillan, Doubleday, 2013. 179 Bettencourt L. M. et al., “Urban scaling and its deviations: Revealing the structure of wealth, innovation and crime across cities”, PLoS One, Vol. 5, No 11, 2010. 180 Montgomery C., Happy City: Transforming our lives through urban design, cit. 181 Gehl J., Cities for people, Island Press, Washington DC, 2010.
vita, ciò dovrà realizzarsi insieme a iniziative di maggiori livelli di pedonabilità all’interno degli spazi urbani, insieme a radicali ripensamenti sulla pianificazione e la distribuzione di reti di spazi aperti verdi182. La disciplina del design urbano ha sviluppato nel tempo molteplici modelli finalizzati a produrre questo genere di risultati, con capacità predittive delle tendenze di crescita e sviluppo più realistici e affidabili rispetto al passato183.
3.1.2 La scala quartiere Il quartiere (o vicinato) identifica agglomerati sociali nei quali l’interazione fra i relativi membri sono più probabili e più intimi rispetto a quelli rivolto al loro esterno. Le dinamiche tra i cosiddetti “spazi di flusso” e “spazi dei luoghi” nella società-rete del nostro tempo rivelano ancora una volta l’importanza della forma locale e delle funzioni dei luoghi184, dove l’economia creativa diventa sempre più dipendente dalle interazioni faccia a faccia per generare innovazione, attrarre capitale umano e prosperare. Ragionando su questa scala, la pianificazione urbana si scontra con le difficoltà sollevate dalla dicotomia tra quanto richiesto dai fornitori di servizi professionali di pianificazione e architettura urbani e quanto è invece richiesto dagli abitanti dei rispettivi quartieri, sotto il profilo individuale e collettivo185. Sotto questo punto di vista, la disciplina della psicologia ambientale considera importante potenziare l’attenzione verso
182
Krier L., The architecture of community, cit. Porta S. et al., “Networks in urban design. Six years of research in multiple centrality assessment”, in Estrada E. et al. (a cura di), Network science, Springer, Londra, 2010, pp. 107-129. 184 Castells M., The information age: Economy, society and culture: the rise of the network society, WileyBlackwell, Oxford, 2000. 185 Porta S. e Romice O., “Plot-based urbanism: Towards time-consciousness in place-making”, in Mackler C. e Sonne W. (a cura di), New civic art: Dortmunder lectures on civic art, Vol. 4, Niggli, Sulgen, 2014, pp. 82-111. 183
quello che Habraken chiama “luogo”186, ancora di più rispetto alla scala metropolitana, cioè l’iniziativa dal basso nella gestione e nell’ideazione dello spazio e della sua funzionalità, affidata a coloro che dovranno poi occuparlo realmente. A questo livello, infatti, la qualità della vita dipende in larga misura dalla capacità delle persone di sperimentare un senso di appartenenza, sicurezza e associazione con gli altri membri dell’agglomerato sociale187. È anche importante distinguere un senso di ambiente condiviso e rispettato inteso come patria, per il quale gli individui sviluppino un senso di responsabilità collettiva quando si tratta di sostenere investimenti che siano sostenibili così come rilevanti per il mantenimento e l’accrescimento del benessere e delle relazioni interpersonali188. Il compito del design urbano in questa scala è la provisione di servizi e strutture rilevanti al fine di stabilire e sostenere un senso di vicinato, attraverso la creazione di risorse pubbliche significative, come spazi aperti verdi, negozi e altre strutture comunitarie189. Deve inoltre far sì che esse siano accessibili, definite con chiarezza, e suscettibili di sorveglianza naturale, e che possano incoraggiare la diversità sociale e l’interazione con membri di altre comunità, al fine di rendere l’economia locale vitale senza disperdere i segni identitari e l’appartenenza dei locali190. La territorialità è molto importante al livello del quartiere, dev’essere esperita e costruita su un range di scale
186
Habraken N. J., The structure of the ordinary: Form and control in the built environment, MIT Press, Cambridge, 1998. 187 Frank K. A. e Stevens Q. (a cura di), Loose space: Possibility and diversity in urban life, Routledge, Londra, 2007. 188 Bosselmann P., Urban transformation: Understanding city design and form, Island Press, Washington DC, 2008. 189 Frank K. A. e Stevens Q. (a cura di), Loose space: Possibility and diversity in urban life, cit. 190 Jacobs B., Great streets, MIT Press, Cambridge, 1993.
differenti, dalla consapevolezza dell’intero vicinato fino all’individuazione e alla protezione di persone e famiglie al suo interno191.
3.1.3 La scala pedestre E’ questa la scala più rilevante per la vita quotidiana dei singoli individui. Gli spazi cittadini nella scala pedestre sono intrinsecamente intrecciati con il funzionamento degli umani e i processi sociali sotto il profilo individuale e collettivo192. Oltre all’organizzazione spaziale, al livello pedestre le persone necessitano di un certo controllo su cosa fanno e dove per accedere a esperienze benefiche nei contesti urbani. Per questa ragione, è al livello pedestre che l’accesso a spazi aperti e alla loro funzionalizzazione dev’essere maggiormente affidato a coloro che li vivono piuttosto che ai professionisti del design urbano. Qui l’architettura prescrittiva deve lasciare posto a processi di occupazione, controllo e adattamento da parte degli abitanti, in modo che questi ultimi abbiano il più alto grado di influenza sulle modalità con cui l’ambiente urbano viene strutturato193. In sostanza, nella scala pedestre la qualità della vita è connessa alla nostra capacità di contribuire e partecipare alla determinazione dell’identità, del carattere e della funzionalità dello spazio che usiamo. Il senso di controllo sullo spazio è, nella scala pedestre, fondamentale: partecipare alla sua creazione, all’uso e all’adattamento, piuttosto che subire passivamente le scelte dei professionisti del design194. Al livello pedestre i confini tra dimensioni sociali e spaziali del reame urbano diventano più confusi, e la
Porta S. et al., “Networks in urban design. Six years of research in multiple centrality assessment”, cit. Gehl J., Cities for people, cit. 193 Fleury-Bahi G., Pol E. e Navarro O. (a cura di), Handbook of Environmental Psychology and Quality of Life Research, cit. 194 Habraken N. J., The structure of the ordinary: Form and control in the built environment, cit. 191 192
priorità della progettazione urbanistica si sposta dal “cosa fare” al “cosa non fare” 195. Si tratta di una sfida complessa, poiché è comunque necessario garantire alcune caratteristiche spaziali identificabili affinché il potere di autodeterminazione sia in linea con i risultati desiderati in termini di qualità della vita; allo stesso tempo, un eccesso di controllo esterno o esercitato dall’altro rischia di ottenere risultati contrari, soffocando l’autoespressione, l’autoorganizzazione e l’espressione personale, tutte caratteristiche fondamentali al fine di far emergere un senso di identità nei gruppi sociali e, di conseguenza, di autostima e riconoscimento reciproco196.
3.2 Architettura residenziale e qualità della vita L’architettura residenziale è ovviamente parte della dimensione urbana di cui si occupa la psicologia ambientale, ed è strettamente legata alla promozione della qualità della vita197. La soddisfazione residenziale è un indicatore del benessere198. L’ambiente residenziale deve essere inteso in senso ampio. Non si tratta soltanto della casa, quindi dell’edificio, ma anche dell’ambiente che lo circonda, sia fisico sia sociale, la sua collocazione nel comune di appartenenza e dove i residenti tendono a passare il proprio tempo durante le loro attività quotidiane199: casa, vicinato e vicini sono i tre elementi che entrano in gioco nell’analisi della soddisfazione abitativa delle persone e delle famiglie.
195
Frank K. A. e Stevens Q. (a cura di), Loose space: Possibility and diversity in urban life, cit. Bosselmann P., Urban transformation: Understanding city design and form, cit. 197 Marans R. W. e Stimson J. S. (a cura di), Investigating quality of urban life: Theory, methods, and empirical research, Springer, Dordrecht, 2011. 198 Gehl J., Cities for people, cit. 199 Bosselmann P., Urban transformation: Understanding city design and form, cit. 196
La casa è senza dubbio il centro nevralgico da cui si irradia il resto degli elementi che compono la qualità abitativa. È essa il luogo più frequentato e più significativo vissuto dalle persone al di fuori dell’orario di lavoro o scolastico, che sia al suo interno o nelle sue vicinanze. La letteratura si è, in generale, impegnata molto più sul fronte del vicinato che su quello della struttura abitativa in sé, ponendo grande attenzione soprattutto alla multi-dimensionalità del fenomeno residenziale200. La casa è l’ambiente primario più immediato, stabile, prevedibile e controllabile201, attorno al quale si organizzano le attività degli individui. Inoltre, le sue funzioni primarie (fornire riparo, sicurezza, protezione), psicologiche (identità, senso) e sociali (determina uno spazio privato personale e uno di incontro, è luogo di accoglienza e di condivisione dell’intimità, etc.) rendono la casa un luogo che dà significato, orientamento e cura di sé e dei familiari, contribuendo enormente all’autoaffermazione e al benessere. Vi sono poi aspetti socio-culturali legati alla casa, che rimandano agli stili di vita tipici delle diverse culture considerate, perciò essa si configura come un’unità con un chiaro carattere sociale202, una manifestazione fisica della cultura cui appartiene. Gli aspetti culturali e sociali che influenzano l’architettura fisica delle case sono ovviamente importanti fattori da indagare per la psicologia ambientale sul tema residenziale. Il vicinato è l’unità più basilare del medium urbano, in cui si producono numerose relazioni sociali e che determina molto della soddisfazione abitativa dei suoi residenti203. Definire esattamente cosa rientri nella nozione di vicinato è complesso, per la psicologia 200
Fleury-Bahi G., Pol E. e Navarro O. (a cura di), Handbook of Environmental Psychology and Quality of Life Research, cit. 201 Tognoli J., “Residential environments”, in Stokols D. e Altman I. (a cura di), Handbook of environmental psychology, Vol. 1, Wiley, New York, 1987, pp. 655-690. 202 Altman A. e Chemers M. M., Culture and environment, Brooks/Cole Publishing Company, Monterey, 1980. 203 Hur M. e Morrow-Jones H., “Factors that influence residents’ satisfaction with neighborhoods”, Environment and Behavior, Vol. 40, 2008, pp. 619-635.
ambientale, soprattutto se si deve sottoporre la questione allo studio empirico dei dati204. La ricerca oscilla tendenzialmente tra le definizioni di macro-vicinato e micro-vicinato, aree di grandezza intermedia vicine alla casa dove si trovano le strutture di scambio di beni e servizi e si intessono relazioni sociali205. La casa e il suo vicinato sono concepibili come un sistema, un insieme di elementi urbani interrelati tra loro. La strada non è dunque una struttura formata da un insieme di edifici allineati, ma piuttosto si configura sulla base delle funzioni degli elementi che vengono attivati in essa. La presenza di un edificio con una specifica destinazione (cinema, ristorante, etc.) producono un insieme di comportamenti che si dipana sulle strade che le danno un significato unitario e sono distinguibili206. Le caratteristiche fisiche, economiche e sociali del vicinato influenzano la soddisfazione residenziale207. La ricerca si è comunque concentrata poco sugli aspetti fisici, nonostante alcuni studi abbiano mostrato la sua importanza per la soddisfazione abitativa e l’incremento della qualità della vita208. Una variabile importante è il tempo di residenza: i nuovi residenti di un’abitazione, in relazione al vicinato, daranno maggiore peso all’aspetto fisico del quartiere, insieme all’adeguatezza dei servizi pubblici, all’accessibilità agli stessi, alla qualità dell’aria e all’attrattiva generica della zona. I residenti da lungo tempo, invece, sono più propensi a valutare questioni come i fattori di stress tipici del proprio vicinato, l’occupazione lavorativa, la presenza di strutture sanitarie raggiungibili facilmente, il traffico, la pulizia, etc.209 204
Altman A. e Chemers M. M., Culture and environment, cit. Tognoli J., “Residential environments”, cit. 206 Hur M. e Morrow-Jones H., “Factors that influence residents’ satisfaction with neighborhoods”, cit. 207 Sirgy M. J. e Cornwell T., “How neighborhood features affect quality of life”, Social Indicators Research, Vol. 59, 2002, pp. 79-114. 208 Hur M. e Morrow-Jones H., “Factors that influence residents’ satisfaction with neighborhoods”, cit. 209 Potter J. e Cantarero R., “How does increasing population and diversity affect resident satisfaction? A small community case study”, Environment and Behavior, Vol. 38, pp. 605-625. 205
Il vicinato è inoltre il luogo per eccellenza della socializzazione, nel quale si produce senso di appartenenza e, in senso esteso, di “casa” e “famiglia”210. Le principali componenti di questa socializzazione sono la frequenza delle interazioni, il senso d’identità dovuto all’appartenenza abitativa a un quartiere, e il numero di connessioni col mondo esterno211. I vicini sono l’ultimo elemento del trittico del vicinato: chiaramente l’aspetto maggiormente interessato dalla dimensione sociale. Vi è una relazione che va dalla prossimità tra i vicini al senso di comunità che si viene a creare. La prossimità può essere fisica o funzionale: la prima è facilmente intuibile, la seconda fa riferimento alle probabilità di incontro e interazione nel vicinato. Entrambe possono influire sulle probabilità di sviluppare amicizie, con la seconda maggiormente impattante212. Le caratteristiche dell’ambiente residenziale influenzano le relazioni tra vicini, ovviamente, che possono essere facilitanti o respingenti. Il senso di comunità, invece, è importante nella nascita di relazioni di vicinato e in qualche modo va aldilà della soddisfazione abitativa, ed è influenzato da fattori psicologici e morali non dissimili da quelli che caratterizzano l’appartenenza a un’etnia o a una nazione213. In ultima analisi, la soddisfazione residenziale è considerabile un risultato emotivo, una risposta emotiva o una conseguenza di natura positiva che emerge dalla comparazione fra l’ambiente residenziale e la situazione del soggetto, in un processo ciclico e dinamico in cui il soggetto si adatta a una specifica situazione abitativa214.
Fried M., “The neighborhood in metropolitan life: Its psychological significance”, in Taylor R. B. (a cura di), Urban neighborhoods. Research and policy, Praeger, New York, 331-363. 211 Ibidem. 212 Altman A. e Chemers M. M., Culture and environment, cit. 213 Hur M. e Morrow-Jones H., “Factors that influence residents’ satisfaction with neighborhoods”, cit. 214 Fleury-Bahi G., Pol E. e Navarro O. (a cura di), Handbook of Environmental Psychology and Quality of Life Research, cit. 210
3.3 Ambiente lavorativo e istituzionale L’ultimo fattore dell’analisi sulla psicologia ambientale urbana che affronteremo si occupa dell’ambiente lavorativo come luogo di frequentazione quotidiana da parte degli individui che influenza, evidentemente, il benessere e la qualità della vita di ciascuno. La qualità della vita è influenzata dalla qualità del lavoro, a sua volta influenzato dalla qualità dell’ambiente lavorativo. Non si tratta soltanto della soddisfazione verso il proprio lavoro o della felicità lavorativa, ma il contesto più ampio verso il quale il lavoratore esprime un giudizio di valore sull’ambiente lavorativo215. La qualità della vita lavorativa è una sotto-categoria della qualità della vita il cui studio prosegue sin dagli anni Settanta, e si preoccupa delle diverse dimensioni della soddisfazione lavorativa che hanno a che fare con gli obiettivi, i desideri, le aspettative e i bisogni dei lavoratori216. È una filosofia o un insieme di principi che considerano il lavoratore la risorsa più importante e significativa in un’impresa o istituzione, che dev’essere trattato con dignità e rispetto217. La qualità della vita lavorativa combina fattori tangibili come la soddisfazione lavorativa, il salario, le relazioni con i colleghi e i capi, e fattori intangibili, come la soddisfazione generale dell’individuo e la sensazione di benessere218. Sono stati individuati otto fattori che influenzano la qualità della vita lavorativa: salario dignitoso, salute e sicurezza, sviluppo personale, crescita e continuità lavorativa,
215
Varghese S. e Jayan C., Quality of work life: A dynamic multidimensional construct at work place– part II, Guru Journal of Behavioral and Social Science, Vol. 1, No 2, 2013, pp. 91-104. 216 Fleury-Bahi G., Pol E. e Navarro O. (a cura di), Handbook of Environmental Psychology and Quality of Life Research, cit. 217 Straw R. J. e Heckscher C. C., “New working relationships in the communication industry”, Labor Studies Journal, Vol. 9, 1984, pp. 261-274. 218 Danna K. E Griffin R. W., “Health and wellbeing in the workplace: A review and synthesis of the Literature”, Journal of Management, Vol. 25, 1999, pp. 357-384.
integrazione sociale, costituzionalismo, spazio vitale e rilevanza sociale219. I bisogni lavorativi includono: requisiti relativi alle competenze, ambiente lavorativo, atteggiamento dei supervisori, programmi ancillari e impegno organizzativo; questi bisogni possono essere soddisfatti attraverso l’impiego di risorse, attività e partecipazione220. Negli studi più recenti, inoltre, si è cominciato a dare peso e valore anche agli aspetti fisici dei luoghi di lavoro e a come influenzano soddisfazione e produttività dei lavoratori221. I bisogni spaziali sul luogo di lavoro sono espressi dai concetti di abitabilità e conforto funzionale, con i quali è possibile creare una classifica della qualità dello spazio lavorativo. Il conforto funzionale si fonda sull’abitabilità che connette edifici e strutture con gli utenti, e i bisogni degli occupanti con l’ambiente lavorativo. L’abitabilità è un concetto relativo che è soggetto a variazione culturale, e si valuta su tre categorie: salute e sicurezza, funzionalità, conforto psicologico222. Aspetti dell’ambiente lavorativo che ingluenzano la sua qualità della vita sono la tipologia di lavoro o compito, le condizione fisiche (come la struttura dell’edificio o degli uffici), i materiali e la tecnologia implementati, aspetti economici e sociali (politiche amministrative e legami con colleghi, clienti e vicinato)223. Scarsa qualità della vita lavorativa produce stress sul luogo di lavoro, che sfocia in alta incidenza di insonnia, ansia, depressione, insoddisfazione lavorativa, minore
219
Ibidem. Sirgy M. J. et al., “A new measure of quality of work life (QoWL) based on need satisfaction and spillover theories”, Social Indicators Research, Vol. 55, 2001, pp. 241-302. 221 Cummings T. G. e Worley C. G., Organization development and change, Thomson/South-Western, Mason, 2005. 222 Sheel S. et al., “Quality of work life, employee performance and career growth opportunities: A literature review”, International Journal of Multidisciplinary Research, Vol. 2, No 2, 2012, pp. 291-300. 223 Sirgy M. J. et al., “A new measure of quality of work life (QoWL) based on need satisfaction and spillover theories”, cit. 220
impegno organizzativo, produttività ridotta, assenteismo, etc.224 Un modo per ridurre lo stress lavorativo è garantendo più controllo ambientale agli occupanti225, e ciò può essere ottenuto con mezzi meccanici e strumentali, come cambiare le luci, organizzare la mobilia, i termostati, oppure con mezzi psicologico-sociali, come l’accesso alle informazioni sulle decisioni che riguardano il posto di lavoro, e partecipazione sulla sua organizzazione e pianificazione. Questo conduce a ciò che viene chiamato potenziamento ambientale e contribuisce al benessere dei lavoratori226. D’altra parte, sono dimostrati gli effetti positivi sulla produttività e sul morale dei lavoratori che derivano dall’occupare un posto di lavoro in cui condizioni ambientali come l’illuminazione, la temperatura e i suoni, così come la comodità della mobilia, i dettagli architettonici ed estetici, vengono concepite avendo in mente le loro finalità operative. Qualità della luce, ventilazione, accesso a luce naturale e ambiente acustico influenzano la soddisfazione dei lavoratori e la loro produttività227. Anche gli elementi naturali, come una vista su un’area verde o la presenza di piante hanno influenza positiva228. Gli studi sull’attaccamento allo spazio di lavoro, che rientra nella categoria, molto studiata dalla psicologia ambientale, dell’attaccamento ai luoghi in generale, è stato
Woo J. M. e Postolache T. T., “The impact of work environment on mood disorders and suicide: Evidence and implications”, International Journal on Disability and Human Development, Vol. 7, No 2, 2008, pp. 185-200. 225 Sirgy M. J. et al., “A new measure of quality of work life (QoWL) based on need satisfaction and spillover theories”, cit. 226 Vischer J. C. e Malkoski K., The power of workspace for business and people, Schiavello, Melbourne, 2015. 227 Humbphreys M., “Quantifying occupant comfort: Are combined indices of the indoor environment practicable?”, Building Research and Information, Vol. 33, No 4, 2005, pp. 317-325. 228 Woo J. M. e Postolache T. T., “The impact of work environment on mood disorders and suicide: Evidence and implications”, cit. 224
indagato a fondo dagli studiosi ma resta ancora piuttosto nebuloso229. In sostanza, si tratta di un atteggiamento, un concetto tridimensionale che incorpora le dimensioni affettiva, cognitiva e comportamentale230. Il concetto di attaccamento ai luoghi è studiato in relazione al tipo di posto, in particolare la casa, il quartiere, la città, le aree naturali e selvagge231. Stando alle ricerche, i luoghi che suscitano maggiore attaccamento al luogo di lavori sono quelli che lasciano spazio a opportunità di socializzazione informali, rispetto a quelli maggiormente concentrati sulle relazioni puramente lavorative232. Così come per la qualità della vita lavorativa in genere, anche per l’attaccamento la possibilità di personalizzare lo spazio è correlata positiviamente. L’attaccamento emotivo al proprio posto di lavoro è beneficiato dalla possibilità di decorarlo o modificarlo secondo il proprio gusto personale, a prescindere dal tipo di lavoro e di posto233. Dal punto di vista del management, le ricerche della psicologia ambientale sul posto di lavoro dimostrano come gli effetti dello spazio lavorativo sui suoi occupanti è radicato nella teoria e dev’essere concepito avendola bene in mente, se si vuole ottenere risultati positivi sotto il profilo dell’attaccamento, della soddisfazione lavorativa e della produttività. È necessario cercare un bilanciamento nuovo tra i fattori che hanno effetti positivi su queste dimensioni e fattori che hanno effetti negativi ma appaiono necessari al fine della produzione, stando attenti al punto di vista dei lavoratori individuali, ma anche Morgan P., “Towards a developmental theory of place attachment”, Journal of Environmental Psychology, Vol. 30, No 1, 2010, pp. 11-22. 230 Aronson E. et al., Social Psychology. 5th edition, Pearson Education International, Upper Saddle River, 2005. 231 Lewicka M., “Place attachment: How far have we come in the last 40 years?”, Journal of Environmental Psychology, Vol. 31, No 3, 2011, pp. 207-230. 232 Aronson E. et al., Social Psychology. 5th edition, cit. 233 Lewicka M., “Place attachment: How far have we come in the last 40 years?”, cit. 229
ai modi in cui ciò si riflette sui gruppi e sull’impresa in generale. Lo scopo è prevenire, piuttosto che risolvere, i conflitti che emergono a causa di un’ambiente stressante. La ricerca del comfort per i lavoratori è una risposta ai rischi occupazionali sulla sfera psicosociale, che è tra i punti che l’Organizzazione Mondiale della Sanità considera primari quando tratta la sfera dei rischi occupazionali234.
234
Aronson E. et al., Social Psychology. 5th edition, cit.
Capitolo 4 – Psicologia ambientale e strutturale
Conclusioni
Uomo e ambiente sono una diade dinamica e gli effetti dell’azione dell’uno si riflettono sull’altra, con conseguenze imprevedibili e spesso problematiche. La psicologia ambientale, nell’occuparsi di questa dinamica, scopre alcuni punti di forza e alcuni limiti della propria attività. In particolare, se nel momento dell’analisi la psicologia lascia emergere contraddizioni e pregiudizi culturali della nostra società che sono la causa principe del disastro ambientale cui siamo esposti, dal punto di vista pratico non riesce ad agire di conseguenza, e intervenire sui fondamenti della Modernità e del nostro sistema produttivo, ma sceglie nuovamente un approccio individualistico e si concentra sul consumo e sul consumatore. Le persone vivono, lavorano, e agiscono in cooperazione con altre persone, e questa cooperazione forma ed è formata dalle identità e dalle azioni collettive. I problemi ambientali sono quasi sempre sociali e collettivi, e soltanto le teorie e le azioni sociali possono sperare di risolverli. Purtroppo questo approccio è stato negletto in favore di interventi rivolti allo stimolo di comportomaneti individuali, come se il reale danno avvenisse al momento del consumo e non della produzione, o come se il consumo e la produzione non fossero essi stessi figli di un paradigma e di un patto sociale che, finché non sono messi in discussione, non possono che produrre inquinamento, rifiuti e scarti sempre più insostenibili. La collettività, quindi, e azioni collettive devono essere messi in agenda dalla psicologia in generale e ancora di più da quella ambientale. Nel relazionarsi con le altre discipline, la psicologia ambientale sembra più attrezzata per spiegare la stabilità piuttosto
che il cambiamento. Il cosiddetto nudging, il punzecchiare con il quale i governi liberali, specialmente anglosassoni, pensano di poter suscitare un reale cambiamento, è semplicemente inutile. La psicologia ambientale si è tradizionalmente concentrata sugli effetti negativi dell’impatto umano sulla biosfera. Con l’emergere del concetto di sostenibilità, tuttavia, a ciò sono stati associati anche gli aspetti positivi dell’interazione uomo-ambiente, come gli effetti dell’ambiente sulla salute o sulla qualità della vita, o i comportamenti umani che possono migliorare la condizione della biosfera. Per questa ragione gli interventi sono sempre più mirati a supportare e incoraggiamenti comportamenti pro-ambientali, piuttosto che unicamente a scoraggiare comportamenti dagli effetti opposti. Inoltre, la teoria ha conosciuto un sempre maggiore interesse per un approccio integrativo al comportamento ambientale: non più lo studio del rapporto tra una singola condizione ambientale e singoli risultati, i modelli attuali si sforzano di combinare molteplice influenze e relazioni tra le condizioni ambientali e gli umani. Questo si vede in particolare nelle ricerche sulla qualità ambientale urbana e sull’attaccamento ai luoghi: esse sono caratterizzate da multidimensionalità e modellate su insiemi comprensivi di aspetti positivi e negativi afferenti alla qualità ambientale e alla qualità della vita. Una tendenza ulteriore è lo sviluppo di molteplici sotto-discipline o “psicologie” dentro la stessa psicologia ambientale, che dimostra l’interesse per l’approccio integrativo di cui sopra. Si tratta di direzioni disciplinari che vanno in controtendenza rispetto alla spinte all’unificazione che vive la ricerca sulla sostenibilità. Tra questi vi è la ricerca sulla relazione uomo-natura, sulla qualità dell’ambiente urbano, e sul comportamento pro-
ambientale. Altri sono lo studio dei cambiamenti indotti dal riscaldamento globale, oppure quelli sull’attaccamento ai luoghi, sulle tecnologie persuasive, e sui modelli agent-based. Lo studio del rapporto umano con il proprio ambiente non è mai stato di così pressante attualità. Le sfide del tempo che abbiamo di fronte – perlomeno quelle più pressanti - ruotano tutte quante attorno a questa relazione. La psicologia ambientale ha il merito di essersene resa conto e di avere concentrato i propri sforzi speculativi nel tentativo non soltanto di comprendere, ma anche di agire per risolvere. La speranza è che sempre più interventi di questo tipo vengano intrapresi da persone e governi.
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