Figli e pianeti

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altrevie • narrativa straniera



Clemens J. Setz

Figli e pianeti Traduzione di Simone Buttazzi

gran vĂ­a


Titolo originale: Söhne und Planeten Copyright © 2007 Residenz Verlag im Niederösterreichischen Pressehaus Druck – und Verlagsgesellschaft mbH St. Pölten – Salzburg – Wien Italian language rights handled by Agenzia Letteraria Internazionale, Milano © 2012 gran vía edizioni s.c.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: luglio 2012 isbn 978-88-95492-22-3 In copertina: il poeta Marco Scarpa fotografato da Francesco Schirato Progetto grafico: Mirko Visentin | www.spaziosputnik.it


Figli e pianeti

per Julia



Ripartizione spaziale cubica

Io, dice la ridicola figura schiacciata tra le copertine dei libri, sono l’alter ego di un fantasma incapace di vivere. Per colpa sua sono costretto a vagare tra le pagine di questo capolavoro mancato, pesto e indegno, questo infinito Purgatorio ovoidale. SÏ, questo mondo orrendo! Un nastro di Moebius con un lato che ride e l’altro che piange! V. S.



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Ritorno a casa

Un uomo brizzolato batteva le mani su una delle strade principali di Vienna, la Herrengasse. Malgrado la pioggerella, che spingeva molti passanti a tenere sopra la testa ombrelli colorati a mo’ di fumetto, l’uomo fissava il cielo con la testa reclinata all’indietro, e lo applaudiva. La gente si teneva quasi tutta alla larga da quella figura bizzarra, molti però, avvicinandosi, rallentavano cercando con lo sguardo la cassettina o il cappello in cui gettare gli spiccioli, poi, non trovando nulla del genere, si convincevano una volta per tutte che quell’uomo era pazzo. Un bambino che camminava per mano alla mamma, appena lo vide, cominciò anche lui a battere le mani. La madre intervenne subito e lo bloccò. Nel farlo, l’ombrello le cadde a terra. René Templ lo calpestò inavvertitamente, perse l’equilibrio e urtò la borsa della spesa della donna. Si scusò, raccolse l’oggetto, lo ripulì con cura e lo restituì alla proprietaria. L’ombrello aveva perso parte della sua simmetria e a ruotarlo ballava un po’. Non c’è nulla che resti intatto a lungo. Il quadro a casa di Natalie era caduto dalla cornice e lo avevano riappeso insieme. C’erano volute due ore. Poi era rimasto giusto il tempo per un abbraccio. Lui aveva tenuto i pantaloni. Strano quadro: uno spazio infinito pieno di figure geometriche tutte uguali, cubi, uniti tra loro da parallelepipedi oblunghi. 9


Per tornare a casa passava tutti i giorni nel centro storico. Amava quella zona della città, perché era molto lontana da dove abitava. E quando ne aveva abbastanza di quella rigenerante distanza, prendeva il tram numero 7 fino a Eggenberger Allee. Nascosta tra due imponenti condomìni, era là, la sua casa, tozza sì ma pur sempre di due piani. Nel vialetto c’era una vecchia sbarra rugginosa per appendere il bucato, suo figlio la usava per fare ginnastica. Ormai la cosa era diventata impossibile. Quanto al giardino, lasciava che vi crescesse di tutto. C’era una casetta per gli uccelli, non l’aveva costruita lui, e anche in casa non aveva quasi mai dovuto riparare nulla. Rannicchiato, e murato in un grosso blocco di cemento, c’era poi un barbecue che non aveva adoperato nemmeno una volta. La sua vita in quel luogo era priva di fantasia come la vita degli inquilini appena insediati, quelli che lasciano tutto come l’aveva messo l’affittuario precedente. Di tracce René Templ ne lasciava solo nel suo studio, e anche lì in misura minima. Alla macchina per scrivere batteva le sue storie bonsai, passando poi ore e ore a rivederle o commentandole in lunghi monologhi. Non era mai riuscito ad abituarsi agli word processor e alla loro imprevedibilità. La finestra dava direttamente sulla strada. Era una finestra pressoché quadrata, con una sola imposta: una particolarità dello studio. Era la stessa che incorniciava il volto serioso di Templ nella foto sulla sovraccoperta del suo ultimo libro. Il fotografo aveva impiegato molto tempo per includere nell’inquadratura anche il riflesso semitrasparente della cima di un albero. Nel resto della casa c’erano solo finestre a due imposte. Il lato positivo di abitare in quella strada era la libertà di movimento. Niente edifici addossati l’uno all’altro come una classe di scolari pronta all’appello. Nei momenti d’inquietudine, o se restare tra quattro mura diveniva insopportabile, si poteva fare una bella passeggiata riflettendo sul proprio desiderio di tornare infine a casa. 10


Kevin uscì dal bagno. Era stanco morto. Dietro l’angolo era seduta sua madre, che parlava al telefono con un agente immobiliare: «Ma se questi soldi uno non li ha… se nessuno fa niente… Sì, sì, capisco, è logico, non c’è bisogno che me lo spieghi… Sì, va bene, ma quando è destino… Capisco. Va bene, va bene, è tutto chiaro». Poi si udì la porticina del giardino, un rumore simile a quello di un bimbo che arrota i denti. Arrivò suo padre. Kevin sparì subito in camera sua. Si sedette sul letto e lasciò che il corpo riprendesse fiato. Maledette scale. Perché vuoi fare sempre la stessa conversazione? Perché? Quella frase covava dentro di lui, si scaldava, scivolava lenta in avanti come uno sciatore di fondo. Il cuore di Templ batteva, forte e riluttante. Di cosa lo avrebbe accusato, stavolta? Perché ti vedi sempre con quel Karl Senegger? Da quando lo conosci sei cambiato molto! Sei diventato severo e… chiuso in te stesso. Sempre a rovinare tutto lei, sempre. Senegger almeno lo prendeva sul serio, e lei? E Natalie? C’è luce nella stanza di Kevin, pensò. Di sicuro sarà immerso nei suoi libri. O forse no, il fiato corto, così lo chiamavano. Forse è già a letto. Fissa il soffitto. Contando le chiazze e dando loro i nomi di esploratori famosi. La porta gli si aprì davanti. «Era ora, devo parlarti, ci mancava solo che tardassi un altro po’…» Nell’agitazione si mangiò la frase che si era preparato, e sua moglie proseguì in fretta e furia: «Oggi non è nemmeno riuscito a vestirsi da solo, tanto era stanco. Stanco, hai sentito bene, stanco. Voglio dire proprio stanco, non insonnolito. Avresti dovuto ve11


derlo, gli si chiudevano gli occhi. Pure in macchina mi si è addormentato, e sono sicura che dorme anche a scuola». «Ma l’insegnante sa che…» «Oh sì, certo» disse sua moglie voltandogli le spalle e per un attimo, come per miracolo, il grembiule che aveva addosso restò immobile invece di girarsi con lei. «Ti pareva? Lo immaginavo! Tu ti accontenti di dire che l’insegnante sa come stanno le cose. Come se bastasse questo a cambiarle!» La donna si strappò di dosso il grembiule. Il primo impulso di Templ fu di uscire di nuovo. Perché vuoi fare sempre… Di sua moglie aveva paura. «Io, io non lo tollero più. Devi affrontare la realtà, una buona volta» disse lei con voce diversa, più grave. «Cerca di capire una buona volta come stanno le cose, invece di pensare solo alle piccolezze!» «Sì, sì, io…» «È l’ossigeno!» «Ma capita a tutti di essere stanchi, ogni tanto… e in particolare, poi, com’è ovvio…» «No, non ci credo! Che ignoranza… A quel suo compagno di scuola è successa la stessa cosa! E tu, quella volta, sei pure andato a casa di quello scrittore a cui è morta la moglie per problemi ai polmoni». «Ma era un’altra cosa». «Ah, certo, di quel giorno non si può dire nulla. Per forza: è stato allora che hai conosciuto il signor Karl Senegger, che adesso ti usa per le sue faccende senza darti uno spicciolo». Per quanto sua moglie parlasse a vanvera, su una cosa aveva ragione: Templ detestava sentirla tirare in ballo quella giornata. Lei non c’era e non aveva idea di quanto fosse stata importante, per lui. Era la festa di addio alla vecchia casa di campagna del poeta Ernst Mauser. Conservava ancora un ricordo limpido della 12


piscina azzurro chiaro e dei vecchi ospiti, immersi nell’acqua. E di Karl Senegger, che aveva discusso con lui del futuro della cultura e di mille altre cose. Alla fine della conversazione aveva chiesto a Templ di dare un’occhiata a qualche manoscritto. Di chi? Di suo figlio. Che era morto da poco. «Quella era tutta un’altra cosa, dài retta a me» ribadì con calma. La donna si strinse, tra indice e pollice, la radice del naso. Concentrazione, calma e concentrazione. Poi l’indice sfrecciò in avanti. «Tu! Sei tu quello che dovrebbe star dietro a tutto quanto» strillò. «Maledizione! Perché non ti dài da fare? Per tuo figlio…» «Pure per noi… le cose dovranno… sistemarsi» disse Templ, e in quell’ultima parola cercò di annullare il suo ego più che poté. Ma non funzionò. Non funzionava mai, mai per dire mai. E ora, ad attenderlo, ci sarebbe stata la punizione, sotto forma di annunci immobiliari. La matita rossa, l’ingrato lavoro di cerchiare le inserzioni, le balbettanti telefonate con gli intermediari. Sposarsi per finire così… che spreco di energie. Quando avrebbero potuto spassarsela. Il cesso era il posto giusto, si mise subito in moto… santiddio, non si era tolto le scarpe, grazie al cielo però lei non aveva rilevato l’infrazione del divieto di calpestare il tappeto con le suole. Rapida ritirata. La moglie tornò col giornale chiuso e carico di silenziosi rimproveri. Nel camminare lo aprì e si mise a sfogliarlo goffamente, ignorando i foglietti pubblicitari che cadevano via via e fermandosi davanti a lui. «E adesso, dove hai intenzione di andare?» «Un minuto in bagno». La voce era il tratto più vigliacco di Templ. Da qualche tempo si rifiutava di obbedirgli. Quando voleva urlare, lo abbandonava ribellandosi al corpo con la sua inerzia e limitandosi a un sussurro accelerato e striminzito, quasi le corde vocali avessero paura di 13


svegliare qualcuno. Kevin, però, ormai non dormiva quasi piÚ, ma restava a origliare le voci accanite dei genitori ingrossarsi e scemare, al piano di sotto.

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