Vita, marzo 2016

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1. CONFINI

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COSÌ UNA RANA DI CARTA PUÒ CAMBIARE LE COSCIENZE

Parla Hakan Günday, scrittore turco. In un suo romanzo aveva previsto tutto... —di Giampaolo Cerri

L

a frontiera fra la Siria e la Turchia, per passare la quale oggi si è disposti a morire, cento anni fa non c’era. La tracciarono inglesi e francesi». Hakan Günday, 40 anni, nato a Rodi ma turco, scrive romanzi. Come un intellettuale di una volta, però, è un attento osservatore dei tempi che viviamo. Lo incontriamo a Milano, nella sede del suo editore, la Marcos y Marcos che ha appena tradotto “Ancóra”, il suo ultimo libro. «Questo confine», spiega, «ha diviso, non dei paesi o delle città, ma le famiglie: un giorno, due cugini, si sono trovati uno turco e l’altro siriano». Con Günday si deve parlare di immigrazione, perché il suo romanzo è totalmente immerso in quel dramma. Anzi, pur essendo stato scritto tre anni fa, il libro fotografa con incredibile dettaglio la tragedia odierna. È la storia un bambino di nove anni, Gaza, studioso, primo

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della classe, ma costretto dal padre-padrone a fare il trafficante di esseri umani, “la merce” gli spiega il genitore. Gaza ha il compito di sorvegliare i gruppi di afgani che il padre nasconde, finché, di notte, nel doppiofondo del camion di famiglia, non li scortano sulle coste dell’Egeo per passare in Europa. Una tragedia in cui il ragazzino cresce, vittima e carnefice assieme, fino a sentirsi un mostro, etichetta che cercherà di staccarsi per tutta la vita. Nel romanzo, a simboleggiare questo disperato desiderio, è una rana di carta che un profugo afgano gli regala e che Gaza custodisce gelosamente. «La rana, nel buddismo, è simbolo di reincarnazione», spiega lo scrittore, «e questo ragazzino, che passa dall’odio per i rifugiati alla compassione, alla fine è come se rinascesse, senza morire».

Scrivendo questo libro tre anni fa, aveva visto già tutto...


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Sì, mi ero immaginato cosa potesse subire un immigrato, di quali atrocità potesse essere fatto oggetto, ma la realtà ha superato la fantasia. In che senso? Non potevo immaginare che qualcuno, a Smirne, potesse arrivare a taroccare i giubbotti salvagente da vendere a questi disperati, producendoli con robaccia che assorbe l’acqua. Per due soldi in più. Dinnanzi all’emergenza rifugiati, all’inizio, l’Europa si è divisa: accogliere, non accogliere. Si teme la difficile integrazione e di aprire le porte all’Islam radicale. Sì ma guardi che questo non è il problema di una nazione. È il problema dell’illegalità politica, economica e sociologica del mondo. Costruire muri o pagare tre miliardi di euro alla Turchia perché diventi guardiano d’Europa sono decisioni tampone. Possono tenere per una generazione, ma poi le persone faranno il giro del mondo, arrivando dall’altra parte. E dunque? Dunque le azioni che facciamo oggi, avranno conseguenze per la vita dei nostri figli. Bisogna prendere una decisione. Se fare cioè come i nostri nonni, cercando di tenere separati tutti quelli che, secondo noi, devono restare divisi. Magari dicendoci che è possibile vivere felici quando il resto del mondo è in fiamme, magari convincendoci che è possibile sfuggire le sofferenze degli altri, alzando il volume della musica, che si può continuare a vivere, costruendo muri. Oppure? Interessarci alle ragioni profonde di questi fenomeni. E riconoscere che il mondo non è abbastanza grande per fuggire le sofferenze degli altri. Che, siccome non si trova un altro pianeta, dobbiamo fare in modo che tutti abbiano il minimo per continuare la sua vita su questa terra. Com’è possibile? Glielo dico. Le nozioni pensate sin qui, l’Oriente, l’Occidente, non hanno più nulla da dire oggi. Perché tutto ciò che vediamo in tv come tragedia, domani sarà sotto le nostre finestre, davanti alla porta di casa. La soluzione è guardare in un modo diverso? Si potrebbe fare un paragone col romanzo. Il padre racconta al figlio che un giorno si è salvato da un annegamento, togliendo il salvagente a un altro. Gli spiega che il concetto è “tu Immagini da Gaziantep, città turca vicina al confine con la Siria, o io”. Invece bisogna dire “tu ed io”. Perché se dico “tu o io”, meta a febbraio di migliaia di profughi in fuga da Aleppo. Nella pagina quand’anche uscissi vivo da tutte le battaglie, rimarrei solo al a fianco, Hakan Günday. Scrittore, è nato a Rodi nel 1976 mondo. Ma ci sono anche altre forze, come gli islamisti dell’Isis, risolvere col “tu e io” basterà? Ogni violenza scaturisce dal fatto che si è stati enormemen- no, si distrugge ogni possibile coabitazione. Il punto è chiete lontani gli uni dagli altri, che abbiamo costruito molte dif- dersi cosa lasciamo noi ai nostri figli, perché possiamo cominferenze. Questa violenza oggi la chiamiamo Daesh, domani in ciare qualche cosa che finiranno loro, forse. un altro modo. Perché se c’è un problema ne creerà altri. Da dove cominciare? Perché? Innanzitutto dalla mentalità. Perché oggi è tutto nelle paPer paura, che è la merce più preziosa al mondo, la più ven- role. Con le parole si reclutano dei giovani nell’Isis e con le paduta. Con la paura, si può comprare tutto: aerei da guerra, ide- role si fa paura alla gente che vive in Francia, in Germania, i ologie, dogmi, odio, islamofobia. Però, prima di comprarla, bi- cui cittadini temono dei ragazzini rifugiati, e di cui si pensa: “Cosa diventeranno da grandi?”. Capisce? Degli adulti intimosognerebbe chiederne il prezzo. Qual è, secondo lei? riti da dei bambini. E la stessa cosa i terroristi. Già, quanto costa la nostra libertà di pensiero e forse anche Vale a dire? la nostra anima, perché diventando razzisti o, al contrario, Vale a dire che hanno talmente paura di noi, che reclutano jihadisti, ce la giochiamo. Secondo me, non si può aspettare dei soldati per uccidere i nostri vicini. Dei francesi per uccideche, domani, tutto vada bene. Nel frattempo e in un solo gior- re altri francesi.

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