Meccanismi di censura nel cinema. L'Italia degli anni Sessanta

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Meccanismi di censura nel cinema L’Italia degli anni Sessanta

Graziana Saccente





Meccanismi di censura nel cinema L’Italia degli anni Sessanta

Graziana Saccente matricola 274652 relatore Marco Bertozzi IUAV UniversitĂ di Venezia Laurea Magistrale in Design Anno Accademico 2012-2013 Sessione di laurea Aprile 2014



indice Abstract

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Introduzione 9 Ambiti d’intervento sul tema della censura cinematografica PARTE PRIMA

1. Cinema italiano negli anni Sessanta 1.1 Nuovi valori del boom economico 17 1.2 Cinema della soggettivitĂ 20 1.3 Generi cinematografici 26 1.4 Morale, sesso e tabĂš 29 1.5 Economie del cinema e censura 33 2. Breve storia giuridica della censura 2.1 Premessa 40 2.2 Dalle origini fino al 1927 41 2.3 Direttive fasciste 45 2.4 Dopoguerra e Prima Repubblica 2.5 Nuova legge 161 48

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PARTE SECONDA

3. Metodi di revisione cinematografica 3.2 Visto di censura 55 3.1 Revisione per i cinema parrocchiali 4. Mezzi analogici di censura 4.1 Censura preventiva 62 4.2 Effetti speciali per la censura

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5. Dispositivi come mezzi di controllo 5.1 Strumenti e apparati 73 5.2 Disciplina al cinema 76 6. Censura additiva 6.1 Parresia 78 6.2 Teoria freudiana 82 6.3 Interventi censori additivi in Italia

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PARTE TERZA

7. Casi studio 7.1 Premessa al capitolo 91 7.2 Rocco e i suoi fratelli 94 7.3 Otto e mezzo 144 CONCLUSIONI

Nuove prospettive di ricerca sulla censura APPENDICE A

Fonti iconografiche APPENDICE B

Le interviste

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FONTI

Bibliografia 267 Filmografia 270 Sitografia 272

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ABSTRACT

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Abstract La ricerca confluita nelle pagine di questa tesi prende avvio dall'idea che il cinema italiano sia legato parallelamente alla storia della censura e all'evoluzione delle sue leggi. In particolare si prende in esame il decennio degli anni Sessanta, come periodo denso di avvenimenti cruciali nel nostro paese, da un punto di vista politico, economico e culturale. L'analisi parte dalla ricostruzione del percorso storico compiuto dalla produzione cinematografica italiana, in relazione agli aspetti di trasformazione generale della società, che inevitabilmente condizionano le scelte di registi e di alcune case di produzione. Risulta necessario anche approfondire l'argomento della censura, attraverso una breve storia giuridica, per comprendere l'evoluzione dei suoi parametri di giudizio e le modalità di controllo sulle opere. La tesi mira, pertanto, a chiarire il funzionamento della revisione cinematografica come strumento di potere, con un'influente possibilità d'intervento sul cinema, che si esplicita attraverso il rilascio del visto di censura. Tale considerazioni sono anche utili per aprire una riflessione sulla capacità del cinema di aggirare gli ostacoli imposti dai dispositivi censori, grazie a strumenti come il montaggio creativo o una varietà di "effetti speciali". La materia si amplia ulteriormente con il concetto di "censura additiva" ovvero una teoria per cui l'azione censoria può essere interpretata, oltre il suo aspetto di sottrazione o mutilazione, anche come contributo all'affermazione di determinati valori estetici e linguistici nel cinema. Possiamo considerare quindi, la censura non solo come dispositivo emanato da un organo amministrativo, ma come pratica diffusa di "soggettivazione" dei meccanismi censori all'interno del cinema. Infine, tale argomentazione viene dimostrata attraverso l'analisi di


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due casi studio, quello di Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti e 8½ di Federico Fellini, i quali subiscono entrambi interventi censori da parte delle case di produzione, con il fine di manipolare e risemantizzare alcune sequenze.


INTRODUZIONE

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Introduzione Il rapporto fra cinema e censura è particolarmente difficile da analizzare nella sua complessità e pone una riflessione molto forte sulla necessità di esistenza di un legame fra i due. Quando si parla di cinema inevitabilmente bisogna analizzare la sua storia articolata, modificata dalle innovazioni tecniche e dalla trasformazione dei linguaggi, come parti integranti e fondamentali nella sua evoluzione. La settima arte apre all’uomo una nuova e straordinaria modalità di espressione, che viene però fortemente condizionata dai tempi, dal progresso della tecnica, dall’avanzamento dei linguaggi audio-visivi. Il percorso classico tracciato dalla storia ufficiale, che divide lo sviluppo del cinema in fasi, blocchi e scuole, a volte non è sufficiente per comprendere a pieno la sua complessità, dando una visione parziale delle influenze e delle spinte che il cinema stesso dà e riceve dal contesto in cui si sviluppa. Il titolo di questa tesi “Meccanismi di censura nel cinema” mi conduce ad aprire più ambiti d’intervento, quello relativo al cinema da una parte, e quello inerente il sistema censorio dall’altra. Nella storia del cinema italiano degli anni Sessanta, i due campi s’intrecciano strettamente sia da un punto di vista politico che sociale, ma quello che mi preme considerare in questa ricerca è l’aspetto più pragmatico della pratica censoria, che prende il suo avvio nelle istituzioni fino ad arrivare alle sale di proiezione. Ovvero quella prassi dell’agire censorio, che diviene parte integrante di alcune modalità rappresentative del linguaggio cinematografico. Diviene importante perciò, chiarire le ragioni del mio interessamento verso questo legame tra cinema e censura, che si focalizza con attenzione agli anni Sessanta, periodo molto interessante da analizzare, dal punto di vista storico e cinematografico, data la profonda trasformazione economica e culturale che l’Italia vive in questo decennio.


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La forza suggestiva del cinema, sin dalle prime apparizioni, suscista timori da parte di poteri politici e religiosi, che hanno sempre tentato di controllarlo tramite delle norme e delle misure amministrative, in modo da subordinare la libertà d’espressione al rispetto di generali regole di comportamento. Il rapporto fra censura e potere infatti è strettissimo: Alessandro Fontana in sintesi spiega che la censura esiste nel momento in cui il potere decide di occuparsi della felicità del singolo individuo, stabilendo al suo posto il confine fra bene e male e operando di fatti una forma di censura/protezione nei suoi confronti.1 L’istituzione censoria infatti si fonda sull’idea che la libertà di giudizio e di scelta del pubblico debba essere tutelata o preventivamente limitata, ma, in effetti, l’applicazione della censura esercita un controllo autoritario sulla creazione e diffusione di informazioni, di idee e immagini. La pratica della censura cinematografica diventa più presente in quella fase dello sviluppo sociale in cui l’individuo si rende conto della propria autonomia e la singola libertà di espressione non può essere pienamente controllata da tabù. A questo concetto di controllo, si contrappone l’essenza liberale, propria del cinema. Come Béla Balázs afferma già nel 1924, il cinema è capace di rompere i limiti, sfondare l’orizzonte abituale delle osservazioni ed evidenziare “come per la prima volta” aspetti nuovi e inaspettati, che aiutano lo spettatore a reinterpretare la realtà e a rielaborare il rapporto con il mondo, immerso nella situazione singolare di una sala cinematografica.2 Progressivamente però la censura impone una regolazione delle forme di rappresentazione filmica, che deve aderire al buon costume, alla morale vigente, senza mettere in dubbio il potere delle istituzioni e della religione. Il cinema deve offrire sullo schermo contenuti corretti, deve indurre a comportamenti rispettosi, e rispondere ai canoni di una morale o di un’etichetta. Il cinema quindi si deve “istituzionalizzare”, e cioè disciplinare i propri modi di essere e di fare, tanto che la visione di un film, deve essere legittimata e legittimante per la società.

1. alla voce “censura” dell’Enciclopedia Einaudi del 1977 2. Bela Balázs, Der Sichtbare Mensch oder die Kultur des Films, Wien und Leipzig, Deutsch-Osterreichisches Verlag, 1924 (tr. it. parziale, Tipo e fisionomia, in «Bianco e Nero», 1, 1941, pp. 6-27)


INTRODUZIONE

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Possiamo considerare più teorie sulla censura, le quali si concentrano principalmente sul suo legame con il potere. La prima è contro la censura e si ritiene che essa sia una limitazione alla libertà di espressione, con il fine di impedire che verità scomode possano danneggiare gli interessi di chi comanda.A favore della censura, si sostiene invece che essa sia un’istituzione necessaria per salvaguardare i giovani e i più deboli da esperienze sconvolgenti o distruttive. Queste due posizioni sono costrette, su alcuni punti, a venire a patto con l’opinione opposta. Sorgono così anche delle teorie complementari o delle teorie miste, che propongono una forma di revisione blanda di tipo democratico, che cerca di conciliare l’autonomia artistica e di informazione con le norme giuridiche della democrazia. In queste teorie, il potere conserva sempre un aspetto negativo, poiché interviene in ogni caso con un’azione proibizionista. In questa tesi vorrei considerare la questione anche da un altro punto di vista, partendo più indietro, dall’atto censorio stesso, come il risultato di forze di tensione tra elementi diversi, o come un gioco di diplomazia, dove quindi il conflitto e la cooperazione fra le parti in causa si alternano. Infatti si può ipotizzare, anche una tipologia di “censura informale”, più nascosta e di più difficile interpretazione, oltre l’immagine di un potere che esclusivamente mutila, nasconde la verità o protegge i cittadini. Con il termine potere mi sembra che si debba intendere innanzitutto la molteplicità dei rapporti di forza immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro organizzazione; il gioco che attraverso lotte e scontri incessanti li trasforma, li rafforza, li inverte; gli appoggi che questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da formare una catena o un sistema, o, al contrario, le differenze, le contraddizioni che li isolano gli uni dagli altri; le strategie infine in cui realizzano i loro effetti, ed il cui disegno generale o la cui cristallizzazione istituzionale prendono corpo negli apparati statali, nella formulazione della legge, nelle egemonie sociali.3 Michel Foucault, fa emergere questa relazione fra i sistemi, ma dall’altra parte vede anche una possibilità alternativa, «per cui la censura non è un

3. Michel Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, cit. p. 82


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dire no e il potere non si limita a negare. Mentre sembra negare, in realtà spinge a superare il limite. Il potere non è altro che un incitamento ad andare oltre i confini che esso stesso sembra porre». 4 Su questi presupposti teorici, questa ricerca mi ha spinto ad analizzare quei casi in cui il prodotto cinematografico spinge la propria creatività a deformare tale barriera e ad inventare escamotage teorici e pratici per oltrepassare la soglia del rappresentabile, utilizzando gli strumenti (tecnici, produttivi e di linguaggio) a sua disposizione. Per affrontare l’argomento in modo organico, vengono esaminati in un primo momento alcuni passaggi storici che riguardano il panorama del cinema italiano negli anni Sessanta, ovvero i cambiamenti culturali e socio-economici che portano la macchina produttiva cinematografica ad una trasformazione profonda, sia nella sua composizione strutturale, che in rapporto a stili e tematiche affrontate. Successivamente viene introdotta una breve storia giuridica della censura, con attenzione verso le leggi che ne hanno segnato il cambiamento nel corso del Novecento fino all’emanazione delle legge n. 161 del 1962, risultato di una più moderna (ma incompleta) visione dei regolamenti per la commissione di revisione cinematografica, e di un profondo e lungo dibattito culturale fra istituzioni ed il mondo del cinema. Il secondo capitolo sviluppa un discorso più definito sul funzionamento della revisione cinematografica italiana, che inizia dalle commissioni che concedono il relativo nulla osta per la distribuzione nei cinema, fino ad un’analisi di alcuni “effetti speciali” del cinema che vengono sfruttati anche per evitare problemi con la censura. Inoltre viene aperta una riflessione sul rapporto che si crea tra il potere e la gestione dei dispositivi e la funzione strategica concreta del montaggio nel cinema. Infine si introduce il concetto di “forbici creative”, come sviluppo dell’intervento di Antonio Costa (presso il Convegno Internazionale “La Censura”, svoltosi a Bologna il 10-12 dicembre 1998), che legge alcuni applicazioni della censura non solo dal punto di vista privativo ma anche come variazione visiva e concettuale, per l’affermazione di determinati valori estetici e

4. Giacomo Martini (a cura di), Strategie e pratiche della censura, Regione Emilia Romagna, Ferrara-Bologna, 1980


INTRODUZIONE

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linguistici nel cinema. In funzione della panoramica effettuata precedentemente, l’ultima parte della tesi è dedicata, ai casi studio, due film estremamente importanti nell’evoluzione del cinema italiano dei primi anni ‘60, ovvero Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti e Otto e mezzo (1963) di Federico Fellini. Attraverso una raccolta di articoli dell’epoca, si tenta di confrontare in modo singolare - e forse sperimentale - le cause che conducono le rispettive case di produzione a scegliere di manipolare alcune sequenze dei film, con il fine di rendere oscurate e meno riconoscibili alcune sequenze (per Rocco e i suoi fratelli), o inversamente per enfatizzare determinati contenuti (per Otto e mezzo).



PARTE PRIMA


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PARTE PRIMA

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1. Cinema italiano negli anni Sessanta 1.1 Nuovi valori del boom economico

L’Italia degli anni Sessanta è molto lontana dal paese che un decennio prima esce a pezzi dalla seconda guerra mondiale. A conclusione degli anni ‘50 si aprono gli anni ruggenti della crescita economica, anni di profonda trasformazione, che iniziano con lo sviluppo industriale, con la crescita vertiginosa degli indici di produzione, del reddito nazionale e dei consumi. Un periodo sicuramente di ascesa per la nazione, ma anche d’interpretazione difficoltosa e pieno di contraddizioni, in cui il miracolo economico non sempre si relaziona ad un analogo processo di crescita civile. I mutamenti profondi iniziano dalla metà del decennio precedente con l’avvio di quel processo economico che converte la forte componente agricola del paese (il 55% della popolazione era impegnata nel settore fornendo più della metà del rendimento nazionale) in una industrializzazione massiccia. Il nuovo ordinamento statale creato dopo la guerra permette i mutamenti indispensabili al consolidamento del capitalismo. Si generano grandi flussi migratori soprattutto dalle regioni del Mezzogiorno, dalle campagne e dalle montagne, verso i grandi centri industrializzati del triangolo nel Nord d’Italia, dove l’industria si sta diffondendo capillarmente e dove le città si stanno trasformando in agglomerati urbani e luoghi di accoglienza della manodopera. Vengono promossi forti investimenti di capitali, anche stranieri, che consentono un rapido adeguamento dei servizi ed una considerevole differenziazione degli impieghi. Ai visitatori stranieri, l’Italia dà l’impressione di un paese che vive rapidi processi di trasformazione, anche per la radicale modifica degli atteggiamenti della comunità sociale.


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Nell’Italia del miracolo economico però non scompaiono disuguaglianze sociali, miseria e sfruttamento, ma sembra che niente possa contrastare l’avanzata di una modernizzazione, ovvero del cosiddetto “neocapitalismo”, che oltre a trasformare l’assetto strutturale della nazione, influisce considerevolmente sulle aspirazioni, sull’immaginario, sui costumi, sulle forme mentali e sui valori della collettività. La virtù del risparmio, così profondandamente radicata nella società italiana, viene soppiantata da imperativi consumistici e le rateizzazioni permettono ai lavoratori di comperare oggetti e usufruire di nuovi servizi. Si verificano rivolgimenti di varia natura nelle case degli italiani: gli elettrodomestici si diffondono; si mangia più carne nelle case degli operai e della piccola borghesia; la motorizzazione conquista un’ampia fetta di mercato; la scolarizzazione e l’editoria sono in forte ascesa; i consumi culturali si diversificano, come comprova la vendita in ascesa di dischi, libri, quotidiani e periodici, e la frequentazione di teatri, concerti e sale cinematografiche; nel 1963 gli abbonamenti alla televisione ammontano a 4.284.889 e la pubblicità si è fatta già invadente, tanto da imporre nuovi modelli di bellezza e ricercatezza di stile; gli esercizi commerciali si moltiplicano e la disoccupazione, non scomparsa, diminuisce notevolmente. La conversione degli italiani al consumismo stravolge anche le consuete modalità di impiego del tempo libero, che avevano promosso lo spettacolo cinematografico fino ad allora. L’entrata nelle case italiane della televisione rivoluziona anche l’interesse degli spettatori verso quei luoghi che, come le sale cinematografiche, avevano rappresentato veri fulcri di aggregazione sociale, così da rendere il pubblico più selettivo e diversificato.1 La produzione cinematografica deve perciò adeguarsi e riflettere lo stato generale del Paese, a cui si richiede di infondere nello spirito dello spettatore forti dosi di facile ottimismo, tramite il filone storico-mitologico e quello della mediocre commedia. Nella sua relazione all’assemblea generale dell’Anica (l’associazione dei produttori) dell’11 febbraio 1960, Eitel Monaco annuncia, quasi con tono trionfalistico, che il cinema italiano

1. Mino Argentieri, Il cinema nell’Italia del centrosinistra in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. X, Marsilio, Venezia, 2001


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«contro tanti profeti di sventura [...] è uscito dalla crisi ed è vivo e vitale e le sue condizioni di salute sono assai migliori di quelle di molte cinematografie concorrenti».2 Il cinema neorealista - fenomeno illuminante ma di breve durata cerca di mettere in luce anche altri aspetti della ripresa, rappresentando alternativamente la realtà della società italiana, uscita dalla guerra e dalla resistenza. Ma il neorealismo cinematografico, più che essere una corrente artistica o una scuola, si concentra su problemi collettivi per un significato estremamente sociale, quasi come una necessaria spinta morale, stretta però tra apparenze rosee e afflizioni rappresentative.3 Infatti, negli anni Cinquanta il trionfo del neorealismo dura poco e la corrente non ha neanche il tempo di darsi un nome e riconoscere i suoi promotori, che già la pressione esterna la invita a chiudere i battenti. In effetti i film neorealisti si accaparrano solo una piccola fetta di mercato, perché in realtà il mercato è dominato interamente dal cinema di Hollywood. Quelle poche volte che il pubblico va in cerca di un film italiano, preferisce Gallone a Rossellini, Borghesio a De Sica. Negli anni successivi, la situazione non migliora e il mercato (e le istituzioni) continua a preferire film leggeri, scacciapensieri, magari anche con la vista di qualche centimetro di gamba scoperta, piuttosto che film scomodi, probabilmente perché i temi legati alle piaghe sociali del paese o quelli sulla ricostruzione storica di un passato dittatoriale, sono di difficile interpretazione e mettono a nudo le contraddizioni del paese. Ovviamente i governi democristiani sono più favorevoli a concedere una certa libertà sessuale che non la piena libertà politica ai registi, cosicché l’azione repressiva determinata dalla politica si sposa anche con la volontà della maggioranza di non affrontare argomenti politicamente impegnati, tanto da preferire la visione al pubblico delle “nostre maggiorate fisiche”, piuttosto che doversi confrontare con i cosiddetti “pannisporchi” della società italiana.4

2. Eitel Monaco, Cinema italiano 1960, Anica, Roma, 1960, p. 5. 3. Silvio Lombardi, Il cinema e la società industriale in Il cinema italiano anni ‘60. Testi delle relazioni, Centro di cultura cinematografica, Bari, 1981, p. 21 4. Callisto Cosulich, La scalata al sesso, Immordino Editore, Genova, 1969, cap. 1


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Le pellicole controcorrente non ricevono neanche la soddisfazione di un largo consenso da parte della stampa, se non da parte dei giornali socialcomunisti, una solidarietà troppo di parte però, di cui molti registi e produttori fanno volentieri a meno, per evitare di schierarsi in modo così deciso con una fazione. 1.2 Cinema della soggettività

Lo sfruttamento dei mezzi audio-visivi diviene sistematico per spingere al consumo e promuovere il moderno concetto di benessere. I tentativi del cinema di attuare una presa di coscienza sono sporadici, di fronte al grave problema della mortificazione della personalità umana, causata dall’esigenze dettate dal capitalismo e dalle nascenti strutture tecnologiche, che sottomettono l’uomo alle catene di montaggio, ed al consumo forzoso di beni e servizi. Anche l’occupazione del tempo libero diviene spersonalizzante, frutto di un nuovo rapporto tra il ritmo di lavoro e quello di riposo. Si deve attendere il 1961, per assistere ad uno spettacolo cinematografico in cui il ruolo dell’individuo viene rappresentato e messo in relazione al nuovo modello si società in rapido sviluppo tecnologico. 5 Per tali ragioni vengono trattati soggetti che parlano dell’arrivo nei grandi centri del triangolo industriale degli emigrati del Sud (Rocco e i suoi fratelli) e della condizione degli operai in fabbrica (Pelle viva). All’inizio degli anni Sessanta, il neorealismo è ormai un movimento alla fase conclusiva. Vittorio De Sica, uno dei registi che aveva contribuito maggiormente al movimento, gira nel ‘56 uno degli ultimi film del filone, Il tetto, [fig. 1/3] basato su una storia del sottoproletariato romano, ma l’esperimento riesce solo parzialmente, e serve soprattutto a dimostrare che il mutato clima sociale e culturale in Italia richiede altri strumenti di interpretazione artistica. 6

5. Silvio Lombardi, Il cinema e la società industriale in Il cinema italiano anni ‘60. Testi delle relazioni, Centro di cultura cinematografica, Bari, 1981, p. 22 6. Vito Attolini, Il cinema italiano anni ‘60. Testi delle relazioni, Centro di cultura cinematografica, Bari, 1981, p. 3


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Si richiedeva quindi, agli stessi padri del neorealismo una svolta da quanto essi avevano postulato fino a qualche anno prima. Le convinzioni d’ispirazioni neorealistiche, vengono contraddette anche da Michelangelo Antonioni nel 1957 con il film Il grido [fig 4/7], che esplicita anche l’impossibilità di parlare di temi esistenzialisti esclusivamente attraverso protagonisti della classe operaia. 7 Il panorama culturale è fortemente cambiato dal clima della ricostruzione del dopoguerra, e le due anime del cinema, realistico ed esistenziale, continueranno comunque a convivere per un periodo (Visconti ne dà prova con Rocco e i suoi fratelli). Da questo momento, potremmo introdurre il concetto di “cinema della soggettività” potendolo interpretare in due sensi secondo la definizione di Vito Attolini: In un primo, più immediato, vogliamo riferirci a tutta quella produzione che, ponendo in sottordine i problemi di natura sociale, cerca di penetrare all’interno dei personaggi, di indagarne i movimenti psicologici meno appariscenti e di fondare quindi su questi fattori il racconto cinematografico vero e proprio. In un altro senso, più profondo, possiamo ancora parlare di cinema della soggettività: ed è quando tutto il film viene costruito in funzione di un personaggio e delle sue reazioni individuali, dal cui angolo visuale tutta la realtà circostante viene definita, assumendo una coloritura che è del tutto lontana da quella che potrebbe conferirgli un racconto che invece si preoccupi di oggettivare i fatti.8 Questo modo di procedere, insolito fino a questo momento nell’evoluzione cinema, si può rinvenire invece facilmente nella letteratura, dove questo tipo di narratività, ad esempio è sfruttato nel romanzo moderno, attraverso il cosiddetto “monologo interiore”. Basti pensare a Ulisse di Joyce, la cui traduzione italiana risale appunto agli anni Sessanta e che ha profonde influenze su critici e romanzieri italiani. Nel dibattito letterario anche Opera Aperta di Umberto Eco ha un ruolo rilevante, in cui vengono enunciate le nuove regole del romanzo, che rifiuta tutte le costruzioni

7. Vito Attolini, op. cit., p. 4 8. Ibidem


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ereditate dal passato, ripudia gli schemi della tradizione e le facili conclusioni, ed infine procede senza l’osservanza di una struttura rigida. 9 Nel campo cinematografico vengono intrapresi, quasi contemporaneamente, tentativi analoghi sul piano critico e creativo. Ad esempio sul finire degli anni cinquanta in Francia si ebbe la “nouvelle vague”, il cui obbiettivo principale diviene la contestazione di un certo tipo di cinema basato su una solida sceneggiatura e una rigida struttura narrativa ereditata dal passato, conferendo al film la lucida patina di un prodotto rifinito. A tale proposito, il teorico francese, Christian Metz, afferma che il film si trasforma perciò da un’operazione di “messa in scena” ad una “messa in presenza” della realtà, dove le mediazioni della sceneggiatura, in pratica vengono soverchiate dalla registrazione più naturale degli eventi nel suo succedersi. Naturalmente si tratta di un movimento tendenziale, e la “messa in presenza” della realtà, come afferma Metz, è essa stessa il risultato di un intervento soggettivo dell’autore, cioè del regista.10 Il nuovo cinema degli anni ‘60 fa proprie queste linee guida, abolendo una delle caratteristiche principali del cinema realista, ovvero la spettacolarità. Quest’ultima viene ribaltata in anti-spettacolarità. Da ciò consegue che, mentre il cinema tradizionale sembra più vicino ad una costruzione teatrale, il nuovo cinema sembra invece svincolato da regole strutturali o narrative, tanto per cui il libero fluire degli eventi viene passivamente registrato, senza l’obbligo di alcun centro narrativo. 11 Lo svolgimento dell’azione non è prevedibile, e le attese dell’osservatore vengono disattese, per il fatto che, non seguendo alcuna regola, pare che la costruzione narrativa sia “improvvisata”. Inutile dire che anche in questo caso l’improvvisazione è soltanto apparente, essendo frutto di una scelta registica, sia pure di tipo inconsueto. Il nuovo cinema pone l’attenzione anche su i tempi morti, cioè quei momenti di sospensione che acquisiscono valore nel linguaggio espressivo di alcuni registi, come ad esempio nel film La notte di Antonioni, la lunga passeggiata senza dire-

9. Vito Attolini, Il cinema della soggettività, in Il cinema italiano anni ‘60. Testi delle relazioni, Centro di cultura cinematografica, Bari, 1981, p. 6 10. Vito Attolini, op. cit., p. 8 11. Vito Attolini, op. cit., p. 9


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zione della protagonista diviene metafora di un senso inespresso di solitudine e disagio. 12 Un altra caratteristica del “cinema della soggettività” è la non linearità nella costruzione narrativa e quindi anche nel montaggio, che spezza il racconto, secondo una logica degli avvenimenti evidentemente basandosi sull’avvertibile punto di vista della regia. Questo meccanismo narrativo non lineare è particolarmente rilevante, ad esempio, in film come L’anno scorso a Marienbad [fig 8/11] di Alain Resnais e Otto e mezzo di Federico Fellini, in cui gli eventi appartenenti alla realtà si confondono a sogni e ricordi, tanto da far svanire la netta linea di demarcazione fra i livelli dell’azione.13 In Italia la “vague”, contrariamente a quanto accade in Francia, assume un aspetto ben diverso. I film dell’inizio del nuovo corso sono La dolce vita di Fellini, Rocco e i suoi fratelli di Visconti, L’avventura di Antonioni, La ciociara di De Sica, I dolci inganni [fig 29/31] di Lattuada e Tutti a casa di Comencini, titoli quasi epocali, ma dai quali si comprende che la direzione del cinema italiano è differente da quella dei Godard francesi, degli Oshima nipponici o dei Cassavetes statunitensi, ovvero una generazione di giovani autori che interrompe totalmente con il passato e sperimenta tantissimo. 14 Il compito di trasformare la cinematografia nazionale viene assunto in Italia dagli stessi registi che erano stati ai vertici negli anni ‘50: non tanto Roberto Rossellini, quanto Antonioni, Fellini e Visconti, con tre percorsi separati ma non opposti, tre linee estetiche e sociologiche, con modi diversi di guardare al presente e di correlarsi con il passato.15 Il più rivoluzionario nel linguaggio è forse Michelangelo Antonioni, la cui visione del malessere della società (già espressa negli anni ‘50) è amplificata ne L’avventura [fig 12/15]. Il punto di vista di Antonioni fa

12. Vito Attolini, Il cinema della soggettività, in Il cinema italiano anni ‘60. Testi delle relazioni, Centro di cultura cinematografica, Bari, 1981, p. 10 13. Vito Attolini, op. cit., p. 11 14. Lino Miccichè, Patrie visioni, Marsilio, Venezia, 2010, p. 156 15. Lino Miccichè, La nuova ondata e la politica dei debutti: percorsi cinematografici in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. X, Marsilio, Venezia, 2001, pp. 137-139


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emergere le contraddizioni della borghesia, i suoi riti e i suoi miti, il suo rampante miracolo economico, (che l’Italia olimpica del 1960 si appresta a celebrare) e il suo egoismo di classe.16 Apparentemente antitetico, in realtà complementare ad Antonioni, Visconti riscrive la storia neodecadente del Testori de Il ponte della Ghisolfa per narrare l’ultima storia proletaria della propria filmografia, Rocco e suoi fratelli, in cui con un filo rosso unisce le vite dei personaggi de La terra trema (1948) con quelle della famiglia lucana dei Parondi, che si trova ad affrontare con speranza, le disagianti condizioni della grande città e le regole indotte dal capitalismo. 17 Inversamente La dolce vita, che Fellini realizza nel ‘59 ma che uscirà nel ‘60, segna la crisi della moralità borghese, con un ineguagliabile livello poetico, in cui il regista intreccia soggettività e oggettività, esistenza e storia. Questi tre film, seppur con le ovvie differenze e complementarietà, sottopongono il tema del nuovo corso culturale e sociale italiano, di fronte all’avanzare del capitalismo, e rappresentano la difficoltà e l’angoscia dell’uomo di vivere in un determinato presente. Nella filmografia viscontiana Rocco e i suoi fratelli rappresenta il punto terminale di un discorso; nella filmografia di Antonioni L’avventura segna il passaggio alla maturità; La dolce vita è invece per Fellini un’isolata quanto autonoma tappa intermedia. 18 Nel cinema italiano però, non nasce negli anni ‘60 un gemello della “nouvelle vague” ma sicuramente si può notare una svolta consistente. Giovani registi emergono nel decennio, soprattutto supportati dai produttori che ne intuiscono le potenzialità e finanziano le loro opere prime. Vi sono anche importanti esordi come quello di Bernardo Bertolucci con La comare secca, di Tinto Brass con In capo al mondo, dei Fratelli Taviani e Valentino Orsini con Un uomo da Bruciare, nonché dell’esordio italiano di Marco Ferreri con L’ape regina. Il maggiore esordio d’inizio decennio, invero anche il più chiassoso, perché accompagnato da denigrazioni e da incontrollate esaltazioni, è quello di Pier Paolo Pasolini che, quando approda alla Mostra di Venezia

16. Lino Miccichè, Patrie visioni, Marsilio, Venezia, 2010, p. 157 17. Lino Miccichè, op. cit., p. 159 18. Lino Miccichè, op. cit., p. 160


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del ‘61, è già conosciuto - oltreché per tre raccolte poetiche, due romanzi, un volume di studi sulla poesia novecentesca, nonché articoli, saggi e direzioni di riviste - anche come sceneggiatore, il cui nome è apparso in una dozzina di lungometraggi. Con la sua opera prima Accattone, Pasolini diviene sin da subito uno dei maggiori cineasti italiani e nel corso degli anni ‘60 realizza la maggior parte dei titoli della propria filmografia, come Mamma Roma (1962), il mediometraggio La ricotta (episodio di RoGoPag del 1963), Comizi d’amore (1964), Il Vangelo secondo Matteo (1964) e Uccellacci e uccellini (1966), dove emerge la profonda riflessione socio-politica dell’autore e la registrazione sconsolata della mutazione antropologica verificatasi nel tessuto popolare del paese.19 Goffredo Lombardo, proprietario della casa di produzione Titanus [fig. 63], è il primo a puntare sui film d’esordio (nel quadriennio ‘59/’62 ben 50 lungometraggi mentre altri 23, italiani o di coproduzione sono acquisiti, nello stesso periodo, nei listini della Titanus/Distribuzione) e su opere di qualità (tra il 1958 e il 1964 la Titanus produce 6o film, di cui 39 di fascia medio-alta e 21 di genere popolare). Goffredo Lombardo, nel 1961, promuove un convegno dal titolo Per un nuovo corso del cinema italiano e dichiara «nel cinema non c’è più posto che per una produzione di alto livello artistico e spettaccolare», in altri termini che la produzione seriale va abbandonata, perchè ogni film è «un esemplare unico...tenendo conto delle sue esigenze di costo e delle sue possibilità di rendimento».20 Ben presto l’operazione di promozione dei giovani registi e di grandi opere, si dimostra commercialmente infruttuosa per la Titanus, che dovrà tra l’altro chiudere la sua attività di produzione poco tempo dopo. Il miracolo economico insomma si rivela alquanto fragile (sul tema nel 1963 viene organizzato a Livorno un convegno dal titolo Crisi dell’industria e cinema libero) e la spinta a sostegno dei nuovi autori si dimostra fiacca, tanto da ridurre il tutto a pochi grandi esordi e sporadiche produzioni. 21

19. Lino Miccichè, Patrie visioni, Marsilio, Venezia, 2010, p. 203 20. Callisto Cosulich, L’operazione Titanus, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. X, Marsilio, Venezia, 2001, p. 144 21. Callisto Cosulich, L’operazione Titanus, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. X, Marsilio, Venezia, 2001, p. 145


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1.3 Generi cinematografici

Così la realtà industriale del cinema italiano diviene alquanto precaria, tanto da dover compensare il consumo “alto”, con una produzione di film appartenenti a dei “generi” o “filoni” economicamente più proficui e affermandosi, nelle stagioni di crisi, quando l’offerta-consumo di film autoriali appare rarefatta. Per cui i “generi-filoni” vivono un proprio percorso, parallelamente ai movimenti del cinema impegnato, rispondendo a fabbisogni temporanei del pubblico, senza alcuna pretesa di sperimentazione o trasgressione di linguaggi.22 È il caso dei peplum (circa 170) che nascono nel ‘57, anno fatidico di crisi industriale e ideale nel cinema italiano; similmente i film “sexy” dilagano dal ‘62, quando è già preannunciata la fine del miracolo cinematografico e continueranno fino alla nascita del circuito “a luci rosse”; i “western all’italiana” che nascono nel ‘64, annata particolarmente critica, (anche perché le riforme strutturali prendono a funzionare tardivamente), e continueranno ad avere un notevole seguito fino a metà degli anni ‘70, con oltre 400 titoli, superando con indifferenza i cambi generazionali e la crisi cinematografica, con la sola contrapposizione del genere spionistico.23 L’industria cinematografica italiana inizia perciò a produrre il cosiddetto “film medio”, una realtà quasi sistematicamente ignorata dagli schermi, in un’ambigua collocazione tra il “cinema di consumo” e quello del “cinema d’autore”. Il “film medio” non vuol dire affatto mediocre, ma presenta connotazioni anche autoriali e comuni quali la story, il budget, il cast, il lancio pubblicitario, le caratteristiche produttive e distributive, che non appartengono né alle zone alte del mercato né a quelle basse. A partire dagli anni ‘60 si inizia positivamente a produrne in buona quantità, anche grazie all’attività di intraprendenti case di produzione come quelle di Carlo Ponti, Dino De Larentiis, Goffredo Lombardo, la Vides di Franco Cristaldi, l’Arco Film di Alfredo Bini, la Galatea di Lionello Santi,

22. Argomento largamente discusso da Lino Miccichè, Patrie visioni, Marsilio, Venezia, 2010, cap. I “meravigliosi” anni ‘60 23. Lino Miccichè, Patrie visioni, Marsilio, Venezia, 2010, pp. 166-169


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e non per ultima la Cineriz del vecchio Rizzoli. In tale visione particolarmente rilevante e specifica degli anni ‘60 è il fenomeno della cosiddetta “commedia all’italiana”, che appare un campo sociologicamente interessante e spesso sintomatico dello Zeitgeist (confuso, indistinto, contraddittorio) del decennio.24 Vere e proprie militanze organiche nell’ambito della formula sono quelle di registi significativi come Ettore Scola, Pasquale Festa Campanile, Luciano Salce, Gianni Puccini e Dino Risi, che pur con stili differenti approdano a dei risultati dalle forti somiglianze e una stessa qualità confezionistica. La commedia italiana inoltre deve molto del suo successo ad attori di rilievo, che caratterizzano fortemente il genere come Ugo Tognazzi (62 film nel periodo ‘59/’68), Alberto Sordi (34 film), Vittorio Gassman (62 film), Nino Manfredi (32 film) specializzati nei ruoli brillanti e raramente in ruoli drammatici, che restano invece interpretati maggiormente da Enrico Maria Salerno (40 film) e Marcello Mastroianni (27 film).25 Si possono contare circa 400 titoli riferibili al filone della commedia nel periodo tra il 1960 e il 1969 e speficamente una sessantina quelli attribuibili alla “commedia all’italiana”, tanto da farci dedurre quanto tale formula produttiva fosse economicamente valida. I temi trattati, il gusto dell’irrisione, la satira spregiudicata, la scelta per ambienti e personaggi borghesi (quasi mai positivi), portano questo genere nell’ambito del “film medio”. 26 Il progresso economico-sociale e civile-istituzionale che vive il paese, e le ulteriori forti contraddizioni che ne conseguono, portano i registi a spingersi oltre i limiti della rappresentazione degli anni ‘50 con meno paura e con più spregiudicatezza e cinismo, soprattutto verso il moralismo e le certezze ideologiche, che avevano caratterizzato il decennio precedente. In un tale quadro, il cinema si proclama “tutto di sinistra”, e sfrutta il genere della commedia più comprensibilmente accettato, come

24. Aldo Viganò, La commedia all’italiana, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. X, Marsilio, Venezia, 2001, pp. 235-239 25. Lino Miccichè, Patrie visioni, Marsilio, Venezia, 2010, p. 170 26. Aldo Viganò, La commedia all’italiana, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. X, Marsilio, Venezia, 2001, pp. 235-239


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arma di derisione della società e delle istituzioni, con tono cinico e divertente per inquadrare anche i drammi della contemporaneità italiana. In questo clima e dopo l’indubbio merito di Rossellini che gira Il generale Della Rovere [fig 16/18] nel 1959, si riapre anche il discorso nel cinema sui temi legati al fascismo, l’antifascismo, la Resistenza, la guerra fascista, l’occupazione tedesca, la liberazione, molti anni dopo le contrapposizioni istituzionali e censorie, che si erano fortemente poste contro una ricostruzione filmica degli eventi storici passati, quasi come se la società italiana negasse con il silenzio la proprie vicende dolorose e la memoria.27 Rossellini può rompere questo stato di incoscienza storica, grazie ai cambiamenti politici degli anni ‘60 e l’esclusione della censura verso i temi che riguardano la sfera politica, storica e ideologica, aprendo così le porte ad un nuovo filone tematico (una cinquantina di titoli), come se un sentimento collettivo sentisse il bisogno di fare i conti con il passato per capirne l’incidenza sul nuovo volto della società italiana, quasi come un’atto di conciliazione. Il tema che domina il ciclo è appunto quello della presa di coscienza, seppur con una notevole varietà di prospettive, dividendosi nel sottofilone “comico” e in quello “serio”, accomunati però dalla presenza di un personaggio principale (esemplificato da Sordi in Tutti a casa [fig 19/21] di Comencini del 1960) che da un’aperta militanza fascista, anche se lievemente scettica, giunge attraverso una serie di vicissitudini, incontri, epifanie, o ad un atto di ribellione, o più raramente ad un’aperta militanza antifascista. L’ indirizzo più impegnato del filone è di più complessa articolazione e si compone ovviamente di diverse tendenze. Fra i film più importanti, va ricordato La ciociara [fig 22/24], (1960), realizzato da Vittorio De Sica su una sceneggiatura di Cesare Zavattini, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia. A conferma di quanto peso stesse ottenendo il film della ricostruzione storica, poco dopo anche i partiti iniziano a promuovere tali iniziative: il PSI, tramite un gruppo di suoi militanti attivi nel documentario, promuove nel ‘60/’61 la produzione del film di montaggio All’armi siam fascisti (con

27. Mino Argentieri, Il cinema nell’Italia del centrosinistra, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. X, Marsilio, Venezia, 2001, pp. 179-183


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testo di Franco Fortini), che incontra notevoli difficoltà censorie e ostacoli amministrativi, fino a quando la Democrazia Cristiana non decide di proporre una sua versione dal titolo Benito Mussolini (1961), cui Roberto Rossellini concede l’onore e l’avallo del proprio nome quale regista supervisore.28 1.4 Morale, sesso e tabù

Nella seconda metà del ‘900, i cambiamenti culturali derivati da nuove idee e valori trasformano l’Europa globalmente. Gli anni Sessanta rappresentano un periodo di profondi mutamenti, partendo dall’Europa del nord e sviluppandosi poi verso il sud, che prendono il nome di seconda transizione demografica (STO). Le trasformazioni demografiche in senso stretto, sono anche il sintomo di una diffusione di scelte coniugali e riproduttive nuove o alternative. Il contesto europeo diviene protagonista di una vera e propria rivoluzione sessuale, nella quale la società si allontana da schemi, usi e costumi tradizionali, in favore di una maggiore individualizzazione del percorso della propria vita. Incominciano a diffondersi nuovi modelli di iniziazione sessuale, con differenti implicazioni per i due sessi: per le donne, il rapporto sessuale si slega dal necessario vincolo matrimoniale, mentre per gli uomini, che godono di maggior libertà, significa non sperimentare la propria sessualità con donne più anziane o con prostitute, ma con coetanee. Anche in Italia, gli anni del boom introducono profondi cambiamenti strutturali sintetizzabili anche in nuovi sistemi associativi e produttivi, dallo scadere dell’autorità parentale alla ristrutturazione della famiglia, che favoriscono mutamenti culturali a partire da nuove forme di consumo, nuove consuetudini come le vacanze, l’uso del tempo libero, fino ad un maggior permissivismo. Una ricerca svolta tra i giovani nel 1960 individua già diversi fattori di cambiamento e di trasformazione in atto riguardo alla morale sessuale e familiare. Di conseguenza anche l’educazione sentimentale cambia. Mentre fino

28. Lino Miccichè, Patrie visioni, Marsilio, Venezia, 2010, p. 182


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a mezzo secolo prima, la sessualità veniva considerata un aspetto completamente separato dall’amore (almeno per la popolazione maschile), il ‘68 sembra ridurre e colmare questo divario. Anche tra i giovani più legati alla Chiesa o a posizioni politiche conservatrici, emergono lentamente atteggiamenti di maggiore libertà. Non tutti sono più disposti a condannare in toto la sessualità prematrimoniale, gli anticoncezionali, la masturbazione o l’omosessualità. Il sesso diventa perciò pretesto di rivendicazioni politiche o semplice prodotto di consumo, e nonostante la lunga stagione della repressione sessuale, questo tema in Italia continua ad essere un fattore di produzione come tanti altri. Basta pensare che la Repubblica italiana attuando la legge Merlin del 1958, fa chiudere circa 5000 case di tolleranza gestite dallo Stato, continuando però a punire lo sfruttamento e il favoreggiamento da parte di terzi e l’adescamento da parte della prostituta. In pratica si criminalizza l’organizzazione della prostituzione, ma contemporaneamente si sviluppa una doppia morale per cui le prostitute finiscono in strada, dove però vengono ampiamente tollerate. Certe conquiste sessuali degli anni Sessanta e Settanta, in Italia sembrano tuttavia andare in una direzione opposta rispetto a quella di una vera libertà sessuale ancora interamente tesa a privilegiare una concezione del sesso, principalmente legata al cattolicesimo e di conseguenza fortemente inibita, dove si può individuare un nesso forte tra le norme repressive in materia sessuale e il controllo esercitato dal potere politico. Inoltre la rottura dei tabù sessuali e la fine del silenzio sul sesso destano viva preoccupazione nella morale cattolica e nelle istituzioni ecclesiastiche, che hanno sempre considerato, ieri come oggi, l’appagamento sessuale e l’abbandono al principio del piacere in ogni senso, come un rischio di tolleranza verso la dissolutezza erotica e la caduta di valori morali. L’euforia del benessere è in realtà una maschera dove in Italia si nascondono ancora il bigottismo, il moralismo, l’ipocrisia e il conservatorismo (passa alla storia ad esempio, la strigliata che l’onorevole Oscar Luigi Scalfaro si sente in dovere di rivolgere in un ristorante romano, a una giovane donna in abiti ritenuti troppo succinti). Il cinema come mezzo di comunicazione “di evasione”, più di tutti prende spunto dalla situazione conflittuale che vive il Paese. I documentari girati proprio in questi anni, (precisamente dal 1959 al 1964), per la Rai


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ma anche per le sale cinematografiche, hanno il proposito di raccontare un intero paese in totale trasformazione, e l’ambito sessuale diviene un tema di notevole interesse per molti registi, che nel modo più discreto possibile cercano di parlare di sessualità, nonostante la difficoltà dell’epoca di nominare anche solo termini come seno o membro. La ragione di questa ricorrente attenzione da parte del cinema è dovuta non tanto al rapporto sessuale strettamente inteso, ma a tutto ciò che socialmente fa da contorno a tale rapporto, ovvero i ruoli sociali derivanti dall’appartenenza sessuale, gli obblighi morali che uomini e donne devono rispettare per seguire la morale comune, ma soprattutto di come il genere e la sessualità siano significativamente intrecciati e si condizionano fortemente. Ad esempio, I vitelloni [fig 25-26] del 1953 di Federico Fellini, e Il seduttore (1954) di Franco Rossi con Alberto Sordi, sono lo spaccato di una società dalla doppia morale, che per principio ammette la sessualità solo nella sfera coniugale, ma che nella realtà dei fatti si comporta altrimenti, soprattutto per gli uomini. In tale ambito, la censura fa il suo ingresso negli anni ‘60 con rinnovata energia, pronta a vivere nuove stagioni con l’entrata in scena di nuovi protagonisti, i magistrati - quelli più conservatori e moralisti -, la cui azione viene ad affiancarsi e sovrapporsi a quella dei censori amministrativi, a cui la legge del 1962 sottrae molti campi di intervento. L’industria cinematografica si trova perciò a dover contrastare magistrati e censori, che divengono ben presto i paladini dell’oscurantismo e dell’intolleranza sessuale, e cercano di impedire alla produzione cinematografica italiana di farsi cassa di risonanza delle nuove problematiche sociali e delle trasformazioni del costume, attraverso irrigidimenti delle norme censorie e giudiziarie. Dall’inizio degli anni ‘60, la censura infatti trova nuovi protagonisti, tra cui il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Venezia, Pietro Trombi ed il procuratore della Repubblica di Milano, Carmelo Spagnuolo. A sostenere la loro azione intervengono, oltre ai rappresentanti dell’integralismo cattolico, il ministro del neonato Ministero del Turismo e dello Spettacolo, a cui viene affidata la competenza in materia cinematografica. In pratica il ministro Umberto Tupini, e il suo successore (dal luglio 1960), Alberto Folchi, diventano espressione di quella maggioranza governativa centrista che cerca di impedire l’autonomia di giudizio dello spettatore e


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si appropria della funzione di regolatore sociale del senso comune. Più di tutti è l’uscita de La dolce vita [fig 27-28] di Fellini a creare un terremoto sociale nell’ambito del costume italiano, e a scatenare la loro profonda indignazione e le conseguenti polemiche sulla presunta esaltazione della corruzione del valori sociali offerta dal capolavoro felliniano, provocando poi un vero e proprio caso giuridico.29 Ebbene La dolce vita è un deciso salto di qualità e provoca una decisa mutazione nel costume cinematografico italiano, costretto fino ad allora ad essere quasi asessuato o a scimmiottare l’infantilismo sessuale di Hollywood. Tutte le condizioni sfavorevoli che l’avevano preceduto, improvvisamente vengono a mancare. Il colpo di mano di Federico Fellini, fino a quel momento considerato dai cattolici il loro rappresentante nel cinema, apre le porte a nuove possibilità di espressione, stravolgendo i canoni della concezione sacrale del sesso e mostrando la continua presenza del peccato, fattore innovativo specie per il pubblico medio, abituato a vedersi esorcizzare tali fantasmi attraverso i doppi sensi dell’avanspettacolo e la barzelletta pruriginosa.30 Parallelamente cresce una fiorente produzione di film, rotocalchi, fumetti, pubblicità di prodotti che usano contenuti erotici per rendere appetibili e desiderabili le merci. Nel 1966 esce Il primo numero di Men, rivista erotica che nel primi tempi si limita alla pubblicazione di fotografie di ragazze in bikini accompagnate da testi “piccanti”. Ma è nel 1967, che nella ancora cattolicissima Italia escono le prime riviste pornografiche e i primi fumetti a sfondo sadico-erotico. Nell’estate del 1967 alla mostra cinematografica di Venezia viene assegnato il primo premio al regista Luis Buñuel per il suo Bella di giorno, pochi mesi dopo Salvatore Samperi ottiene un discreto successo con Grazie zia, un film sugli scabrosi rapporti fra un’avvenente zia e il nipote. La censura stavolta concede il nulla osta e sorprendentemente non fa tagliare nemmeno un fotogramma, inaugurando così l’era del nudo. Rotti gli argini,

29. Franco Vigni, La censura, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. X, Marsilio, Venezia, 2001 30. Callisto Cosulich, La scalata al sesso, Immordino Editore, Genova, 1969, cap. 1


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l’industria cinematografica comprende presto le potenzialità commerciali di questo genere e invade le sale con pellicole quasi forzatamente spinte e erotiche, sfornando per la stagione 1969-70 ben 74 titoli, contro i 59 della stagione precedente. Fra le tante pellicole merita essere ricordata Helga, del 1967 diretto da Erich F. Bender, che inaugura la serie di film d’educazione sessuale, rivelando per la prima volta a tutto schermo l’affascinante momento della nascita, fino ad allora quasi mai rappresentato. 1.5 Economie del cinema e censura

Grazie al neorealismo, il cinema italiano aveva espresso la sua volontà di rinascita e ripresa del paese, e con l’inizio del decennio tutti gli indici e tutti i comparti del cinema italiano ricevono potenti spinte verso l’alto che lo portano al punto di massimo splendore nel mercato interno e sul piano internazionale. Lo sviluppo del cinema è in apparenza allineato con le caratteristiche dello sviluppo dell’economia del miracolo economico: sfruttamento di manodopera e forza-lavoro a basso costo, un rinnovato interesse da parte dei mercati esteri, una forte valorizzazione tecnologica e spettacolare di prodotti a bassa definizione, l’attenzione verso più tipi di domanda, e una spinta energica da parte di alcune opere guida per tutto un genere. 31 Questi fattori portano ad un deciso rilancio dell’imprenditoria cinematografica ed un successivo e notevole rendimento delle produzioni. Il 1960 rappresenta un anno di svolta, un anno in cui il cinema italiano vive tante vicende quante non gli erano capitate nei cinque anni precedenti. Durante l’assemblea generale dell’Anica, dell’11 febbraio 1960, viene annunciato, con un non celato tono trionfalistico, che il cinema italiano è in buone condizioni di salute e che l’Italia è il secondo paese del mondo, dopo gli Stati Uniti, per numero di sale cinematografiche. Il bilancio supera ogni previsione: 765 milioni di spettatori nel 1959 contro i 730 del 1958; 116 miliardi di incassi, contro i 110 dell’anno precedente; 167 lungometraggi, 600 cinegiornali e 340 documentari prodotti e 20 milioni di

31. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo,Editori Laterza, Bari, 2007, p. 3


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dollari di proventi netti della esportazione dei film italiani. 32 I primi quattro film al vertice d’incassi nella stagione del 1960 sono La dolce vita di Federico Fellini, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, La ciociara di Vittorio De Sica, Tutti a casa di Luigi Comencini, opere che nel decennio precedente, avrebbero avuto un esito commerciale disastroso, ottengono ottimi risultati grazie al cambiamento culturale ed economico dell’Italia, tanto da spingere le case di produzione ad investire cospicui capitali in film d’autore, contribuendo alla sprovincializzazione del cinema italiano. Come nota Vittorio Spinazzola: Il nuovo corso cinematografico prende l’aspetto della marcia trionfale. La premessa pratica di questa svolta è costituita dalla volontà di intensificare lo sfruttamento del circuito di prima visione, il più redditizio: non solo per il prezzo maggiore del biglietto, ma anche perchè consente un recupero più rapido delle spese di produzione, cosa particolarmente necessaria per un film ad alto impegno economico. 33 Il 1960 è anche l’anno in cui viene posta per la prima volta sul tavolo della discussione, la richiesta di soppressione di ogni forma di censura preventiva esercitata dall’amministrazione dello Stato. Le successive vicende censorie che riguardano Rocco e i suoi fratelli, episodio culminante del dibattito sulle garanzie esistenti in Italia per il rispetto, sia della libertà d’espressione, sia dello stesso buon costume, fanno crollare il mito della censura ministeriale che per quindici anni aveva turbato i sonni dei cineasti italiani. L’intervento della Procura della Repubblica che, nel giro di due mesi, blocca, fa sequestrare le copie e rinvia a giudizio gli autori di cinque film (Rocco e i suoi fratelli, L’avventura, I dolci inganni, La giornata balorda, Il passaggio del Reno) tutti muniti di regolare nulla osta di circolazione, dimostra che il giudizio delle commissioni di censura diviene privo di qualsiasi valore legale, tutte le volte che uno dei cento e più procuratori operanti sul territorio nazionale decide di procedere alla sospensione della proiezione,

32. Gian Piero Brunetta, op. cit., p. 4 33. Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico, Bombiani, Milano, 197a, p. 239.


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secondo una personalissima visione della lesione del buon costume. La vittima principale di questo modus operandi diviene naturalmente più la libertà politica del cinema italiano, che quella in materia di sessualità, dato che oramai anche il nostro paese sembra adeguarsi agli standard predominanti del cinema statunitense. L’erotismo quindi diviene accettabile secondo canoni rappresentativi collaudati, ma nel 1960, anche grazie all’uscita de La dolce vita, lo scontro diviene più ampio dato che i confini fra libertà politica e libertà sessuale improvvisamente s’identificano e spesso si confondono. Il settore del cinema però innegabilmente vive una fase di grande mobilità e tensione, sia nel suo aspetto di produzione culturale, sia sul versante puramente ideologico. Gli anni ‘60 rappresentano perciò l’inizio di quel dibattito interno, nato grazie al mutamento economico e politico del paese, che pur con le suddette restrizioni permette relative liberalizzazione delle frontiere, nei confronti di temi messi all’indice da parte dei produttori, del governo e della censura, quasi per un tacito accordo tra le parti, che in pratica si concretizza come una sorta di censura preventiva dei soggetti.34 Se da un lato il decennio si apre con il semi affondamento del complesso cinematografico pubblico ereditato dal regime fascista e costituito dall’Istituto LUCE, dagli studi di Cinecittà, dall’ENIC-ECI e dalla Cines, praticamente la struttura portante negli anni del dopoguerra - il versante produttivo si rinnova di operazioni commerciali da parte di aziende private come la Titanus, la Cineriz e le imprese di De Laurentiis e Ponti, le quali sono riuscite a trovare un posizione stabile nel mercato con un ciclo produttivo integrato, che spesso prevede oltre il possesso della ditta di produzione, anche quella di distribuzione e talvolta anche di un teatro di posa. In particolare il primo a distinguersi per ingegno e fiuto e a intraprendere un nuovo percorso è sicuramente Goffredo Lombardo. In questo periodo la Titanus rappresenta nel modo più significativo, il miglior cinema italiano, grazie alle collaborazioni con autori come Visconti, De Sica, Monicelli, Bolognini, Lattuada, Brusati, Giannetti, Loy, Petri, Zurlini, Comencini. La figura di Goffredo Lombardo è da considerarsi come fondamen-

34. Callisto Cosulich, La scalata al sesso, Immordino Editore, Genova, 1969, cap. 2


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tale congiuntura fra le spinte verso i modelli americani e il rispetto della tradizione cinematografica italiana, tanto da avviare anche programmi di scambio e di coproduzione fra le due, portando alla valorizzazione di più tipologie di prodotto. Infatti La Titanus produce e distribuisce nel 1960, Rocco e suoi fratelli e La ragazza con la valigia, cura la distribuzione de La ciociara, punta sugli esordi di Franco Brusati (Il disordine) ed Elio Petri (L’assassino), ma contemporaneamente investe anche in titoli di più largo consumo, come Il corazziere (1960) di Camillo Mastrocinque.35 Il particolare caso della Titanus però non è da considerarsi unico, ma più case di produzione si muovono sullo stesso trend, che porta alla creazione di un doppio mercato: da una parte quello costituito da titoli selezionati, per un pubblico che desidera consumare prodotti di qualità, dall’altro lato un mercato che intende raggiungere i grande pubblico internazionale, puntando alla riutilizzazione sistematica e appena variata dei moduli costituiti da un sistema di narrazione collaudato e che il pubblico ama.36 Nonostante le pragmatiche strategie imprenditoriali, le case di produzione devono far fronte anche alle nuove dinamiche da botteghino e del mercato internazionale. Le sale incominciano a perdere spettatori e nonostante il continuo aumento del prezzo dei biglietti, calano pure gli incassi. Come afferma Gian Piero Brunetta: La recessione dell’industria cinematografica va correlata, verso la metà degli anni Sessanta, con la sfavorevole congiuntura economica nazionale prodottasi dopo anni di crescita costante ed eccezionale, con la crisi dei mercati internazionali, con la concorrenza data dal mercato musicale e ancora una volta con la mancata approvazione di una nuova legge che ridefinisca tutta la materia in maniera da far fronte a una situazione ormai del tutto diversa da quella del 1949.37

35. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo, Editori Laterza, Bari, 2007, p. 7 36. Gian Piero Brunetta analizza approfondiatamente la questione economica nel cap. Politica e cultura delle istituzioni tra il vecchio e il nuovo in Il cinema italiano contemporaneo, Laterza, Bari, 2007 37. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo, Editori Laterza, Bari, 2007, p. 21


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Per fronteggiare la crisi Ponti e De Laurentiis si trasferiscono negli Stati Uniti, la Titanus, sommersa dalle passività, è costretta a ritirarsi dall’attività produttiva, e più avanti anche la Cineriz avrà grandi difficoltà economiche e giudiziarie e la cinematografia italiana registra l’ennesima caduta delle sue basi più solide. L’inclinazione verso un ridimensionamento del mercato, per lo più per il cinema di “profondità”, è anche indotto dalle strategie editoriali americane e italiane che mirano al recupero degli investimenti il più rapidamente possibile. L’area del prodotto medio, che per mezzo secolo rappresenta la spina dorsale dell’industria cinematografica, va man mano restringendosi, lasciando spazio a pochi successi enormi che tuttavia sono incapaci di riequilibrare gli scarsi incassi di altri film. A tal proposito sempre Gian Piero Brunetta scrive che: La cosiddetta censura del mercato, nei termini in cui si presenta dalla metà degli anni Sessanta, è un processo di razionalizzazione, concentrazione e sfruttamento di alcune opere, che annulla qualsiasi spazio di circolazione per prodotti di qualità privi di garanzie di rendimento. E questo a prescindere da ragioni ideologiche, politiche e morali.38 Inoltre la comparsa della televisione nella case degli italiani porta lo spettatore medio a preferire un numero ristretto di film nazionali e stranieri, visti prevalentemente nei cinematografi di prima visione, nei capoluoghi di provincia, nei più popolosi centri urbani. In queste condizioni l’industria compie sforzi notevoli per vendere i suoi prodotti e per fronteggiare la concorrenza del cinema americano e della televisione, trovandosi perciò obbligate a sottolineare la sensazionalità e l’eccezionalità dei prodotti per destare l’attenzione del pubblico, con l’appoggio della pubblicità su settimanali e stampa quotidiana, che per la prima volta offrono largo spazio all’universo dello spettacolo e alle relative notizie mondane. Ma più di tutte, la carta da giocare sul piano merceologico per la produzione italiana, diviene la netta differenziazione del prodotto cinematografico da quello televisivo, la varietà delle proposte editoriali, un evidente impegno artistico, la spregiudicatezza nelle scelte

38. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo, Editori Laterza, Bari, 2007, p. 21


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tematiche e nella rappresentazione del sesso e della violenza, coinvolgendo tutti i generi e i livelli produttivi e culturali. Tale trasformazione porta il cinema degli anni Sessanta a scontrarsi nuovamente con la censura amministrativa, (in un conflitto fra modernità e vecchia egemonia che non vuole perdere terreno) con quei rami della magistratura già mobilitatasi in occasione di film come I dolci inganni, La giornata balorda, Rocco e i suoi fratelli e L’avventura. 39 La crisi, ormai è chiaro, investe direttamente il cinema come “istituzione” e come medium. 40 Tutto il comparto del cinema a questo punto chiede al governo un’effettiva riforma, che arriva tardivamente in vigore nel 1965, secondo il principio di riqualificazione di tutti i livelli produttivi, con incentivi (come quello dei venti premi di qualità annui), appositi interventi creditizi e nuove strutture di intervento statali. Nell’ambito appunto, vi è anche il tentativo produttivo dell’Italnoleggio che nasce nel 1966, grazie alla suddetta legge 1213. Si tratta di una società pubblica, che ha lo scopo di distribuire film di qualità e intervenire nella produzione, come vero atto di fiducia nelle capacità di intervento statali nei settori della produzione, distribuzione e noleggio, nonostante i precedenti fallimenti della Cines, Enic ed Eci. Un fenomeno nuovo, che si manifesta verso la metà degli anni Sessanta e subisce una svolta molto netta a partire dal 1968, è lo sfruttamento parallelo del mercato televisivo e cinematografico, grazie all’entrata in campo della televisione come produttrice e coproduttrice di film, soprattutto su programmi di ricostruzione storica a scopo didattico e spettacolari, in cui molti dei registi più rappresentativi del cinema italiano si cimentano anche grazie alla disponibilità di più capitali.41 Le innovazioni e la legge del 1965 comunque non bastano per competere con la concorrenza internazionale, in particolare quella americana,

39. Mino Argentieri, Il cinema nell’Italia del centrosinistra in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. X, Marsilio, Venezia, 2001 40. F. Casetti, Il terzo escluso: Film psicanalisi e morte del cinema, in «Cinema&Cinema», a. IV, n.13, ottobre-dicembre 1977, pp. 11-16 41. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo, Editori Laterza, Bari, 2007, p. 24


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e l’azione collaterale della fine del miracolo economico per tutta l’economia nazionale si manifesta naturalmente anche nel cinema. Quelli che, nel finale del decennio, ci parvero i dati di una ridotta dialettica e di una diminuita creatività del nostro cinema erano invece gli ultimi bagliori di una fase calante che avrebbe assunto l’aspetto di un vero e proprio tracollo.42 Così Lino Miccichè sintetizza la situazione del cinema italiano della seconda metà degli anni Sessanta. Infatti nell’arco del decennio, nel complesso la crisi fa sì che al Nord scompaia una fetta di pubblico in misura del 30%, mentre al Sud la contrazione sia solo del 10% e riguardi soprattutto il pubblico domenicale delle periferie, delle sale parrocchiali e delle campagne. In questo periodo la suddivisione degli incassi rimane invariata dato l’aumento del costo dei biglietti, proporzionalmente superiore alla parallela perdita numerica di spettatori. Infatti dal 1960 al 1966, il prezzo medio dei biglietti aumenta del 40% (da 162 lire a 262) rimanendo però assai al di sotto dei prezzi praticati in Francia, Inghilterra e Germania. Così, accanto ai tentativi riformistici e all’aumento delle ambizioni di registi e sceneggiatori, si incominciano a manifestare forme di smembramento di diversi settori, facendo emergere tutte le contraddizioni interne al mercato italiano che oltre alle difficoltà economiche, deve confrontarsi anche con le interferenze delle commissioni di censura, con il bigottismo di alcuni magistrati, preoccupati di difendere “il comune senso del pudore” e che considerano il cinema ancora fra le cause primarie dell’aumento della criminalità e del diffondersi dei mali più diversi (dalla violenza, al furto, alla perversione, alla droga) e infine anche con funzionari ministeriali preoccupati di difendere il clientelismo, costantemente vigente. 43

42. Lino Miccichè, Cinema italiano: gli anni ‘60 e oltre, Marsilio, Venezia,11995, p.25 43. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo,Editori Laterza, Bari, 2007, p.32


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2. Breve storia giuridica della censura 2.1 Premessa

Le origini di forme censorie applicate alle arti sono antichissime. Anche nella Grecia Antica, Platone (sec V-VI a.C.) considera l’arte (concetto esteso per la musica, il teatro e le arti figurative) come troppo sensibile e imitativa della natura e come un’allontanamento dell’uomo dal vero.Sotto l’impero romano, l’ufficio della Censura (443 a.C.) ha il compito di effettuare periodicamente il censimento del popolo romano a fini tributari e politici. Solo dopo, i censori assumono il ruolo di controllori della condotta morale dei cittadini, specie delle classi più elevate, a cui vengono sottratti anche i diritti politici. Questa premessa è utile per farci comprendere quanto sia radicata nella società, la volontà di censurare tutte quelle espressioni culturali e artistiche non conformi al potere o alla visione comune. Remo Bodei nel suo saggio sui modelli teorici di censura cita anche Jeremy Bentham , il filosofo inglese dell’utilitarismo, e afferma che «nell’interpretazione di Bentham la legge è già un elemento di censura, e cioè ogni meccanismo giuridico, in quanto rimuove, in quanto proibisce, rappresenta un meccanismo censorio». 44 La storia del cinema stesso ha un percorso parallelo a quello delle leggi censorie, che si evolvono contestualmente alle trasformazioni sociali e morali di ogni singolo paese d’origine. Anche in Italia la legislazione della censura ha inizio il suo percorso nel Novecento. Spinte di diversa origine hanno portato il sistema politico ed il sistema giuridico a volgere il proprio sguardo verso il cinema: infatti la censura cinematografica è stata introdotta nell’Italia liberale, rafforzata nell’Italia fascista e mantenuta nello Stato democratico, senza soluzione di continuità. Di fatto sarebbe utile rileggere la storia politica e del costume italiano anche in rapporto alla dimensione normativa della censura, in altri ter-

44. Remo Bodei, Sapere, nascondere, deformare. Modelli teorici di censura in Strategie e pratiche della censura, Regione Emilia Romagna-Assessorato alla Cultura, Ferrara-Bologna, 1980, p.16


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mini, come il diritto ha osservato il cinema e quali misure interpretative ha adottato rispetto a questo.45 L’esistenza di limiti alla libertà di espressione (anche cinematografica) affidati al diritto, hanno naturalmente portato ad una confusione di codici comunicativi di funzioni, ad arbitrarietà ed a paradossi, facendo persino talvolta coincidere il lecito con l’artistico e l’illecito con il nonartistico, ingabbiando la comunicazione artistica con il fine di stabilire l’oscenità o la lesività del buon costume, decretando anche spesso l’inefficacia dello strumento giuridico di regolare l’espressione artistica.46 Per tale ragione si intende aprire una parentesi (senza addentrarci troppo nella complessa esegesi del diritto in questo campo) sulle normative che hanno interessato l’industria cinematografica dal 1913 al dopoguerra, per chiarire il rapporto tra diritto e cinema nella misura in cui si è caratterizzato in termini censori, e con cui nel corso dei decenni, si è svolta questa funzione di repressione e controllo, per poi giungere all’elaborazione della Legge 161, del 21 aprile 1962, ritenuta fondamentale nella comprensione e nell’analisi di questa tesi. 2.2 Dalle origini fino al 1927

Il primo emendamento di pubblica sicurezza nell’ambito risale al 1889 (regio decreto 30 giugno 1889, n. 6144), che affida ai prefetti il compito di proibire le rappresentazioni, all’epoca soprattutto teatrali, per ragioni di morale e ordine pubblico. Già dai primi anni del Novecento, l’influenza delle immagini in movimento è percepita dai moralizzatori all’interno dei pubblici poteri e dagli esponenti del clero. L’impostazione restrittiva in materia di spettacolo, difatti affonda, le sue radici più profonde nell’ordinamento prerepubblicano, dove, la mancanza di una garanzia costituzionale, ha potuto espandersi e giustificare l’impedimento alla rappresentazione delle opere cine-

45. In Italia del rapporto tra diritto e cinema si è occupata, tra i pochi, Lucia Bellucci nel suo Cinema e aiuti di stato nell’integrazione europea. Un diritto promozionale in Italia e in Francia. 46. Norberto Bobbio, Libertà dello spettacolo e libertà dello spettatore, in Cinema nuovo, 1962, p.351


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matografiche e alla loro conseguente libertà di espressione. Sintomatica è questa citazione tratta da una lettera del procuratore romano Avellone, pubblicata il 18 ottobre 1912 su un quotidiano dell’epoca, in cui il suddetto rimprovera al cinematografo di «attirare le folle con le più malsane e pervertite curiosità, con spettacoli orridi riproducenti adulteri, suicidi, amori inverecondi» aggiungendo con lucidità lungimirante che «l’autorità politica deve compiere pieno, intero il dovere suo di sorveglianza dei pubblici spettacoli e di tutela della moralità pubblica». 47 Effettivamente però la prima forma embrionale di legge censoria in vigore, nota anche come legge Facta, è da attribuirsi al governo Giolitti, la cui uscita non sembra sollevare polemiche o critiche dal mondo della cultura, probabilmente a causa dell’indeterminatezza del cinema nel panorama sociale. 48 La normativa in questione del 25 giugno 1913, n.785 ed il relativo regolamento di esecuzione (r.d. 31 maggio 1914, n.532) affidano interamente a funzionari di polizia, la vigilanza sulla produzione delle pellicole cinematografiche, mentre il Ministro degli Interni continua ad esercitare un’attenta vigilanza sul lungo e dettagliato elenco di divieti.49 Una diversa attenzione è rivolta dagli ambienti culturali dell’epoca al regio decreto n. 1953 del 9 ottobre 1917. Infatti, la più ampia diffusione del cinematografo determina anche l’esigenza da parte delle autorità, di una forma di censura amministrativa, dovuta alla particolare forza evocativa delle immagini in movimento e dalla sua influenza sugli spettatori. Perciò viene introdotta la pratica del rilascio del nulla osta per la circolazione delle pellicole, ed inoltre viene stabilita la revisione dei soggetti e

47. Riportato da D.Liggeri, Mani di forbice, cit., p.94 48. Paolo Caretti, Diritto pubblico dell’informazione, il Mulino, Bologna, 1994 49. Legge 25 giugno 1913, n. 785. Il presidente del Consiglio Giolitti autorizza il governo a vigilare sulla produzione delle pellicole cinematografiche, prodotte in Italia o all’estero, attraverso la revisione preventiva obbligatoria. Si introduce la casistica di argomenti soggetti a censura, ripresa quasi fedelmente anche sotto il Fascismo, e si stabiliscono anche le competenze e la composizione delle commissioni. Regio decreto 31 maggio 1914, n. 532. La censura sui film è esercitata dal Ministro dell’Interno, cui spetta la concessione del nulla osta “in conformità al giudizio del revisore” con due gradi di giudizio.


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delle sceneggiature come operazione di censura preventiva. Infatti sino a quel momento, l’eventuale blocco di una pellicola avveniva solo in un tempo successivo alla sua realizzazione, provocando però un’evidente perdita economica alle case di produzione, derivata dall’impossibilità di far circolare l’opera ritenuta non ammissibile.50 Con il decreto 531 del 1920, la revisione delle opere cinematografiche viene passata ad una commissione ad hoc, i cui componenti sono nominati dal Ministero, animati da uno spirito non diverso da quello dei funzionari precedenti. La composizione di tale commissione è tale da preservare l’integrità della lingua (un letterato ed un pubblicista), la morale (una madre di famiglia e un educatore), il rispetto delle istituzioni (due funzionari di Pubblica Sicurezza ed un magistrato).51 Inoltre viene ampliata la casistica delle rappresentazioni vietate.52 Nel 1923, vengono confermati i poteri alla direzione generale della pubblica sicurezza, istituendo il doppio grado di controllo da esercitarsi per il tramite di due commissioni, di primo grado e di appello. In ogni caso, viene posta meticolosa attenzione all’esame dei contenuti delle pellicole, tanto da dimostrare la profonda conoscenza del mezzo cinematografico e del suo messaggio. Per la prima volta sono previste limitazioni all’esportazione del film, nel caso in cui questo possa compromettere gli interessi economici e politici della Nazione. Con l’ulteriore scopo di penalizzare le importazioni di film stranieri viene imposta alle case di produzioni straniere di pagare una tassa di 25 mila lire, e l’obbligo di effettuare i doppiaggi in Italia. A questa situazione si aggiunge anche una legge sul monopolio sta50. Il R.d. 9 ottobre 1919, n. 1953. Introduce il controllo preventivo sul “copione o scenario”.Il soggetto deve essere “in massima riconosciuto rappresentabile” dalla censura. Nella pratica, tuttavia, il copione viene sempre presentato alla commissione di primo grado insieme al film finito. 51. Donatella Loprieno, Nicola Fiorita, La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà religiosa nelle società multiculturali, Firenze Univerity Press, 2009 52. R.d. 22 aprile 1920, n. 531. Anche la revisione di primo grado è affidata a una commissione, che non ha più una natura solo repressiva ma si allarga ad altri soggetti, seppur sempre di nomina ministeriale: oltre a due funzionari della Pubblica Sicurezza, “un magistrato, una madre di famiglia, un membro da scegliersi fra educatori e rappresentanti di associazioni umanitarie che si propongono la protezione morale del popolo e della gioventù, una persona competente in materia artistica e letteraria e un pubblicista”.


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tale, la quale regola l’acquisto, l’importazione e la distribuzione dei film esteri, determinando il ritiro delle quattro principali major di Hollywood (20th Century Fox, Metro-Goldwyn-Mayor, Paramount e Warner Bros) dal mercato italiano. 53 Nel 1925, nasce l’Opera Nazionale per la protezione della Maternità e dell’Infanzia, e diviene altresì indispensabile una specifica forma di tutelala dei minori, che si trasforma nel divieto di visione di particolari film, ai minori di 16 anni, ma senza una disposizione chiara in merito ai motivi del possibile divieto. In aggiunta, nel 1927 viene stabilita una norma sulla “programmazione obbligatoria”, che impone agli esercenti di riservare una certa percentuale del tempo di proiezione a film italiani con particolare dignità artistica, stabilita dalla stessa commissione di revisione.54

53. R.d. 24 settembre 1923, n. 3287. La composizione delle commissioni di revisione viene trasformata in senso rigidamente burocratico. Quella di primo grado si riduce a “singoli funzionari di prima categoria dell’Amministrazione dell’Interno appartenenti alla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza”, ma viene ripristinata un anno dopo (R.d. 18 settembre 1924, n. 1682) e conta tre membri: un funzionario di polizia, un magistrato e una madre di famiglia. In quella di secondo grado o di appello, che rimane di sette membri, l’educatore è sostituito con un professore e la “persona competente in materia artistica e letteraria” è prima eliminata e poi reintegrata. È stabilita un’apposita revisione per le pellicole destinate all’esportazione: sono da vietare quelle che possano, tra l’altro, “ingenerare, all’estero, errati o dannosi apprezzamenti sul nostro paese”. 54. Il R.d. 6 novembre 1926, n. 1848. Introduce una prima forma specifica di tutela dei minori: è consentito vietare la visione dei film ai minori di anni 16, pur senza alcuna indicazione sui motivi del possibile divieto. Un precedente si ritrova nella legge del 10 dicembre 1925, n. 2277, art. 22: “La commissione a cui spetta di autorizzare gli spettacoli cinematografici deciderà a quali di essi possano assistere i fanciulli e adolescenti dell’uno e dell’altro sesso”, che verrà applicata con un divieto ai minori di anni 15. L. 16 giugno 1927, n. 1121. Tra i parametri di valutazione di un’opera in sede di censura rientra anche la qualità artistica: un film può essere vietato quando non presenti “sufficienti requisiti di dignità artistica così nella trama del soggetto, come nella esecuzione tecnica”.


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2.3 Direttive fasciste

Con l’inizio del fascismo, il sistema censorio e la legislazione del periodo precedente vengono in effetti solo perfezionati nel corso del ventennio. La capillarità dei controlli avviene con il principale intento di infondere le “direttive morali, sociali ed educative dello Stato fascista”, mentre la censura preventiva dei copioni diviene strumento direttivo, al fine di inibire a monte, lo sviluppo di film scomodi per il regime. Per Mussolini “la cinematografia è l’arma più forte”, e ne intuisce immediatamente le potenzialità propagandistiche, riservando particolare attenzione alle produzioni nazionali. 55 Durante il regime vengono anche messe in atto le leve del sostegno economico per l’industria cinematografica, prevedendo un premio economico per pellicole di particolare dignità artistica (secondo i canoni fascisti) da inserire anche nella cosiddetta programmazione obbligatoria. Inoltre è istituita una sezione per il credito cinematografico presso la Banca Nazionale del Lavoro, che anticipa buona parte dei costi di produzione di un film. Successivamente vengono create importanti istituzioni di supporto all’industria cinematografica italiana come L’Istituto Luce (L’Unione Cinematografica Educativa), incaricato di compiti di natura propagandistica (attraverso i cinegiornali), ENIC (Ente Nazionale Industrie Cinematografiche) che si occupa della distribuzione delle pellicole e della gestione delle sale cinematografiche, il Centro sperimentale per la cinematografia e Cinecittà S.P.A.56

55. Donatella Loprieno, Nicola Fiorita, La libertà di manifestazione del pensiero e la libertà religiosa nelle società multiculturali, Firenze Univerity Press, 2009 56. R.d. 9 aprile 1928, L. 24 giugno 1929, L. 18 giugno 1931. Aumenta progressivamente la politicizzazione delle Commissioni di Revisione. Sia in quelle di primo che di secondo grado, entrano rappresentanti del Partito Nazionale Fascista e dei ministeri dell’Educazione Nazionale, delle Corporazioni, delle Colonie e della Guerra. La l. 10 gennaio 1935, n. 65. Conversione del decreto precedente, uniforma la composizione delle commissioni di primo grado e di appello fissando per entrambe a cinque il numero di membri: tre in rappresentanza dei ministeri dell’Interno, delle Corporazioni e della Guerra, uno del Partito Nazionale Fascista e uno dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti). Il processo di assoggettamento al potere politico è completo.


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Viene trasferita inoltre la responsabilità amministrativa della censura, non solo cinematografica, dal Ministero dell’Interno al nuovo Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la Propaganda. La neonata Direzione generale della cinematografia, viene affidata a Luigi Freddi, protagonista indiscusso della politica cinematografica italiana e convinto sostenitore del rafforzamento del ruolo della censura, che d’ora in poi non si limiterà a compiti di mero controllo ma sarà anche attiva, “ispiratrice”, propositiva. Da questo momento si comincia anche con l’applicazione rigorosa del principio della censura preventiva, già formulato nel 1919. Chiunque intenda produrre una pellicola cinematografica destinata alla rappresentazione nel Regno o all’esportazione, dovrà ottenere, prima di iniziarne la lavorazione, il nulla osta del Ministero della Cultura Popolare. Sono esenti dal nulla osta (…) le pellicole di attualità e i documenti eseguiti dall’Istituto Nazionale LUCE.57 Lo Stato fascista inoltre ha l’esigenza di ingraziare le gerarchie ecclesiastiche per far fronte comune contro il diffondersi del verbo marxista e comunista, tanto da reintrodurre nel 1930 nel Codice Rocco il reato di vilipendio alla religione di Stato (ormai sancita dai Patti lateranensi del 1929). Intorno alla metà degli anni ‘30, il Centro Cattolico Cinematografico, si trasforma in un organismo di controllo censorio autonomo, che informalmente si affianca a quello statale, esprimendo un giudizio pastorale sui film e ulteriori modifiche da attuare, nel caso di contenuti non conformi alla morale cattolica. 2.4 Dopoguerra e Prima Repubblica

Dopo la fine della seconda guerra mondiale e del regime fascista, l’Italia vive il suo periodo di Liberazione, che lascia intravedere una nuova era per la libertà di espressione cinematografica. Infatti, nel 1945 vengono eliminate molte delle norme censorie ema-

57. all’interno del R.d. 30 novembre 1939


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nate tra il ‘23 ed il ‘43: si abolisce la censura preventiva sui soggetti dei film, ma restano in vigore le norme sul controllo preventivo delle pellicole e quelle sul rilascio del nulla osta. Di fatti, l’allentamento dei controlli è parziale e la pesante eredità del fascismo, rendono difficoltoso il superamento del sistema censorio precedente. Il 16 maggio 1947 l’Assemblea costituente emana la legge n. 379, riguardante l’ordinamento dell’industria cinematografica nazionale, la quale prende spunto dal decreto del 1923: viene affidato il controllo preventivo sul cinema al nuovo Ufficio centrale per la cinematografia, che coordina le commissioni di revisione di primo e secondo grado, mutate nella loro composizione rispetto al periodo fascista.58 Le norme nell’ambito della tutela della pubblica moralità e per il rilascio del nulla osta, rimangono ancora una volta invariate. 59 Con l’avvento della prima Repubblica ed i successivi governi principalmente di natura democristiana, l’offensiva della censura non sembra placarsi, tanto da scagliarsi indistintamente contro lungometraggi, documentari, cinegiornali e pubblicità. Direttore generale dello Spettacolo è Nicola De Pirro, che era stato direttore generale del teatro in periodo fascista, nonché squadrista e sciarpa littoria. Dall’altra parte però produttori, parlamentari, uomini politici, cineasti, sindacalisti e funzionari cominciano a ragionare sulla necessità di una legge sulla censura, che si adegui maggiormente alla realtà italiana, ai fini di un’azione dinamica e qualitativa della produzioni. Il dibattito culturale sviluppato nel mondo della cultura e promosso da molti organi di stampa impone ai governi di confrontarsi su una modernizzazione delle legislazione in materia. Il continuo alternarsi di governi in questi anni, la lentezza della burocrazia italiana e le opinioni

58. Rileva D.Liggeri, in Mani di forbice a pp.105, come all’Ufficio per la cinematografia furono destinati molti ex funzionari del passato regime, i quali vi rimasero fino agli anni Sessanta, caratterizzandone in senso più che conservativo le attività. 59. L. 16 maggio 1947, n. 379. L’Assemblea costituente affida il controllo preventivo sui film al nuovo Ufficio centrale per la cinematografia, costituito presso la Presidenza del Consiglio, previo parere delle Commissioni di primo e secondo grado, nuovamente mutate nella loro composizione. Si elimina l’obbligo della revisione dei copioni, ma per il resto sono confermate tutte le disposizioni contenute nella legge del 1923, compresa la casistica delle scene da proibire.


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contrastanti fra i vari schieramenti però fanno rimandare l’operazione di molto tempo. I due punti principali sostenuti dagli autori, dai critici cinematografici, e dai partiti di sinistra per la formulazione della nuova legge, già da anni sono: la riduzione dei poteri discrezionali della censura, alle sole questioni riguardanti il buon costume, rinviando per tutte le altre presunte violazioni di legge alla Magistratura ordinaria; la democratizzazioni delle commissioni di prima istanza e di appello, attraverso l’inserimento di rappresentanti degli autori e di critici cinematografici; una maggiore rapidità di formulazione del verdetto, con la relativa pubblicazione dei verbali. Gli autori però desistono dall’idea di boicottare l’ennesima legge incompleta proposta dai governi di coalizione, che prende in esame solo l’aspetto economico, e infine decidono di accettare lo stralcio del capitolo censura, obbligando però il Governo ad emanare le nuove norme riguardo al nulla osta per la messa in circolazione dei film, entro e non oltre il 31 luglio 1957, cioè un anno dopo l’emanazione della legge generale sul cinema. Le dichiarazioni volenterose del Governo e soprattutto l’agitazione demagogica dei produttori che minacciano di fermare la produzione, spingono gli autori a cedere. Le aspettative però vengono tradite e arrivato il giorno di scadenza a norma di legge, non si ottiene un nuovo regolamento della materia ma una proroga di altri sei mesi. 2.5 Nuova legge 161

Si deve aspettare il 1958 perché il nuovo progetto di legge governativo possa esser ripresentato alle Commissioni delle Camere. Infatti nel frattempo sopravviene una crisi politica (quella del Governo DC di Zoli), si effettuano nuove elezioni, e viene formato il nuovo governo Fanfani, che però ben presto si esprime in maniera piuttosto critica, rispetto ad un progetto che appare già troppo liberale nelle intenzioni. L’impervia lotta per una adeguata legge sulla censura ha almeno un risvolto positivo: apre gli occhi sul quadro più largo e i condizionamenti entro i quali si svolge il lavoro dell’autore cinematografico. Si afferma pertanto tra i cineasti, la convinzione che il cinema può ampliare la pro-


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pria possibilità di azione e di espressione soltanto con l’applicazione dei principi della Costituzione, e sottraendo il potere di giudizio agli organi rappresentanti dell’esecutivo di quel dato momento.60 Su queste premesse viene infine trovato un accordo fra le parti, ed emanata la legge n.161 del 21 aprile 1962, sotto il quarto governo Fanfani, composto da una coalizione costituita da democristiani, socialisti e PRI, secondo l’idea comune che la materia vada uniformata allo spirito della Costituzione. 61 Tale legge ha rappresentato una svolta nella storia della censura cinematografica in Italia e rimane in vigore fino al 1995, dove di fatti vengono apportate piccole integrazioni, testimoniando quindi la difficoltà di promulgare una normativa in materia di censura. Le più importanti novità sono da attribuirsi alla composizione delle commissioni di revisione, dove finalmente entrano anche tre membri scelti rispettivamente dalle associazioni di categoria dei registi, dei rappresentanti dell’industria cinematografica e dei giornalisti cinematografici, oltre a un magistrato, un professore universitario di materie giuridiche e un docente di psicologia (Art. 2). 62 Viene snellita la minuziosa casistica censoria del 1923, sostituita da un generico riferimento al buon costume, da interpretare ai sensi dell’art. 21 della Costituzione. Sono previsti due limiti di età per la visione dei minori fra i 14 e i 18 anni (Art. 5). 63 Viene concessa la possibilità di ricorrere in ultimo grado al Consiglio

60. Carlo Lizzani, Le leggi e i fatti in Storia del cinema italiano 1895-1961, Saggi di cultura moderna, Volume XXXVIII, Parenti Editore, Firenze, 1961, pp. 241-252 61. Mino Argentieri, Il cinema nell’Italia del centrosinistra in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. X, Marsilio, Venezia, 2001, pp. 185-186 62. Art. 2. La commissione di primo grado, alla quale è demandato il parere per la concessione del nulla osta per la proiezione in pubblico dei film, delibera per sezioni. Ciascuna sezione si compone di un magistrato; un professore universitario di materie giuridiche; un docente di psicologia; tre membri scelti rispettivamente da terne designate dalle associazioni di categoria dei registi, dei rappresentanti dell’industria cinematografica e dei giornalisti cinematografici. 63. Art. 5. Le commissioni di cui agli articoli 2 e 3, nel dare il parere per il rilascio del nulla osta, stabiliscono anche se alla proiezione del film possono assistere i minori degli anni 14, o i minori degli anni 18, in relazione alla particolare sensibilità dell’età evolutiva ed alle esigenze della sua tutela morale.


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di Stato, che in ogni caso quasi nessun regista o casa di produzione tenta di affrontare (Art. 8). Infine viene affidata la competenza territoriale per le opere cinematografiche al giudice del luogo dove è avvenuta la prima proiezione in pubblico (Art. 14), permettendo così a molte case di produzione di fare la prima del film in luoghi di provincia, per sfuggire da procure troppo rigide.64 Questa legge, tuttavia non ha modificato i termini del rapporto tra diritto e cinema, e non rinuncia neanche allo strumento della censura preventiva, a dimostrazione dell’efficacia di tale freno inibitorio da parte del predominante sistema politico, il quale ingabbia subdolamente e con limiti diversi la libertà d’espressione. 65 In effetti vengono semplicemente spostate le competenze di giudizio, dagli uffici delle commissioni di revisione, alle aule dei tribunali. Lo scontro molto spesso diviene aspro, tra gli anni ‘60 e ‘70, e la magistratura irrompe sulla scena, con una interminabile serie di sequestri di opere cinematografiche. In virtù degli artt. 528-529 del Codice Penale, infatti è punibile chiunque “dà pubblici spettacoli o cinematografici, ovvero audizioni o recitazione pubbliche, che abbiano carattere, di oscenità”, specificando che “agli effetti della legge penale, si considerano osceni gli atti e gli oggetti, che secondo il comune sentimento, offendono il pudore”. L’unica discriminante concessa è che “non si considera oscena l’opera d’arte”. Il magistrato si trova quindi, nella posizione (alquanto scomoda) di giudicare sulla sussistenza o meno dell’oscenità di un determinato spettacolo o di altre equivalenti manifestazioni di pensiero, individuando il reato sulla base di vecchi riferimenti legislativi e basandosi sull’idea che l’opera che “offende il comune sentimento del pudore” deve essere sanzionata. La macchina giudiziaria della repressione viene messa in moto su iniziativa d’ufficio o privata. Cioè, il magistrato può anche essere sollecitato

64. Art. 14. Competente territorialmente per le opere cinematografiche e teatrali è il giudice del luogo ove è avvenuta la prima proiezione in pubblico del film o la prima rappresentazione dell’opera teatrale. 65. C. Jemolo, I problemi pratici della libertà, Milano, 1972, p.47


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ad agire da una denuncia da parte di privati cittadini, che si possono anche costituire parte civile nella causa. Infatti, iniziative così gravi e anomale vengono compiute frequentemente, dato che il denunciante non si assume alcun tipo di responsabilità.66 Così nella generale confusione e nella indeterminatezza della norma, spesso prevale la visione soggettiva del magistrato (che si trova considerevolmente condizionato anche da una parte dell’opinione pubblica), che non sempre è adeguata alla realtà mutevole della società italiana. I processi di costume, come essenzialmente sono quelli nel campo della presunta oscenità cinematografica, arbitrariamente si convertono, in questi casi, in processi al costume. 67

66. Gianni Massaro fa una lunga casistica della varie tipologie di denuncianti nel suo libro L’occhio impuro, Sugarco Edizioni, Milano, 1976, pp. 17-23 67. Gianni Massaro, L’occhio impuro, Sugarco Edizioni, Milano, 1976, pp. 129-131



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3. Metodi di revisione cinematografica 3.1 Visti di censura

Quasi tutti gli Stati del mondo hanno creato, nel corso del 1900, con lo sviluppo progressivo dell’industria del cinema, apposite commissioni di censura cinematografica di nomina governativa con il compito di revisionare i film e, se ritenuto opportuno, stabilire (preventivamente o a posteriori) una proibizione della visione del pubblico totale o parziale, escludendo secondo i casi una determinata fascia d’età. Negli Stati Uniti (e anche in altri paesi come la Gran Bretagna, la Germania e il Giappone), la censura viene esercitata dalla stessa industria cinematografica, quasi come una pratica preventiva delle major di Hollywood. Nel 1930, infatti, si da l’avvio al celeberrimo codice Hays, promosso dalla commissione di revisione, organizzata dalle case di produzione americane, e presieduto da W. H. Hays, da cui prende il nome l’omonimo codice. Fino al 1968 registi e sceneggiatori seguono questo regolamento, quasi come limite creativo ed anche produttivo per i loro film. In Italia la prima commissione viene istituita nel 1913, ed il Ministero degli Interni emana una circolare per stabilire i criteri di valutazione per il rilascio delle licenze ai soggetti operanti nella cinematografia e di conseguenza, il rilascio del visto per la diffusione delle pellicole in Italia e all’estero. Il visto di censura mette a registro la “prima proiezione pubblica” e a partire dal 1913, diviene strumento attendibile e molto utilizzato dagli studiosi per la datazione storica dei film. In Italia, la costante pressione della politica, gli attacchi degli ambienti governativi e la vasta intromissione dell’apparato clericale hanno sempre sempre influito sulle commissioni di revisione cinematografica. I temi


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particolarmente a rischio, vengono considerati dalle case di produzione pericolosi, sia da un punto di vista commerciale, che per l’esposizione personale verso i burocrati di turno. Addirittura nel 1954 l’Anica, l’associazione italiana dell’industria cinematografica promuove una commissione di auto-censura, per vagliare e consigliare sui film più problematici. Giunti all’inizio degli anni Sessanta, nel corso di un profondo cambiamento del paese dovuto al miracolo economico, la questione della censura viene finalmente modificata nel 1962, con la cosiddetta legge Folchi, che tenta delle liberalizzazioni sul tema, sotto pressione della sinistra e dello stesso mondo della cultura. In particolare con l’Articolo 9. della legge del 21 aprile 1962, viene chiarita la modalità di rilascio del nulla osta. Qualora la commissione non trovi nel film elementi di offesa al buon costume e alla morale, il nulla osta per la proiezione in pubblico viene rilasciato in tutto il territorio dello stato. «Tuttavia è innegabile - scrive Argentieri - che la nuova regolamentazione spazza via una casistica sconfinata e, delegando l’esercizio della vigilanza anche alle rappresentanze delle categorie cinematografiche, attenua le intromissioni del potere esecutivo e della burocrazia ministeriale».1 Si delega, invece, alla magistratura ordinaria il compito di ravvisare reati specifici. Inoltre la Tv pone il divieto di trasmettere i film vietati ai minori di diciotto anni. Negli anni successivi, però, il meccanismo del ricatto economico continua a disincentivare i film ritenuti più scomodi. La banca nazionale del lavoro, che può concedere finanziamenti alle produzioni, infatti continua a chiedere pareri preventivi sulle sceneggiature agli uffici, che esaminano il film per il rilascio del visto, in modo da concedere il credito solo a film approvati dalla commissione di revisione. Come detto precedentemente nel primo capitolo, la Revisione Cinematografica italiana fa riferimento alla legge n° 161 del 21 aprile 1962, nota come “Revisione dei film e dei lavori teatrali”, che introduce appunto alcune modifiche rispetto alla precedente normativa, ma in sostanza la procedura per ottenere il nulla osta rimane invariata. Il rilascio del visto, per la proiezione in pubblico dei film e la loro esportazione all’estero, viene dato da commissioni competenti, apposita-

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Mino Argentieri, La censura del cinema italiano, Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 201


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mente create per la revisione della pellicola, dopo la visione effettiva del film, in modo da accertare la moralità del contenuto. Tale Commissione si divide in due livelli. Di primo e secondo grado: la presentazione al giudizio di primo grado è obbligatorio per ogni film. La società di produzione o distribuzione del film è tenuta a presentare il modulo domanda di revisione e inviarlo alla Direzione Generale per il Cinema. In prima istanza, la commissione di censura valuta il film ed emette, con apposito Decreto il suo giudizio. In caso favorevole viene concesso il nulla osta e generato il visto di censura [fig. 54-73], che permette la proiezione in pubblico, la distribuzione nelle sale italiane e ne autorizza l’esportazione. Nel caso in cui il giudizio della prima commissione è sfavorevole o condizionato, si dispone l’eliminazione di parti di film (che a volte viene addirittura effettuata immediatamente con le moviole messe a disposizione) o viene posto il divieto alla visione ai minori di 14, o 18 anni. In via del tutto non ufficiale, la prima commissione può annotare alcuni suggerimenti con la dicitura “alleggerire” o “oscurare” particolari scene, in modo da evitare per lo meno il divieto per particolari fasce d’età. La copia infine, deve essere sempre ripresentata modificata e solo allora può ottenere una sentenza definitiva e immutabile. La commissione di primo grado, con la legge del 1962 ha una cadenza biennale e viene formata sotto la direzione del Ministro per il Turismo e lo Spettacolo. Viene costituita da otto esperti di competenze diversificate nel campo: un docente di diritto, un esperto di psicologia dell’età evolutiva o di pedagogia, due rappresentanti della cultura cinematografica (critici, studiosi ed autori), due genitori designati dalle associazioni maggiormente rappresentative, una delegazione di due membri delle categorie di settore maggiormente rappresentative, ed eventualmente da un esperto designato dalle associazioni per la protezione degli animali. L’autore e il richiedente del nulla osta dell’opera in revisione possono essere ascoltati, se ne fanno richiesta, e il divieto totale alla proiezione pubblica del film - giudicato offensivo nel suo complesso o in relazione a singole scene/sequenze - deve essere motivata adeguatamente, oltre che apertamente, dai componenti delle due commissioni. A questo punto, la società di produzione o distribuzione può effettuare i tagli alla pellicola, inviando comunicazione alla Direzione Generale, e


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ripresentare in una nuova edizione “purgata” la copia del film, con l’indicazione del nuovo metraggio sul visto censura. Se le indicazioni sono state rispettate, viene rilasciato il visto in questione. I tagli eseguiti vengono riportati e conservati in sede ministeriale o in altri luoghi deputati. In caso di contestazione del giudizio di prima istanza, i produttori possono scrivere una lettera di ricorso, e richiedere il Giudizio di Appello di seconda istanza. La costituzione della commissione di secondo grado è composta da due sezioni unite della commissione di primo grado, diverse da quella che ha emesso il primo parere, e svolgono un’attività differente. Tale organismo esamina il ricorso presentato e può, con apposito Decreto di seconda istanza, confermare il giudizio di prima istanza o emettere un giudizio nuovo, ma definitivo. L’ultima possibilità di ricorso per i richiedenti è quello di rivolgersi al Consiglio di Stato, ma raramente le case di produzione si sono esposte a tal punto. Nel caso di giudizio negativo della commissione di secondo grado, può anche essere presentata una nuova richiesta di revisione alla Direzione Generale Cinema, a patto che il film sia notevolmente rimaneggiato. Infine una volta ottenuto il visto, le case di produzione si adoperano per la distribuzione del film. Le copie della pellicola vengono stampate presso laboratori specializzati (come i laboratori di Cinecittà, la LV S.p.a o la Technicolor), e vengono spedite in tutte le sale cinematografiche in Italia con il visto di censura [fig. 54-73], dove vengono annotate le parti specifiche da tagliare dal proiezionista. Infine ogni singolo esercente revisiona le condizioni della pellicola ed il visto di censura ed il giorno dopo il film viene finalmente proiettato in sala. La normativa regola anche, la questione relativa alla diffusione dei film in tv. Con il crescente peso del ruolo della televisione, diviene fondamentale per i produttori la vendita dei diritti dei film. Il visto di censura anche in questo caso determina il diritto di essere trasmesso liberamente. I film senza visto non possono, in nessun caso essere trasmessi in televisione. Per i lavori proibiti ai minori di 14 anni, la restrizione è decisamente più contenuta e si permette, infatti, la loro trasmissione nelle sole fasce orarie in tarda serata.2

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Tatti Sanguineti (a cura di), Italia Taglia, Editori Associati, Ancona-Milano, 1999


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3.2 Revisione cinematografica per i cinema parrocchiali

Quando si parla di cinema parrocchiali, subito viene in mente la platea del Nuova Cinema Paradiso [fig 32/34] di Giuseppe Tornatore. Sale rumorose, sedie di legno, sigarette accese, commenti ad alta voce, i continui salti della pellicola e una bella “colonna sonora” che accompagna la proiezione. La revisione cinematografica dei film prosegue con una storia parallela a quella istituzionale. Il lungo processo parte con la nascita delle prime “sale ricreative cattoliche” (SRC) all’inizio del Novecento e registra un’aumento esponenziale nei decenni. Nelle varie diocesi italiane, e in particolare a Torino e a Milano, già a partire dagli anni Dieci gli stessi sacerdoti avvertono l’esigenza di verificare il contenuto dei film. Il 18 maggio del 1949 viene redatto in Roma l’atto costitutivo della Associazione Cattolica Esercenti Cinema (ACEC) e contestualmente depositato il suo primo Statuto. Già nel 1936 con la lettera enciclica Vigilanti cura, Pio XI chiede, per l’orientamento e la tutela degli spettatori, l’istituzione di un ufficio nazionale che si occupi di revisione, per promuovere i film buoni, classificare gli altri e fornire tali giudizi ai sacerdoti e ai fedeli. In questa prima fase, il giudizio di visibilità è espresso in lettere alfabetiche (A, B, C) secondo un prevedibile ordine di moralità discendente. Il giudizio sul film, redatto da una commissione di esperti, costituisce un mezzo di rapido e sicuro orientamento per il sacerdote che, gravato dalle diverse incombenze, non ha sempre la possibilità di approfondire direttamente la conoscenza delle pellicole.3 I bollettini periodici rappresentano, dunque, il mezzo per diffondere l’elenco dei film ‘revisionati’. Il Centro Cattolico Cinematografico (1935) prosegue su scala nazionale le iniziative sviluppate già nelle singole comunità, con il compito quindi di formulare dei giudizi di carattere morale sui film programmati sul mercato (sale commerciali o parrocchiali) sia al tipo di pubblico a cui essi si rivolgono. La «Rivista del cinematografo» (1928), organo ufficiale del Centro Cattolico Cinematografico, (poi diventata dal 1947 la rivista dell’Ente dello spettacolo) sarà il medium di comu-

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Per maggiori dettagli sulla storia dell’ACEC è molto utile www.saledellacomunita.it


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nicazione delle opinioni sull’argomento. Con la costituzione della Conferenza episcopale italiana, il lavoro di revisione dei film, e di elaborazione dei giudizi di ordine morale, viene di fatto trasferito di competenza a quella che verrà più tardi chiamata “Commissione nazionale valutazione film”. All’aprirsi degli anni Sessanta è ormai avviato il cammino che porterà alla Conferenza Episcopale Italiana. Il cinema italiano vive anni di ripresa dopo la guerra e di grande visibilità internazionale. La rivoluzione sessuale degli anni Sessanta impone una liberalizzazione dei costumi e i media esercitano un ruolo significativo nella società, che vive profonde mutazioni. Il cinema è più d’uno specchio della società: anticipa gli eventi, propone spettacoli giudicati trasgressivi e scandalosi, cambia i gusti degli spettatori. La produzione cinematografica dunque, non solo accompagna le evoluzioni del paese, ma indica addirittura il percorso degli stessi cambiamenti sociali. L’ influenza delle correnti nordeuropee e statunitense spinge i registi italiani alla sperimentazione di nuovi temi, incappando perciò in opposizioni e censure. Lo Stato pontificio si rende subito conto dell’urgenza di regolamentazione della morale degli italiani. Va ricordato a tal proposito il decreto conciliare Inter mirifica, un decreto dedicato principalmente al ruolo dei media e ad una nuova elaborazione del ruolo dei mezzi di comunicazione sociale del 1963. Lo scenario è completato dalla diffusione a macchia d’olio sul territorio nazionale delle sale cinematografiche parrocchiali, più di cinquemila cinema, che rappresentano poco meno del 50% di tutti i cinema in Italia. Inoltre nascono la Federazione nazionale dei settimanali cattolici diocesani ed il quotidiano «Avvenire», organi di stampa dove i vescovi italiani rilevano costantemente un pericoloso degrado morale. La commissione di revisione è chiamata ad un compito delicato e di grande responsabilità, per arginare l’influenza della produzione cinematografica e della televisione. Questo organismo diviene fondamentale per l’analisi dei film, con l’obiettivo di fornire una valutazione critica ed un regolamento (ulteriore a quello dello Stato italiano) sotto il profilo morale e l’uso pastorale. Le valutazioni e le classificazioni diventano così un punto di riferimento per tutte i cinema parrocchiali. Ufficialmente il compito della Commissione non ha carattere censorio ma viene interpretato come strumento per la valorizzazione della produzione cinematografica ai fini


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pastorali. Nel 1968, approvate dalla Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, entra in vigore la classificazione “morale” dei film. Vengono identificate con i numeri romani: si va da I (film positivo) a IV (film gravemente offensivo della dottrina o della morale cattolica). Nel 1974, la Commissione nazionale per la valutazione dei film (Cnvf), approva un nuovo regolamento e dei nuovi criteri di valutazione, con l’introduzione di un giudizio sintetizzato in due parole: la prima parola esprime la valutazione globale del film (‘raccomandabile’, ‘accettabile’, ‘discutibile’, ‘inaccettabile’), mentre la seconda (con ventaglio di opzioni più ampio) indica la facilità o la difficoltà di lettura del film, la motivazione della valutazione globale, oppure indica se il film è idoneo anche per le famiglie o per gli adolescenti.


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4. Mezzi analogici di censura 4.1 Censura preventiva

La censura ha mostrato diverse modalità di approccio al cinema: preventivo, se applicato alle sceneggiature dei film prima che siano realizzati; a posteriori, se messa in atto quando l’opera cinematografica ha concluso la fase di realizzazione. Il concetto basilare, per cui l’istituzione della Revisione cinematografica opera, è quello di tutelare e proteggere lo spettatore preventivamente (anche se adulto), a prescindere dalla sua libertà di giudizio e di scelta. Nel corso del Novecento, tutti gli strumenti e i congegni censori sono stati affinati, talvolta sfidando il ridicolo, per reprimere le presunte trasgressioni, scoraggiare l’anticonformismo e la deviazione dalle rotte più sperimentali del cinema. La censura preventiva può essere considerata la forma più “pura” di censura, per cui prende sempre più piede, la procedura di sottoporre a revisione i soggetti e le sceneggiature prima della loro traduzione in pellicola. La ragione dell’introduzione di un istituto come la censura cinematografica risiede nell’ampia diffusione del cinema in Italia, nel suo potere di raggiungere una vasta parte della popolazione e nella novità che questo ha rappresentato. Infatti il fluire audiovisivo delle immagini, la particolare forza evocativa intrinseca nel mezzo cinematografico stesso, sono le principali ragioni per le quali viene prevista la censura amministrativa. La discussione di principio, sul senso delle immagini o sulle funzioni stesse dell’arte cinematografica può intrinsecamente essere collegata alle ragioni dell’esistenza della pratica censoria, in particolare quella preventiva, cambiando il nostro modo di considerare tutto il dibattito sul tema e portandoci ad una riflessione più attenta sulla concezione attuale delle immagini in movimento. Il cinema per sua natura è indocile ed errabondo, suscita curiosità, feconda idee. Il cinema suscita riflessioni e pensiero ed ha sempre fatto nascere ed allevato uomini liberi. Citando l’Onorevole Andreotti in un celebre discorso afferma che «in Italia, i panni sporchi si devono lavare in casa» e questa è sicuramente una delle ragioni percui viene soffocato


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il movimento neorealista, controllato il genere della commedia italiana, fino a preferire la televisione al cinema come mezzo divulgativo per eccellenza, per l’immediata ed efficace possibilità di controllarne i messaggi, attraverso una censura mirata e preventiva. Il controllo delle opere cinematografiche inizia in Italia dal 1913, con l’intento di limitare in assoluto la visione o solamente vietandola ad una determinata fascia d’età, tramite il rilascio del celeberrimo “visto censura”. Al paradosso di una censura applaudita nel 1913 dai cineasti, se ne aggiunge un altro: quello dei codici ferrei che la democrazia prefascista appronta e che in seguito trasmette alla dittatura, senza che questa debba escogitare proibizioni suppletive. Le modifiche apportate durante il ventennio alla legge del 1923 interessano principalmente la composizione delle commissioni ministeriali, in cui di volta in volta vengono ammessi magistrati, madri di famiglia, pubblicisti, rappresentanti del PNF (Partito Nazionale Fascista), dei Ministeri dell’Educazione nazionale, delle Colonie, della Guerra. Con l’avvento del Fascismo, in Italia viene confermato pressoché in blocco l’impianto censorio, salvo alcune modifiche volte a specificarlo in chiave fascista. L’atto legislativo più importante di quegli anni fu il r.d. 24/09/1923, n.3287, che amplia la casistica censoria. Nel passaggio allo Stato democratico il rapporto tra il sistema politico, il diritto e il cinema non sono mutati: infatti continua a rendersi necessaria la presenza della censura preventiva presente nell’ordinamento italiano (unico caso di censura preventiva presente nel nostro ordinamento): l’art. 21 della Costituzione sancisce, al comma IV, il divieto per le “pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le manifestazioni contrarie al buon costume”; specificando, inoltre, che «la legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e reprimere le violazioni». (Dobbiamo aspettare il 2007 per poter vedere sancita la cancellazione della censura preventiva. I produttori dei film hanno il dovere di auto-certificare per quale fascia d’età sia più adatto il loro prodotto, ed una commissione si fa carico di controllare se la auto-certificazione è consona). Nel 1945 viene eliminata la ricognizione preventiva sulle sceneggiature, ma nello stesso tempo, però, il governo Parri riesuma e rilegittima la normativa del 1923, offrendo un’infinità di appigli per interferenze illiberali. Nel 1947, inaspettatamente, si concede ai produttori la facoltà di


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sottoporre i soggetti all’approvazione della Direzione Generale dello Spettacolo, una prassi presto che si tramuta in una consuetudine. Proprio nel 1949, Andreotti presenta la legge per sostenere e promuovere il cinema italiano, con lo scopo di frenare l’avanzata dei film americani, ma più di tutti i danni di immagine del neorealismo. Con le nuove norme, prima di accedere ai finanziamenti pubblici, la sceneggiatura deve essere approvata da una commissione statale e nel caso in cui il film risulti diffamante per l’immagine dello Stato italiano, gli viene negata la licenza di esportazione. Ad esempio nelle maglie di questa sorta di censura preventiva incappa subito nel 1950 Il cammino della speranza [fig. 35/37] di Pietro Germi. Esiste anche un’altra censura, certamente più pericolosa: si tratta della cosiddetta autocensura, dalla quale molti produttori si sentono condizionati. In pratica certe cose non vanno dette e perciò la censura preventiva influisce principalmente nella scelta degli argomenti e impedisce la realizzazione di molti progetti; come conseguenza di un certo clima politico, in Italia, la paura diviene determinante. Del resto la censura preventiva nasce durante il Fascismo, ma persiste anche negli anni Sessanta, in modo da agire prima che il film arrivasse alla fase di realizzazione. Ad esempio, Marco Ferreri vede sfumare un progetto mai andato in porto. Il regista milanese propone un soggetto dal titolo Zinna Bianca al produttore Carlo Ponti. La storia avrebbe dovuto raccontare le vicissitudini di una donna meticcia dal seno bianco, con Sophia Loren come protagonista, ma la sceneggiatura viene osteggiata dallo stesso Ponti e il film viene realizzato da Ferreri tempo dopo, ma diversamente con il titolo La donna scimmia [fig. 38/40]. Ulteriore deterrente per case di produzione e registi italiani è il reato di vilipendio alla Chiesa Cattolica ed allo Stato. Il Codice Penale prevede la reclusione e si può essere condannati anche senza aver avuto alcuna intenzione di vilipendere: è sufficiente il dolo generico, ovvero basta la volontà di compiere un determinato atto, senza prevederne le conseguenze. La denuncia può essere presentata da qualsiasi cittadino e l’oggetto della denuncia deve essere esposto pubblicamente su organi di stampa o altri mezzi di propaganda, in luoghi aperti al pubblico. Si pensi, ad esempio, al famoso processo contro Pasolini. Nel 1963 il Tribunale di Roma, con decisione successivamente confermata dalla


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Corte di Cassazione, lo condanna per vilipendio della religione a causa dell’episodio La Ricotta [fig. 41-42], tratto dal film Rogopag. A Pasolini viene inflitta una pena di quattro mesi di reclusione per essere “colpevole del delitto ascrittogli” e il film viene sequestrato fino al dicembre dello stesso anno. La condanna è un esempio lampante dell’attenzione prestata dallo Stato al sentimento religioso della comunità cattolica. La questione legata al vilipendio continuerà ben oltre gli anni Sessanta. Infatti il regista Pietro Germi, regista fra i più impegnati nella battaglia per la libertà d’espressione, in una sua intervista [fig. 43] rilasciata nel 1972 a TV7, risponde alla domanda di un giornalista sulle ragioni per cui il cinema italiano si stia qualificando sempre più come industria dell’evasione e sempre meno come mezzo di comunicazione sociale, dell’idee e di promozione della coscienza critica del pubblico. Germi, a proposito dell’esistenza del reato di vilipendio, afferma: In Italia i registi si trovano nella difficoltà di fare un film che critichi la polizia, la magistratura, l’esercito, l’ordine dei medici, dei vigili urbani, dei vigili del fuoco, le organizzazioni ecclesiastiche. Tutte queste istituzioni che costituiscano l’ossatura della nostra civiltà sono tabù intoccabili. Si può finire in galera se si toccano, si criticano, se si fanno dei film che, critichino anche solo degli aspetti, con lo scopo di migliorarne il funzionamento. Quindi gli autori e i produttori sono scoraggiati nel ricercare argomenti di film in queste direzioni. Mentre viceversa hanno scoperto che si può fare qualsiasi cosa nel campo dell’erotismo, nel campo della violenza, del sadomasochismo. E allora è abbastanza naturale e comprensibile che l’inventività, scarsa forse, degli uomini di cinema, si sia indirizzata verso la strada che offriva la minor resistenza.4 Basti pensare che fino al 1978 i film erotici (come Ultimo tango a Parigi o L’impero dei sensi) e pornografici venivano proiettati nelle normali sale cinematografiche, senza che ne avvenisse specificato il contenuto, se non dalle locandine più o meno esplicite. Nel 1978 al Parco Lambro di Milano nasce il primo cinema a luci rosse

4 L’intervista è riportata nella prima puntata “La censura raccontata dal cinema” della serie televisiva Italia Taglia prodotta da Tele Più nel 2001, a cura di Tatti Sanguineti.


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d’Italia. Quindi la soluzione accettata dalla censura, è stata quella di riservare a questi particolari film, delle sale cinematografiche apposite, le quali sono tenute ad esporre il divieto di entrata per i minori. 4.2 Effetti speciali per la censura

La grammatica cinematografica è da sempre stata accompagnata dall’evoluzione dei ritrovati tecnologici. Sarà proprio la contrapposizione tra rappresentatività e verosimiglianza l’elemento che porterà, gradualmente e faticosamente, alla crescita linguistica, alla elaborazione degli elementi fondamentali della grammatica cinematografica. 5 Il progresso linguistico qualche volta provoca, ma molto più spesso prende spunto dall’innovazione tecnica, ed insieme rendono possibile la complessità narrativo-espressiva del nuovo linguaggio audio-visivo. Sin dalla nascita del cinema, viene definito “effetto speciale”, non solo il trucco fotografico e/o ottico, ma ogni elemento atto a rendere esemplare sia la realtà che l’irrealtà. Non possiamo dimenticare l’importanza che hanno avuto, e che hanno tuttora, gli effetti speciali nell’evoluzione degli strumenti cinematografici. Ad esempio gli effetti speciali fisici, in grado di simulare particolari condizioni atmosferiche; quelli meccanici (esplosioni, incendi, spari), senza dimenticare l’uso del “make-up” e dei manichini (pupazzi costruiti in dimensioni reali o in scala dotati di possibilità di movimento); quelli inerenti alla tecnica, se non addirittura alla “grammatica” cinematografica, tra cui la dissolvenza (il passaggio più o meno veloce dal nero a un’immagine o viceversa), la dissolvenza incrociata ( un inquadratura che sfuma direttamente in un’altra), l’effetto “flou” (l’utilizzo di un filtro che ammorbidisce i contorni dell’immagine), la “tendina” (la transizione fra due inquadrature facendo occupare progressivamente alla seconda lo

5 Carlo Montanaro, Dall’argento al pixel. Storia della tecnica del cinema, Le Mani, Genova, 2005, p. 23


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spazio della prima), il “ralenty” e la “accelerazione”. Benchè diventati abituali tutti questi procedimenti sono di fatto degli effetti speciali.6 Pensiamo ad esempio a quanto gli effetti, abbiano inciso sulle modalità rappresentative del cinema e diventino quasi delle convenzioni. Immagini sfocate danno una rappresentazione del ricordo più convincente. Un effetto flou o una serie di immagini sfumate indicano un flashback – il ricordo di uno dei protagonisti – o un sogno. Spesso, inoltre, la sfocatura è associata al rallentatore, con movimenti sospesi che danno ai soggetti rappresentati un’aria come ovattata. Prima del digitale, il concetto di cancellazione non appartiene al cinema, bensì viene sfruttato quello di sovrapposizione, dovuto al supporto fisico, ovvero la pellicola, un nastro continuo di materiale plastico, costituita da un supporto su cui è steso uno strato di sostanza fotosensibile, l’emulsione. Tutti gli effetti speciali perciò nascono dall’abilità e dall’ingegno, nell’utilizzo della macchina da presa, nel capire le possibilità di trasformazione della pellicola nel processo di montaggio e stampa, ed infine anche con l’uso di trucchi da proiettore. Sostituzione, secondo la definizione di Carlo Montanaro, significa: Interrompere il tempo reale di ripresa,modificare nei particolari ritenuti necessari parte degli elementi plastici dell’inquadratura e riprendere a filmare. Il tempo cinematografico non risentirà dell’interruzione, ma ne acquisterà in efficacia nella misura in cui l’alterazione operata sarà fantastica, irreale, oppure, se necessario, perfino realistica. 7 Georges Méliès, dedica la sua vita al divertimento altrui ed è il primo a capire le potenzialità prodigiose e immaginifiche del cinema. Per pura casualità ne intuisce subito le possibilità di modificazione della realtà, come in un gioco di prestigio. La ripresa può essere bloccata e riattivata senza che lo spettatore si accorga del processo.

6 Carlo Montanaro, Dall’argento al pixel. Storia della tecnica del cinema, Le Mani, Genova, 2005, p. 133 7 Carlo Montanaro, Dall’argento al pixel. Storia della tecnica del cinema, Le Mani, Genova, 2005, p. 92


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L’operazione di montaggio ridefinisce anche il concetto di tempo del cinema, che non coincide più con quello della realtà. La finzione entra nelle sale, grazie alla manipolazione del negativo, che viene tagliato, eliminato e rincollato.8 La sostituzione quindi diventa per definizione, il primo trucco cinematografico sull’immagine. I primitivi effetti speciali sono già noti nel campo della fotografia, poi si diffondono con la Lanterna magica, come ad esempio le esposizioni multiple, i mascheramenti di parte dell’immagine, dissolvenze e sovrapposizioni da più fonti di proiezione, successivamente anche operati direttamente sulla pellicola. Georges Méliès si rende conto di questa magia nel 1896, girando con la sua primitiva cinepresa e intuendo quel processo che poi sarebbe stato nominato come montaggio creativo, fatto di tagli-e-cuci, scarti e incollaggio di spezzoni differenti. Inizialmente questi effetti speciali vengono realizzati, sino al termine degli anni ‘20, esclusivamente grazie alla variabilità dell’otturatore della macchina da presa, perciò l’operatore manovrando la manovella avanti e indietro e proteggendo l’obiettivo con un tappo, per non danneggiare le parti già girate con la luce può riavvolgere la pellicola e riprendere nuovamente. Inoltre utilizzando sfondi omogenei e neri si impara anche ad inserire maschere di cartone o metallo e contromaschere, potendo così modificare singole porzioni del fotogramma. 9 Nello stesso anno, i Lumière (1896) invece creano un’operazione di montaggio direttamente con il proiettore (e non con la macchina da presa), ovvero l’inversione della marcia che «potrebbe essere considerato il primo degli “effetti speciali” del cinema dato che permetteva, durante le prime proiezioni Lumière (1896), di por rimedio alla Démolition d’un mur ricostruendolo virtualmente».10 Questo “effetto speciale” rende il concetto di proiezione, più simile ad una performance con la pellicola, poichè l’effetto avviene in diretta sul proiettore e non a monte sulla macchina da presa. Questa tipologia di

8 Ibidem 9 Carlo Montanaro, Dall’argento al pixel. Storia della tecnica del cinema, Le Mani, Genova, 2005, p. 93 10 Carlo Montanaro, Op. cit, p. 94


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pratica sulla proiezione è meno frequente, ma non si perde soprattutto in quei casi dove si vuole conservare l’integrità della pellicola, agendo esclusivamente su parti del proiettore, ottenendo effetti di viraggio o oscuramento di alcuni fotogrammi. Nel 1919 in America viene brevettato dall’immigrato tedesco Iwan Serrurier, la Moviola [fig. 44], strumento che per antonomasia identifica il montaggio, ovvero l’assemblaggio fisico della pellicola. Questa invenzione permette ai montatori di studiare le singole inquadrature nelle salette, gestendo il solo positivo-immagine e permettendo di scegliere i punti di taglio più adatti. Negli Stati Uniti fino agli anni 70, vengono utilizzate le moviole verticali, mentre in Europa si preferiscono i modelli a sviluppo orizzontale. 11 Analogamente con i processi fotografici, l’introduzione del colore nel cinema assume un ruolo irresistibile. Sin dalla nascita della Lanterna Magica si sviluppano delle tecniche manuali [fig. 45-46], che permettono la colorazione delle immagini con vetri da proiezione, o con una stesura zona per zona di tinteggiature trasparenti come lacche, acquerelli e coloranti organici. Il primo metodo di coloritura viene fatto manualmente con un pennello direttamente sulla pellicola, sempre da donne operaie delle case produttrici, che pazientemente dispongono il film sopra un trasparente che rivela i contorni delle immagini e colorano le singole scene, con tonalità prevalentemente pallide (giallo chiaro, arancio, blu, rosso, verde, o viola). 12 Questa tecnica rimanda alle colorazioni già in voga per i vetrini da lanterna magica. I costi sono chiaramente elevati a causa della manodopera e della lentezza del procedimento, che verrà presto sostituito da una coloritura a matrice, in cui vengono sovrapposti vari film a tinta diversa (metodo molto delicato e di precisione anch’esso). La colorazione a mano ha maggior diffusione nei primi anni del cinema, tuttavia continuerà a essere sporadicamente utilizzata fino all’epoca sonora Successivamente le tecniche di colorazione al cinema saranno tre:

11 Carlo Montanaro, Op. cit, pp. 134-135 12 Carlo Montanaro, Dall’argento al pixel. Storia della tecnica del cinema, Le Mani, Genova, 2005, pp. 75-80


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l’imbibizione (o tintura), il viraggio e la mordenzatura. L’imbibizione [fig. 47] si ottiene, grazie all’applicazione di una vernice colorata sul supporto o spennellando la pellicola positiva e poi immergendola in un bagno di soluzioni coloranti, rendendo uniforme la gradazione cromatica e rispettando le tonalità intermedie. Il viraggio [fig. 48], invece consiste in una trasformazione chimica, nella quale un sale metallico colorato si sostituisce all’argento dell’emulsione senza tingere la gelatina del film. Il supporto diviene trasparente e l’emulsione reagisce sciogliendosi, restituendo tinte color seppia, blu, verde, rosso o arancio. La mordenzatura si basa su un processo simile, ma possiede una più ampia gamma di colori. L’immagine fotografica è trattata con un sale d’argento non solubile capace di fissare un colorante organico. Queste tecniche diventano desuete con il passaggio al sonoro, così dagli anni ‘30 e fino ai ‘50, si cercano altri modi di riprodurre i colori naturali sul bianco e nero, con processi additivi o per via sottrattiva con sistemi in bicromie più facili da gestire.13 La truccheria del cinema migliora costantemente, perfezionando i principi confermati dal lavoro di Méliès, grazie al progredire della qualità dei supporti e delle tecnologie, in veloce evoluzione. Il trucco cinematografico per eccellenza rimane ancora oggi la possibilità, tramite l’applicazione sistematica, fotogramma per fotogramma, del principio della sostituzione (così come Méliès aveva già intuito), per creare elementi artificiali, disegni, titoli, e oggetti. Perciò inizia anche il sistematico utilizzo della truca [fig. 49]. Il termine deriva, dal francese “trucage” e corrisponde all’inglese “optical printer”. La truca è in effetti una stampatrice ottica di alta precisione, nella quale lavorano accoppiati un proiettore e una macchina da presa, rigorosamente sincronizzati. Nello schermo del proiettore scorrono i fotogrammi vergini che passano poi nella macchina da presa in identica successione e in perfetto sincronismo con i fotogrammi proiettati. Dato che le due pellicole corrono a distanza, e grazie all’impiego di un sistema ottico, è possibile effettuare l’interposizione di mascherini o agire sulla

13 Carlo Montanaro, Op. cit, pp. 113-119


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luce di stampa così da ottenere numerosi effetti speciali, come dissolvenze, fermo immagine, accelerazioni, rallentamenti, mascherini, tendine, sovrimpressioni. 14 Un esempio più recente dell’utilizzo della turca è Nort by Nort-West (Intrigo internazionale) di Hitchcock. Il film dura due ore e metà delle inquadrature sono passate in truca: mascherini, virtuosismi incredibili, e tecniche straordinarie per il 1959. Come afferma Carlo Montanaro: La truccheria del cinema migliora costantemente, perfezionando i principi confermati dal lavoro di Méliès e affidandosi grazie al progredire della qualità dei materiali. Il coprire ei sovrapporre rimangono sistematicamente praticati ma diventano più problematici con l’avvento del colore le cui emulsioni hanno una sensibilità talmente bassa da rendere, ad esempio, difficoltoso l’utilizzo del trasparente.15 Le pitture su vetro e le maschere fisse anche dipinte continueranno ad essere alla base dell’immaginario scenografico, ma si cercherà un modo, analogamente al bianco e nero, per la realizzazione delle maschere mobili e delle relative contromaschere. Per questo la Technicolor, mette a punto alla fine degli anni ‘30, il blue screen o blue back, basandosi sull’intuizione che il colore blu sia più facilmente separabile dagli altri primari, ottenendo una stampa ad alto contrasto, che riduce l’immagine trasparente davanti ad uno schermo, permettendo così l’utilizzo di mascheresilhouettes in movimento. Il film che nel 1940 ha confermato questa rinnovata opportunità è Il ladro di Bagdad da Ludwig Berger, Michael Powell e Tim Whelan.16 Gli effetti speciali e le tecniche “analogiche” continueranno ad evolversi in varie direzione, fino all’avvento dei sistemi digitali.

14 Carlo Montanaro, Dall’argento al pixel. Storia della tecnica del cinema, Le Mani, Genova, 2005, pp. 99-100 15 Carlo Montanaro, Op. cit, p. 130 16 Carlo Montanaro, Dall’argento al pixel. Storia della tecnica del cinema, Le Mani, Genova, 2005, p. 130


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Questi trucchi cinematografici conservano tutt’ora il fascino magico, di cui anche Méliès si era innamorato. Interessante però è relazionare l’utilizzo di effetti speciali, comprendendo naturalmente anche il montaggio creativo, a quella parte della storia del cinema in cui vengono sfruttati come escamotage tecnici per coprire degli elementi di disturbo al comune senso del pudore, piuttosto che a dettagli storici equivocabili. In questo caso la tecnica cinematografica si viene a confrontare con i divieti delle commissioni di censura, che impongono i tagli, maschere o oscuramenti. Perciò, il montaggio e gli effetti speciali, l’utilizzo della truca e i viraggi saranno utili per ridefinire il linguaggio cinematografico a seconda dei casi specifici. Un esempio molto curioso è dato dal caso del film Brucia ragazzo brucia [fig. 50/53] di Fernando Di Leo del 1969, dove la censura suggerisce di coprire una scena erotica fra i due protagonisti con una rete sovrapposta alle parti delle nudità da non far vedere chiaramente. 17 Lo stesso regista dichiara che sono stati tagliati «212 metri, per non far capire alla gente il tempo giusto che ci vuole per dare ad una donna l’orgasmo...Va da sé che parlare di orgasmo all’epoca era non un azzardo, ma una cosa proprio fuori da qualsiasi cosa potesse essere immaginato in un film» e continua dicendo che «La rete io me la sono trovata, perché non l’avrei patteggiata. Credo non sia mai accaduto nella storia del cinema, che una rete abbia avuto questa funzione, una funzione talmente balorda, così brutta, così fatta male, con interventi cialtroni, che seguendo la loro mentalità non è messa neanche nei posti giusti».

17 L’intervista integrale è riportata nella seconda puntata dalla serie tv, Italia Taglia, prodotta da Tele più, nel 2001, a cura di Tatti Sanguinetti


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5. Dispositivi come mezzi di controllo 5.1 Strumenti e apparati

Il cinema è il luogo che ha cambiato il significato dell’esperienza. Pensiamo a come il cinema riesca a farci vedere nuovi aspetti che il quotidiano ci ha fatto perdere di vista (come già nel 1924 ben sottolineava Béla Balàzs). La visione cinematografica riesce a farci vedere le cose come se fosse la prima volta o evidenziarne aspetti inediti, rifondando il nostro rapporto con il mondo, e aiutandoci a reinterpretare la realtà alla luce di quanto appare sullo schermo. Il ritmo della ricezione è determinato dalla produzione a catena delle immagini, o meglio, nel film la percezione a scatti si afferma come principio formale. Non si può perciò, non pensare che la visione filmica di penda strettamente da una tecnologia, che non solo media tra l’osservatore e l’osservato, ma addirittura si pone come condizione essenziale perché qualcosa possa essere visto. A questo punto diviene di fondamentale importanza introdurre un concetto chiave, ovvero quello di “dispositivo”, da cui appunto il cinema e le istituzioni che ruotano attorno ad esso dipendono, creando una forte dipendenza l’uno dall’altro. Nei dizionari francesi di uso comune, la definizione del termine “dispositivo” viene distinta in tre categorie di significato: Il primo è un senso giuridico in senso stretto, ovvero il dispositivo è inteso come la parte di una legge che contiene la decisione separatamente dalle motivazioni e ne dispone la sentenza. Il secondo appartiene ad un ambito tecnologico, che riguarda il meccanismo, i pezzi che lo compongono ed il suo funzionamento per estensione. Il terzo esprime un significato militare, ovvero l’insieme dei mezzi disposti in conformità di un piano. Applicando questi significati di dispositivo al cinema emergono delle riflessioni molto ampie anche sul ruolo che gli viene attribuito in ambito filosofico.18 Jean-Louis Baudry (1970 e 1975), ad esempio elabora il concetto vero e

18 Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo?, I sassi nottetempo, Roma, 2006, pp. 13-14


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proprio di dispositivo partendo da alcuni punti chiave: il particolare regime di percezione, l’effetto di senso che il film induce sullo spettatore, i fenomeni di credenza, la segregazione degli spazi, l’illusione, l’impressione di realtà. Baudry distingue poi l’apparato di base (appareil de base), ovvero gli strumenti tecnici e le operazioni necessarie alla produzione e alla proiezione di un film (pellicola, macchina da presa, sviluppo, montaggio, proiettore ecc., intesi nel loro aspetto tecnico) dal dispositivo (dispositif) vero e proprio, che concerne gli effetti che le condizioni di proiezione del film hanno sul soggetto-spettatore determinati dall’organizzazione simulata del mondo ad opera del cinema. Secondo Baudry, infatti, il dispositivo non attiva solo i processi mentali e coscienti dello spettatore, ma è il luogo del desiderio, dove il dispositivo permette una regressione artificiale simile al sogno. Durante la fruizione del film, i differenti elementi - proiettore, sala buia e schermo ‒ pongono lo spettatore in uno stato di sovrapercezione visiva, attrazione, in cui egli si identifica con i personaggi e le storie che passano sullo schermo. La scena a cui assiste lo spettatore, e gli strumenti (la macchina da presa, la moviola, la sala, lo schermo, la cabina di proiezione) che permettono la visione della scena, stringono un rapporto, in cui il soggetto-spettatore è implicato attraverso l’inconscio, mettendo in moto il suo immaginario. Anche il filosofo Metz (1977), a sua volta, parla, oltre che di dispositivo, di istituzione cinematografica, intendendo con questa espressione sia l’industria del cinema, sia i meccanismi mentali dello spettatore, intesi in senso sociologico (l’abitudine sociale di andare al cinema), psicologico (la percezione visiva del film) e psicoanalitico (i processi inconsci quali lo stato onirico, lo stadio dello specchio, paure e pensieri repressi). Di particolare rilevanza è poi nel pensiero di Foucault la parola “dispositivo”, termine tecnico molto importante, così come descrive Giorgio Agamben nel suo saggio dal titolo “Che cos’è un dispositivo?”19 Qui di seguito riporto un estratto di un’intervista del 1977 del filosofo francese:

19 Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo?, I sassi nottetempo, Roma, 2006


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Ciò che io cerco di individuare con questo nome, è, innanzitutto, un insieme assolutamente eterogeneo che implica discorsi, istituzioni, strutture architettoniche, decisioni regolative, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche, in breve: tanto del detto che del non-detto, ecco gli elementi del dispositivo. Il dispositivo è la rete che si stabilisce fra questi elementi. Ho detto che il dispositivo è di natura essenzialmente strategica, il che implica che si tratti di una certa manipolazione di rapporti di forza, di un intervento razionale e concertato nei rapporti di forza, sia per orientarli in una certa direzione, sia per bloccarli o per fissarli e utilizzarli. Il dispositivo è sempre iscritto in un gioco di potere e, insieme, sempre legato a dei limiti del sapere, che derivano da esso e, nella stessa misura, lo condizionano. Il dispositivo è appunto questo: un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati.20 Riassumendo questo concetto, il dispositivo in se stesso, è la rete che si stabilisce tra discorsi, istituzioni, leggi e apparati fisici. Inoltre esso ha sempre una funzione strategica concreta ed è il tramite tra le relazione di potere e le relazioni di sapere. Il termine per Foucault, sembra quindi rimandare a quell’ insieme di pratiche e meccanismi, attraverso cui si realizza una pura attività di governo senza che ci sia una rilevante ragione d’esistenza. Per questo i dispositivi implicano sempre un processo di soggettivazione: devono cioè produrre il loro soggetto. Se volessimo ampliare il pensiero di Foucault si potrebbe definire dispositivo, qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi. Ogni dispositivo quindi diviene strumento di governo, utile ad esercitare controllo in un determinato ambito e a porre delle regole. Nel saggio di Giorgio Agamben viene spiegato ulteriormente il pensiero di Foucault. Secondo Agamben, Michel Foucault sostituisce all’analisi degli apparati che esercitano il potere (istituzioni localizzabili, espansioniste, repressive e legali) quella dei “dispositivi” che hanno “vampirizzato” tali

20 Michel Foucault, Dits et écrits, vol. III, Edition Gallimard, Parigi, 2001, pp. 299-300


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istituzioni e riorganizzato di nascosto il suo funzionamento: procedure tecniche “minuscole”, che giocano sui dettagli, hanno ridistribuito lo spazio per farne l’operatore di una “sorveglianza generalizzata.”21 Ed ancora spiega Agamben: Questa «microfisica del potere» introduce una problematica molto nuova ma privilegia, ancora una volta, l’apparato produttivo (della disciplina), anche se, nell’«educazione», scopre un sistema di «repressione» e dimostra come, dietro le quinte, tecniche mute determinino o cortocircuitino le messe in scena istituzionali. Se è vero che il reticolo della «sorveglianza» si precisa ed stende ovunque, tanto più urgente è svelare in che modo un’intera società non si riduca ad esso; quali procedure comunemente diffuse (anch’esse «minuscole» e quotidiane) vengano adottate per eludere i meccanismi della disciplina conformandovisi ma solo per aggirarli; e infine quali «modi di fare» costituiscano la contropartita, per i consumatori (o i «dominati»), delle tecniche silenziose utilizzate per assicurare l’ordine politico e sociale.22 5.2 Disciplina al cinema

Ciò che mi preme sottolineare è che il ruolo del dispositivo diviene perciò essenziale, anche se trattiamo di tutti quei processi che hanno fatto crescere l’istituzione della censura, come organo di potere, che esercita la propria visione del mondo, con il fine di controllare un mezzo di comunicazione potente come il cinema. L’essere al cinema implica delle azioni comuni (anche se non necessariamente uniformi), una partecipazione sia fisica che mentale dello spettatore, ma anche dei saperi e delle credenze condivise. Il cinema fa vivere una particolare “esperienza del reale” in cui viene perso il contatto con il mondo, e insieme rafforzato il legame con esso. Lo spettatore diviene libero di isolarsi rispetto al mondo esterno, e nello stesso tempo immaginare un’alternativa immaginaria (o pe-

21 Michel Foucault amplia questo concetto nel suo saggio dal titolo Sorvegliare e punire: la nascita della prigione del 1975 22 Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo?, I sassi nottetempo, Roma, 2006, p. 23


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ricolosa) della società a cui appartiene. Per tanto Stato e Chiesa, in Italia operano sull’operato del cinema, ponendo limiti e tabù, in ambito morale e politico. Per questo l’esperienza filmica deve sottomettersi ad una serie di regole imposte dalle istituzioni che la modellano, e la legittimano. Queste regole investono fin da subito la visione a più livelli: ad esempio l’immagine deve assumere “buoni contenuti” o “buone composizioni”, ma anche che la fruizione avvenga in un “buon ambiente” e si svolga con “buone modalità”, che gli spettatori adottino “buoni comportamenti sociali”. 23 Nel senso foucaultiano del termine, il dispositivo deve essere utilizzato per ottenere disciplina, anche nell’ambito del cinema, assoggettando gli spettatori e rendendoli così “funzionali” ai disegni sociali. Il potere ha necessità che il cinema venga regolamentato, poiché è espressione di un’esperienza che ha in sé qualcosa di “eccessivo” (basti pensare all’intensità della percezione) e di “liminale” (basta pensare all’atmosfera che si crea in una sala). Ne deriva la necessità di tener sotto controllo tutto quanto è troppo oltre il buon costume o va oltre i limiti istituzionali. Tuttavia la regolamentazione ed il giudizio che le varie commissioni di censura hanno dato nel corso dei decenni, non servono solo a riportare alle giuste misure la visione filmica. Esse sono parte di quel dispositivo di potere che serve ad ottenere un riconoscimento sociale da parte del pubblico, e cioè a far sì che la visione stessa diventi un atto controllabile e ben identificabile (poiché basato su regole imposte) e accettato. Insomma, per tali ragioni si ha l’esigenza, in particolare negli anni Sessanta (data la rivoluzione dei costumi) che il cinema disciplini il suo modo d’essere e di rappresentare l’Italia e l’italianità, sia per creare così corpi e menti “docili” in vista di una finalità produttiva, e per far sì che lo spettatore si riconosca e si identifichi in una visione canonica voluta dal potere.

23 Francesco Casetti, nel suo saggio L’esperienza filmica: qualche spunto di riflessione (Yale, 2007) discute ampiamente sulla questione percettiva e psicologica dello spettatore al cinema


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6. Censura additiva 6.1 Parresia

Etimologicamente la parola “censurare” viene associata al termine latino caedere (cioè tagliare da cui cesoie, forbici appunto) piuttosto che a censere, dichiarare, da cui poi i termini censire nel senso di catalogare, contare). Infatti nella Roma antica il censore svolgeva appunto un ruolo di censo, ed incaricato dalla magistratura non permanente aveva una funzione di amministrazione finanziaria per l’attribuzione di tasse e diritti civili, e solo in seguito, di vigilanza sulla condotta morale e civile dei cittadini. Nell’uso corrente, la parola “censurare” indica il controllo delle autorità su opere da pubblicare o rappresentare per verificare che non venga offesa l’immagine dello Stato, della Chiesa o della morale pubblica. La censura, inoltre, può essere applicata a livello individuale e istituzionale. Per l’individuo questo potere di controllo, modifica inconsciamente i suoi desideri e il suo agire sociale all’interno di una comunità, mantenendolo in uno stato di repressione mentale. A livello istituzionale (Stato e Chiesa), il potere censorio ha la forma di una repressione del dissenso, ai fini di ottenere degli individui consenzienti. La censura esiste nel momento in cui un potere si prende carico dell’individuo: si occupa della sua salute, della sua sopravvivenza, lo educa, gli trova una collocazione nella società attraverso il lavoro, in caso di guerra lo protegge dal nemico.24 La distinzione fra ciò che è bene e male è quindi un’opera di censura, la quale, è anche una forma di protezione per l’uomo da tutto quello che potrebbe rovinare il rapporto tra una società controllata e la felicità del singolo. La pena contro la mancata obbedienza si rappresenta con una forma d’isolamento per chi si oppone: scomunica, pubblica ammenda, interdizione, sospensione, sanzione disciplinare e a volte anche incarcerazione.

24 Alessandro Fontana, “Censura”, Enciclopedia, Einaudi, 1977


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Questa premessa è utile ad introdurci sul modo di agire dei censori. L’ attività di censura è legata al concetto di sottrazione, quasi meccanica, se si pensa all’utilizzo di una forbice che trancia un’unione indissolubile. Possiamo anche pensarla inversamente: il contrario di censurare è approvare, ovvero definire l’area di tolleranza di parole e immagini. Perciò l’azione censoria svolge la sua funzione di controllo per reprimere il dissenso e fabbricare il consenso. Le forze di potere agiscono a diversi livelli sulla società, religioso, istituzionale, ma anche sul controllo di mercato. Nell’ambito del cinema, la commissione di censura svolge un ruolo fondamentale, in quanto ostruisce la libertà d’espressione, devia le scelte della produzione e concede il diritto alla distribuzione/visione per il pubblico.25 Al concetto negativo di censura, è utile introdurne uno positivo e opposto: quello di “parresia”. Nella Grecia antica, questo termine si traduce letteralmente con “parlar chiaro”, ovvero dire la verità. Il discorso sulla “parresia” è introdotto in filosofia per la prima volta nel V secolo a.C. in Euripide, come applicazione pratica non facile di onestà intellettuale, che cerca di opporsi al silenzio, alla menzogna, al proibito, all’inganno retorico, e più propriamente alla censura. I greci utilizzano la parresia per iniziare un discorso critico contro i poteri, che si oppongono all’enunciazione della verità. Le forbici censorie (presenti in ogni epoca) sono attive in base ai canoni etici e politici delle varie società. Ciò che nell’antica Roma o nella Grecia classica era ritenuto tabù, dai moderni è considerato consuetudine e viceversa. Come già detto, la censura è legata all’idea di privazione, di taglio, di perdita, privando la storia di capolavori, o mutilando opere di rilievo. Tuttavia potremmo considerare limitativa l’idea che la censura ( e i poteri associati ad essa) possa agire solo attraverso un’atto sottrattivo. Ampliando questo spunto di riflessione, è utile prendere in prestito un concetto descritto da Béla Balàzs, storico del cinema e sceneggiatore ungherese, che introduce il discorso sulle “forbici poetiche” o “forbici creative”, termine con il quale indica il montaggio, piuttosto che la censura.

25 Enzo Sallustro, Storie del cinema italiano: censure. Film mai nati, proibiti, perduti, ritrovati, Editore Silvana, Cinisello Balsamo, 2007


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Secondo Balàzs il collage e i tagli di un’inquadratura o dell’altra, creano una correlazione. Alla moviola ha luogo non un assemblaggio, semplice procedimento meccanico di cucitura, ma un processo doloroso di ricerca del principio di assemblaggio delle inquadrature secondo un ritmo. Con il montaggio viene operata la trasformazione dello spazio e del tempo reali, in uno spazio e in un tempo immaginario, avvicinandosi o allontanandosi dal soggetto, e provvedendo allo scarto di tutto quanto non si ritiene utile. Balàzs racconta l’episodio inconsueto di come la censura scandinava se la cavò per distribuire La Corazzata Potemkin, rispettando gli accordi con Ejzenstejn che aveva preteso che nulla fosse aggiunto o tolto. Balàzs commentando l’accaduto scrive: «in tal modo il film più rivoluzionario fu trasformato in un film controrivoluzionario, senza che per questo si fosse dovuto ricorrere ad alcun mutamento di inquadrature o didascalie. Era cambiato soltanto il montaggio. Per opera delle forbici». Con questo esempio, il critico ungherese dimostra l’onnipotenza del montaggio come produttore di senso. La grande potenzialità comunicativa – nel bene e nel male – del mezzo cinematografico è l’estrema facilità di manipolazione della pellicola. Potremmo dunque affermare che nessuna arte è di più facile falsificazione come il cinema: il film può essere manipolato in modo tale da risultare irriconoscibile anche allo stesso autore, che ne vede un’opera altra rispetto a quella immaginata. Nasce di conseguenza il problema di definire la relazione tra censura e montaggio (o più specificatamente découpage, termine francese che allude all’operazione del taglio, che precede il montaggio). Tale rapporto diviene perciò molto interessante: la natura manipolatoria e sottrattiva delle forbici poetiche, può essere correlazionata all’intervento censorio, sia per la sua produttività, che per la sua prerogativa di produrre senso. Generalmente si legge l’intervento censorio rispetto a un testo già organizzato, già strutturato. In verità ogni testo filmico nasce da un intervento di découpage, non rispetto a un testo, ma rispetto alla continuità spazio-temporale di quella che chiamiamo il flusso del reale.Testo integro e testo censurato sono solo due differenti découpage. Il problema della censura (o del montaggio) sta quindi non tanto, rispetto alla sottrazione dal testo chiuso, ma quanto viene comunque amputato rispetto all’infinito piano sequenza dell’esistenza della vita. A tal


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proposito il critico cinematografico francese André Bazin, parlando della ripresa in continuità senza interventi di montaggio, commenta che in questo caso il tradizionale découpage «avrebbe qualcosa di indecente come un numero permanente di prestidigitazione». Anche Bazin condivide questa idea di parentela tra montaggio e trucco: idea non nuova, visto che i primi manuali di tecnica cinematografica, come ad esempio quello di Ducom, inserivano il montaggio nel capitolo dei trucchi. Prendiamo per certo che testo filmico è stabile, fissato, definitivo e immodificabile. A questo punto però, la variabile dello trascorrere del tempo diviene nuovamente significante, poiché la precarietà del suo supporto di pellicola ha l’effetto di ridurre la sua durata. La riproduzione tecnica introduce il problema della degradazione e dei mutamenti casuali (tagli, inserti, code, ecc.) nel tempo. Basti pensare che prima dell’avvento del digitale le bobine dei film hanno una vita dai tre ai cinque anni, per un totale di 250/300 spettacoli, che ne modificavano molto spesso l’integrità, rendendo impossibile per il fruitore l’identificazione di un atto censorio da un danneggiamento della pellicola stessa. Di conseguenza l’opera originale copiata e consumata diviene diversa da se stessa, e le varianti o le copie dell’opera prima, assumono caratteristiche fisiche e testuali mutate, facendo anche emergere una molteplicità di sensi. Il problema della censura è quindi da considerarsi come problema del rapporto tra testo e continuità dell’esperienza del soggetto, che vede la propria immagine proiettata nel mondo.26 Per lo spettatore vedere un film somiglia a vivere, dove tutto scorre e niente resta uguale: la percezione dell’immagine in movimento diventa quasi analoga ad un’esperienza reale dove, il limite fra il vissuto e il ricreato sullo schermo combaciano. Ad amplificare l’impressione di realtà del cinema e la sua forza persuasiva concorrono le dinamiche percettive del movimento e del tempo. La linea di demarcazione incerta fra vissuto e visto è il risultato dell’incontro dei due punti di vista: quello del suo creatore originario e del suo destinatario.

26 Giuseppe Franzella nel suo recente libro dal titolo Delitti imperfetti (2012), introduce e approfondisce l’argomento


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6.2 Teoria freudiana

Non si può parlare di censura senza che il pensiero vada a Freud. Il padre della psicanalisi spiega la nozione di censura, come sempre presente nella sua accezione letterale, ossia l’idea di una soppressione, rivelata da vuoti e da modificazioni, di passi di un testo considerati inaccettabili. Ciò che rende tanto interessante la soppressione è la modificazione del testo e del nuovo significato che diventa interpretato diversamente dall’opera originale. Essenziale è l’intervento della censura nel simbolismo del sogno che, come afferma Alessandro Fontana, non va visto «semplicemente come una deformazione o un camuffamento, ma come uno strumento esplicito della censura nelle sue manovre espressive». Il filosofo austriaco definisce il concetto di censura: La censura non è unicamente un’istanza di rimozione, ma un operatore di modellamento del reale. E il reale non è altro che il risultato del lavoro della censura sulle pulsioni.27 Freud non ha fatto che riconoscere perciò, il meccanismo della censura come una pulsione all’interno dell’individuo, che la utilizza nella sua funzione salvifica, per la sua capacità di mediazione tra il principio del piacere e il principio di realtà. Remo Bodei, in un suo saggio sulla censura introduce anche un altro concetto molto interessante e caro a Freud, che riguarda «quella serie di meccanismi, attraverso i quali si nasconde e si rivela qualcosa. In primo luogo, l’intero concetto di sintomo in Freud è legato a questo: a un rivelare che nasconde». 28 Le manovre espressive che Freud riconosce sono essenzialmente quattro: relazione parte/tutto; approssimazione e allusione; rapporto simbolico; rappresentazioni verbali e plastiche. Ritroviamo importanti riflessioni sull’argomento nella citatissima

27 Alessandro Fontana, “Censura”, Enciclopedia, Einaudi, 1977, p. 888 28 Remo Bodei, Sapere, nascondere, deformare. Modelli teorici di censura, in Strategie e pratiche della censura, Regione Emilia Romagna, Assessorato alla Cultura, Ferrara Bologna, 1980, p.20


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lettera a Fliess del 22 dic. del 1897 e nelle successive elaborazioni. Facendo l’esempio del giornale passato attraverso la censura della frontiera russa, Freud nota che «Parole, interi periodi e capoversi sono cancellati, con il risultato di rendere incomprensibile tutto il resto».29 Il cinema ha indubbiamente a che fare con il desiderio, l’immaginario e il simbolico. Va ad agire sui giochi di definizione, proiezione e suggestione e sui complessi meccanismi che regolano la nostra psiche e il nostro inconscio, che sarebbe strutturato come un linguaggio con una sua retorica di metafore e metonimie. Il cinematografo, forte della sua natura di codice eterogeneo, fonde oggettività e soggettività, realtà e sogno, scienza e magia. I processi intrapsichici prendono forma nel linguaggio cinematografico attraverso alcune modalità di rappresentazione. Ad esempio il ricordo o il sogno sono raffigurati cinematograficamente come immagini sfocate, in cui la sfocatura funge da codice. Sappiamo che un effetto flou o una serie di immagini sfumate indicano un flashback, o un sogno. Spesso, la sfocatura è associata al rallentatore, con movimenti sospesi, che danno ai soggetti rappresentati un’aria come ovattata. Ciò che viene presentato con l’associazione sfocato/spirituale, dunque, per il cinema è di natura immateriale, ovvero un avvenimento mentale. 6.3 Interventi censori additivi in italia

In Italia gli interventi di censura (e autocensura) sembrano aver avuto assai poco di creativo. La loro funzione sembra essere stata quella di deprimere, con particolare accanimento, novità, ricerca, sperimentazione. Le forme della censura assumono connotati diversi a seconda del periodo storico: censura militare a scapito dei cinegiornali, fra le due guerre mondiali; censura ideologica durante il ventennio fascista cancellando democrazia e diritti civili; censura sociale, durante gli anni della ricostruzione per nascondere la miseria in cui riversava il paese.

29 Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis,Enciclopedia della psicanalisi, Laterza, Bari, 2005, pp. 66-67


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In Italia inoltre, la morale cattolica gioca un ruolo unico al mondo nel definire i parametri etici del “visibile”. Gli Anni Sessanta rappresentano il decennio in cui la censura porta allo scoperto la sua anima più ottusamente repressiva, braccio delle forze di destra, di cattolici e difensori della morale sessuale e del linguaggio. La commissione di revisione cinematografica vieta perciò l’apparizione sullo schermo di temi offensivi, sia per il comune senso del pudore (cattolico), sia per motivi considerati pericolosi, poichè fonte d’ispirazione per atti criminosi o addirittura, strumenti delle forze politiche d’opposizione. Il concetto, prima descritto della parresia, cioè quella volontà di raccontare la verità, trova riscontri in alcuni registi italiani. Ad esempio, nella ricerca di Rossellini nel campo della dialettica tra sacro e profano da Francesco giullare di Dio (1950) a Il Messia (1975), appare evidente la volontà del regista di narrare ad un pubblico bisognoso di autenticità, secondo la sua personale interpretazione di parresia, che mette a confronto l’antropologia del quotidiano con il conflitto tra verità e potere.30 Come Rossellini, anche altri registi s’impegnano nella difesa della propria produzione creativa e della trasmissione autentica delle loro opere cinematografiche. Fra questi i più importanti anche negli anni Sessanta, sono Pier Paolo Pasolini e Marco Ferreri. Ferreri sviluppa un discorso estetico che mescola satira e crudeltà, contrapponendosi totalmente al conformismo d’immagini imposto dalla politica italiana democristiana. Per Pasolini, intellettuale a tutto campo, l’impegno cinematografico diviene sinonimo di onestà intellettuale e responsabilità nei confronti del pubblico e della critica. Pasolini è sicuro che l’istituzione della censura in Italia rappresenti una volontà politica e le ragioni morali siano solo un pretesto, a difesa del carattere religioso della cultura italiana e di una particolare situazione politica. Lo stesso regista difende dalle accuse dei censori il film di Luchino Visconti Rocco e i suoi fratelli del 1960, sulle pagine della rivista “Vie nuove” denunciando ciò che a suo giudizio fosse il grande errore, ovvero «quello di accettare la discussione sul piano su cui

30 Enzo Sallustro spiega ancora meglio il concetto di parresia riferito a Rossellini nell libro Storie del cinema italiano: censure. Film mai nati, proibiti, perduti, ritrovati, Editore Silvana, Cinisello Balsamo, 2007


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la pongono i censori: cioè sul piano moralistico-sessuale». Questa tesi si pone anche l’obiettivo di esaminare la questione secondo una visione sicuramente nuova e sperimentale, che prende il suo avvio da un intervento di Antonio Costa, critico e docente di Storia del cinema presso lo IUAV di Venezia. Quello che il saggio di Antonio Costa appunto propone di dimostrare, è che l’intervento censorio contribuisce all’affermazione di determinati valori estetici, linguistici etc. Insomma che il suo contributo è in vari modo creativo, anche se non è sempre e soltanto la commissione di censura amministrativa, quella che ordina i tagli, a svolgere tali ruoli. […] Uno degli equivoci da sfatare è che l’intervento censorio sia per così dire privativo, privi lo spettatore della visione o dell’ascolto di situazioni o enunciati in contrasto con la morale corrente, ecc. Il punto focale che Antonio Costa vuole avvalorare è che in effetti il lavoro di manipolazione della verità storica attiene tanto ai produttori quanto ai censori, in una visione integrata dei loro lavori, in quanto ambedue operatori nella stessa direzione e nello stesso ambito.31 L’atto censorio, seconda questa visione, potrebbe anche essere interpretata come un’operazione “additiva”, ovvero di assunzione di un nuovo significato storico e testuale, in quanto censori e produttori/distributori cinematografici si influenzano a vicenda, giocando spesso ruoli inversi (si pensi alla censura preventiva) o facendo proprie tecniche cinematografiche (l’uso della moviola in aula di revisione o l’utilizzo in nota dei nulla osta delle diciture “alleggerire” o “oscurare”). Possiamo considerare quindi, la censura non solo come dispositivo emanato da un organo amministrativo ma come pratica diffusa, grazie all’introiezione, “soggettivazione” dei meccanismi censori. I particolari casi-studio che andremo ad affrontare nel prossimo capitolo riguardano in particolare, quella pratica censoria additiva, che produce un nuovo testo ed è paragonabile perciò ai procedimenti di montag-

31 Antonio Costa,sviluppa il concetto di censura additiva per una relazione al Convegno Internazionale “La Censura”, Università di Bologna/Yale University, svoltosi a Bologna 10-12 dicembre 1998.


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gio, quanto all’introduzione di “effetti speciali” di tipo tecnico, i quali però hanno entrambi un ruolo di alterazione dell’immagine. Nello specifico prenderemo in considerazione due casi di film significatici nella storia del cinema italiano degli Anni Sessanta: Rocco e i suoi fratelli (1961) di Luchino Visconti e Otto e mezzo (1963) di Federico Fellini. Questi due film sono temporalmente divisi dalla nuova legge del 1962, la cosiddetta legge Folchi che pone una più “moderna” visione dei regolamenti per la Commissione di Revisione cinematografica. Diventa perciò ancora più interessante l’analisi di questi due casi, come specchio di un adeguamento del cinema alla retorica dell’istituzione censoria, nonostante le liberizzazioni parziali della tanto discussa legge. I punti in comune di questi due film si fanno pertanto più evidenti: entrambi gli interventi censori (seppur con modalità differenti) sono da attribuirsi a quella pratica additiva prima citata, che fa uso della stessa tecnica, ovvero l’alterazione delle immagini col fine di rendere oscurate e meno riconoscibili alcune scene. Per Rocco e i suoi fratelli, l’oscuramento rappresenta un escamotage fantasioso del produttore Goffredo Lombardo, con lo scopo di oscurare i fotogrammi, renderli illeggibili o difficilmente leggibili. In questo caso la censura diviene il procedimento per una semplificazione-banalizzazione di un testo complesso. Nel caso di Fellini lo scopo è anzi opposto. La distribuzione decide di evidenziare con viraggi seppia e in certi casi di altri colori (azzurrino etc.) tutte le sequenze supposte oniriche, dividendo nettamente ciò che appartiene alla realtà e ciò che appartiene alle visioni mentali del protagonista, con la motivazione di enfatizzare determinate sequenze. Intervento ermeneutico se così si può dire e non di meno censorio, o ascrivibile a strategie censorie. Insomma la censura distributiva ha anticipato di qualche decennio i più ottusi retori, che applicando al cinema la teoria dell’enunciazione, pretendono di “pronominalizzare” tutte le inquadrature cinematografiche, che altro non è che un modo di censurare e rimuovere la sostanza onirica del cinema.




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7. Casi studio 7.1 Premessa al capitolo

Come si è accennato nella fine del capitolo precedente, il processo di "soggettivazione" dei meccanismi censori, è in realtà il risultato di una combinazione fra le possibilità offerte dalla tecnica e dalla tecnologia del cinema e l'influenza, che l'apparato della censura esercita sulle produzioni cinematografiche. La scelta di due film Rocco e i suoi fratelli (1961) di Luchino Visconti e Otto e mezzo (1963) di Federico Fellini, come casi studio, non è affatto casuale. Questi due capolavori, hanno a loro modo, segnato definitivamente un salto in avanti del cinema italiano, sia nei contenuti, che nell'estetica e nel linguaggio. I due autori sono da considerarsi come le punte di diamante della cinematografia nazionale negli anni Sessanta, seppur con notevoli differenze di personalità e stile. Visconti è un uomo di cultura, di forte temperamento, determinato, impegnato con precise idee politiche. Fellini è un puro creativo con l'espressione da sognatore, è religioso e usa il cinema come un prolungamento della propria immaginazione. La competizione fra i due è sempre molto alta e per lungo periodo i registi si tengono debitamente a distanza. Ci sono però alcuni punti in comune, fra i due autori e i loro film. Ad esempio la scelta di Visconti e Fellini di preferire il bianco e nero al colore, soprattutto per la sua forza espressiva, poi magicamente sfruttati dai rispettivi direttori della fotografia, Giuseppe Rotunno e Gianni di Venanzo. Inoltre entrambi i registi decidono di affidare i propri lavori, a due dei più grandi produttori italiani di quegli anni: Goffredo Lombardo [fig. 61-62], proprietario della Titanus, uomo lungimirante e acuto, il qua-


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le finanzia i più importanti film di Visconti come Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo; Dall'altra parte, Angelo Rizzoli, uomo più parsimonioso ma con un rinomato mecenatismo, fondatore della Cineriz produce i film di Federico Fellini, con assoluta fiducia. I risultati del lavoro dei due registi sembrerebbe non paragonabile, ma le vicissitudini con la censura in qualche modo, creano un legame fra le due opere e le rispettive case di produzione. Rocco e i suoi fratelli è una storia che si offre come parabola rappresentativa dell’emigrazione degli abitanti del Mezzogiorno verso il nord alla fine degli anni cinquanta, raccontata attraverso la dimensione del mito tragico, con l'intensità dei romanzi verghiani. Otto e mezzo, dall'altra parte, è un film molto personale e interiore, il cui protagonista è un regista in crisi esistenziale e creativa, alla prese con l'urgenza di fare un nuovo film, «un misto tra una sgangherata seduta psicanalitica e un disordinato esame di coscienza in un'atmosfera da limbo» così come lo descrive Federico Fellini . I temi naturalmente ci appaiono agli antipodi: Rocco e i suoi fratelli decisamente incentrato nella realtà storica [fig. 64/68]; Otto e mezzo tutto focalizzato sui turbamenti e l'interiorità di un singolo personaggio [fig. 86-90]. Ma vengono considerati dalla critica entrambi innovativi, nel loro genere e nella loro composizione. Probabilmente quello che suggerisce l'accostamento fra due film è la forte libertà d'espressione dei rispettivi autori, che si pongono in un atteggiamento riflessivo verso alcuni valori della società italiana (la famiglia, la religione, il lavoro, la morale), ma con due chiavi di lettura molto diverse. Non è un caso neanche, che le vicende censorie del film di Visconti, siano in realtà quasi un proseguimento di quello che ha rappresentato il caso de La dolce vita. Rocco e i suoi fratelli, infatti dopo aver ottenuto il nulla osta della commissione di revisione cinematografica, è costretto a subire nuovi tagli a causa dell'intervento della Procura di Milano. Durante la vicenda, Goffredo Lombardo escogita un modo per "beffare" la censura, proponendo che le quattro scene imputate vengano "alleggerite" attraverso un'operazione di oscuramento ad opera dei singoli proiezionisti di sala. Il risultato per il pubblico è la visione di immagini abbuiate e quindi meno leggibili, ma perfettamente percettibili sul lato sonoro. Otto e mezzo non ha invece problemi con la censura (forse l'imper-


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scrutabilità del film in questo caso aiuta), ma è la stessa produzione, che spaventata dalla poca comprensibilità delle sequenze oniriche, e dalla possibilità che tale difficoltà possa allontanare il pubblico medio, decide di virare con bagni di colore alcune copie da distribuire nei cinema di provincia, dove probabilmente si suppone il film di Fellini sia meno intuito. La manipolazione delle immagini, diviene in entrambi i casi un esercizio fantasioso delle produzioni, che attraverso gli strumenti delle prime tecniche del cinema, compiono un gioco di "forbici creative", in cui si vuole prima di tutto salvaguardare il valore commerciale delle pellicole e dall'altra "aiutare" lo spettatore nella comprensione dell'estetica del film (per Otto e mezzo) o intervenire con un offuscamento sull'intensità delle immagini ritenute più lesive al buon costume (Per Rocco e i suoi fratelli). Possiamo definire queste variazioni, forse non sostanziali, delle vere e proprie operazioni censorie? Si, se proviamo a considerare la censura, non solo esclusivamente legata all’idea di privazione, di taglio, di perdita, ma con un processo opposto, dove l'intervento censorio agisce di sovrapposizione, secondo quello stesso concetto di "sovrapposizione" (esposto nel secondo capitolo), che appartiene alla truccheria del cinema. In conclusione il lavoro di manipolazione delle immagini attiene tanto al sistema censorio che alle case di produzione, in un meccanismo che influenza le stesse modalità di rappresentazione del cinema, che dopo si fanno convenzioni giustificabili. I materiali esposti che in questo capitolo, utili anche per la contestualizzazione storica dei due film, rappresentano le fonti principali alla formazione di questa tesi, contenendo una selezione di articoli di critica e rassegna stampa dei due film ed il loro relativo visto di censura [fig. 54-73], recuperati grazie alla collaborazione ottenuta grazie al contributo di Italia Taglia, progetto di ricerca sulla censura cinematografica in Italia, promosso dal MiBAC (DGC) e la Fondazione Cineteca di Bologna, il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma per la conservazione dei materiali relativi all'Archivio Rizzoli, ed il Museo Nazionale di Cinema di Torino per il progetto di conservazione relativo alla Titanus.


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7.2 Rocco e i suoi fratelli

Rocco e i suoi fratelli è stato uno dei primi film a sperimentare la censura amministrativa e poi la censura giudiziaria. Per Visconti, questo film costituisce «un ritorno alla realtà contemporanea, sintetizzando la lezione del neorealismo con il gusto narrativo di un grande romanzo melodrammatico su una famiglia di immigrati meridionali a Milano.»1 Nonostante la sceneggiatura avesse già ottenuto l’approvazione degli organi competenti, i primi disguidi del film, iniziano con le riprese all’idroscalo di Milano, dove Visconti decide di girare lo stupro e l’uccisione di Nadia (Annie Girardot) da parte di Simone (Renato Salvatori) [fig. 69-70]. Non serve che la produzione abbia già tutti i permessi, l’avvocato Adrio Casati in rappresentanza della Provincia di Milano, nega la concessione alle riprese con la banale scusa che la scena del film ricorda un fatto realmente accaduto all’idroscalo. La scena, pertanto viene girata vicino a Latina, in riva al Lago di Fogliano. Il 29 settembre 1960, Rocco e i suoi fratelli ottiene il nulla osta ufficiale da parte della Commissione di Revisione, che decide quattro tagli di secondaria importanza (per un totale di 25 metri) e il divieto ai minori di 16 anni. Così il 14 ottobre viene fissata la prima a Milano al cinema Capitol, «conclusasi tra fischi e applausi, il film subisce l’offensiva della censura».2 Il 15 ottobre Spagnuolo, fattosi proiettare privatamente la pellicola, intima alla produzione altri quattro tagli entro il 18 ottobre, nelle sequenze che, a suo avviso, possono giustificare un provvedimento giudiziario. I quattro tagli riguardano la notte d’amore di Nadia e Simone, la violenza di Simone su Nadia alla Bovisa, (art.528 C.P., primo comma relativo agli spettacoli cinematografici che abbiano carattere di oscenità), il pestaggio di Rocco da parte di Simone, le coltellate a Nadia (art.528 C.P., secondo comma relativo agli stampati e, per estensione, anche ai film «i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, in

1. Alberto Farina, Rocco e i suoi fratelli di Visconti in E. Sallustro (a cura di), Storie del cinema italiano. Censure, Silvana Editore, Cinisello Balsamo 2007, p. 40 2. Franco Vigni, La censura, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. X, Marsilio, Venezia, 2001, pg 518-519


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modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti». 3 In aiuto di Spagnuolo interviene anche il collega “ghigliottinatore” Pietro Trombi, che si occupa del caso. Il film, nel frattempo continua ad essere regolarmente proiettato in tutto il territorio nazionale, attirando ovunque un pubblico numerosissimo e curioso, anche in virtù di tali polemiche [fig. 57-60]. Il procuratore capo di Milano, Carmelo Spagnuolo dopo aver ascoltato il titolare della Titanus e i suoi legali concede una proroga di tempo per “consentire un riesame della sceneggiatura”. Il produttore del film, Goffredo Lombardo, a questa notizia cerca di prendere tempo, per consultarsi con Visconti e i coautori. Il regista, però rimane rigido nella sua posizione affermando: «Non taglio una sola scena di Rocco e i suoi fratelli, non sposto una virgola». Il presidente della Titanus cerca di trovare un compromesso, e si dichiara disponibile all’alleggerimento dei cosiddetti “indecenti atti” e delle “incomposte e insistenti dimostrazioni di lascivia” in modo che il film ormai già distribuito in varie città italiane, possa comunque essere proiettato dopo appena quarantotto ore. Infatti Lombardo, dal 27 ottobre, pensa ad un escamotage tecnico, in modo da non castrare il film con i tagli e permettere la comprensibilità della trama, con l’utilizzo di un “effetto notte” o meglio l’utilizzo di uno speciale velatino, da usare in cabina di proiezione, che oscuri le scene passibili di incriminazione.4 Visconti, a questo punto, sentitosi tradito dal patteggiamento di Lombardo con la magistratura, chiede il sequestro di Rocco, per la violazione del diritto d’autore, ma la magistratura diviene più veloce e a fine ottobre Rocco e i suoi fratelli viene riesaminato dalla censura e il 2 novembre la commissione d’appello, presieduta dal ministro Folchi (lo stesso ministro che firmerà la nuova legge sulla censura nel 1962), “dispone per l’accorciamento delle quattro scene in precedenza oscurate, per un totale di altri

3. Oreste Neri, Quando giudici, militari e ragazzi andavano al cinema: 1960-1968, Il Grappolo, Mercato S. Severino, 1999, p. 6 4. Oreste Neri, Quando giudici, militari e ragazzi andavano al cinema: 1960-1968, Il Grappolo, Mercato S. Severino, 1999, p. 7


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trenta secondi.”5 Le vicende riguardanti il film di Visconti, assumono un aspetto incredibilmente significativo, sia dal punto di vista giurisdizionale, ma anche dal punto di vista produttivo, in quanto la stessa casa di produzione Titanus, si trova da un lato a gestire la libertà d’espressione di un autore fermo come Visconti, dall’altra cerca di scongiurare il sequestro della pellicola, per evitare una perdita economica ingente. La figura di Goffredo Lombardo, infatti è sicuramente fondamentale nel panorama del cinema italiano. Come afferma Giuseppe Tornatore nel suo film, L’ultimo Gattopardo (dedicato a Goffredo Lombardo), l’intraprendenza e la diplomazia di Lombardo ha permisso di «non tagliare, ma di imporre l’oscuramento di queste sequenze…riducendo la capacità trasgressiva della sequenza.» A tal proposito lo stesso Gianni Massaro, avvocato e presidente dell’Anica, (Associazione nazionale produttori film), tra la fine degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta, è convinto che non vi sia alcun dubbio : Il cinema italiano a luci rosse ha potuto nascere e diffondersi nel nostro Paese in virtù delle battaglie condotte dal cinema impegnato, a cominciare già dagli anni Sessanta quando si adottava ancora la cosiddetta tecnica dell’oscuramento soft delle scene da censurare, introdotta da Carmelo Spagnolo, allora capo della Procura di Milano. Fra i primi film a farne le spese Rocco e i suoi fratelli (1960), capolavoro di Luchino Visconti. 6 Come afferma Callisto Cosulich, infine possiamo considerare la battaglia di Rocco e i suoi fratelli, uno degli episodi culminanti del “processo di rigetto” provocato dall’intrusione de La dolce vita nel panorama visivo della nazione [fig. 71-72].

5. Franco Vigni, La censura, in G. De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, Vol. X, Marsilio, Venezia, 2001, pg 518-519 6. Andrea di Quarto, Michele Giordano, Moana e le altre. Vent’anni di cinema porno in Italia, Gremese Editore, Roma, 1997, pp. 62-63


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L’Italia si spaccò in due e i due tronchi si affrontarono in campo aperto: i nemici di Rocco da un lato; gli amici dall’altro. Bisogna dire, però, che questi ultimi dimostrarono una maggiore grinta e seppero dilatare l’episodio, riuscendo a portare la discussione sul nocciolo del problema, che non riguardava la sorte di un singolo film, ma le garanzie esistenti in Italia per il rispetto sia della libertà d’espressione, sia - se vogliamo - dello stesso buon costume. 7

7. Callisto Cosulich, La scalata al sesso, Immordino Editore, Genova, 1969, p. 77


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Araldo dello Spettacolo, 10-09-1960

Goffredo Lombardo contro le ingerenze politiche nell’attività cinematografica «Sic stantibus rebus» a Venezia ci tornerò solo in viaggio di piacere», ci ha detto Goffredo Lombardo, il produttore di «Rocco e i suoi fratelli». «Premesso che sono un industriale di cinema e auspico solo il cinema libero e indipendente — ha proseguito Lombardo — posso affermare che II Festival di Venezia é divenuto, a prescindere dall’episodio specifico, un problema assai grave nel suo complesso la mostra, che ha perduto ogni carattere di manifestazione artistica, per divenire una mostra politica, è la migliore dimostrazione che in Italia si vuole arrivare a un cinema direzionato, tentativo cominciato con l’infausta lettera del ministro Tupini, e continuato con l’infausto dirigismo della mostra. «Sulla serata della premiazione vorrei porre agli organizzatori due precise domande: 1) perché non è stata data lettura, in sala, del telegramma da me inviato, nel quale facevo sapere di rinunciare al premio conferito a «Rocco e i suoi fratelli»; «2) perché si é giustificata la mia assenza alla premiazione con la sciocca scusa che ero impossibilitato a presentarmi. Quello che è accaduto a Venezia è troppo grave. Sto aspettando il ritorno a Roma di tutti i produttori; appena sarà possibile ci riuniremo e vedremo che cosa si potrà fare». Quanto ai motivi che avrebbero indotto la giuria a premiare il film di Cayatte, pare certo che vadano ricercati in considerazioni di ordine morale. Roma ha accolto con sgomento la notizia della premiazione. Pratolini, Vespignani, Guerra, Franciosa, Campanile e tanti altri hanno inviato telegrammi di solidarietà a Goffredo Lombardo e a Luchino Visconti. Attori registi, scrittori vedono naia conclusione del Festival i risultati di una situazione insopportabile.


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Cinema Nuovo 09-10-1960

Rocco a Milano In serata di gala, con «abito da sera» di rigore e «bouquet*» luminosi offerti alle signore. Rocco e i suoi fratelli è stato presentato venerdì 14 ottobre alla «haute» milanese. Puntualmente, la «gente bene» della capitale lombarda ha manifestato il suo livore nei riguardi, del film di Visconti: e puntualmente ha reagito, con fischi ed esplosioni di grida ingiuriose, alle scene di Rocco già stigmatizzate dall’analogo pubblico del Palazzo del cinema. Queste stesse scene (la notte d’amore di Nadia e Simone e la violenza alla Bovisa per «oltraggio al pudore»; la colluttazione fra i fratelli e l’assassinio all’idroscalo per il «raccapriccio») hanno fornito motivo, il giorno seguente, a una richiesta di sequestro da parte del Procuratore della Repubblica a Milano, dottor Carmelo Spagnuolo (dietro ai quale, almeno a quanto riferiscono i giornali, non è difficile scorgere il Procuratore generale della Repubblica. Pietro Trombi, e il Presidente della Provincia Adrio Casati, già responsabile della proibizione a Visconti di «girare» all’Idroscalo). Alla minaccia di sequestro è seguita la richiesta — altrettanto puntuale — di tagliare le quattro scene incriminate. Le trattative, mentre con una procedura inconsueta il film continua a circolare, sono ancora in corso, al momento in cui andiamo in macchina: al rifiuto deciso di Visconti si contrappone la tendenza di Lombardo a trovare un compromesso. Chiudiamo questa breve nota con il parere del nostro collaboratore Luigi Pesta tozza. «I diritti del produttore (specificati dall’articolo 46 della legge sul diritto d’autore 22 a polo 1941. n. 663) riguardano esclusivamente il diritto inerente alla proprietà economica del film, non quella artistica o intellettuale. Ne consegue che in nessun caso il produttore può intervenire sul soggetto, la sceneggiatura, la regia di un film a proprio arbitrio e piacimento (salvo «patto contrario» fra produzione e autori, patto che nulla lascia credere sia intercorso nel presente caso). Al produttore non rosta che un potere, ma. per così dire, extragiuridico: quello di sollecitare una composizione amichevole della «controversia», di premere per conciliare la posizione assunta dalla magistratura milanese e quella assunta da Visconti. Ben inteso c’è da augurarsi che Lombardo non operi nella direzione conciliativa, perché vorrebbe dire soggiacere, almeno in parte, al filisteismo di una morale do-


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minante schiettamente clericale che si risente delta esplicita evidenza di un’opera artistica di denuncia umana e sociale, benignamente sopportando invece la volgarità, l’oscenità, l’offesa al buon gusto e a ogni norma di educazione civile, di cui quotidianamente il cinema di cassetta, il cinema delle imprese borghesi e democristiane diciamolo pure, dà esibizione».


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L’accusa. L’autodifesa. La difesa. Conclusione Azione Cattolica e Vaticano

17 settembre. - Le critiche che sono state rivolte al direttore delta Mostra cinematografica di Venezia ci hanno dimostrato ancora una volta come la violenza e la faziosità delle tesi laiciste e marxiste abbiano il potere di sedurre, in determinate occasioni, buona parte dell’opinione pubblica. Sapevamo in partenza che questa battaglia contro il Festival ci sarebbe stata da parie laicista e marxista. E sapevamo anche perché per la presenza di un direttore cattolico, militante nette file dell’Azione cattolica. Ciò che ha stupito è stato l’allineamento sulle tesi settarie anche di giornali che ritenevamo ben informati e capaci di dire una parola di buonsenso, senza ricorrere a sciocche fantasie. Ma la psicosi di un fallimento (da attribuirsi chiaramente o velatamente a un cattolico) ha prevalso — ci sembra — ai danni del buonsenso e della giustizia (...) Non saremo noi a suggerire al Governo quello che deve fare, ma a sembra che se la destituzione venisse dettata solo da questa ragione, e cioè dalla volontà di non dispiacere a chi grida di più, allora si che la maturità democratica e ogni principio di giustizia e di libertà vorrebbero seriamente compromessi.

L’Osservatore della Domenica

14 settembre - Il settimanale vaticano, dopo aver notato che la Mostra, quest’anno, «non ha registrato nella programmazione le punte di immoralità che aveva toccato qualche edizione precedente», conclude affermando che quella di quest’anno è stata «una Mostra di normale amministrazione che rispecchia una generate e altrettanto normale amministrazione nella produzione cinematografica mondiale: vivacizzata, peraltro, da una polemica molto spesso di là dall’obiettivo artistico; resa meno opprimente da un livello morale che ha evitato troppe dolorose e inutili bassezze; e infine illuminata da un film (Viaggio in pallone di Alberi Lamorisse) che, forse ancora prima di essere una perfetta opera d’arte, è un atto di speranza».


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Osservatore Romano

2 settembre (...) Non sappiamo quanto giovi al prestigio italiano questo pertinace e pervicace tentativo di screditamento e proclamato scadimento della principale manifestazione internazionale cinematografica che va sotto il nome dentato, e non vorremmo che oscurasse la ragione di chi ancora è libero, la prevenzione al crociato direttore, contro il quale la polemica si accanisce al punto di attribuirgli persino la responsabilità di manifestazioni di mondanità esterne alla Mostra. Scriviamo queste considerazioni per la sola ragione che l’accanimento deriva e permane dalla qualifica ben ufficiale di cattolico responsabile di uffici cattolici che spettò all’attuale direttore della mostra, con la solita deduzione di incapacità e interdizione perpetua ai cattolici a esercitare funzioni di intelligenza e di cultura! Una simile assurdità non può lasciarsi senza rettifica. Il minimo che si possa chiedere a Venezia è che si giudichi sul risultati in base a criteri d’arte e di tecnica e in vista delle possibilità obiettive della produzione dell’anno in corso; che si pongano cioè problemi di critica specifica e non di crociata anticattolica.

Conclusione

Folchi: “Necessità di una riforma” La trasformazione detta Biennale di Venezia e il probabile rinvio detta nuova leggo sul cinema sono stati annunciati dal Ministro per il Turismo o lo Spettacolo, con Alberto Falchi, nel corso di una intervista concessa ad Arturo Tofanelli, direttore del mensile Successo. Ecco il testo dell’intervista apparsa sul numero di ottobre della rivista (uscito lunedì 26 settembre): Sulla Mostra di Venezia ho voluto chiedere il pensiero del ministro competente. L’on Folchi mi ha ricevuto al Ministero del Turismo o dello Spettacolo e ho avuto con lui una conversazione non soltanto sui problemi sollevati dada tempestosa edizione del Festival veneziano, ma un po’ su tutto il nostro cinema. L’on. Alberto Folchi è molto elegante e gentile è certamente il successore dell’on. Tambroni come uomo più elegante del Governo. I sud modi sono cortesi e mondani e si avvicinano più a quelli degli uomini politici anglosassoni che a quelli democnstiani di casa nostra. No ho avuto subito una prova quando, a proposito di Rocco e i suoi fratelli, mi ha parlato della passione per l’ippica che ha in comune con Luigi e Luchino Visconti, ricordando la costruzione di uno chalet fatta nel 1935 da


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Luchino Visconti nel quartiere delle scuderie di San Siro a Milano, chalet ricoperto con rarissime tegole dello stesso verde smeraldo del prato circostante. Era forse la prima manifestazione dei gusto e dell’assillo di perfezione del futuro regista. Sulla regolarità della Mostra veneziana di quest’anno, l’on. Folchi non ha nessun dubbio e da parte mia, quale membro della giuria, non posso che dargli ragione. Gli undici membri della commissione — certamente troppi — hanno giudicato, per quanto mi risulta, senza interferenze di sorta e sempre rigorosamente isolati. Se il film, che a parere di una parte dei membri della commissione si staccava nettamente dagli altri, non l’ha spuntata malgrado il grande accanimento dei suoi difensori, va imputato a una stortura di giudizio non infrequente nelle giurie. Questa è anche l’opinione del ministro che sottolinea la bontà dell’operato di Lonero, dimostratosi buon organizzatore e corretto padrone di casa, in una atmosfera sempre tesa e difficile. O tiene a scaricare Lonero dalle colpe che non ha perché egli non divenga il capro espiatorio di una situazione che ha da tempo troppi bubboni. Ed eccoci ai nocciolo del nostro discorso. Domando al ministro quale sarà dunque l’avvenire di Venezia. Si resta cosi o si cambia? Se si cambia, si cambia qualcosa o si rinnova tutto? L’on. Folchi si alza dal salottino della stanza dove siamo seduti, si reca al suo tavolo di lavoro e, da una cartella situata vicino alta bandiera tricolore issata nell’angolo (lascito di una ovvia retorica americana), prende la copia di una lunga lettera è la proposta del ministro del Turismo e Spettacolo al Presidente del Consiglio sul nuovo ordinamento non solo della Mostra cinematografica ma sull’insieme della Biennale. L’on. Folchi, che ci ha anche ricordato quanto il presidente Fanfani sia sensibile al problema, non ha difficoltà a riconoscere che la manifestazione veneziana è andata logorandosi nel tempo, non solo nei cinema ma, con maggior o minore gravità, in tutti i suoi settori. È perciò probabile che la riforma so radicale II ministro assicura che c’è alla base volontà di ridarle presa e prestigio: gli stessi enti d« Venezia, preoccupati delta diminuita efficienza di richiamo, sarebbero corsi a chiedere provvedimenti Qualcuno ha anche suggerito di staccare il governo da questa fonte di grane facendo della Biennale un ente autonomo, tipo la Fiera di Milano. Per ora è impossibile prevedere quello che si farà; è certo però che si cambierà. Naturalmente non significa che si cambi in meglio, anche se l’obbiettivo è questo. Chiedo al ministro a che punto è la nuova legge sul cinema, già scaduta


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e rinnovata fino al 31 dicembre 1960. L’on. Folchi e in proposito esplicito dichiarando che essa dovrà essere ancora prorogata fino al dicembre ‘61 — come del resto era nella proposta originale — per dare il tempo necessario al Parlamento — il quale in questi ultimi mesi, e anche nel mese prossimo, non è potuto andare oltre l’esame dei bilanci. — di esaminare e discutere la legge che il governo proporrà. Sarà forse possibile, prima della scadenza di fine anno, far approvare la «leggina» per la censura. Ma neanche questo è certo. Il ministro è preoccupato che il crescente ritmo della nostra produzione pesi sulla qualità media della produzione stessa, spingendola a un livello troppo basso. Se ne preoccupa poiché la crisi ha ormai toccato quasi tutte le industrie cinematografiche straniere e non vorrebbe che l’eccellente ripresa industriale del nostro cinema potesse avere una recessione che sarebbe pericolosissima. Per ciò che riguarda la censura il ministro non si è pronunciato apertamente, accennando solo alla creazione, a iniziativa dei produttori, di un organismo di autocensura del tipo di quello americano e di quello più recente della Germania. Non ha precisato però i criteri con cui questa autocensura dovrebbe regolarsi, né ha accennato alta possibilità di riformare le commissioni di censura eliminando da esse alcuni funzionari e sostituendoli con uomini di cultura o anche di affari, che non siano soltanto rigidi «padri di famiglia». La riforma della censura dovrà poi chiarire il problema della sede di appello a cui deve poter adire non soltanto il produttore ma anche il ministro. Ha parlato anche della riforma degli enti lirici il cui problema si presenta sempre più urgente e della legge per il teatro che avrà forzatamente la precedenza su quella cinematografica. A conclusione della conversazione il ministro Folchi ha sottolineato la importanza che ha il complesso industriale del Turismo e Spettacolo nel quadro dell’economia italiana, dove occupa il posto di capofila. Tutto ciò Impegna il governo ad agire «sempre e sempre di più» per il suo armonico sviluppo.


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L’Unità, 17-10-1960, Mino Argentieri

scandaloso intervento del regime contro il film di visconti

Ultimatum clericale per «Rocco e i suoi fratelli» : taglio di quattro sequenze o sequestro del film “Rocco” era già stato autorizzato dalla censura - La decisione entro domani Su Rocco e i suoi fratelli grava la minaccia del sequestro. I fatti, nelle loro linee generali, sono più noti ai nostri lettori; sarà tuttavia, necessario precisarne i contorni, sulla scorta dei dati in nostro possesso. Com’è risaputo, la « prima» milanese del film di Luchino Visconti è stata accompagnata da alcune marginali, blande e peraltro contrastate manifestazioni di dissenso da parte di pochi « benpensanti » meneghini, quelli stessi che mesi fa sputarono su Fellini alla prima della Dolce vita. Alla serata di gala era presente il Procuratore Generale della Repubblica commendator Carmelo Spagnuolo, il quale, sollecitato da non si so bene chi, ha ritenuto opportuno costituire, a tamburo battente, un’apposito commissione. di cui hanno fatto parte due sostituiti procuratori, un funzionario della Questura, un funzionario della Prefettura, un capitano dei carabinieri, nonché un commissario di polizia, e ha chiesto che Rocco e i suo; fratelli fosse preso in esame dai suddetti signori nel corso di uno proiezione privata, che ha avuto luogo sabato scorso nelle prime ore del pomeriggio. Si verificava dunque non solo l’intervento della magistratura su un film già vistato dalla censura, ma addirittura l’inaudita partecipazione a tale corte giudicante di funzionari del potere esecutivo (polizia e carabinieri). Al termine della proiezione del film, il Procuratore Generale delta Repubblica si è rivolto ai rappresentanti locali della Titanus, la casa editrice del film incriminato, per informarli che egli accoglieva in pieno gli appunti mossi a Rocco e i suoi fratelli da alcuni spettatori non meglio identificati. In particolare, il commendator Spa-gnuolo suggeriva di apportare quattro tagli all’edizione di Rocco e i suoi fratelli, già regolarmente approvata dalla censura. Le scene, poste sotto accusa, concernerebbero quattro sequenze chiave della vicenda raccontata da Visconti, cioè l’incontro fra Simone e Nadia in una stanza d’albergo; la violenza perpetrata dallo stesso Simone sulla ragazza


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alla presenza del fratello; la successiva scazzottatura notturna fra Rocco e Simone; e infine l’uccisione della prostituta a colpi di coltello sulla riva dell’Idroscalo. Inutile rilevare — e chi ha visto il film se ne è reso perfettamente conto — che la violenza di queste scene è tutt’altro che gratuita, è anzi la chiave del film, che mostra appunto lo spezzarsi della famiglia meridionale di fronte alle leggi brutali della metropoli moderna. Il Procuratore generale della Repubblica di Milano ha concesso «1 dirigenti della Titanus 3 giorni per operare le amputazioni proposte, ed ha precisato che se entro martedì prossimo il film non sarà purgato. Rocco e i suoi fratelli verrà sottoposto a sequestro. Il provvedimento preluderebbe a un processo penale nei confronti di Goffredo Lombardo, produttore del film, il quale dovrebbe rispondere dell’imputazione, davvero paradossale e sorprendente, di diffusione «di materiale osceno» . Quanto siano assurde, gratuite e fuori luogo le accuse elevate a carico di Rocco e i suoi fratelli è stato messo in risalto, nella serata di sabato, da una riunione di critici milanesi, convocata d’urgenza presso la sede del Circolo della Stampa. Studiosi c giornalisti cinematografici, come Piero Gadda Conti,Morando Morandini, Pietro Bianchi e numerosi altri, hanno sottolineato i valori artistici di un’opera, sulla cui onestà d’intenti e sul cui rigore culturale non è assolutamente lecito nutrire dubbio alcuno. E’ accaduto così che mentre un pugno di burocrati, poliziotti e magistrati emetteva una sentenza di condanna nei riguardi di Rocco e i suoi fratelli, i critici cinematografici di Milano non solo rigettavano le colpe attribuite al film di Visconti, ma riconfermavano quei consensi calorosi e favorevoli tributati, alla Mostra di Venezia, anche dai settori della stampa cinematografica internazionale. L’unica voce di dissenso, in campo giornalistico, si è registrata ieri mattina, in virtù di una recensione velenosa e disseminata di minorità, apparsa sulle pagine del Quotidiano, organo dell’Azione Cattolica. Mario Verdone, critico cinematografico di quel giornale, non ha risparmiato i più sporchi aggettivi per definire Rocco e i suoi fratelli un film « immorale e spesso turpe », che costituisce il limite della perversione etica ed estetica raggiunta da certa cinematografia italiana in questi ultimi anni dinanzi al quale il giudizio deve tramutarsi in aperta e totale condanna ». La presa di posizione del Quotidiano ha il merito di illuminarci sui retroscena relativi allo scandaloso caso scoppiato a Milano. È ormai evidente che


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le zone più oscure dell’Italia governativa hanno dichiarato guerra al film di Luchino Visconti e stanno tentando di avere una rivincita su quei funzionari della censura, che hanno concesso a Rocco e i suoi fratelli il nulla osta di circolazione. La «vendetta » minacciata già a Venezia dal tambroniano on. Simonacci, dopo i fischi a Lonero per vandalo del « Leon d’oro » negato a Visconti, ha trovato dunque il suo braccio secolare. A questo punto sorge naturale una domanda: è legale l’interferenza del Procuratore Generale della Repubblica comm. Spagnuolo? In proposito rimandiamo ai prossimi giorni la nostra opinione e quella di alcuni esperti in materia. Certo è che l’incidente occorso a Rocco e i suoi fratelli apre un conflitto fra la magistratura, gli organi periferici dello Stato e una legislazione, che riconosce soltanto al ministero dello Spettacolo la facoltà e il diritto di esercitare la sorveglianza sulla produzione cinematografica e teatrale. Se, infatti, l’operato del comm. Spagnuolo fosse confortato dalla legge, assisteremmo all’improvviso nascere e moltiplicarsi di decine e decine di barriere censorie erette nelle centocinquanta circoscrizioni in cui è divisa lo magistratura italiana; il che. fra l’altro, toglierebbe qualsiasi validità e valore pratico all’esistenza di una censura preventiva, effettua fa dal governo, tramite — occorre rammentarlo — suoi rappresentanti ed esponenti della stessa magistratura. Quanto all’atteggiamento assunto dagli autori di Rocco e i suoi fratelli di fronte all’ultimatum del Procuratore Generale della Repubblica Spagnuolo, il regista Luchino Visconti, da noi interpellato. ci ha detto; «Non sono disposto a togliere una virgola dal film che ho realizzato. Rocco e i suoi fratelli ha già perduto, sotto le forbici dei censori, alcune scene. L’approvazione data dai ministero dello Spettacolo alla versione, che attualmente appare sugli schermi di tutta Italia, non mi autorizza a subire minacce e intimidazioni. Oltre tutto, stento a capire la natura delle misure prese a Milano. Sarebbe davvero ridicolo se, d’ora innanzi, ogni Procuratore della Repubblica pretendesse d’imporre tagli a sua esclusiva discrezione: i fìlms rischierebbero di giungere al pubblico, di volta in volta, senza braccia, senza testa e senza gambe ». Da parte nostra, per il momento. non abbiamo molto da aggiungere alle parole di Visconti. I recenti avvenimenti sono fin troppo eloquenti: la rinascita del cinema italiano infastidisce i tartufi che abbondano nel nostro paese; il Vaticano non si stanca ili soffiare sul fuoco dell’intolleranza e scontento dei servigi procurati dai suoi galoppini in seno al governo, medita operazioni


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che l’opinione pubblica deve scoraggiare e combattere con fermezza. Ne va di mezzo non soltanto la sorte di un grande film,che. non più tardi di domani può essere strappato dagli schermi, ma anche la libertà di esprimersi secondo i dettami della propria coscienza.


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Avvenire padano, 18-10-1960, A. G.

Si decide oggi a mezzogiorno la sorte di «Rocco e i suoi fratelli» Regista e produttore del film, convocati dal Procuratore della Repubblica di Milano, hanno per ora pubblicamente dichiarato di non voler procedere a “tagli” - Ma probabilmente Visconti e Lombardo dovranno mutare parere Milano, 17 Domani a mezzogiorno, nello studio dei procuratore della Repubblica di Milano, dr. Carmelo Spagnolo, si deciderà la sorte del film più discusso dell’anno: «Rocco e I suoi fratelli». Il produttore del film, Lombardo, accompagnato probabilmente da Luchino Visconti e dal legale della «Titanus» avv. Giovanni Bovio, risponderà alla richiesta avanzata dal magistrato, e cioè che quattro scene del film vengano immediatamente ed opportunamente tagliate. Questa risposta, sotto certi aspetti, è già stata data ufficialmente sia dal produttore che da Luchino Visconti: entrambi hanno detto, in sostanza, che non intendono tagliare nessuna scena perchè - trattandosi di un’opera d’arte - essa va valutata nel suo complesso. Ma è molto probabile che, posti di fronte all’alternativa del sequestro della pellicola o dei tagli, alla fine si giunga a un’intesa. Il produttore del film - senza annunciarlo ufficialmente - farà probabilmente ciò che, sul plano morale, sarebbe stato necessario fare prima ancora che la pellicola fosse presentata al pubblico. Ridurrà, cioè, opportunamente due delle scene più crude e «realiste». Il problema posto da questo film è molto complesso, sul piano strettamente giuridico. Infatti la legge non considera il regista autore unico del film; a lui affianca nell’opera (e quindi nelle responsabilità di fronte alla legge) anche gli sceneggiatori e gli autori della colonna sonora. Nel nostro caso, a fianco di Luchino Visconti, vanno posti Suso Cacchi D’Amico, Vasco Pratolini, Enrico Medioli, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Giovanni Testori e Nino Rota. Ora, non tutti costoro sono in sede: uno ad esempio, si trova a Parigi ed un altro a New York. Il produttore ed il legale della «Titanus», quindi, si trovano nell’impossibilità di avvicinare tutti gli interessati e ottenere un parere unanime. Ma, come era da supporre, la opposizione maggiore alla richiesta del ma-


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gistrato, è venuta da Luchino Visconti. Egli interpellato stamane, ha detto: «Non apporterò nemmeno un taglio al mio film. Non intendo mutilare la mia opera e contesto la richiesta della Procura della Repubblica di Milano, poiché «Rocco» possiede un regolare nulla osta di circolazione rilasciato dal Ministero del turismo e spettacolo. Il film è già stato programmato a Roma, Catania, Bari, Firenze, Trieste e in altre città e nessuna richiesta è stata fatta da quelle magistrature». A sua volta il produttore Lombardo ha affermato: «Non sono l’autore del film e pertanto non posso intervenire in alcun modo per costringere gli autori a operare dei tagli. Personalmente, come spettatore, non condivido la motivazione dei tagli stessi. Come produttore devo dire che la decisione del Procuratore della Repubblica di Milano mette in allarme tutta la categoria - aumentando le incertezze - e richiede un urgente chiarimento. Parlo per Milano per riferire al magistrato quanto gli autori del film hanno deciso». Dichiarazioni, queste, drastiche e decise. Ma gli autori del film e il produttore non possono contestare al magistrato il diritto di sequestro della pellicola, né possono contestare allo stesso di procedere - ove lo ritenga - nei confronti degli autori dell’« opera d’arte», denunciandolo per oltraggio al pudore é proprio la gravità del reato, in ultima analisi, che può spingere il magistrato ad adottare un greve provvedimento come quello ventilato fin da sabato: e cioè il sequestro della pellicola. Non si deve infatti dimenticare che. proprio perché alcune scene di «Rocco» sono gravemente lesive della morale, il dott. Spagnolo aveva compiuto il sopraluogo sabato pomeriggio, vedendo di persona iI film contestato. Dopo di che, sabato stesso, si era avuta una riunione collegiale dei magistrati e funzionari; e infine un incontro di questi ultimi con il produttore. Non si conosce - è ovvio - ciò che è stato detto nel corso di questa discussione, ma è molto probabile che II dott. Spagnolo abbia fatto presento che, di fronte a certe scene di immoralità, era costretto a sequestrare il film e procedere nei confronti degli autori a termini di legge. Per evitare questo provvedimento immediato, il produttore Lombardo era partito domenica mattina da Milano per Roma, al fine di proporre il taglio di 4 scene, accompagnato dall’avv. Bovio. A Roma il produttore e il legale si sono incontrati con Luchino Visconti e alcuni sceneggiatori; domani riferiranno queste opinioni al magistrato. É evidente comunque che se la «Titanus» non taglierà le scene incriminate (quelle che offendono la morale) il magistrato sarà costretto a sequestra-


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re il film. Esistono precedenti molto chiari, in proposito: e, per citarne uno, quello de «Gli zitelloni», che venne appunto sequestrato e quindi riammesso alla programmazione, dopo che erano stati operati alcuni tagli. Domani quindi si deciderà la sorte di «Rocco e i suoi fratelli».


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Avvenire padano, 19-10-1960, Arrigo Galli

vita difficile a milano par «rocco e i suoi fratelli»

Il film di Visconti sarà “tagliato” per evitare il provvedimento di sequestro Raggiunto un accordo tra il Procuratore della Rapubblica e il produttore: gli autori procederanno a un “sollecito riesame della sceneggiatura” - Ma il regista darà il suo consenso? Dopo le dichiarazioni «esplosive» di Luchino Visconti («Non taglierò neppure una scena»), dopo la campagna orchestrata dalla stampa di estrema sinistra (che è giunta perfino a mettere in dubbio il diritto della Magistratura di intervenire quando si tratti di offesa al pudore) siamo giunti atta conclusione della vicenda di «Rocco e I suol fratelli»: il film verrà opportunamente tagliato dagli stessi produttori e sceneggiatori, ad evitare il sequestro. Ciò che si doveva fare prima, insomma, si farà dopo; ma finalmente con questo intervento - come ha sottolineato l’on Migliori nel telegramma inviato al Procuratore della Repubblica di Milano dott. Spagnuolo - i produttori saranno ammoniti che non si deve oltre offendere «il diritto di libertà dal disgusto». Come avevamo accennato fin dal primo giorno. I tagli riguarderanno i due «passi» che colpiscono maggiormente: l’atto di violenza nei confronti della ragazza e alcune sequenze del delitto finale. Era il meno che sì potesse fare: il meno che si potesse chiedere, anche se il film - per altro scene consimili - rappresenta sempre un capolavoro di immoralità. Alla formula di compromesso si è giunti oggi, durante una riunione durata oltre un’ora nello studio del Procuratore della Repubblica. Il produttore del film Goffredo Lombardo, è giunto a mezzogiorno («mezzogiorno di fuoco» gli hanno detto i giornalisti) accompagnato dai due legali della società. Giovanni Bovio di Milano e Fassari di Roma. Nel corso dell’incontro, l’avv. Bovio ha sviluppato questa tesi: qualunque possa essere il giudizio del magistrato, la legge per il controllo dei film prevede che per ogni revisione della pellicola la stessa debba essere poi sottoposta di nuovo all’esame della commissione di censura, che già per «Rocco e i suoi fratelli» aveva dato il visto per la programmazione.


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Il magistrato ha obiettato che non ci si trovava di fronte al giudizio di censura, ma alla valutazione di una precisa violazione del codice, attraverso l’oltraggio al pudore. A questo punto onde evitare il minacciato sequestro del film, il produttore ha riconosciuto di voler compiere di sua iniziativa alcuni «tagli», così da sottoporre poi la nuova versione all’esame del magistrato stesso. In questo senso, il dott. Spagnuolo ha concesso un nuovo breve rinvio. A conclusione della discussione è stato stilato un comunicato che l’avv. Bovio, appena uscito dall’ufficio del dott. Spagnuolo ha letto alta stampa. Eccone il testo: «I legali rappresentanti della «Titanus» hanno inoltrato un’istanza al Procuratore della Repubblica perché sia concesso un termine per consentire alla casa produttrice di procedere con la massima sollecitudine al riesame della sceneggiatura, secondo le osservazioni mosse su alcune scene del film «Rocco e i suoi fratelli». Preso atto della richiesta, il Procuratore si è riservato ogni decisione». I giornalisti hanno chiesto maggiori delucidazioni al legale della «Titanus» ed in particolare hanno sottolineato se la espressione «riesame della sceneggiatura» (tenuto conto del fatto che il film è già stato interamente girato) non significasse esplicitamente che si faranno dei tagli. Bovio, sorridendo, ha allargato le braccia, aggiungendo: «Vedrete» Un punto ha quindi tenuto a sottolineare il famoso legale milanese: e cioè che, a suo giudizio, esiste una legge precisa ed esplicita: la legge secondo cui qualsiasi modifica apportata all’opera cinematografica deve essere sottoposta di nuovo agli organi competenti della censura. Questo, indipendentemente dal giudizio di merito che il magistrato milanese deve pronunciare in questo caso. Una serie di concitate telefonate si sono scambiate quindi nel primo pomeriggio fra Milano o Roma. Il produttore Lombardo che ha preso alloggio all’albergo Francia - Europa, ha parlato a lungo con Luchino Visconti e gli altri sceneggiatori. Entro domani mattina, a quanto si é potuto sapere, il produttore del film dovrebbe presentare la nuova versione al magistrato per attuare questi tagli egli deve ottenere il consenso del regista. Diversamente, come abbiamo già fatto rilevare, il magistrato emetterà un provvedimento di sequestro della pellicola.


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Araldo dello Spettacolo, 19-10-1960

Dichiarazioni di Goffredo Lombardo e di Luchino Visconti sul film Rocco e i suoi fratelli A proposito dei tagli richiesti dalla Procura della Repubblica di Milano per il film «Rocco e i suoi fratelli», Goffredo Lombardo, Presidente della Titanus. società produttrice del film, ha rilasciato all’ANSA la seguente dichiarazione: «Non sono fautore del film e pertanto non posso intervenire m alcun modo per costringere gli autori ad operare dei tagli. Personalmente, come spettatore, non condivido la motivazione dei tagli stessi. Come produttore cinematografico devo dire che la decisione della Procura della Repubblica di Milano mette in allarme tutta la categoria aumentando fino all’inverosimile le incertezze già gravi in questa nostra attività, e richiede un urgente chiarimento. Parto per Milano per riferire al magistrato quanto gli autori dei film hanno deciso» Non apporterò nemmeno un taglio al mio film — ha dichiarato Luchino Visconti —Non intendo mutilare la mia opera e contesto la richiesta della Procura della Repubblica di Milano poiché «Rocco e i suoi fratelli» possiede un regolare «nulla osta di circolazione» rilasciato dal Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Il film e già stato programmato a Roma. Catania, Bari, Firenze e Trieste e nessuna richiesta è stata fatta dalla Magistratura di quelle città».


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Corriere della sera, 19-10-1960

«rocco e i suol fratelli»

Concessa una dilazione per il riesame della sceneggiatura Accattando un’istanza inoltrata in questo senso dai legali della Casa produttrice, la Procura dalla Repubblica di Milano si è riservata ogni decisione Accompagnato dai legali della Casa cinematografica «Titanus». avvocati Giovanni Bovio, di Milano e Fassari, di Roma, il produttore Goffredo Lombardo si è presentalo puntualmente, ieri a mezzogiorno nello studio del procuratore capo della Repubblica di Milano, dott. Carmelo Spagnolo, per discutere in merito ai tagli proposti dalia Magistratura milanese al film «Rocco e i suoi fratelli». Goffredo Lombardo, oltre a rappresentare direttamente la «Titanus». rappresentava anche il regista Luchino Visconti e gli altri sei co-autori della pellicola: Suso Cocchi D’Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Enrico Madidi, Vasco Pratolini e Nino Rota. Il colloquio con il dott. Spagnolo é durato un’ora. Al termine l’aw. Bovio ha fatto la seguente dichiarazione «I legali rappresentanti della Titanus hanno inoltrato un’istanza al procuratore capo della Repubblica di Milano perché sia concesso un termine per consentire alla casa produttrice di procedere, con la massima sollecitudine, al riesame della sceneggiatura, secondo le osservazioni mosse su alcune scene del film “Rocco e i suoi fratelli”. Preso atto della richiesta, il procuratore delta Repubblica si è riservato ogni decisione». Il laconico comunicato ha dato adito a diverse interpretazioni, ma non si è potuto sapere di più. Raggiunto nei pomeriggio all’aeroporto di Linate, dove era in attesa dell’aereo per Roma. II produttore Goffredo Lombardo ha infatti, dichiarato di non avere nulla da aggiungere al comunicato. Tuttavia egli ha detto: «Ho ritardato di tre giorni la mia partenza per Tel Aviv, dove ero atteso fino da venerdì per la firma degli accordi relativi all’inizio della lavorazione di un altro film. Questa sera stessa conto di vedere a Roma Luchino Visconti e gli sceneggiatori di ‘Rocco e i suoi fratelli ‘, e di tenere nella mattinata di domani una seconda riunione». Richiesto, poi, di esprimere un suo giudizio sulla presa di posizione di alcune


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personalità politiche nei confronti del provvedimento annunziato dal procuratore capo della Repubblica di Milano, Lombardo ha detto: «Non credo sia riguardoso da parte di chiunque assumere degli atteggiamenti o esprimere dei giudizi sull’operato della Magistratura». Da parte sua l’avv. Bovio ha sottolineato che «il comunicato rispecchia esattamente la situazione attuale della complessa vicenda del film di Visconti» e che «ogni aggiunta sarebbe un’illazione senza alcun fondamento». A riguardo di come si possa conciliare il tono remissivo del comunicato con le precedenti e recise dichiarazioni del regista, il legale milanese ha aggiunto: «Sono stato chiamato da Lombardo e da Visconti appunto per consigliare la migliore soluzione. Evidentemente la situazione deve avere degli sviluppi a seconda della decisione che il magistrato si è riservato di fronte alla nostra istanza. È ovvio che l’istanza da noi presentata era perfettamente a conoscenza di tutti gli interessati». La situazione pertanto rimane ancora fluida. Secondo alcune voci, tuttavia, una «soluzione» definitiva del «caso», si dovrebbe raggiungere entro una settimana. Sempre che questo limite di tempo sia sufficiente per apportare i tagli richiesti, la cui esecuzione incontrerebbe delle difficoltà sopratutto per quanto riguarda il «sonoro» della pellicola. Nel frattempo, la programmazione di «Rocco e i suoi fratelli» continua regolarmente con il solo veto di partenza ai minori di sedici anni. Non solo, ma il clamore sollevato intorno al lavoro ha richiamato su di esso l’attenzione del pubblico e, ieri sera, la polizia ha dovuto istituire un apposito servizio per mantenere ordinato l’afflusso degli spettatori nel locale milanese dove si proietta il film. L’accorrere della folla non ha, comunque, tranquillizzato gli esercenti di cinematografi, i quali si sono mostrati preoccupali dal fatto che un film noleggiato dopo il visto della Censura possa ugualmente essere sospeso nelle loro sale da un momento all’altro.


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Corriere di Napoli, 19/20-10-1960

ii magistrato milanese si è riservato dì decidere

Per «Rocco e i suoi fratelli» una soluzione di compromesso Il film di Visconti continuerà ad essere proiettato anche a Milano nella sua attuale versione mentre ti studierà l’eventualità di ritoccarne la sceneggiatura per alcune Inquadrature Milano, 19 ottobre «Rocco e i suoi fratelli», il film di Visconti che, com’è noto, si era visto imporre a Milano la ulteriore censura di quattro scene pena il sequestro entro quarantt’ore, potrà invece continuare almeno per il momento ad essere proiettato nella sua integrità. A tale risultato hanno condotto le trattative avviate dal produttore Goffredo Lombardo e dai suoi legali col Procuratore della Repubblica di Milano Carmelo Spagnolo. leri mattina infatti dopo circa un’ora di colloquio nell’ufficio di quest’ultimo, è stato emesso un comunicato che dice testualmente: «I legali rappresentanti della Titanus hanno rivolto istanza al Procuratore della Repubblica di Milano perché sia concesso un termine per consentire alla Società stessa con la massima sollecitudine di procedere al riesame delta pellicola secondo le osservazioni mosse su alcune scene del film «Rocco e i suoi fratelli». Preso atto di tali istanze, il Procuratore della Repubblica di Milano si è riservato ogni ulteriore decisione». In sostanza, Lombardo ha ribadito la sua impossibilità a tagliare il film senza l’autorizzazione dei sette co-autori, non tutti reperibili su due piedi. Egli deve avere anche insistito sul fatto che i tagli debbono apportarsi non direttamente alla pellicola bensì riesaminando la sceneggiatura assieme ai funzionari della censura romana. Qualora infatti un film, al momento dello proiezioni pubbliche, subisca modifiche di qualsiasi genere, il nulla-osta già ottenuto dagli organi censori corre il rischio di essere invalidato. Non staremo a esaminare quest’ultima argomentazione accettata dal Procuratore della Repubblica di Milano, per non essere ... più esiliati del re. Ci sembra comunque che la prudenza di Lombardo abbia fornito al magistrato


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l’occasiono per rivedere il proprio atteggiamento, e ciò vuol dire che questi non è più tanto convinto della perseguibilità penale del film di Visconti come «osceno» o «raccapricciante». Altrimenti, come facemmo osservare ieri, egli non si sarebbe mosso a rischio di autorizzare, non più per due giorni soltanto, ma per un lasso di tempo indeterminato, la consumazione di un reato bello e buono, divenendo in tal modo compartecipe delle relative responsabilità. Tutto è bene quel che finisce bene. Come finirà dunque questa faccenda? Con ogni probabilità rimanendo le cose come sono II riesame della sceneggiatura non può infatti avvenire in quattro e quattr’otto; troppo persone, tra autori e funzionari, vi sono interessate da vicino. «Rocco e i suoi fratelli» avrà quindi il tempo di concludere intanto la sua stagione al Capitol milanese. E tutta la cittadinanza, continuando ad affluire al cinema con la eccezionale foga di ieri e di oggi, avrà modo di vedere e giudicare l’opera d’arte esattamente come l’ha voluta Luchino Visconti. Un cerio stupore ha destato intanto un telegramma a firma dell’on. Mignon giunto ieri al dott. Spagnolo «Qualunque sia per essere la soluzione finale accolga omaggio per il suo intervento esemplare che ammonisce non doversi oltre offendere comunque diritto libertà dal disgusto» Ora, la propria libertà del disgusto l’on. Migliori può benissimo difendersela da solo, evitando di scegliere per i propri svaghi, fra tante pellicole in programmazione, proprio quelle che egli sa, a priori, non essere adatte al suo gusto. Ma, di fronte a tali telegrammi (che tra l’altro, per l’autorevolezza del mittente, possono essere interpretati come abili pressioni sulla magistratura), chi difenderà la nostra libertà dal ridicolo?


PARTE TERZA

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Araldo dello Spettacolo, 20-10-1960

I guai di Rocco I guai di «Rocco» non sono solo quelli del personaggio nel film, ma anche quelli del film dei suoi autori e del suo produttore. I fatti sono noti. «Rocco», dopo aver debuttato con enorme successo a Venezia, dopo aver ottenuto il regolare nullaosta del Ministero competente per la libera circolazione sul mercato interno, e dopo aver cominciato il ciclo delle prime in alcune cittàchiave richiamando il pubblico come ultimamente solo «La dolce vita» aveva fatto è finito in tribunale. Per essere precisi: la Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano (la città- chiave in cui attualmente it film riscuote maggior successo) ha imposto al produttore di tagliare quattro scene, tempo due giorni, pena il sequestro del film. Mentre scriviamo, l’incidente ha subito altri sviluppi. Il produttore del film e i suoi legali si sono incontrati con il Procuratore della Repubblica di Milano e da un colloquio di un’ora è scaturita la seguente soluzione di compromesso: il film continuerà a essere programmato così com’è per il tempo necessario ad un riesame della sceneggiatura da parte degli autori. Solo allora il magistrato deciderà in merito. Le reazioni sono stato diverse; il pubblico milanese fa la fila al botteghino ed ogni rappresentazione registra il tutto esaurito (incasso del primi tre giorni più di 11 milioni!); intervistati da un quotidiano milanese, sei spettatori su otto, dichiarano che il film è positivo; la stampa si occupa ampiamente sia del trionfo del film che della sua vicenda giudiziaria A proposito di quest’ultima, un quotidiano della capitale rileva che l’operato del magistrato milanese non è giuridicamente ortodosso: si sequestra immediatamente, rinviando gli atti dell’istruttoria al giudice, altrimenti, permettendo che il film continui a essere programmato m attesa di una soluzione di compromesso, il magistrato rischia di diventare correo degli incriminati autori del film. Noi ci auguriamo che il conflitto autori-magistratura si risolva presto e bene, ma ci auguriamo soprattutto che le autorità giudiziarie non sottovalutino un plebiscito di pubblico, o un responso favorevole della censura, per non creare confusione nell’opinione pubblica o allarme o preoccupazioni negli ambienti politici e sopratutto in quelli cinematografici, già sufficientemente


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gravati da ansie di varia natura per poter accollarsi anche le conseguenze delle incertezze, delle contraddizioni o dei conflitti di competenza fra l’Amministrazione e la Magistratura.


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Corriere della sera, 20-10-1960

il film «rocco e i suoi fratelli»

Riunioni per concordare i tagli suggeriti dalla Magistratura Roma 19 ottobre, notte Non è vero che una copia del film “Rocco e I suoi fratelli” sia stata presentata all’ufficio censura della Direzione generale dello spettacolo», ha dichiarato questa sera l’avv. Ettore Mattia, capo dell’ufficio stampa della «Titanus». «Tutto ciò che è avvenuto sino ad ora — ha detto l’avv. Mattia — è una serie di riunioni degli autori del film per concordare la possibilità di effettuare i tagli suggeriti dalla Magistratura, essendo chiaro che soltanto in base alla sceneggiatura è possibile individuare I nuovi ‘attacchi’ scenici tra una sequenza e l’altra da sostituire a quelli che verrebbero a mancare sopprimendo alcune scene. «Il colloquio di questa mattina tra l’avv. Bovio ed il procuratore Spagnuolo ha confermato che questo lavoro è in atto. Niente altro è accaduto, nè a Roma, nè a Milano. Tra l’altro, il dott. Lombardo ha lasciato oggi Roma in aereo nelle prime ore del pomeriggio e si trova a Tel Aviv per le trattative di produzione del film ‘Sodoma e Gomorra’ diretto da Robert Aldrich».


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Corriere della sera, 21-10-1960

L’intervento della Magistratura per il film «Rocco e i suol fratelli» Nessuna menomazione dell’opera d’arte, ma solo tutela delle moralità pubblica A proposito dell’intervento della Magistratura per la proiezione del film «Rocco e I suoi fratelli» sono state diffuse informazioni arbitrarie o sbagliate. La Magistratura non ha mai inteso, né sarebbe suo compito, pronunciarsi sul valore artistico del film. Su questo argomento si è autorevolmente espressa la critica più accreditata e del resto basterebbe il premio conquistato dal film al Festival di Venezia per conferirgli il crisma di «opera d’arte». Inoltre la proiezione è stata autorizzata dalla Censura. Se il film non fosse stato riconosciuto «opera d’arte» in certi punti avrebbe potuto essere — a giudizio del magistrato — considerato osceno, incorrendo in tal caso nelle sanzioni previste dal Codice penale. Nessuna discussione, pertanto, nessun patteggiamento — perché la Magistratura, di fronte a un reato non può certo ammettere patteggiamenti di sorta — ma solo un monito. Perché se esiste, come esiste, un problema di tutela dell’arte, esiste anche un problema di tutela del costume. Ed è appunto per la tutela del costume che il procuratore generale della Repubblica, dott. Pietro Trombi, ha voluto intervenire con sensibilità pari al suo illuminato senso del dovere civico. Il dott. Trombi è un dottissimo magistrato e onora Milano, sede alla quale é stato destinato con voto unanime del Consiglio superiore della Magistratura. II dott. Trombi era stato invitato, come una delle maggiori autorità cittadine, alla proiezione in anteprima del film «Rocco e i suoi fratelli» in un cinematografo già noto per aver ospitato un altro film largamente discusso, «La dolce vita»: coincidenza non trascurabile. Il procuratore generale della Repubblica é rimasto sfavorevolmente impressionato da certe scene e non gli è sfuggita la reazione negativa di parte del pubblico presente. Tuttavia il dott. Trombi non ha voluto considerare determinante la sua impressione personale ed ha pregato altri illustri magistrati, a cominciare dal procuratore capo della Repubblica, dott. Carmelo Spagnuolo, del conforto di un loro parere. Ecco perché il produttore, autori, regista sono stati invitati, in nome della


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pubblica moralità, a rettificare le scene troppo crudamente realiste e tali da poter sminuire nella massa degli spettatori meno provveduti il valore artistico del film. Il procuratore generale nei colloqui avuti con i rappresentanti della società produttrice ha ancora ieri puntualizzato i diversi aspetti della situazione, precisando come l’atteggiamento assunto dalla Magistratura milanese abbia le sue ragioni e trovi la sua giustificazione esclusivamente nella circostanza che si tratta di un film che ha passato la trincea della Censura amministrativa, che ha avuto un riconoscimento in sede internazionale e che, con dovute modificazioni di sequenze che l’autorità giudiziaria ritiene offensive al comune sentimento del pudore, rappresenta indubbiamente un notevole prodotto delta cinematografia italiana. Ecco lo ragioni per cui si è fatto ricorso a questa procedura di persuasione che ha la sua ispirazione nei carattere dell’intervento dell’autorità giudiziaria e che del resto ha trovato doverosa comprensione da parte degli interessati. Intanto ieri a conclusione dell’assemblea generale straordinaria tenuta dall’Unione internazionale degli esercenti cinematografici, nell’ambito del M I.F.E.D., é stata sottolineata la necessità di seguire attentamente l’evoluzione della tecnica cinematografica, le cui conseguenze possono essere benefiche oppure temibili. L’ U.I.E.C. mentre insiste presso i produttori cinematografici perché mantengano la produzione nel suo formato tradizionale, «ritiene sia suo dovere assoluto sottolineare che il cinema vive soltanto grazie al vasto pubblico che accoglie nelle sue sale e che si commette un errore fatale perseguendo, nonostante gli appelli dell’esercizio e contrariamente alle profonde aspirazioni del pubblico, una certa politica di produzione di film a volte amorali e violenti, che ne restringe pericolosamente la sua diffusione».


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Carlino - Sera, 27-10-1960

Visconti contro il produttore por l’oscuramento delle scene di «Rocco e i suoi fratelli» Il regista deciso ad adire le vie legali - Una dichiarazione ai rappresentanti della stampa Roma, 27 Le ripercussioni alle decisioni della procura della Repubblica di Milano, che, come è noto, ha dato ordine di iniziare «l’operazione oscuramento» di alcune scene del film Rocco e i suoi fratelli non si sono fatte attendere e promettono strascichi giudiziari di un certo clamore. Ad accrescere il dispetto del regista Visconti è giunta la notizia che il produttore, Goffredo Lombardo, aveva accettato l’imposizione censoria. Ciò avrebbe indotto Luchino Visconti a denunciare addirittura il produttore per violazione del diritto d’autore. Con il regista anche gli altri sette coautori dovrebbero scendere in giudizio contro Lombardo. Visconti appena conosciuto la notizia sull’ordine dato dal magistrato, ha comunque dichiarato ad alcuni giornalisti : «È inutile nascondere che sono caduto dalie nuvole Lombardo mi aveva assicurato che la controversia si era risolta nel migliore dei modi, e d’altro canto il presidente della Titanus sapeva che non avrei mai ammesso modifiche al film senza la mia preventiva approvazione. La telefonata rassicurativa che avevo ricevuto, mi aveva tranquillizzato. Visto che le cose stanno diversamente, non mi resta che ricorrere ai miei legali. «Quanto ai recenti sviluppi della vicenda, mi sembra che il provvedimento preso dal procuratore Trombi sia di una eccezionale gravità. Se il caso di Rocco o i suoi fratelli si ripetesse non solo gli autori cinematografici ma gli stessi esercenti sarebbero costretti a subire le interferenze più strane e più impensate. Denunciando la Titanus e il proprietario del cinema Capitol, intendo portare alle ultime conseguenze una azione, che non muove solamente in difesa del mio film, ma della libertà d’espressione»


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Corriere della sera, 27-10-1960

Accorgimenti tecnici per il film «Rocco e I suol fratelli» Il procuratore generalo della Repubblica presso il Tribunale di Milano — secondo quanto comunica l’agenzia «Ansa» da Roma — ha richiesto, nella mattinata di oggi, alla casa produttrice «Titanus Film» l’impegno di revisionare la sceneggiatura del film «Rocco e i suoi fratelli» di Luchino Visconti. Tale richiesta ò stata avanzata al fine di riuscire, con accorgimenti tecnici, a portare alcune sequenze del film ad «effetto notte». L’impegno dovrò essere soddisfatto entro sette giorni.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Araldo dello Spettacolo, 29-10-1960

Allarme e preoccupazione del mondo cinematografico per il caso di «Rocco e i suoi fratelli» Il Procuratore Generale della Repubblica presso il Tribunale di Milano ha richiesto. nella tarda mattinata di ieri, alla casa produttrice Titanus Film, l’impegno di revisionare la sceneggiatura del film «Rocco e i suoi fratelli» di Luchino Visconti. Tale richiesta ò stata avanzata al fine di riuscire, con accorgimenti tecnici, a portare alcune sequenze del film ad «effetto notte». L’impegno dovrà essere soddisfatto entro sette giorni. Dal canto suo la Titanus precisa che al film «Rocco e i suoi fratelli» non é stato apportato alcun taglio, ma che ad evitare il sequestro da parte della magistratura milanese si provvederà entro sei giorni ad applicare un «effetto notte» ad alcune sequenze del film. Richiesto di commentare l’accaduto il produttore Goffredo Lombardo ha dichiarato all’ANSA «C’è poco da commentare, dopo che il film di Luchino Visconti è stato colpito da un provvedimento così grave e che oltre tutto viene a costituire un precedente per la produzione cinematografica italiana. A nessuno è lecito discutere il principio giuridico da cui é partito il magistrato milanese nell’adottare un così grave provvedimento. Rimane certo nell’ambiente cinematografico un vivissimo allarme per quelle che da ora in poi dovranno essere le sorprese durante il normale curriculum commerciate di un film. Ho appreso che gli autori del film si sono riservata ogni azione nei miei confronti ritenendo che io abbia violato i loro diritti acconsentendo alle misure prescritte dal magistrato milanese. A me non rimaneva alcuna scelta di fronte alla precisa richiesta dei Procuratore Generale della Repubblica di Milano. È ovvio che gli autori del film si risentano. Da parte mia ho dovuto dare atto al magistrato milanese di quanto egli mi ha personalmente comunicato e non ho potuto fare altro che collaborare alla scelta di una misura che evitava il sequestro del film. In seguito i produttori cinematografici italiani dovranno tener presente quanto è accaduto a «Rocco e i suoi fratelli». Richiesto di esprimere il suo parere su quanto è accaduto al film «Rocco e i suoi fratelli», lo scrittore Testori, autore della raccolta di novelle «Il ponte della Ghisolfa» a cui sono ispirati alcun, degli episodi censurati dal magistra-


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to milanese, ha dichiarato all’ANSA «Penso che per il cinema italiano questa dell’oscuramento di alcune sequenze del film possa senz’altro definirsi una giornata nera. Non ho alcun commento da fare al provvedimento del magistrato. Ho sempre ritenuto che l’opera d’arte se tale porti in sé degli elementi morali su cui la censura non ha motivo di pesare. Evidentemente la legge italiana ha un fondamento molto fragile se consente l’inopinato intervento della magistratura dopo che gli organi amministrativi hanno già espresso il loro parere ed hanno concesso i loro boli». Dal canto suo, il regista Luchino Visconti, che fin dal primo giorno dell’intervento della magistratura milanese aveva chiaramente fatto intendere che non avrebbe accettato di apportare tagli o modifiche al film, confortato dalla solidarietà dei suoi sceneggiatori e deciso a battersi — per sua ospitata ammissione — non solo per «Rocco» ma per il principio della libertà di espressione, ha chiesto al Pretore civile di Milano la distruzione delle copie del film che siano state manomesse In via subordinata, ne ha chiesto il sequestro e che venga proibito agli esercenti delle sale in cui si proietta il film di ricorrere ad oscuramenti delle scene incriminate o ad espedienti consimili. Come si vede. Visconti non ha accettato il compromesso raggiunto tre giorni fa, tra il Procuratore Generale della Repubblica, dr. Trombi, un legale della Titanus e il proprietario del cinema milanese dove si proietta «Rocco», compromesso che il produttore Goffredo Lombardo afferma invece essere l’unica via di uscita onde evitare il sequestro del film. Qualora il Pretore accetti il reclamo di Visconti si giungerà egualmente ad un sequestro. A meno che all’ultimo momento non intervenga un accordo tra gli autori del film e la magistratura. Questioni legali a parte; ci sembra che le inquietudini e le preoccupazioni degli ambienti cinematografici siano ampiamente giustificate.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Avvenire padano, 29-10-1960

le polemiche che fanno purtroppo le fortune dei film

«Rocco» buio e no Il parere del produttore Goffredo Lombardo che ha aderito alla richiesta dalla Magistratura milanese di “oscurare’’ quaranta scena - Visconti ha promesso un’azione legale e intenderebbe chiedere il ritiro della pellicola se vi saranno apportate modifiche Gli effetti di buio sono fra i più preziosi nel cinema: piacciono ai registi per un esercizio di calligrafia cinematografia, piacciono comunque poco al pubblico perché le mani, gli sguardi, i volti sembrano inutilmente cercare nel mistero la farsa espressiva che una buono luce scoprirebbe con crudeltà. Gli effetti di buio, dopo l’accordo del Procuratore generale della Repubblica, dottor Trombi, un legale della casa produttrice e il marchese Incisa, proprietario del cinematografo milanese dove si proietta il film «Rocco e i suoi fratelli», non piacciono più ora nemmeno al regista Luchino Visconti. È stato come se gli avessero chiesto di fare quaranta scene, giudicate troppo spregiudicate, una lunga sequenza grigia simile ai soliti incidenti dei cinema di periferia dove è una vera fortuna riuscire a vedere tutto il film prima del desolante spettacolo di varietà. Insieme agli autori dei film Visconti non ha infatti approvato le modifiche richieste dalia Magistratura milanese e non è escluso, quindi, che essi promuovano un’azione legale contro il produttore Goffredo Lombardo il quale ha invece accettato il parere della Magistratura Lombardo ha dichiarato in proposito: «Mi sono trovato addirittura in una situazione incredibile, poiché si trattava di consentire al film di continuare il giro di programmazione. Non era possibile altra soluzione se non quella di accettare le richieste che la Magistratura milanese aveva avanzato con urgenza. Gli autori del film, si sono fatti sentire da me non appena venuti a conoscenza della decisione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Milano. Anche a me - ha soggiunto il produttore - la decisione presa dal magistrato milanese è apparsa grave di conseguenza, principalmente perché dovrebbe costituire un monito alla produzione cinematografica italiana. Non intendo in alcun modo discutere i motivi che


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hanno determinato questo «monito», ma non posso fare a meno di n le va re che il provvedimento che ha colpito il film aggrava le apprensioni dei produttori cinematografici Italiani». Curioso discorso. Si tratta proprio di un monito. E perché mai non dovrebbe essere. É sempre la bizzarra convinzione che tutto quello che esce dal mondo del cinema sia intoccabile e addirittura non sindacabile neppure al punto di vista morale e neppure dalla Magistratura. C’è solo da rammaricarsi che queste polemiche finiscono per fare una non desiderata pubblicità a questi films. Comunque le disposizioni del magistrato sono state eseguite e le polemiche prima o poi finiranno per spegnersi. Come sempre.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Corriere della sera, 30-10-1960

La Censura ordina quattro tagli al film «Rocco e i suoi fratelli» Dovranno essere eseguiti entro quattro giorni - Probabilmente oggi la decisioni par «L avventura» di Antonioni, sequestrata venerdì Le luci non si sono accese nel pomeriggio, sullo schermo del cinema della Galleria del Corso dove era in programma il film del regista Michelangelo Antonioni, «L’avventura» sequestrato venerdì per ordine della magistratura. La visione privata alla quale avrebbero dovuto assistere il Procuratore della Repubblica, dottor Carmelo Spagnuolo, l’avvocato Enrico Sbisà, legale della casa produttrice della pellicola, e un critico cinematografico in funzione di perito, è stata rinviata. Ciò è stato deciso richiesta dello stesso avv. Sbisà, anche per permettere all’Antonioni di essere presente e di discutere gli eventuali provvedimenti giudiziari». Pertanto la visione privata — il regista arriverà da Roma questa mattina — si terrà nel corso della giornata odierna e, a meno che non giunga subito ad una soluzione della vertenza, il cinema rimarrà chiuso al pubblico fino a domani. Michelangelo Antonioni che sarà accompagnato anche dal direttore della casa distributrice del film, dott. Sciscione. illustrerà al magistrato le ragioni artistiche che hanno suggerito l’inserimento nella pellicola sequestrata di quelle sequenze in cui — come il «Corriere» ha riferito ieri — sono stati, riscontrati elementi offensivi per la pubblica morale e la pubblica decenza al sensi degli articoli 528, 529 e 726 del Codice penale. Queste sequenze riguarderebbero tre scene, ma secondo quanto si affermava ieri sera in alcuni ambienti cinematografici soltanto una di esse avrebbe in modo particolare determinato l’intervento della magistratura. Mentre le disavventure del «L’avventura» rimangono in uno stato «fluido», una decisione é stata invece adottata per il film di Luchino Visconti «Rocco e i suol fratelli», riveduta la pellicola, in Commissione d’appello, su sollecitazione della Magistratura milanese la Censura ha imposto alla produzione di compiere entro un termine massimo di quattro giorni i tagli che la Procura generale di Milano, in un primo momento aveva fatto oscurare con l’accorgimento tecnico dell’«effetto notte». La commissione della Censura, in seconda istanza, è composta dal ministro del Turismo e


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Spettacolo on. Alberto Folchi. dal vice capo della Polizia, ispettore generale capo di P. S. dott. Vincenzo Agnesina, e dal Consigliere di Corte di Cassazione dott. Beniamino Leone. In seguito a questo inappellabile provvedimento, il produttore Goffredo Lombardo, assistito dagli avvocati Giovanni Bovio e Giorgio De Michele, ha fatto ieri queste dichiarazioni «Mi sono precipitato a Milano per parlare alla stampa della situazione che si è creata con i tagli apportati al film di Luchino Visconti. Ma questo è soltanto uno spunto per descrivere il momento di particolare gravità in cui, con tale provvedimento è venuta a trovarsi l’intera industria cinematografica italiana. Non ho alcuna intenzione di protestare contro le decisioni della magistratura ma vorrei far presente la viva preoccupazione che si è creata fra l’Unione produttori o gli appartenenti all’Anac (Associazione nazionale autori cinematografici) in seguito al fatto che una qualunque delle 178 Procure generali della Repubblica possa a suo insindacabile giudizio vagliare un’opera cinematografica a impartire disposizioni alla censura per richiamare un film d’altra parte già visionato e approvato». Goffredo Lombardo ha quindi ricordato il testo dell’articolo 14 del R.C. 24 settembre 1923 n. 3287: «Il ministro può in qualunque momento, sia di propria iniziativa sia a seguito di reclamo di autorità, di Enti Pubblici, di privati o ad istanza di rappresentanze diplomatiche, richiamare le pellicole anche se munite di nulla osta, od ordinare una visione straordinaria innanzi ad una commissione d’appello». Ed concluso invocando l’istituzione di un’unica censura, «di un solo tribunale che ci accusi; che ci giudichi e che, nel caso di consapevolezza, ci condanni». A loro volta l’avvocato Bovio e l’avvocato De Michele hanno precisato che i responsabili della censura, a Roma, hanno carattere puramente amministrativo e non sono assolutamente vincolanti per le singole Procure della Repubblica. Ecco perché la Magistratura in sede locale ha il diritto di intervenire. I patroni della Casa produttrice hanno espresso il parere che tale contrasto degli organi giudicanti possa essere conciliato, con una chiara legge che esamini compiutamente tutti gli aspetti del delicato problema, garantendo gli interessi della collettività. «La magistratura comunque, hanno concluso i due legali, non è — a nostro giudizio— in grado di svolgere da sola un atto di censura, in quanto esistono anche opere d’arte nelle quali aspetti ritenuti immorali vanno oltre tale condizione acquistando valore essenzialmente artistico».


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Avanti!, 02-11-1960, m.g.

Dietro la censura Dopo anni di pressioni, di minacce, di illecite ingerenze, di sottomissione, anche il cinema italiano tutto si ribella, protesta, chiede fermamente il rispetto dei suoi diritti. La raggiunta unità dei cineasti su una questione fondamentale com’è quella della libertà di espressione non è un merito esclusivo dei censori, è il frutto di una lunga paziente azione volta ad elevare il gusto del pubblico ed a migliorare la qualità dei film. La miopia, la faziosità e l’ignoranza dei censori oggi si scontra con gli spettatori diventati più esigenti e con la coscienza democratica del paese, paese, cozza contro il bisogno generale di guardare in faccia la realtà, anche se non piacevole, di aprire gli occhi davanti a tutti i problemi della nostra società e di risolverli. Bisogna essere in perfetta malafede ipocriti e farisei per sostenere che la censura esiste e agisce in difesa della morale. La prima censura quella di Solone, era in apparenza, innocua impediva, che gli artisti parlassero male dei morti. E Demostene giudicava la logge come un giusto atto di moralità. Più tardi, ai tempi di Aristofane, la legge venne applicata soprattutto in favore dei governanti morti. Più tardi ancora, come ci informa Plutarco, «Solone vietò di parlare male anche delle persone viventi se erano sacerdoti o magistrati». Così la censura diventa apertamente politica e dai tempi di Solone ad oggi non ha mutato la sua sostanza e persegue sempre gli stessi obiettivi. E non sono mutati i difensori della censura né i loro argomenti. Sentiamo il loro portavoce, l’Osservatore Romano. L’organo del vaticano, a proposito di «Rocco e I suoi fratelli» e dell’intervento del procuratore della Repubblica di Milano chiede: 1) Si può forse «dubitare detta legittimità di voler far concordare il codice penale con lo schermo in tema di reati». Nemmeno un solo dubbio, potremmo rispondere, se non fosse lecito mettere in dubbio le legittimità della norma del codice penale che consente l’intervento del procuratore della Repubblica: essa è infatti, un norma che fa parte di un codice penale promulgato durante il fascismo, una norma in netto contrasto con la Costituzione italiana. 2) È valida o non è valida «una certa denuncia morale che il pubblico, almeno in una sua parte, insorgendo dalle platee viene a presentare alle autorità


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che dovrebbero tutelarle?». Quale parte del pubblico insorge e in difesa di quale morale? La parte del pubblico che insorge a Milano contro «La dolce vita» e «Rocco e i suoi fratelli» quella parte della borghesia che adopera il linguaggio dei personaggi del film di Fellini, che non sopporta di essere rappresentato così com’è nella realtà, che nel film di Visconti non tollera la denuncia di una determinata situazione sodale (di cui è direttamente responsabile). Tanto è vero che non insorgo contro i film pornografici e contro i film dove la violenza diventa colpevole compiacimento e gratuita brutalità. Quale morale, insomma, si vuole difendere, se non quella di una parte della borghesia che chiude gli occhi davanti alla realtà, nella folle speranza di potere ancora conservare i suoi privilegi, di arrestare II progresso e che basa la sua stessa esistenza proprio sulla ingiustizia e l’immoralità? Quando nell’antica Grecia si proibiva di mettere in caricatura, di criticare, un privato cittadino si proibiva, come osserva Senofonte, di criticare i ricchi nobili, i potenti; quando nell’Italia del 1960 si proibisce di offendere la «morale» si proibisce di criticare la «morale» dei ricchi e dei potenti. La censura, ieri come oggi, è uno strumento della conservazione e della reazione e per lottare contro la censura é necessario lottare contro lo forzo interessate a mantenerla in vita.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Avanti!, 03-11-1960

al consiglio superiore della magistratura

Luchino Visconti denunzia il procuratore Spagnuolo L’alto consesso dovrà stabilire se l’intervento del Procuratore Generale e deI Procuratore della Repubblica di Milano contro «Rocco o I suol fratelli» sia da considerarsi lecito secondo le vigenti norma di legge A mezzo degli avvocati Adolfo Gatti ed Alberto Cortina, Luchino Visconti. Suso Cecchi D’Amico, Vasco Pratolini, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, regista ed autori della parte letteraria di «Rocco ed i suoi fratelli», hanno deferito al Consiglio Superiore della Magistratura il comportamento del Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Milano dottor Trombi e del Procuratore della Repubblica di Milano dottor Spagnuolo in relazione alle vicende seguite alla programmazione nella città lombarda del film in parola. L’esposto contro i due alti magistrati è stato consegnato al Procuratore Generale della Corte di Cassazione che, secondo la legge istitutiva del Consiglio Superiore della Magistratura, vi esercita la funzione di Pubblico Ministero. Nell’esposto, dopo aver riferito i singolari interventi del Procuratore Generale e del Procuratore della Repubblica di Milano in occasione della programmazione di «Rocco od I suoi fratelli», Visconti e gli altri autori rilevano come dopo diversi giorni di programmazione si siano verificati ripetuti interventi dei due magistrati nel confronti del produttore del film Goffredo Lombardo. Tali Interventi, rilevano Visconti e gli altri, si sono successivamente concretati in molteplici richieste e suggerimenti diretti a far modificare o ridurre talune scene del film, da essi ritenute crude e sconvenienti. In conseguenza di questi interventi, prosegue l’esposto, ed a conclusione di prolungate trattative. Il produttore, per comprensibili ragioni di propria convenienza, ha finito con l’ottemperare alla richiesta dei magistrati procedendo all’«oscuramento» di numerose scene, con notevole pregiudizio per l’integrità dell’opera e manifesto danno per i suoi autori. Dopo questa premessa l’esposto sottopone all’attenzione del P.G. della Cassazione:


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1) che nessuna imputazione è stata contestata agli autori del film od al produttore né è stato disposto il sequestro del film. Ciò porta a concludere che il detto Procuratore Generale e Procuratore della Repubblica non hanno ravvisato la sussistenza del reato previsto dall’art. 528 del Codice Penale, né di altri reato; 2) che malgrado non sia stata suscitata la loro competenza funzionale gli anzidetti magistrati, nella loro qualità, hanno esplicato una complessa attività per ottenere che il film di cui trattasi fosse modificato secondo le loro valutazioni. L’esposto, ritento quanto sopra, conclude chiedendo al P.G della Cassazione, nella sua qualità di Pubblico Ministero presso il Consiglio Superiore della Magistratura, di voler esaminare se «il comportamento del Procuratore Generale e del Procuratore della Repubblica di Milano, esplicatosi, a nostro avviso, oltre il confine del loro ministero ma con l’autorità da esso derivante, debba essere ritenuto lecito secondo le vigenti norme di legge o debba eventualmente determinare provvedimento di competenza del Consiglio Superiore della Magistratura o di altra Autorità». Fin qui l’esposto presentato alle 12.20 di ieri mattina dagli avvocato Gatti e Cortona alla segreteria del P. G. presso il Consiglio Superiore al Ministero delta Giustizia. Come è noto il Consiglio Superiore, istituito nel 1958, dopo accese polemiche e resistenze DC, attua una prescrizione costituzionale ed è presieduto dai Presidente detta Repubblica. Tra le altre funzioni ha anche quella di Corte disciplinare per giudicare la condotta dei magistrati: ed è per questo che ad esso si sono rivolto Visconti e gli autori di «Rocco e i suoi fratelli». La notizia dell’esposto ha suscitato notevole emozione ed interesse é infatti la prima volta che privati cittadini chiedono l’intervento dell’alto consesso in difesa di propri diritti e nei confronti dell’operato di magistrati. D’altra parte il comportamento dei due alti magistrati aveva già suscitato sfavorevoli commenti in ogni ambiente, compresi quelli giudiziari. In questi ultimi, in particolare, si faceva notare come se essi avessero ritenuto di riscontrare nel film di Visconti gli estremi di reato avrebbero dovuto intervenire sequestrando il film e contestando il reato stesso ai suoi autori e non iniziare «trattative» con il produttore non permesse e non prevista dalla legge; mentre se nessun reato essi avevano riscontrato, non avevano il diritto di usare della autorità per indurre il produttore ad accedere al loro desideri. I quali, in tal caso, restavano solo i desideri di due cittadini.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Cinema Nuovo, 11-12-1961, Luchino Visconti

Infrarosso La libertà dei convergenti SI è assistito alla preoccupante vicenda di un governo di cosiddetta convergenza antitambronlana che ha lasciato approvare una legge sulla censura da una maggioranza identica a quella contro la quale esso disse di Insorgere, e per scongiurare la quale dice di voler stare in piedi. Lettera aperta al ministro Folchi Signor ministro, leggo sui giornali le sue parole poco gentili nei confronti del mio film Rocco o I suoi fratelli. Le avrei lasciate volentieri senza commento se, oltre a essere poco gentili, esse non fossero anche poco corrette e non investissero problemi che vanno oltre la mia persona, come quello dalia libertà d’espressione e della censura nel nostro paese. Ella, in sostanza, ha tenuto a far intendere che, se si fosse trattato soltanto della sua facoltà di ministro della Repubblica Rocco e i suoi fratelli non sarebbe mai apparso sugli schermi o vi sarebbe apparso non so bene come e quanto clericalmente mutilato. Ciò mi conferma netta già in me radicata convinzione che ogni briciolo di libertà di cui si riesce a godere nel nostro paese non lo si deve ai governanti, e tanto meno ai governanti della sui mentalità (che francamente ci si chiede come mai si trovino a occupare posti di così grande responsabilità), ma alla vigilanza, alla resistenza e alta lotta dell’opposizione e dell’opinione pubblica democratica. Se a favore di Rocco e i suoi fratelli non vi fosse stata a suo tempo, la grande protesta non soltanto della cultura italiana ma dei partiti, della stampa, e delle organizzazioni di sinistra si può essere certi, dopo le sue odierne dichiarazioni, al film sarebbe stato sottratto il diritto costituzionale di prender contatto con le larghe masse degli spettatori e di godere, in tal modo, di quel suffragio di pubblico che tutti conoscono e che — vale la pena di segnarlo — ha consentito i più grande incasso italiano degli ultimi tempi, dopo quello de La dolce vita. Mi consenta, nel ricordarle pubblicamente questi tatti, signor ministro, che un dato simile è, oltretutto, strettamente connesso a quella ripresa di prestigio culturale e industriale del cinema italiano della quale ella e i suoi funzionari non mancano abusi-


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vamente di vantarsi in occasione di relazioni e dichiarazioni ufficiali. Ecco perché le sue espressioni nei confronti del mio film lo le ho trovate, oltre che poco gentili e poco corrette, nettamente contrarie a tutti gli interessi del cinema italiano, da quelli dei produttori a quelli degli autori, dei tecnici e dei lavoratori. Per nostra fortuna, e mi auguro a edificante esperienza di quei partiti che appoggiano l’attuale maggioranza governativa in Parlamento, la legge è stata approvata in Senato col solo appoggio dei monarchici e dei fascisti, essendosi meritata il voto contrario dei comunisti e dei socialisti e l’astensione dei liberali e dei socialdemocrati (in Senato, se non erro, non vi sono repubblicani, ma a giudicare dai commenti asperrimi dell’ organo centrale del Pri, si può affermare che anche da quella parte sarebbe venuto un voto contrario). Si è assistito, in tal modo, alla preoccupante e aberrante vicenda di un governo di cosiddetta convergenza antitambroniana che ha lasciato approvare una legge così importante da una maggioranza identica a quella contro la quale esso disse di insorgere, e per scongiurare la quale dico di voler stare in piedi. Cosicché, per riprendere il filo del mio discorso, c’è da augurarsi che, senza porre tempo in mezzo, le sue parole siano servite a richiamare ancora una volta l’attenzione dell’opinione pubblica e di tutti gli organismi interessati, prima fra essi la nostra Associazione degli autori cinematografici, sulla necessità di promuovere subito quelle iniziative che valgano a frenare una riscossa clerico-tambroniana, a imporre la fermata della legge alla Camera e l’approvazione di una legge costituzionale. A ciò, sono certo, vorranno questa volta collaborare anche quei partiti, il socialdemocratico, il repubblicano e il liberale, che sostengono il governo ma che mi sembra non possano davvero tollerare di cavarsela con la pilatiana lavata di mani della astensione e debbano piuttosto prospettare qualcosa di più consistente. La posta è talmente grossa (si tratta di questioni di principio relative al nostro ordinamento costituzionale, laico, antifascista e repubblicano) che da questi partiti o almeno da quelli che addirittura si battono per una soluzione di centro sinistra è doveroso aspettarsi, in caso di insistenza democristiana, la rottura dell’alleanza governativa e, a mio avviso, noi autori cinematografici dovremmo subito, oltre che protestare a parole, agire. In una occasione simile, se mi fossi trovato a girare un film non avrei esitato a fermare il mio lavoro in segno di protesta è infatti quella attuale la più grave delle congiunture che si siano mai presentate davanti alla libera esistenza del cinema italiano.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Per quanto più direttamente mi riguarda, signor ministro, ella non ha lesinato l’argomento più velenoso invocando, nientemeno, l’opinione negativa su Rocco e i suoi fratelli di un’alta personalità sovietica di passaggio in Italia. Non so a chi ella abbia potuto riferirsi e mi lasci dire che trovo un tantino sconveniente, da parte di un uomo politico che ha occupato il posto di sottosegretario agli Affari esteri, l’uso di argomenti simili e per giunta in forma anonima. Non posso ovviamente escludere, in linea di principio, che anche tra I rappresentanti ufficiali di un grande Paese socialista come l’Urss vi sia chi lascia ancora sopravvivere nella propria concezione dell’arte idee superate e da non condividersi. Se ho ben compreso, tuttavia, la personalità le cui private parole ella ha chiamato in causa alludeva, rammaricandosene, all’incremento di pornografia che si è verificato nel cinema italiano all’ombra della censura amministrativa dei governi democristiani. Si è domandato, signor ministro, se per caso quella personalità non invocasse l’esempio di film che portano la firma di registi suoi colleghi di partito e, in ogni caso, di autori che mai si sono levati, ne con opere, ne con le parole, contro la clericalizzazione dello Stato e che anzi in essa si crogiolano come il baco nella mela? Se quella personalità sovietica potesse essere interrogata di nuovo, ho fondati dubbi che non mancherebbe di chiarire il suo pensiero in questo senso. E che in ogni caso preferirebbe trovarsi d’accordo, anziché con i farisei e I giugulatori di libertà di casa nostra, con il regista sovietico Serghiei Bondarciuk che per Rocco e i suoi fratelli si batte con pubbliche dichiarazioni come giudice del Festival di Venezia, con gli uomini di cultura sovietici che in questi giorni hanno pubblicato a Mosca sulla rivista Inostrannala Literatura («Letteratura straniera» — 350.000) copie di tiratura) l’intera sceneggiatura del mio film, con i cittadini cecoslovacchi che l’estate scorsa hanno attribuito al mio film il primo premio del loro «Festival degli operai», e ne sono certo, con tutti coloro che in America, in Inghilterra e altrove, hanno fatto seguire all’eccezionale successo di pubblico di Rocco e i suoi fratelli commenti in cui il consenso e il dissenso, l’adesione e la critica, si ispirano all’amore della verità e non alla paura del diavolo.


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Corriere di Napoli 31-12-1960

disposto dal procuratore della repubblica di milano.

Procedimento contro Visconti per «Rocco e i suoi fratelli» Il regista, avendo appreso casualmente di essere accusato di spettacoli osceni, ha presentato un’istanza al magistrato per ottenere un sollecito svolgimento del processo per potersi adeguatamente difendere Milano, 30 dicembre Luchino Visconti è perseguito penalmente per il reato previsto e punito dall’art. 528 del codice penale sugli spettacoli osceni. La notizia si è appresa ieri per puro caso in seguito alla presentazione di una istanza da parte del regista alla Procura della Repubblica di Milano, l’istanza presentata, è del seguente tenore «lo sottoscritto Luchino Visconti, domiciliato in Roma, via Salarla 366, espongo e chiedo a V. S. quanto segue. Vengo a conoscere attraverso il certificato dei carichi pendenti rilasciatomi il 16 dicembre 1960, che presso codesta on. Procura pende a mio carico un procedimento penale per il reato di cui all’art. 528 del codice penale. Mentre esprimo la mia viva meraviglia per il fatto che un cittadino possa essere sottoposto a processo penale a sua insaputa, prego V. S. di volermi contestare nelle forme di legge il reato che mi è attribuito e di dar luogo sollecitamente al procedimento, affinché mi sia consentito di conoscere i fatti di cui sono accusato e di esperire le mie difese. Con osservanza Roma 23 dicembre 1960» A quanto è dato di sapere, l’accusa della Procura di Milano si riferisce al film «Rocco e i suoi fratelli», diretto, come è noto, da Visconti. A dire il vero, sembrava che il problema della programmazione di questo film fosse stato risolto dopo l’accordo intervenuto fra la magistratura milanese e il produttore del film. É noto, infatti, che il procuratore generale di Milano dott. Trombi, e il procuratore della Repubblica, dottor Spagnolo, quando fu programmato a Milano il film di Visconti, minacciarono il sequestro del film medesimo se non fossero state tolte quattro scene da essi ritenute particolarmente crude e contrarie alla morale. Anzi, in quell’occasione. il procuratore della Repubblica dette una specie di ultimatum se entro quarantotto ore i tagli


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non fossero stati eseguiti, avrebbe proceduto al sequestro del film. La particolare procedura seguita dai due magistrati milanesi fu considerata tutt’altro che ortodossa, l’operato di essi fu paragonato a una autentica «supercensura» dato che il film ora stato regolarmente visionato a Roma dalia competente commissione di revisione dei copioni teatrali e dei film, ed aveva ottenuto un regolare nulla-osta per la programmazione in pubblico. Infatti, è stato già rilevato, o il film presentava effettivamente delle sequenze oscene, e quindi il Procuratore della Repubblica avrebbe dovuto disporne l’immediato sequestro, oppure non presentava tale carattere di oscenità, ed allora lo stesso magistrato non avrebbe potuto spiegare egualmente un intervento tendente a «oscurare» alcune scene scabrose. Non solo, ma l’ordine di sopprimere le scene scabrose — osservarono i giuristi al riguardo — era una potestà giurisdizionale che non competeva di certo al procuratore della Repubblica il quale, nel giudizio penale, non è che una delle due parti in contrasto. In sostanza, poteva verificarsi il caso che, sequestrato perché ritenuto osceno, il film a giudizio del tribunale, poteva non essere ritenuto tale e quindi proiettabile in pubblico. Ogni film, si sa, costa milioni, decine, centinaia di milioni, sicché un sequestro disposto dalla autorità giudiziaria, con la conseguente lentezza con cui certe cause da noi vengono istruite, può veramente determinare la rovina finanziaria anche di una grossa impresa industriale cinematografica quale è, appunto, la società produttrice di «Rocco e i suoi fratelli». Tanto é vero che il produttore Goffredo Lombardo, mentre i suol legali e i giuristi di tutta Italia discutevano sul singolare «precedente» giuridico posto in essere dal procuratore della Repubblica di Milano, si mise d’accordo col magistrato eseguendo, in concreto, i suoi ordini, anche mettendosi in contatto con i coautori dell’opera cinematografica. L’amara pillola non fu ingoiata dal regista del film, il quale, a mezzo del suo legale l’avvocato Adolfo Gatti, si rivolse al procuratore generale presso la Suprema Corte di Cassazione invitandolo a promuovere un giudizio disciplinare nei confronti del procuratore generale e del procuratore della Repubblica di Milano per il modo eterodosso da essi seguito in quell’occasione. E ciò in quanto, ad avviso di Luchino Visconti, quello del giudizio disciplinare sembrava essere l’unico sistema per indurre due magistrati di larghe vedute, come il dottor Trombi e il dott Spagnolo, ad attenersi scrupolosamente alla legge, evitando di disfare a Milano dò che si faceva a Roma da parte


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della commissione governativa di revisione dei film. Senonché, come si è scoperto ora, i due magistrati hanno preferito seguire pedissequamente la procedura, promuovendo contro Luchino Visconti (ed evidentemente anche contro gli altri coautori del film) l’azione penale per il reato di spettacoli osceni, per il quale é prevista la reclusione da tre mesi a tre anni e una multa non inferiore a ottomila lire. La notizia del procedimento penale, fresca di oggi, ha già dato luogo a delle «riserve» da parte di qualcuno. Certo sarebbe interessante conoscere in proposito la opinione dei due legali di Luchino Visconti, gli avvocati Adolfo Gatti e Alberto Cortina. Ma i due legali, che da Roma, avevano fatto pervenire al loro corrispondente di Milano, avv. Ruggero; l’istanza che abbiamo sopra riportato non hanno voluto fare alcuna dichiarazione, limitandosi ad osservare secondo quanto si apprende nella capitale che, tutto ciò che essi si ripromettono di dire sull’argomento sarà prospettato in udienza nell’eventualità che si arrivi ad un pubblico dibattimento. In ogni modo, la irregolarità che taluno avrebbe riscontrato nella registrazione del procedimento aperto noi confronti di Luchino Visconti non sussisterebbe affatto. Ma di quale «irregolarità» si tratta? Sarebbe sfato rilevato che nel registro generale della Procura della Repubblica di Milano il procedimento contro il regista (basato, come ò noto, sulla denuncia di alcuni cittadini) è stato registrato in data retroattiva. A parte il fatto - è stato spiegato - che tale registrazione, ammesso e non concesso che sia avvenuta in data retroattiva, non costituisce atto pubblico, destinato, cioè, a una certificazione (essendo invece il registro generale un sistema per catalogare in ordine cronologico gli atti con cui si aprono dei procedimenti penali) la registrazione retroattiva non costituirebbe affatto alcunché di censurabile, é stato spiegato, inoltre, che è consuetudine registrare gli atti di apertura di un processo sotto la data di arrivo di essi alla procura. In ogni modo, si vedrà nei prossimi giorni quale sviluppo avrà l’istruttoria a carico di Luchino Visconti e se essa - come é ragionevole supporre - sarà trasformata in formale e devoluta di conseguenza, al giudice istruttore.


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L’Unità, 29-10-1966, g.f.p.

«rocco» non è osceno

Perchè il giudice ha assolto il film di Visconti Una coraggiosa sentenza in difesa della libertà d’espressione Con una sentenza di notevole valore ideale, il giudice istruttore presso il tribunale di Catania, dott. Finocchiaro, ha prosciolto con formula piena Luchino Visconti dalla stupida accusa di aver firmato, con Rocco e i suoi fratelli, un’opera cinematografica di carattere «osceno». Il dott. Finocchiaro, con la sentenza depositata stamane in Cancelleria, afferma non solo la liceità ma anche la necessità della proiezione integrale di Rocco, perchè «Dove c’è arte non può esserci osceno». La lunga e grottesca vicenda penale del film di Visconti aveva preso le mosse — nell’ormai lontano ottobre del ‘60 — da un rapporto dei carabinieri e da una denuncia della polizia con cui si sollecitava un intervento censorio della Magistratura nei confronti di Rocco perché, in occasione del la proiezione del film a Milano, alcuni spettatori sarebbero rimasti colpiti dallo «sconcertante verismo» e dalla «crudezza del linguaggio e delle situazioni». Apertasi una istruttoria sommaria presso il tribunale di Milano — dove il PM aveva condizionato la richiesta di proscioglimento di Visconti per difetto di dolo alla soppressione di numerose scene: la notte d’amore tra Nadia e Simone, la violenza alla Bovisa. ecc. — il procedimento veniva più tardi trasmesso per competenza al tribunale di Catania perchè proprio nella città etnea il film era stato proiettato per la prima volta. Interrogato parecchi mesi fa dal P.M. Cocuzza, il regista dichiarò di essere convinto che la sua non fosse un’opera oscena. Su conforme parere del P.M., il giudice istruttore ha quindi finalmente tagliato corto, dopo sei anni, alla incredibile vicenda «Rocco e i suoi fratelli — afferma tra l’altro il dott. Finocchiaro nella sentenza, che è tra le più importanti e significative emesse in Italia nel campo della tutela della libertà di espressione — intende affermare e descrivere il legame di profondo affetto che tiene unita la famiglia specialmente nell’Italia meridionale, e come questo vincolo, a contatto con ambienti sociali diversi, possa indebolirsi: nobile tematica che trova piena e


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perfetta corrispondenza in tutto il film, considerato nel suo significato univoco e completo, comprese le scene incriminate». Quanto a queste ultime, il magistrato catanese osserva che, «inserite nell’opera», «la completano, la vivificano, le danno una forza ed una potenza espressiva tali da porla su un piano di alto livello artistico». Dopo aver compiuto una analisi accurata della tematica del film (l’emigrazione meridionale, il suo difficile inserimento nella società del «miracolo», ecc.), e aver manifestato un esplicito apprezzamento per essa, il dott. Finocchiaro affronta infine la questione della possibilità, per un film, di essere considerato opera d’arte. E la risposta del magistrato è positiva.


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7.3 Otto e mezzo

Otto e mezzo è da considerarsi un’opera straordinaria per la sua capacità immaginifica e il suo totale rinnovamento di linguaggio nel panorama cinematografico degli anni Sessanta, inserendosi fra convenzione e avanguardia, e puntando verso lo sperimentalismo. Lo stravolgimento quasi totale dei canoni della narratività cinematografica è dovuta principalmente all’inserimento di flashback all’interno della trama principale. Questi flashhback in realtà sono dei sogni ad occhi aperti, che il regista Guido, il protagonista interpretato da Marcello Mastroianni, compie durante gli avvenimenti che lo circondano. Come scrive Fernaldo Di Giammatteo se «Se La dolce vita (1959) era stato, per Fellini, il “periplo intorno a se stesso”, 8 e mezzo è l’autoanalisi che ne rende ragione. I fantasmi dei sogni trovano la loro materializzazione nelle immagini. Fellini utilizza la metafora del sogno, oltre come rifugio dalla realtà, ma anche come una vera e propria sfida alla cultura dominante. A tal proposito Di Giammatteo dice: I meccanismi del sogno scattano. Gli incontri con queste presenze fanno regredire Guido all’infanzia. La vita alle terme, le cure, gli spettacoli (anche qui c’è un ipnotizzatore, un “ telepata ” che evoca una magica formula - “asa nisi masa” legata a una filastrocca infantile) squarciano il velo della memoria inconscia: il piccolo Guido rivive i traumi del collegio, l’oppressione della disciplina ipocrita, la scoperta del sesso attraverso la conoscenza di una donna orribile (la “Saraghina”), la confessione e la punizione. Freudianamente, e ottimisticamente, l’analisi del sogno ha una funzione terapeutica: aiuta Guido a comprendere che il film (quel film fantascientifico) non si deve fare e ad accettarsi per il mucchio di confusione che è. Anche Tullio Kezich, nella biografia dedicata a Federico Fellini afferma che: L’autore fronteggia il difficile impegno alla sua maniera, senza costringersi dentro rigorosi termini culturali che ritiene di non padroneggiare. Il suo universo privato dell’italiano medio è tutto in mostra: il ricordo struggente e oppressivo dei genitori (il papà è ancora una volta Annibale Ninchi), la presenza della moglie e, per dirla ala Bergman, di “tutte quelle signore”; il carosello delle


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ambizioni intorno al lavoro, la Chiesa cattolica come condizionamento o speranza di salvezza.8 Il film esce in Italia il 14 febbraio 1963, nella sua durata finale di due ore e un quarto. La prima si tiene a Roma presso il cinema Fiamma, dove la proiezione è seguita con estrema attenzione, ma senza eccessivo entusiasmo da parte del pubblico. Otto e mezzo riceve critiche positive, anche superiori a quelle registrate per La dolce vita (dove il caso politico e gli impedimenti della censura, misero in secondo piano il giudizio di valore), soprattutto da critici esperti e dall’ambiente del cinema. Non mancano però i pareri contrastanti o negativi di una parte di opinione pubblica, che evitando le stroncature, si rivela quasi atterrita e confusa dall’opera felliniana. Molti parlano di incomprensibilità di linguaggio, di un film difficile e intellettuale, dove c’è molta carne al fuoco (motivi di natura morale, intellettuale, estetica, di attualità e di costume) e che le intenzioni del regista non potranno essere ben comprese dallo spettatore medio. Il giornalista Gian Luigi Rondi, a tal proposito, racconta: Però non era certo un film facile da descriversi, con i suoi tanti echi, le sue voci, la molteplicità dei suoi significati: fra il reale e l’immaginato, fra la cronaca e il sogno. Dopo aver letto la mia recensione, Fellini mi telefonò per dirmi che con quello che avevo scritto gli avevo suggerito nove chiavi di lettura (anche se non ebbi il tempo di compiacermene perché Brunello si affrettò a dirmi che un’affermazione identica Federico l’aveva fatta anche a Tullio Kezich). Però, in vagone letto, andando a Milano, mi trovai qualche sera dopo faccia a faccia con Rizzoli che mi disse di più; “Io, in quel film lì, non avevo capito quasi niente, ma leggendo quello che ha scritto lei, qualche spiegazione ce l’ho trovata. Così ho dato disposizione a tutti i miei periodici con grande evidenza la sua critica. I poeti vanno bene, ma ci vuole anche qualcuno che li spieghi e visto che lei li ha spiegati a me, anche il pubblico adesso li capirà. Almeno” aggiunse “un po’ di più.9

8 Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, Feltrinelli Editore, Milano, 2002, pp. 236-237 9 Domenico Monetti e Giuseppe Ricci (a cura di), 8 e ½ raccontato dagli Archivi Rizzoli, Centro Sperimentale di Cinematografia, Fondazione Federico Fellini, Roma, 2008, pp. 5-6


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Da quanto riportato, si può intendere che lo stesso Rizzoli potesse riscontrare difficoltà nella completa comprensione del film di Fellini e che forse temesse un mancato riscontro economico, tanto da trovare un modo per sottolineare i salti fra sogno e realtà. Lo stesso Tullio Kezich nel sul libro scrive: Sul territorio nazionale l’incasso è soddisfacente, considerato che 8 ½ è un’opera difficile e molti non la capiscono. Provoca scandalo fra i cinefili la notizia che in provincia il film viene distribuito, per maggiore chiarezza, con i flashback colorati in seppia. 10 Più precisamente l’operazione del viraggio potremmo attribuirla alla casa di produzione Cineriz, che temendo l’incomprensibilità da parte del pubblico, fa circolare per un certo periodo anche copie con lo parti “oniriche” virate [fig. 80/85]. Questo particolare episodio è sporadicamente riportato nella cronistoria del film, ma attraverso la rassegna stampa di Otto e mezzo, all’interno dell’Archivio Rizzoli, conservato presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, sono riuscita a reperire alcuni articoli che ne fanno cenno, come quello scritto il 2 aprile 1963 da Gianni Canova, che afferma: Il nuovo film di Fellini è certamente meno popolare, più difficile. Lo stesso autore, appena finito «Otto e mezzo», si chiese se il pubblico avrebbe capito i bruschi passaggi fra sogno e realtà di cui il film abbonda. Le prime esperienze devono aver dato ragione ai suoi dubbi. Infatti mentre a Roma e Milano, e forse in altre città la copia è rimasta in bianco e nero, a Firenze e altrove viene proiettata una pellicola in cui le scene di sogno sono «virate», cioè colorate al fine di facilitare la comprensione del pubblico. Si tratta di un vecchio procedimento in auge ai tempi del cinema muto, quando si sottoponevano, intere sequenze dì un film a bagni coloranti, al fine di ottenere particolari effetti psicologici. Le scene di violenza passione o di incendi venivano «virate» in rosso, quelle notturne in azzurro e così via.

10 Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, Feltrinelli Editore, Milano, 2002, p.240


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Non è un caso, però, che dopo le vicende censorie legate a La dolce vita, Angelo Rizzoli, produttore cauto di entrambi i film di Fellini, possa aver fatto stampare delle pellicole virate in modo da facilitare la comprensione del film, per lo meno distribuiti nei cinema di provincia [fig. 90/95]. Il pubblico dimostra ben presto di non gradire l’aggiunta del viraggio al film, e potremmo presumere che tali copie siano state ritirate definitivamente dalle sale, tanto da non lasciare traccia della modifica. La rassegna stampa qui riportata, [fig. 74/79] è una selezione di articoli provenienti dall’Archivio Rizzoli, che mettono soprattutto in evidenza alcune riflessioni sul film e la difficoltà di alcuni critici e giornalisti di comprendere pienamente il film, tanto da giustificare presumibilmente l’intervento della produzione con il cosiddetto “viraggio”.


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Carlino Sera - Bologna, 14-02-1963

La metà del pubblico non ha visto il secondo finale di «8 e ½» Otto e mezzo di Fellini è stato presentato ieri sera a Roma in anteprima mondiale, alla presenza dell’autore e degli interpreti del film, di personalità di cinema, della politica e della cultura. Un breve applauso ha salutato la fine dello spettacolo, perché numerose persone avevano abbandonate la sala una decina di minuti prima che la proiezione finisse, ignorando che il film ha due finali. Intatti, dopo una prima conclusione, si ritorna sull’argomento e la pellicola prosegue e finisce diversamente, Ideato e diretto da Federico Fellini, Otto e mezzo, narra le vicende di un regista che tenta di riunire episodi della sua vita passata per ricavarne un filo conduttore cui ispirarsi per un film. È un film autobiografico ed il protagonista Marcello Mastroianni si muove, tra finzione e realtà, tra menzogne e verità, tra entusiasmi e pentimenti. Essendo il contrario del racconto tradizionale, il film probabilmente susciterà discussioni su stile e contenuto. Un applauso personale è stato rivolto a Marcello Mastroianni ed a Sandra Milo per lo loro interpretazione. Per Sandra Milo, che aveva dato l’addio al cinema, si tratta di un breve ritorno, avendo deciso di concludere la sua carriera artistica con il film di Fellini. Un ritorno al cinema è rappresentato dall’interpretazione di Caterina Boratto e di Giuditta Rissone.


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Il nuovo cittadino - Genova, 15-02-1963

«È un film malinconico ma decisamente comico» Così Fellini ha definito il suo «8 e 1/2» presentato a Roma - «Viridiana» non potrà più essere sequestrato. «Otto e mezzo» di Federico Fellini è stato presentato a Roma in anteprima mondiale, alla presenza dell’autore e degli interpreti del film. Un breve applauso, ha salutato la fine dello spettacolo, perchè numerose persone avevano abbandonato la sala una decina di minuti prima che la proiezione finisse, ignorando che il film ha due finali. Infatti, dopo una prima conclusione, si ritorna sull’argomento e la pellicola prosegue e finisce diversamente. Ideato e diretto da Federico Fellini, «8 e 1/2» narra le vicende dì un regista che tenta di riunire episodi della sua vita passata per ricavarne un filo conduttore cui ispirarsi per un film che però non riesce a realizzare. È un film autobiografico ed il protagonista Marcello Mastroianni si muove fra realtà e finzione, tra menzogne e verità tradizionale il film probabilmente susciterà discussioni su stile e contenuto. Lo stesso Fellini ha così definito il suo lavoro: «È qualcosa tra una sgangherata seduta psicoanalitica e un disordinato esame di coscienza, in una atmosfera da limbo: un film malinconico quasi funebre. Ma decisamente comico». Intanto, per la prima volta è stata applicata la nuova legge sulla censura in base alla quale competente a decidere su eventuali reati contenuti in spettacoli teatrali o cinematografici, è il giudice del luogo ove lo spettacolo ha avuto la prima programmazione. Per questo, a Roma, il giudice, istruttore Zara Buda ha ordinato con decreto l’archiviazione dell’azione penale nei confronti del regista spagnolo Louis Bunuel, azione che sarebbe dovuta iniziarsi a seguito del sequestro penale de film «Viridiana» a Milano . Il giudice, dopo aver preso in esame tutte le scene nelle quali secondo il procuratone della Repubblica di Milano si ravvisava il reato di vilipendio alla religione, ha deciso di revocare il sequestro ordinato a Milano.


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Il Giornale di Vicenza - Vicenza, 15-02-1963

In anteprima mondiale «8 e 1/2» di Fellini presentato a Roma «8 e mezzo», di Federico Fellini è stato presentato ieri sera a Roma in anteprima mondiale alla presenza dell’autore e degli interpreti del film, di personalità del cinema, della politica e della cultura. Un breve applauso ha salutato la fine dello spettacolo, perchè numerose persone avevano abbandonato la sala una decina di minuti prima che la proiezione finisse ignorando che il film ha due finali. Infatti, dopo una prima conclusione, si ritorna sulI’argomento e la pellicola prosegue finisce diversamente. Ideato e diretto da Fellini, «8 e 1/2» narra le vicende di un regista che tenta di riunire episodi della sua vita passata, per ricavarne un filo conduttore cui ispirarsi per un film che però non riesce a realizzare. È un film autobiografico ed il protagonista Marcello Mastroianni si muove tra realtà e finzione, tra menzogna e verità, tra entusiasmi e pentimenti. Essendo il contrario del racconto tradizionale, il film probabilmente susciterà discussioni su stile e contenuto. Lo stesso Fellini ha così definito il suo lavoro: «È qualcosa tra una sgangherata seduta psicanalitica e un disordinato esame di coscienza, in una atmosfera da limbo: un film malinconico quasi funebre. Ma decisamente comico».


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nebbia e applausi alla “prima”

Fellini sconcerta i milanesi-bene Da oggi “Otto e mezzo” affronta il giudizio del gran pubblico – Marcello Mastroianni e la Cardinale non si sono visti. Consensi, ma non ovazioni e molta gente che ha lasciato sconcertata la sala discutendo vivacemente, con opinioni diametralmente opposte. Questa la reazione degli invitati alla prima di “Otto e mezzo”, l’attesissimo film di Federico Fellini. Lo stesso regista, d’altronde, nel cocktail che è seguito alla proiezione non sembrava sorpreso da una simile accoglienza , la stessa ricevuta mercoledì sera a Roma. Tutta la Milano-bene era arrivata al Capitol puntuale; anzi, fatta prudente delle esperienze precedenti, con notevole anticipo sull’orario d’inizio. Alle 21 la galleria era già gremita; alle 21.30 quando, in perfetto orario, ma doverosamente ultimi, sono giunti Fellini e la moglie Giulietta Masina (tutta in lamè), anche in platea si trovavano solo posti in piedi. Nella sala, decorata con enormi 8 1/2 “scritti” con garofani rossi, i nomi più noti della Milano culturale, artistica, industriale: un lungo elenco che evitiamo per non fare torti con omissioni involontarie. Se gli invitati c’erano tutti, diligentemente in smoking, tre dei quattro interpreti principali hanno invece “bigiato” la serata. Ma avevano la giustificazione: Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale erano stati bloccati a Roma dalla nebbia che non permetteva atterraggi nei nostri aeroporti, mentre Sandra Milo, com’è noto, tiene compagnia in clinica alla sua bimba, appena nata. Presenti, invece, oltre al produttore, il commendator Angelo Rizzoli, le attrici Anouk Aimée e Madeleine Lebeau, Barbara Steele e l’industriale Guido Alberti, nell’occasione interprete di questo film. L’ultima fatica di Fellini dura esattamente due ore e mezzo e alla fine ha avuto l’accoglienza che abbiamo detto. Tra gli applausi s’è avvertita in platea anche qualche isolata disapprovazione: gente che all’uscita ammetteva di «non aver capito nulla o quasi». Altri, invece, sempre ad alta voce sostenevano di aver visto «uno dei più bei film della loro vita e senz’altro il migliore di Fellini». Opinioni drastiche, totalmente opposte, che faranno discutere al lungo e indurranno molti a rivivere il film.


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Elogi unanimi, invece, al montaggio, alla fotografia e agli interpreti; in particolare a Mastroianni e alla Milo. Sempre per dovere di cronaca, dobbiamo aggiungere che all’ingresso invitati e divi sono stati accolti da numerosissimi fotografi, ma da pochi curiosi: il freddo e la mancanza di una grossa diva hanno tenuto lontana quella folla che era invece accorsa per vedere Sofia Loren alla prima de “I sequestrati di Altona”. Alle due di notte gli ultimi ospiti lasciavano con Fellini e tutti gli interpreti la sala dove con un rinfresco era stata festeggiata la prima. Fuori anche gli ultimi patiti se n’erano andati, i riflettori erano già sui camion e stava calando sulla città quella nebbia che (secondo la versione ufficiale) ha tradito Mastroianni e la Cardinale. In realtà ieri non è stato sospeso nessun volo. Su “Otto e mezzo” la parola, adesso, è al pubblico.


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presentato a milano in visione privata l’ultimo, “misterioso”, film del regista de «la dolce vita»

Fellini «Otto e mezzo»: la crisi di un regista MILANO, 11 – Capitol di Milano, ore dieci di sabato mattina. Un’aria vaga di congiura e di pulizia anticipata, in quell’alone tenebroso stupefatto e sornione, che, chissà perchè, assumono sempre i cinematografi al mattino. Nulla di straordinario, un appuntamento come ne capitano a chi si aggira professionalmente per i cinematografi (si parla qui dei critici cinematografici, non delle maschere: la differenza è che i primi stanno seduti) tanti e tanti. La visione privata di un film, prima che la pellicola “vada su in prima”, tanto per usare il gergo degli esercenti. Solo che questo è un appuntamento più ghiotto di tanti altri, se non altro per la curiosità che si è venuta addensando da un anno a questa parte sul film che si deve vedere, da quando cioè si è sparsa la notizia che Fellini, ormai placatasi l’ondata di curiosità (….?) agli ultimi dibattiti ed agli ultimi iperbolici incassi di “La Dolce Vita”, si era rimesso al lavoro. A cominciare dal titolo, misteriosamente contabile, fino alla segretezza spasmodica di cui s’era ammantata la lavorazione, “8 e 1/2” ha tutte le carte in regola per richiamare intorno a sè un senso di attesa, fatto di curiosità, quasi infantile e, da parte di qualcuno, di aspettativa non del tutto benevola. Che, in fondo, proprio questo sapore di mistero, questa reclusione del “set”, questo lasciar far capolino alle notizie riguardanti soggetto e ambiente col contagocce, quasi si trattasse di “fughe” di documenti segreti da Los Angeles, son parsi a molti, che a Fellini non perdonano il successo, una irritante trovata pubblicitaria, e non, in fondo, pudore d’artista per la prima volta veramente incerto sul suo lavoro, ed intento, questo lavoro, a riconoscerlo ed a modellarlo strada facendo. A dar l’ultimo tocco, all’aria di mistero, ci si è messo lo stesso Fellini, che, quando siamo entrati nell’atrio del cinema (arrivavano alla spicciolata, un po’ assonnati e un po’ carbonari, critici di Milano e di fuori) c’era, e ben visibile. Col suo cappelluccio tondo e quell’aria da possidente emiliano un po’ ingrassato, che debba fare i conti col mezzadro da un momento all’altro e già siannoia al pensiero. Che è poi sempre l’aria di Fellini in pubblico,


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all’apparenza appena risvegliato da un sonnellino pomeridiano, con gli occhi intorpiditi sotto la gran fronte romagnola. E che invece, più sembra addormentato e impacciato, più è sveglio, sveglissimo, e tira fuori a stento quella sua voce gentile e timidetta, ma dentro fotografa tutto; quei momenti vuoti, quei convenevoli seccanti, quell’intrecciarsi fra pedante e studentesco di mezzi giudizi. Accenni di dialogo già intuiti in “La dolce vita” e che abbiamo ritrovato poi nella colonna sonora di “8 e 1/2”, amplificati con gusto. Dunque, si diceva, Fellini c’era. E un momento dopo non c’era più e non c’è più stato verso di vederlo. Scomparso anche lui, come uno di quei ricordi di infanzia che appunto si presentano e scompaiono, durante tutto lo sdipanarsi del film, al protagonista di “8 1/2”, che è appunto un regista sui quarant’anni, come Fellini, celebre come Fellini, intento a girare un film tra mille segretezze e mille ripensamenti, come Fellini ha giusto terminato di fare. Chissà che anche il protagonista (questo in “8 e 1/2” non lo si dice, ma escluderlo non possiamo) non lo presenti poi anche lui ai giornalisti, una mattina d’inverno, il suo film appena terminato. Non ci sarebbe da stupirsi, perchè il film che abbiamo visto a Milano è proprio come una scatola cinese, una scatola con dentro una scatola più piccola, che contiene una scatola più piccola, e via all’infinito, e dopo la prima si scarta la seconda, e poi la terza, sempre più velocemente, presi dal gioco e dalla rabbia di vedere il fondo. Non diremo ancora come sia veramente “8 e 1/2”, rimandando l’occasione, per correttezza ovvia in casi del genere, alla prima visione genovese, che riteniamo ormai imminente. Certo è che darà il via ad una discussione viva, anche se meno legata a larghi motivi polemici di costume morale e politico nostrano, come accadde con “La dolce vita” . “...Qualcosa tra una sgangherata seduta psicanalitica e un disordinato esame di coscienza, in una atmosfera da limbo: un film malinconico, quasi funebre. Ma decisamente comico...”. Così lo ha definito lo stesso Fellini, con quella sua apparente ingenuità di scrittura che nasconde poi un pigro e furbissimo temperamento di scrittore “fuorviato” dall’incontro decisivo con il cinema ( se non ci fossero state prima le sceneggiature per gli altri e poi le regie per lui stesso, chissà cosa sarebbe uscito dal bozzolo del giovane Federico che scribacchiava noterelle umoristiche sul “Marc’Aurelio” degli anni ‘40...). E ancora “..molti hanno scritto che “8 e 1/2” è un film autobiografico. Io sono autobiografico anche se racconto la vita di una sogliola, in un certo senso. Eppure posso dichiarare che questo lavoro è fantasioso, è il meno legato,


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fra tutti quelli che ho fatto, a riferimenti personali spiccioli...”. Non credetegli. Più che in tutti gli altri suoi film precedenti, proprio in questo Fellini ci ha dato l’impressione di aver descritto una sogliola. Una immensa, autobiografica sogliola in bianco e nero. Sfumata la possibilità di una conferenza stampa di Fellini (basta e avanza quella che lo spettatore troverà nella sequenza finale di “8 e 1/2”) non c’è rimasto che concludere noi stessi con un finale molto felliniano, un aperitivo in un locale vicino, dove cappotti e commenti hanno finito per mescolarsi con quelli di un vicino matrimonio, con sposa in bianco e accaldate signore dialettali di mezza età, che sembrano uscite da qualche improbabile commedia milanese di Giuseppe Adami. Quel rimescolio di volti noti (Pietro Bianchi, che assomiglia sempre di più ad un addetto militare prussiano a Parigi; Morandini con un maglione nero, Franco Berutti col bocchino) ci ha riproposto un’ultima, surrogatoria inquadratura felliniana. Un’immagine collaterale ma non trascurabile di quel mondo del cinema in cui Fellini si è formato ed è giunto alla maturità, e di cui “8 e 1/2” contiene alcuni “flash” ferocemente affettuosi, che non tarderanno, crediamo, a diventare classici frammenti per una ideale antologia del costume italiano di questo dopoguerra. Poichè nel film c’è dentro tutto, o quasi, crediamo, il mondo nel quale Fellini si è svolto e tutto quello che Fellini ha desiderato di dire, senza riuscirvi: ricordi dell’infanzia romagnola, produttori autorevoli, direttori di produzione trafficoni, cardinali e dive straniere “sur le retour”. Perfino quel film di fantascienza che egli ha tante volte desiderato di girare, senza decidersi mai. Salvo che non sia questa di “8 e 1/2”, in fondo, la fantascienza di Fellini.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Italia Cronache, 23-02-1963

Fellini spiegato al popolo Subito dopo la proiezione a Roma del film di Resnais “L’anéè dernière a Marienbad” circolava una storiella attribuita ad Alberto Sordi: «Se l’avessero fatto in Italia, l’avrebbero chiamato “L’anno scorso a Chianciano”». Proprio un anno dopo il lancio della storiella, “L’anno scorso a Chianciano” è sugli schermi italiani. Circola però sotto falso nome: «Federico Fellini, 8 e mezzo». In «Marienbad» il regista Resnais ed il soggettista sceneggiatore Robbe Grillet avevano cercato di trasportare sullo schermo il nuoveau roman, l’ultimo tentativo di superare la crisi del romanzo, come genere letterario, sulla falsa riga di Proust e di Joyce. Se considerato sotto uno schema tradizionale il nouveau roman risulta di faticosa lettura per la discontinuità di tempo e di luogo; se considerato sotto l’angolo visuale dei singoli personaggi e dei singoli protagonisti, nei salti e nelle trasposizioni di pensieri e di immagini che continuamente sono presenti nella mente di un individuo, minuto per minuto, attimo per attimo, il tentativo letterario gli scrittori d’oltralpe appare per lo meno giustificato proprio come ricerca per uscire da schemi narrativi oggi superati. L’esperimento di Resnais di costruire un film in questo senso non aveva ottenuto un grande successo. Per il grosso pubblico abituato a non sforzarsi nel percepire, a vedere macroscopicamente, ad odorare più che a sentire ed aiutato in questo dalla quasi totalità dei produttori e registi, quel saltare di immagini, quell’andare avanti ed andare indietro, quel veder dopo, quello che già si era visto prima senza che nemmeno il dialogo (anzi!) aiutasse nel capire qualcosa, era stato giudicato né più né meno che una truffa. Non che, da come «Marienbad» era stato realizzato questo non potesse anche essere vero; ma un giudizio senza appello del pubblico di cassetta aveva sollevato le naturali indignazioni del pubblico «élite»„ che era stata solleticata dalla parola «esperimento». Le discussioni a base di «nuovo linguaggio», «...e a me che me ne importa... », «... fenomenologia della percezione... », «... io non ci ho capito niente... », «... quei soffitti... », «... preferivo i vestiti di lei...», «....già ma era,magra», si trascinarono per un certo tempo concluse poi forse per stanchezza con la battuta di Alberto Sordi. Sordi in questi ultimi tempi è infatti rivalutato come attore intellettuale.


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In realtà Resnais si era dimenticato una verità elementare: che il cinema oggi è industria di massa. Si possono fare gli esperimenti che si vuole purché attraggano il pubblico : i laboratori devono essere trasparenti e con la luce al neon. Rapido è di talento Fellini lo ha capito subito, ed un anno dopo ecco il «nouveau film». Ambiente: Chianciano (o Fiuggi, o Montecatini). Poi il protagonista, un regista, (un personaggio autobiografico) con una grande confusione in testa, e questo motivo della confusione è ripetuto ad ogni piè sospinto per minor confusione del pubblico. Mentre «passa le acque» il regista esprime agli spettatori il suo stato mentale in un alternarsi di ricordi, di sogni di desideri, di paure con continui cambiamenti di immagini, di tempo e di luogo. Fellini fa tuttavia in modo che ognuna di queste «variazioni» appaia ben chiara e giustificata all’occhio del pubblico, sia attraverso il dialoga che la logica delle sequenze. Alla fine lo spettatore esce soddisfatto: anche per lui finalmente si apre uno spiraglio in un genere letterario finora inattaccabile se non con molta buona volontà. Tra poco c’è da esserne certi incominceranno le discussioni, ma nessuna storiella aiuterà a concludere. Adesso infatti ci si può, impegnare. Tra poco, a cura dell’industria culturale, non mancheranno nelle librerie quei volumetti illustrativi del genere «saper tutto » che in quaranta pagine spiegano tutto di tutto, magari della fenomenologia della percezione. Sul tipo di quelli che in dieci cartelle danno un quadro approfondito e sintetico della pittura mondiale dall’espressionismo (compreso) ai nostri giorni. Un’altra cosa: per quanto nel suo film autobiografico Fellini voglia far credere di avere una gran confusione in testa, sembra difficile poter trovare una persona che le idee le abbia più chiare di lui.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

La Tunisi 4, Palermo, 03-1963, Anna Piscastelli

«Otto e mezzo» I critici cinematografici nell’esaminare l’ultima opera di Federico Fellini ne hanno messo in risalto l’ispirazione culturale e letteraria. Il posto delle fragole e L’anno scorso a Marienbad sono i film ai quali «Otto e mezzo» è stato più facilmente avvicinato. Si è inoltre parlato di surrealismo, esoterismo, onirismo, pirandellismo e l’elenco potrebbe continuare perchè è facile nel crogiolo d’immagini, di emozioni, di personaggi presentati dal lavoro vederci a buon diritto suggestioni più o meno palesi dell’arte e della problematica moderna. Per amalgamare tanta varietà di elementi intellettuali e morali e dare ad essi un’impronta originale, cioè creativa, Federico Fellini ha dovuto fare appello alla sua esuberante fantasia e a quel virtuosismo tecnico di cui è grande maestro. Purtroppo tale sforzo si nota e ciò che doveva essere l’approfondimento della vicenda di un uomo attraverso tutte le forme e i piani della sua realtà a volte si raffredda e si disperde in quello che può anche apparire un gioco immaginifico ed intellettualistico. Avvenimenti reali, pensieri, sogni, incubi, ricordi s’intersecano e si sovrappongono in un ritmo uguale e incalzante che arriva anche a generare, nello spettatore, confusione e stanchezza. È tuttavia innegabile il fascino fotografico ed emotivo delle immagini che resta malgrado tutto, nella memoria, con una sua caratteristica coloritura, con un particolare senso di repulsione-attrazione che rinnova oltrepassandolo, quello del Fellini de La dolce vita. Viene allora il sospetto che la confusione e la stanchezza siano almeno in parte volute dal regista, che rientrino, — maggiore o minore che ne sia la resa estetica — fra gli effetti previsti. La disperazione di un mondo che non si costruisce, che non sa né vuole effettivamente costruirsi, conduce — come nei pirandelliani Sei personaggi in cerca d’autore, di cui si avvertono chiaramente gli echi al rifiuto della rappresentazione, dell’«opera» che è in definitiva la vita. Il ritorno di tutte le figure nella rassegna finale, nelle sequenze purificate nel colore chiaro di tutti i personaggi, pur suggestivo come fascino fisico dell’immagine, convince solo in parte su una linea di svolgimento intrinsecamente artistico della vicenda. E il significato morale — il protagonista scopre che il «disordine» è in lui, consiste nel «non sapere amare» non nascendo dalla suggestione fantastica rimane un po’


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estraneo e forzato. Ben altrimenti in film precedenti come La strada, I vitelloni, Le notti di Cabiria, La dolce vita, l’immagine fu per il regista il simbolo lirico di una verità poetica o di una denuncia sociale. Nel protagonista, assillato dalla consapevolezza di ciò che è e dal desiderio di ciò che vorrebbe essere, Federico Fellini ha evidentemente voluto in parte rappresentare il proprio «mito», che si articola e insieme sfuma nella inquieta folla di attori, di produttori, di giornalisti in attesa che egli realizzi il grande film, l’opera dal preciso significato filosofico e parenetico. Le scene più belle riguardano l’episodio dell’infanzia trascorsa in collegio e il pullulare fantasmagorico di comparse e personaggi nella stazione termale, intorno a Guido, o piuttosto al suo pensiero e ai suoi assilli reconditi. Marcello Mastroianni ha cercato di dare naturalezza al difficile ruolo, Anouk Aimée nella parte della moglie del regista è una figura viva e sincera. Sandra Milo, Madeleine Lebeau, Claudia Cardinale, Jean Rougeul sono stati bravi e validi interpreti.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Eco di Biella, 01-04-1963, Pra

Fellini pro e contro Da quando è partito in programmazione, verso la metà del febbraio scorso, «Otto e mezzo» di Fellini ne ha fatto scrivere di parole. E prima ancora che la sua storia apparisse in immagini sullo schermo, già il pubblico l’aveva conosciuta attraverso il libro della Cederna. Gli si è messo al fianco, adesso, il «Gattopardo» di Visconti.; e le rubriche dei giornali di categoria raffronteranno con puntigliosa curiosità le «oscillazioni di borsa» dei due film che stanno a capo di tutta la produzione cinematografica dell’annata, impegnati nella definitiva gara degli incassi. «Otto e mezzo» è in proiezione a Biella da alcuni giorni. Piace e non piace. È un film difficile; non esterno e cronachistico come «Dolce vita»; ma interiore, addirittura viscerale, di cose sue, di lui, di Fellini, qui riprodotto da Mastroianni con spassoso umore. Raccontarlo? È come raccontare un sogno od, una allucinazione: impossibile. Sul piano dei fatti, si tratta di un regista che deve comporre un film e lo ricava, per spunti evocativi, per cascate di ricordi, dalla sua propria vita. Autobiografia, quindi. Ma che si oggettiva nelle esperienze, di tutti gli uomini, e perciò si generalizza. Quest’uomo ha moglie, un’amante, delle aspirazioni: niente di veramente particolare, una vita come tante; egli cerca in se stesso motivi di racconto, di soddisfazione; e al fine non trova che fallimento. Squallore, pena: lo spettatore dovrebbe lasciare la sala rattristato. Ma ecco che consola il mestiere; per cui gli elementi negativi della storia come incomprensione, disincanto, alienazione e tanti altri mali della vita moderna e civilizzata, sono, per, Fellini, stimolo per creare, tra il surrealistico ed il grottesco, immagini cinematografiche di prepotente vivezza, di fantasioso balletto, di clownesca parata. Il gioco incalza, monta, si esaspera: i personaggi sfilano su una passerella che è il margine della memoria. Barnum che presenta, invece di belve e di fenomeni fisici, i simboli delle nostre più comuni relazioni, da quelle dell’amore a quelle del lavoro a quelle della fede. Musica, maestro: galop finale e la sarabanda riprecipita nel vuoto, nel nulla. Come nei giochi d’illusionismo, la magia al fine si dissolve. Signori e signori, il gioco è fatto. Vi siete divertiti? Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Sandra Milo, Anouk Aimée, Rossella Falk, Barbara Steele, Madeleine Lebeau e tutti gli atri attendono l’applauso: in mezzo a


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loro, ecco Fellini, vestito da diavolo. Come abbiamo detto in principio, c’è chi applaude e chi no. Noi siamo tra i primi. Pur con le nostre riserve. Che sono, più che altro, la mancanza, di un «autentico» coraggio chiarificatore ; del diavolaccio nell’affrontare il problema dell’esistenza, il problema adombrato in quasi tutti suoi lavori. Fellini accusa debolezza ideologica nella struttura e nello sviluppo dei suoi temi. In fondo e-gli è rimasto il «vitellone» fortunato, nel personaggio del quale si è presentato a noi nel film omonimo, e forse il suo migliore, per lo meno il più chiaro. S’impegna — e grazie che lo faccia — con questioni le più grosse della nostra vita ne deriva appunto, per quella gracilità culturale e di concetti, una confusione, che i suoi racconti . paiono raffigurati nella nebbia. Il gran salto per buttarsi nel folto della vita come il coraggio dei puri, Fellini non lo vuol compiere. E resta lì, a mezza altezza tra l’allucinazione e il sogno. La più esatta definizione di lui ce l’ha data Leo Pestelli il quale scrive: « Le nuove scuole del romanzo e del cinema non sono nomi vani neppure per Fellini, che si vanta d’esserne digiuno; sono nell’aria che anch’egli respira. Ma è certo che tra i registi dell’alienazione e del sogno, egli occupa un posto nettamente distinto, e. che la lagrimevole solitudine diventa nelle sue mani una carica di gioia, docile a tutte le sollecitazioni della fantasia. Psicanalisi, insomma, all’italiana: che non esclude affatto il commercio, con l’irrazionale e una tenera fede nella grazia e nel miracolo». Dove la critica, unanime, concorda, è nella prodigiosa capacità di Fellini di fare cinematografo: qualunque cosa egli tocchi, diventa immagine cinematografica, parte del linguaggio: Fellini è una specie di Re Mida dello spettacolo filmico. E ogni suo lavoro, di là da ogni posizione ideologica, è singolarmente, prestigiosamente valido per generosità di talento figurativo.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

02-04-1963, Gianni Canova

«otto e mezzo» (colorato nelle scene di sogno) e «il gattopardo»

Campioni d’incasso ROMA, 2 aprile sconti stanno correndo alla conquista del titolo di «campione d’incasso» con i loro nuovi film. Gli incassi che sono stati finora registrati sono davvero straordinari: superiori alle stesse aspettative dei produttori che — si sa — sono degli ottimisti per costituzione. «Otto e mezzo» viene proiettato in venticinque città italiane da un mese e mezzo e ha finora un introito lordo di 418 milioni. Ma sembra che «Il Gattopardo» voglia togliergli questo primato. Nei primi tre giorni di programmazione in otto città ha infatti incassato 95 milioni. I confronti, quando si parla di incassi, sono sempre difficili e improbabili. Bisogna tenere conto, infatti, non solo dei giorni di programmazione e del numero nelle città, ma anche della capienza dei locali che ospitano un certo film. Per esempio, non è possibile confrontare gli incassi di un cinema come il Barberini di Roma, dove si proietta «Il Gattopardo», con quelli dell’Apollo di Milano, che ospita lo stesso film, perchè c’è uno scarto di circa 400-500 posti a sedere del cinema romano. Ma, se proprio vogliamo fare dei confronti, possiamo guardare gli incassi fatti nella prima domenica di programmazione de «La dolce vita» e da «Il Gattopardo» in due cinematografi pressappoco uguali. Il film di Fellini registrò 4 milioni, quello di Visconti 7. Va però tenuto presente che i prezzi sono notevolmente aumentati. Il biglietto per «Il Gattopardo» costa a Roma e a Milano duemila lire. II cammino che i due concorrenti devono compiere è molto lungo ancora. Il nuovo film di Fellini è certamente meno popolare, più difficile. Lo stesso autore, appena finito «Otto e mezzo», si chiese se il pubblico avrebbe capito i bruschi passaggi fra sogno e realtà di cui il film abbonda. Le prime esperienze devono aver dato ragione ai suoi dubbi. Infatti mentre a Roma e Milano, e forse in altre città la copia è rimasta in bianco e nero, a Firenze e altrove viene proiettata una pellicola in cui le scene di sogno sono «virate», cioè colorate al fine di facilitare la comprensione del pubblico. Si tratta di un vecchio procedimento in auge ai tempi del cinema muto,


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quando si sottoponevano, intere sequenze dì un film a bagni coloranti, al fine di ottenere pari colari effetti psicologici. Le scene di violenza passione o di incendi venivano «virate» in rosso, quelle notturne in azzurro e così via.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Giornale di Bergamo, 04-04-1963

Fellini e Visconti «campioni d’incasso» I due film “Otto e mezzo” e “Il Gattopardo”, registrano da molti giorni una straordinaria affluenza di pubblico Fellini e Visconti stanno correndo alla conquista del titolo di «campione d’incasso» con i loro nuovi film. Gli incassi che sono stati finora registrati sono davvero straordinari: superiori alle stesse aspettative dei produttori, che — si sa — sono degli ottimisti per costituzione. «Otto e mezzo» viene proiettato in venticinque città italiane da un mese e mezzo e ha finora un introito lordo di 418 milioni. Ma sembra che «Il Gattopardo» voglia togliergli questo primato: Nei primi tre giorni di programmazione in otto città ha infatti incassato 95 milioni. I confronti, quando si parla di incassi, sono sempre difficili e improbabili. Bisogna tenere conto, infatti, non solo dei giorni di programmazione e del numero delle città, ma anche della capienza dei locali che ospitano un certo film. Per esempio, non è possibile confrontare gli incassi di un cinema come il Barberi di Roma, dove si proietta «Il Gattopardo», con quelli dell’Apollo di Milano, che ospita lo stesso film, perchè c’è uno scarto dì circa 400-500 posti a favore del cinema romano. Ma, se proprio vogliamo fare dei confronti, possiamo guardare gli incassi fatti nella prima domenica di programmazione da «La dolce vita» e da «Il Gattopardo» in due cinematografi pressapoco uguali. II film di Fellini registrò 4 milioni, quello di Visconti 7. Va però tenuto presente che i prezzi sono notevolmente aumentati. Il biglietto per «Il Gattopardo» costa a Roma e a Milano duemila lire. Il cammino che i due concorrenti devono compiere è molto lungo ancora. Il nuovo film di Fellini è certamente meno popolare, più difficile. Lo stesso autore, appena finito «Otto e mezzo», si chiese se il pubblico avrebbe capito i bruschi passaggi fra sogno e realtà di cui il film abbonda. Le prime esperienze devono aver dato ragione ai suoi dubbi. Infatti mentre a Roma, a Milano e forse in altre città la copia è rimasta in bianco e nero, a Firenze e altrove viene proiettata una pellicola in cui le scene di sogno sono «virate» cioè colorate al fine di facilitare la comprensione del pubblico.


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04-04-1963

Fellini 8½ Film da fare di Federico Fellini con Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale E anche a Bergamo abbiamo l’ultimo clamoroso film di Fellini, senz’altro uno dei titoli protagonisti della stagiono in corso. Cos’è quest’ultima fatica felliniana, tenuta misteriosa per mesi e mesi e ancor adesso nascosta sotto una sigla (tra l’altro imprecisa) che si riferisce oggettivamente alle pellicole sinora realizzate da questo regista? Più che un film vero e proprio, « Otto e mezzo » è un «film da fare» nell’accezione pirandelliana di certe commedie il cui nucleo drammatico non è il loro risultato compiuto, ma la fatica del loro autore nell’atto della creazione, nell’accettazione e nel rifiuto di motivi, situazioni, personaggi. Fellini stesso traccia il soggetto del film: «Avevo dunque delle scene, le facevo e le rifacevo, poi, siccome questo film non riuscivo mai a ricordare com’era, mi è venuta un’idea di far la storia di un regista che alla vigilia di cominciare a girare non si ricorda più niente, domanda dieci giorni di tempo per andare alle Terme a riposarsi,, ma nell’albergo delle Terme la produzione l’assedia e lui non sa più cosa fare. Avanti allora con provini e contratti, e il regista si dibatte fra gli stesisi problemi che aveva quell’uomo indefinito della prima stesura (così del vecchio film rimangono in piedi interi blocchi), è ingabbia nei rapporti fra la moglie l’amante, incapace di risolverli in nessuna delle due direzioni, e in più come regista: vorrebbe fare un film per raccontare tutto questo» . Un film, dunque, strettamente biografico, in cui Fellini sì mostra com’è, senza pudori, con il suo formidabile potere fantastico, per cui visualizza ogni, ombra, ogni tremore, ogni piega dei suoi sentimenti, e con tutti i suoi difetti, il suo groviglio di contraddizioni, la sua disordinata ed elementare filosofia, la sua tendenza ad imbrogliare le carte, a raccontare bubbole. «Otto e mezzo» è l’esasperazione di tutto questo, cioè è di monumento Fellini erge a sé stesso. Un monumento gonfio, confuso, denso di cose e di persone, che naturalmente tocca anche ciascuno di noi: la morale del film è che la vita, comunque ci troviamo, a questo mondo, vale sempre la pena dì essere vissuta, e tutti i nostri simili sono, necessari alla nostra esistenza.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Sul piano della realizzazione estetica, il film è più brillante e più personale di «La dolce vita», ma anche più difficile e più intellettuale; E questa e una novità per l’animistico Felliini, il quale stavolta sacrifica più di una volta a certe mode del momento, ispirandosi apertamente a certi moduli propri di Bergman, di Antonioni e di Resnais (quello peggiore di «Marienbad»). Il pubblico resterà spesso disorientato da questa difficoltà di lettura (quando i ricordi lasciano posto al sogno? Quando i ricordi subentrano ai fatti? Quel che vediamo accade davvero o è soltanto immaginato?). Questo intellettualismo, questa eccessiva rarefazione del raccontare per immagini: ecco il vero difetto del film. La critica «maiuscola» nel giudicare quasi uniformemente «Otto e mezzo» come un’opera d’arte assoluta, si è lanciata suggestionare dalla novità. A nostro parere, «Otto e mezzo» è un bel film e mezzo. Il capolavoro è un’altra cosa.


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04-1963, Angela Cuzari

Otto e mezzo Fellini ha vissuto il dramma dell’artista che, avendo ideato il suo capolavoro a solo quarantanni, si trova dinnanzi il tremendo imperativo di superarsi o di essere almeno pari a se stesso. Con la fantasia surrealistica di “Boccaccio ‘70” aveva garbatamente eluso il problema, con “Otto e mezzo” ha ancora una volta preso una via traversa. Da Fellini ci si attendeva un film che segnasse una svolta nella storia della cinematografia e del costume, che desse materiale ai registi senza idee, perché vivessero d’accatto per un paio di anni, che almeno introducessero un vocabolo di nuovo conio nel dizionario italiano (che deve già a Fellini “vitellone”, “bidone”, “dolce vita”). Era una pretesa inumana, perché non si possono creare capolavori a getto continuo e perfino i più grandi poeti hanno concesso pause al loro genio. Ma Fellini no! Doveva “èpater les bourgeois” a tutti i costi, perché il cinema è un mostro sacro che innalza all’improvviso i suoi miti e con altrettanta rapidità li divora. Ed egli ha scelto il mezzo più coraggioso ed astuto insieme: ha messo in scena il suo dramma. Guido Anselmi (Marcello Mastroianni), il regista arrivato, travagliato da una crisi di ispirazione e incalzato da produttori e giornalisti, è Fellini stesso, come testimonia anche il titolo nel quale, accanto al suo nome c’è il numero dei film da lui diretti. Il segreto che ha circondato la lavorazione non era una geniale trovata pubblicitaria ma derivava dall’incertezza in cui brancolava il regista. Gli attori non conoscevano la trama generale, perché essa non esisteva, ma prendeva forma scena dopo scena, nella fantasia degli autori. Del resto neanche ora, a pellicola ultimata, si può dire che esista una trama generale. Resta l’impressione di una antologia di splendidi brani slegati che si susseguono come in un sogno, ove i legami con la realtà e la logica sono molto allentati. La “Dolce vita” non era un film facile, ma parlava il linguaggio accessibile a tutti della vera opera d’arte. “Otto e mezzo” è, invece, un abile gioco intellettuale, che forse deluderà il grosso pubblico e sarà gradito solo a quella cerchia di spettatori capaci di seguirne senza sforzo le complicate evoluzioni psicologiche. Il complesso del successo (o meglio dell’insuccesso) potrebbe essere alla base del film.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Quando si è famosi bisogna lottare per conservare la fama. “Io non ho proprio nulla da dire”, è la spudorata affermazione di Anselmi – Fellini. E la voce del critico, che parrebbe creato a far da contrappeso alla presunzione del regista, suona quasi come l’eco della sua coscienza: “Perchè creare un aborto? Meglio avere il coraggio della rinuncia e non lasciarsi dietro, come uno zoppo, un’impronta deforme”. Ma Fellini non ha avuto questo coraggio e ha solo cercato di prevenire, ponendole in bocca ad un personaggio antipatico, le prevedibili critiche. Un altro espediente quindi, non un atto di umiltà. Una follia di personaggi e di situazioni urgevano alla sua fantasia; egli ha cercato di dominarli ma è rimasto travolto dalla sua stessa confusione. Inoltre si è lasciato prendere dal simbolismo che, rimasto latente nelle opere meglio riuscite, affiora nelle meno riuscite e rappresenta il punto debole della sua arte. Esso, però, è una caratteristica del suo temperamento e non un’adesione a mode o correnti. Ma, se la struttura generale del film risente delle incertezze e del disorientamento dell’autore, non mancano i brani superbi visti a quella maniera tipicamente felliniana, bizzarra ed ironica insieme. L’atmosfera della città termale, ove il tempo sembra pateticamente essersi fermato, è resa con pochi tratti sapienti: i volti di gesso delle vecchie signore ombreggiati da ombrellini fuori moda, le decorazioni liberty degli alberghi, le arie d’altri tempi accompagnate da orchestre d’archi. In questa atmosfera di ristagno e di disfacimento avviene l’incontro col cardinale, così curvo e decrepito, così lontano dalle cure del mondo, simbolo di una religiosità antica e spiegata (“Non è nati per essere felici”), crudele a volte, come appare nel ricordo d’infanzia che ad esso si collega: la danza di Sareghina, la donnona enorme dal volto di strega per i minuscoli collegiali, e il castigo corporale mortificante decretato dai padri, dai volti vizzi di vecchine maligne. Neanche l’amore costituisce un appiglio per questo uomo in crisi. Né la ciarliera fatuità dell’amica, né il paziente affetto della moglie (Anouk Aimèe) sembrano bastargli, ed egli vagheggia Claudia (Claudia Cardinale) la ragazza della fonte, simbolo della purezza e del grande amore mancato. Il dialogo tra Guido e Claudia simbolizza l’eterno contrasto tra l’uomo e la donna, destinati a non capirsi perché parlanti due linguaggi diversi: l’uno quello della ragione, l’altra quello dell’amore. Meno riuscite sono le altre fantasie, quella dell’harem, ad esempio, ove il personaggio raduna tutte le donne della sua vita e in cui relega al piano superiore, cioè nell’oblio, quelle che non son più degne di memoria.


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Deluso nel lavoro, nell’aspirazione religiosa, nell’amore, il personaggio di Fellini non naufraga però nella disperazione e con l’ennesimo simbolo si conclude il film: il girotondo di Guido con tutti i suoi ricordi: l’unico patrimonio vero che resta ad ogni uomo, l’unica ricchezza, perché tutto ciò che non si ricorda più è come se non fosse mai stato posseduto. Era necessario fare un film per dire questo? Forse lo era per l’autore, perché si liberasse dalle scorie e dai sedimenti che erano in lui e in una rinnovata giovinezza artistica ritrovasse una nuova e più limpida vena di ispirazione. Ma “Otto e mezzo” certamente non aggiunge nulla alla fama del suo autore, né alla storia dei capolavori cinematografici.


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

04-1963, Filippo Sacchi

Fellini: Sempre più difficile In “Otto e mezzo” il famoso regista non sempre è riuscito a chiarire le intenzioni del suo racconto Per piacere, una corda e un nodo scorsoio. Domando di essere impiccato anch’io come Fabrizio Carini, l’intellettuale ipercritico di Otto e mezzo. Perché contesso che non sono riuscito a capire il capolavoro. È sicuramente una mia personale deficienza, perché ho visto che tutti i miei colleghi lo hanno capito. Voglio chiarire che mi rendo conto di trovarmi davanti a un superbo campionario di mestiere cinematografico. E fin che Fellini mi porta a spasso nei felici reami della sua fantasia figurativa, nei bianchi purgatori della marienbadesca stazione termale dove, entro uno scenario da belle époque, una bizzarra folla di nevropatici si illude di trovare rimedio alla propria impotenza e alla propria nostalgia; oppure nei limbi beati della lontana infanzia vissuta nella casa di campagna romagnola; o nelle fantomatiche acque forti del convitto con quelle pareti abbacinanti e quei preti inquisitoriali; finché, ripeto, mi invita a immergermi con lui nei suo mondo visivo, io mi lascio andare senza chieder nulla, pago di perdermi in quel labirintico flusso di immagini oniriche e decorative. Ma non c’è solo questo. Quando Fellini scrive: «Ho raccontato una favola, e non c’è niente da capire al di la di quello che si vede», o non ricorda bene, o è curiosamente male informato su se stesso. In realtà è stato un po’ troppo precipitoso nell’impiccare il suo intellettuale, perchè egli per primo è zeppo sino al collo di problematica. Problematica di costume nella satira (un po’ scontata) contro il mondo del cinema, le attrici smaniose di parti, i giornalisti stupidi, i tirapiedi inetti, i produttori confusionari. Problematica del fatto creativo nel caso del regista famoso, il quale, colto da una interna crisi che investe insieme l’artista nei rapporti con la sua opera e l’uomo nei rapporti col suo mondo, è insabbiato in un gigantesco film che non riesce piu a finire. Problematica delle passioni, perché uno dei nodi della crisi è nell’incapacità del protagonista di mettere ordine nella sua vita amorosa, specialmente di fronte alla moglie che tradisce e da cui non si può staccare. Perfino problematica religiosa, perché a un certo punto,


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evidentemente ligio ancora agli influssi della sua lontana educazione confessionale, Guido, il regista, chiede illuminazione a un vecchissimo cardinale che fa le bagnature. C’era dunque nel film molta carne al fuoco: c’erano adombrati infiniti motivi di natura morale, intellettuale, estetica, di attualità e di costume. E poiché Fellini aveva impostato la sua invenzione su un piano assolutamente illusionistico e di pura fantasia, un mondo di rapporti arbitrari e sciolto da ogni vincolo apparente di causalità e di tempo, il problema era evidentemente di liberare quegli elementi di realtà dal loro involucro realistico, e di trasferirli fuori e al disopra, in una dimensione traslata e irrazionale. È però uno operazione difficilissima che, non per offenderlo, richiede il genio, Cervantes o Shakespeare, e non c’è da meravigliarsi se non gli è riuscita. Ne è venuta fuori così un’opera che non è né carne né pesce, né fantasia né verità, ma oscilla continuamente tra deliziose visioni di mondi inventati o retrospettivi da un lato, dall’altro vaghi, sconclusionati, insignificanti e spesso, nella loro indeterminatezza, noiosi incontri tra i personaggi dell’azione apparente, con uno stile composito e confusionario che va e viene tra un corrivo verismo ambientale (la pensione dove Guido porta l’amante), un’ironia scoperta e velleitaria (la bianca fanciulla ideale del sogno che, quando il poeta la porta in macchina, diventa una ragazza volgaretta e qualunque), e una stiracchiata allegoria da fumetto (l’harem). Ci sono naturalmente, a ogni passo, lampi di malizia e colpi di intelligenza. Ma dubito fortemente che le intenzioni del film arrivino allo spettatore normale, non dico attraverso il raziocinio che Fellini ripudia, ma nemmeno attraverso l’ipnotismo visivo. Tipico per me, come esempio di sproporzione tra idea e realizzazione, quella grande parata alla fine, quasi passerella di rivista su cui tutti i personaggi del film sfilano insieme, e che sarebbe destinata, nelle intenzioni dell’autore, a significare che l’artista trova la liberazione dai suoi dubbi quando accetta e abbraccia, riunendoli in sé, tutti gli esseri umani, i presenti e i trapassati, che hanno fatto parte della sua esperienza e della sua vita, in realtà, così come arriva, tardi e dopo un quarto d’ora almeno che si trascina faticosamente, dà l’impressione del balletto improvvisato per trovare comunque un un finale a un copione senza uscita. Pur di chiudere, Fellini ricorre a tutto, persino al più appiccicaticcio e convenzionale dei «lieti fini», mostrandoci il regista che torna all’amore della moglie. Che dico? Persino alla simbolica apparizione di un gruppetto di clowns con la


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loro classica fanfaretta stonata: i clowns, questi venerandi ferravecchi della letteratura cerebrale e decadente dei primo dopoguerra! Tra gli interpreti meritano citazione Mastroianni, condannato una volta di più alla più opaca, sonnolenta, rassegnata abulia e Sandra Milo, brava e sfavillante. Ma la perla, perla nera, del film è Anouk Aimée, stupenda attrice che mette spirito ed espressione in tutte quello che tocca. Se avesse avuto parti adatte (e molte! copertine a pagamento) poteva battere tutte. Filippo Sacchi


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Fellini si racconta ma non tutti lo capiscono “Fellini otto e mezzo”: un film del quale quasi nessuno osa affermare che non è “grande”, che è meno di un’autentica opera d’arte. Eppure che pochi capiscono, che pochissimi sanno spiegare agli altri (non raccontare, spiegare). É senz’altro un’opera complessa, ricca di idee, di sfumature, di toni, comunque: e questo non può sfuggire a nessuno. L’idea generale che lo spettatore medio si fa degli obiettivi di Fellini (è importante stabilire quel che il regista abbia voluto dire, quando fa cose del genere, non chiare a tutti) e che egli esponga il travaglio della sua vita e che per farlo ricorra a quel mezzo lacunoso, precario, ma a volte lucidissimo che è la memoria. Mezzo anche suggestivo, che ci regala quadri di autentico valore, sul piano dell’espressività non meno che su quello della tecnica pura. Quanto ai difetti che i bolognesi vi trovano, il primo di tutti è il caos narrativo, il disordine – certamente cercato, voluto – del racconto. Un difetto che diventa un pregio, ovviamente, per chi scende in profondità, per chi si lascia afferrare dal desiderio di seguire il regista, o l’uomo Fellini nella sua tortuosa esplorazione della psiche. Il film s’inizia con una inquadratura del protagonista. Il regista Guido (Marcello Mastroianni) che sta soffocando per i gas di scarico dentro la sua auto, rimasta bloccata in un sottopassaggio fra decine di altre macchine. Poi Guido esce, cammina sui tetti delle macchine e... arriva in una città termale, che a regola dell’accento di alcune persone, si direbbe Montecatino. C’è gente che fa la cura delle acque e dei soffioni solforosi, e fra questo via vai di persone Guido, che è alla ricerca di un soggetto cinematografico che riesco a trarlo da una profonda crisi spirituale, che ha minato persino i suoi rapporti coniugati, fa incontri angosciosi, che lo crivellano di angustie e di preoccupazioni. Il produttore, gli attori e le attrici, gli amici, gli accompagnatori delle attrici: un sacco di persone che egli non vorrebbe avere attorno, per lavorare tranquillo. A un certo momento, oppresso, soffocato da questa marea di “prossimo”, egli immagina di suicidarsi tirandosi una revolverata alla testa, mentre la produzione s’attende da lui una conferenza stampa. Ma poi il buon senso prevale. Guido si riconcilia con la moglie (Anouke Aimèe), con Clau-


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dia (Claudia Cardinale) e con tutti gli altri. E si accinge a dirigere il film così come egli è venuto pensandolo nella sua travagliata e contesa solitudine termale. Il film è tutto intessuto di ricostruzioni mnemoniche, sottolineate da diversi effetti di luce e da diversi accompagnamenti musicali. Lo spettacolo dura circa due ore e mezzo: per alcuni un po’ troppe. Eccovi i pareri degli spettatori: LUIGI VECCHI, avvocato - “No. Non mi è piaciuto. Forse perché dal silenzioso polemico Fellini di questa volta ci si attendeva si più. Mi sembra che egli si sia voluto addentrare troppo, questa volta, in un territorio che non gli è congeniale, quello della psicanalisi. La psicanalisi è cosa da specialisti: meglio al professor Canestrari che a Fellini”. CARLA VERONESI, sarta - “A parte qualche inquadratura e qualche battuta di dubbio gusto, l’ho trovato un film interessante. Non mi sono accorta, per esempio, di tutto il tempo che è passato, da quando sono entrata sino a poco fa. Certo, se come sembra il film è autobiografico, Fellini deve avere attraversato una bella crisi. Se fossi sua moglie, tanto per cominciare, mi sarei offesa a morte”. ENEA CASALI, militare - “Non so come facciano a dire che è un capolavoro. Ci sono delle buone cose, non voglio dire: ma per essere un capolavoro dovrebbe essere capito da tutti indistintamente gli spettatori. Né io né chi mi stava vicino, invece, abbiamo capito molto. È troppo confuso, ecco. Anche se gli attori recitano bene e su di loro non si può dire niente”. ARISTIDE VENTURI, commerciante - “È troppo lungo, come prima cosa. Poi è confuso, caotico. Si ha l’impressione che il regista non sapesse cosa dire e che abbia scelto così su due piedi di fare un film sulle sue esperienze. Certamente ci sono delle belle pagine, dei quadri interessanti; e anche la fotografia è molto bella. Ma nell’assieme mi sembra molto al di sotto di quel che si vorrebbe che fosse”. GRETA ADINOLFI, commessa - “A me è piaciuto. È un film difficile, ma ci sono delle cose molto belle. Per esempio i ricordi del bambino, gli approcci che tenta con le ragazze che lo hanno reso felice e che ormai non possono più consolarlo. Mastroianni è straordinario. Anche la Cardinale lavora molto bene, e così quell’attrice francese che fa la parte di Luisa, la moglie”.


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04-1963, Ernesto Baldo

Il gala al Capitol minuto per minuto.

È piaciuto? Si, però... Pareri discordi – Fellini, soddisfatto delle accoglienze del pubblico milanese, si ritira in una clinica di Ravenna per un periodo di riposo – Al termine della proiezione Giulietta Masina aveva il volto rigato di lacrime. Ore 1.15, da poco più di un’ora è finito il gala di “8 e mezzo”, davanti al Capitol ci sono ancora eleganti signore avvolte in visoni e signori in abito scuro che discutono l’ultima realizzazione di Federico Fellini. È l’inizio delle polemiche sollevate da questo film destinato a suscitare molte discussioni. Nell’interno del cinema “8 e mezzo” è stato salutato, alla fine, da un cordiale, anche se non unanime, applauso. Vi è stato un fischio e due grida di “bravo!” all’indirizzo del regista che sedeva nella prima fila della galleria fra la moglie Giulietta Masina e Anouk Aimée. Al suo ingresso in sala avvenuto sotto la luce dei riflettori, mentre i cineoperatori e i fotografi puntavano i loro obiettivi, gli spettatori lo hanno guardato con curiosità ma nessuno lo ha applaudito. Fellini era molto nervoso e si mangiava le unghie, come fa Mastroianni nel film. In un quasi religioso silenzio comincia la proiezione, tutte le poltrone sono occupate, molta gente siede sui gradini laterali della galleria. Dopo le prime immagini il pubblico appare disorientato, alla mezz’ora la perplessità degli spettatori di fronte alla sconcertante originalità del racconto si manifesta con un lieve brusio che si dissolve ben presto per far posto a una nuova e silenziosa attenzione. Dopo circa un’ora di proiezione c’è qualcuno che lascia la sala, ma si tratta per lo più di spettatori che non hanno trovato posto nelle poltrone ed hanno dovuto sedersi sui gradini, oppure stare in piedi. Fra questa gente c’è una signora accompagnata dalla giovane figlia, che alla domanda «perché se ne va?» risponde «mi sembra un film di fantascienza! È un film che vuol essere troppo intelligente e surreale». La giovane figlia conclude invece: «perché è noioso!». Altri spettatori, che lasciano in anticipo il Capitol commentano fra loro: «è


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un film fatto per la gente del cinema, che è la sola in grado di capirlo e di apprezzarlo profondamente». In sala, intanto, continua la proiezione. Nelle prima file c’è il giovane regista Guido Guerrasio che non sa celare il suo grande entusiasmo ad ogni inquadratura e alla fine commenterà: « “Otto e mezzo” ha una eccezionale potenza di immagine, un film così non potevano farlo che due uomini, Fellini e Bergman. Una confessione così coraggiosa e sincera non si era mai vista sugli schermi». Quando si riaccendono le luci Fellini ha il volto impregnato di sudore e gli occhi rossi. Ringrazia con quei suoi inchini un po’ impacciati il pubblico in galleria e della platea e saluta con le mani alzate. La moglie, Giulietta Masina, ha il volto rigato di lacrime. Conosce il film a memoria ma ogni qualvolta lo rivede, non sa trattenere la sua commozione. Mentre la gente sfolla si captano i commenti più disparati. C’è una signora che indossa un modello di Dior che dice al suo accompagnatore: «Vorrei sapere se questo film senza il nome di Fellini avrebbe suscitato tante curiosità». Un signore con i capelli brizzolati dice: «“Otto e mezzo” è profondo e interessante». Dietro di noi c’era, invece, una signora carica di gioielli, che al termine della proiezione, con molta convinzione, ha sentenziato: «Questo film è l’esaltazione del Concilio Ecumenico!» Evidentemente, la signora, colpita dai molti prelati sfilati sullo schermo, non ha capito niente. Fra i personaggi presenti ricordiamo al volo altri pareri: Tony Dallara: «È un film che mi farà pensare per molto tempo. È bellissimo e meritava applausi più calorosi. In “Otto e mezzo” si scoprono tante cose che ognuno di noi nasconde nel suo animo». Alberto Arbasino: «È semplicemente fantastico. Altro che la “Dolce vita”!». Anna Baj, giovane aspirante diva: «È favoloso! Avrei picchiato quello spettatore che si è permesso di fischiare». Dopo la proiezione del film, Federico Fellini e gli altri interpreti hanno partecipato a un party offerto dal produttore Angelo Rizzoli durante il quale il regista ha manifestato la sua soddisfazione per l’accoglienza del pubblico milanese alla sua ultima fatica: «La gente mi è apparta commossa e gli applausi sinceri. A Roma, forse, l’hanno gustato di più alla “prima”, ma c’era un pubblico prettamente cinematografico». Stamane gli ospiti d’onore del gala di ieri sera hanno lasciato Milano. Anouk Aimée è partita alle 7.40 per Roma dovendo trovarsi alle 16 sul set di Ci-


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necittà per una ripresa del film di Blasetti “Liolà”, tratto dalla commedia di Pirandello; Madeleine Lebeau ha dovuto rientrare di corsa a Parigi per uno spettacolo teatrale che da un mese la vede impegnata; Federico Fellini, invece, si ritirerà martedì prossimo in una clinica di Ravenna dove si riposerà per alcuni giorni prima di mettersi al lavoro per il suo nuovo film, che avrà come protagonista Giulietta Masina. A Fellini l’ispirazione di andarsi a rinchiudere in una clinica è venuta in un sogno. Evidentemente il personaggio di Guido Anselmi, il regista sul quale è incentrato il film, lo ha contagiato.


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04-1963, Enrico Pennini, Perotto (Ferrara)

Troppo difficile « 8 ½ » Quale operaio non ho le qualità per aprire un dibattito con il critico Antonello Trombadori sul film «Otto e mezzo» di Fellini, che, sui numero 7 di Vie Nuove, definisce l’ultima opera del regista italiano un autentico capolavoro. Vorrei comunque esprimere la mia opinione. Ho letto la critica di Trombadori prima di vedere il film e sono andato a vederlo soprattutto perchè alcuni miei amici mi avevano detto di aver capito poco o nulla di esso. Purtroppo, benché io mi sia sforzato di afferrare qualcosa, anch’io ho portato via poco da questo spettacolo, mi è rimasto solo una sensazione di pesantezza e l’ossessione delle immagini che ho visto. Penso che la stragrande maggioranza dei cittadini non saprà apprezzare «Otto e mezzo» come Trombadori e questo è dimostrato dal fatto che, dopo pochi giorni di programmazione e nonostante l’ottima pubblicità, qui vi era una sala di primo ordine deserta. Dovrei dire pertanto che è un capolavoro riservato ad una ristretta cerchia di intellettuali. Ma sarebbe stato molto più utile se Fellini avesse tenuto conto del reale livello culturale della maggioranza della gente, sulla scia della «Dolce vita», adoperando una narrativa ed un linguaggio più semplici: in quel modo Fellini avrebbe contribuito a migliorare il nostro livello culturale ed il suo film avrebbe potuto essere apprezzato e capito dalia maggioranza degli spettatori.


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Roma, 10-09-1963, Ferruccio Fantone

Fellini si Fellini no. Ovvero Provinciali oltre cortina Dunque, « 8 1/2 » di Fellini non sarà proiettato in Russia. I pochi ingenui che avevano intravisto nella premiazione del film al festival moscovita l’indzio di un processo di revisione ai rigidi canoni dell’estetica marxista, han dovuto affrettarsi ad annacquare il loro incauto entusiasmo sulla base delle successive dichiarazioni “ufficiali ” di numerosi esponenti della cinematografia (di stato) sovietica. Secondo queste dichiarazioni, il film di Fellini sarebbe “privo di luminose idee”, ”decadente”, ”opera lontana dalla vita del popolo un normale prodotto del mondo capitalista che non fa onore al suo autore. Al quale autore, si noti la delicatezza, non si è mancato di rivolgere un paterno augurio perché “possa superare nel futuro questo momento di abbattimento” e produrre opere più adatte al palato sovietico. Evidentemente, la confusione è la regola, in questi ultimi tempi, nel mondo d’oltrecortina. Il cinema è solo uno dei settori in cui la confusione impazza, ma certamente quello in cui la “bagarre ” diventa sempre più clamorosa. Così a « 8 1/2 », vincitore del Festival di Mosca, non sarà permesso di entrare nei normali circuiti russi, perchè non si abbia a pensare a un cedimento dei comunisti sovietici davanti alle ideologie occidentali. Di tutto comodo è al riguardo la giustificazione addotta dal presidente del comitato sovietico di stato per l’arte cinematografica, Alexei Romanov, che così si è espresso: “Il film di Fellini non sarà proiettato in Russia per il semplice motivo che un film, prima di essere proiettato deve essere acquistato. Ma prima di acquistarlo, bisogna chiedersi se sarà un successo e se le spese saranno coperte. Chiaro? Il signor Romanov si è chiesto se il film poteva essere un successo, ha deciso di no, ed è andato ad acquistare gli ignoti « Kozara » (Jugoslavia), «Ali nere» (Polonia) e «Nuda tra i lupi» (RDT), che evidentemente — secondo lui — hanno tutti i requisiti per essere dei successi. Onestà vuole che si ammetta anche l’acquisto da parte sovietica dell’altro film italiano presentato a Mosca, «Le quattro giornate di Napoli» : ma si tratta di un film sulla Resistenza quanto basta per far prevedere al signor Romanov grande successo di pubblico e concorde esaltazione della critica. A parte ogni considerazione sulle facoltà divinatorie del sig. Romanov (ritie-


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ne proprio che un cittadino russo esente da tare mentali possa risolvere il confronto tra un «8 1/2 » e un «Ko- zara » qualunque a favore di quest’ultimo), ci sia concesso un piccolo appunto alla sua dichiarazione. A un film di Fellini non si sta a chiedere quanti soldi porterà nella borsa del distributore: lo si proietta e basta. È un fatto culturale, sul quale si potrà discutere, ma dal quale non si può prescindere. Come non si può prescindere dai film di Bergman, o di Bresson, che magari non incassano una lira, ma che intanto in Italia arrivano, sia pure per destare l’esclusivo interesse dei palati fini da “cineclub”. E, guarda caso, in Italia arriva pure “L’infanzia di Ivan ” del cittadino russo Andrey Tarkovsky, un film fallimentare dal punto di vista economico, ma che ha il merito (discutibile) di. aver vinto mezzo Leone d’Oro alla scorsa edizione del Festival di Venezia. Lo ammetta, signor Romenov: in Italia siamo meno “provinciali”. E un tantino più liberi, via...


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La Tribuna del Mezzogiorno, Messina, 13-04-1963

Stasera critica a Fellini 8 e 1/2 L’ultimo film di Federico Fellini ha inevitabilmente suscitato anche, a Reggio decise anche se garbate polemiche. Per «Fellini 8 e 1/2» non c’è stata l’unanimità di consensi che aveva accolto il precedente impegno del regista, quella «Dolce vita» osannata in tutto il mondo come uno dei pilastri del cinema di tutti i tempi. In altra epoca; di «Fellini 8 e 1/2» si sarebbe parlato nel corso, di una serata organizzata del Circolo del Cinema, ma, questo organismo culturale ha finito di vivere da un pezzo e di conseguenza le discussioni sono, state improvvisate per le strade, nei bar. L’argomento, comunque, è invitante e non si esaurirà in breve tempo. I dirigenti del circolo culturale, «Tommaso Campanella» del rione Pellaro hanno pensato di indire una tavola rotonda per oggi alle ore 18, nei locali del circolo, affidando all’avvocato Francesco Zannino, al prof. Domenico Comi e agli universitari Giuseppe Marcianò e Pino Mantica il compito - tutti studiosi dei problemi del cinema - di introdurre la discussione.


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La Sesia - Vercelli, 16-04-1963, Antonio Palamà

Il Film di Federico Fellini «Otto e mezzo» Questo titolo in cifre porrebbe essere tradotto così: Il Regista - Dramma funebre in due tempi di Federico Fellini. Originalissimo, non semplice nella esatta versione del suo autore, consente molte interpretazioni per merito della sua impostazione scolastica: oggettivamente deterministica; soggettivamente arbitraria. Film senza parametri, cosmico, ribelle, fantascientifico. In una parola, libero. Il Regista muore di morte violenta, ma sarebbe inesatto pensare ad una tragedia perchè quel suicidio finale è soltanto allegorico e allegoricamente libererà il protagonista dai guai in cui si dibatte disperatamente. Guai che sono inibizioni, catene d’amore, la moglie gelosa alle calcagna, la megalomania dei gerarchetti, le dive di seconda mano che hanno ormai superato i limiti di età e continuano ad asfissiare, la tenerezza che babbo e mamma defunti continuano ad esercitare sul loro bambolo divenuto regista famosi (oh! amorevole genio ultraterreno). E ancora: la folla di vice, sottovice, aiutanti petulanti e inservienti inservibili e parassiti, autodive da strapazzo, l’ossessione pressante del produttore ignorante com una talpa e infine tutto il mondo di falsi valori che intorno ad un vero regista costituisce una vera calamità Il film ci offre un genere ripetiamo, originalissimo e affascinante ma che a tutta prima sembra brancolare in stesso, come spettacolo nello spettacolo, conforme alla moderna tendenza, teatrale ispirazione pirandelliana. Spettacolo troppo cerebrale, che diverte e avvince, ma a volta smarrisce. Siamo comunque cauti nel formulare giudizi e se solo azzardiamo un’opinione, la bisbigliamo perchè crediamo di aver assistito alla proiezione di un colosso che esige e merita riconoscimenti altamente qualificati e che pensiamo l’abbia ottenuti. Durante la proiezione una: voce al disopra del sibilo degli esse commentò che vedeva sequenze sconclusionate. Dobbiamo trascurare l’azzardo isolato o pensare che altri udendola abbiano a loro volta commentato che in fondo non è indispensabile far sapere agli altri che non s’è capito nulla di qualcosa e che piuttosto conviene starsene zitti o starsene a casa? Il regista sapendolo non penserà certo che non c’ è nulla di male se il pubbli-


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co si limiterà a starsene zitto, perchè così pensando dimostrerebbe di nutrire eccessivo ottimismo e non lo preoccuperebbe eccessivamente il fatto di parlare un linguaggio incomprensibile. Ci scusiamo con gli intenditori e con i critici se mai ci leggessero e scoprissero in noi un’intenzione critica di merito artistico (si capisce facilmente che non ci proponiamo nulla di ciò), che, potendolo, non daremmo certo il nostro contributo numerico per non accrescere la schiera degli «artisti incompresi» o mancati, come qualcuno più severamente giudica i critici, perchè se lo fossimo veramente, vorremmo esser compresi e faremmo di tutto per riuscirvi, non come fanno tanti di loro che parlano quasi esclusivamente a sé stessi, o quanto meno fra loro, ed ingannano gli artisti con l’untuosità e l’ignoranza, con l’untuosità, ignorano il pubblico e non servono l’arte. Riprendendo il tema principale diciamo ai registi dal talento consumato ed estroso di non affrettarsi troppo sulla via intrapresa di un genere che preferiscono, e ciò per non distaccarci ed escluderci anche da questo bene artistico che è il cinema. O l’arte con il suo filone creativo inesauribile non riceve più i mezzi necessari da un linguaggio semplice, vero, giusto, onesto, educalo senza essere monotono. O è vero che i sostenitori dell’assoluta autonomia dell’arte avvertono scompenso, detrazione nella semplicità che è in sé aspirazione primitiva e naturale ci liberazione? Non domandiamo perchè si rivolgano a preziosità estrose potendo invece imboccare le più libere vie dell’arte vera che come quelle del Signore sono infinite (ci sentiamo manchevoli di non definire l’arte vera): raccomandiamo solo di non abbandonare la vocazione professionale che meglio sa ottenere flussi di vivo contatto, cooperante e costante nello spettacolo, con cui si è certi di ottenere attenzione intellettuale e morale, suscitare interesse, acuire nel pubblico gusto e discernimento. Il film è un monito rivolto principalmente ai protagonisti, organizzatori e operatori dello spettacolo e, in grado subordinato, al pubblico degli spettatori. Noi di questo pubblico raccogliamo il monito e non mancheremo di tener presente il travaglio del regista. Ci auguriamo però che anche II mondo del cinema, nelle prime linee e nelle retrovie, faccia altrettanto. Al regista diciamo di procedere per gradi. L’esigenza è termine principale e deve marciare di pari passo con la scienza, ma la scienza è soprattutto l’uomo e l’esigenza fu e deve restare sua subordinata. Non si esiga la dittatura


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dell’esigenza nella creazione di un film, se no può accadere che invece di un capolavoro d’arte ne nasca uno di presunzione illegittima. Quello che stiamo dicendo è un tentativo di trasposizione per risolvere il problema del regista realisticamente. Il film invece si ripromette di farlo surrealisticamente dapprima mediante contrapposizioni argutamente bilanciate che suscitano piacevoli sensazioni con espedienti e ingegnosità scenici da mille e una notte e infine con una ballata che fa tirare un profondo respiro di sollievo. In essa scopriamo che certi sospetti coltivati nel corso dello spettacolo circa le inclinazioni del regista-protagonista, sono infondati. E anche i preti che ballano non sono una nota stonata. Al culmine della fanfaronata pubblicitaria il regista si spara un colpo alla testa. Fra le nebbie si mette in moto il carosello della concordia. Una massa eterea obbedisce docilmente al regista. Lo spettacolo a questo punto sottolinea la fede e raffermata autorità del regista, che al limite del suo immane lavoro preparatorio non giunge alla fine ma al confine. Che cosa è accaduto che di punto in bianco s’inscena un simbioso di animi placati intorno al regista? Tutto e nulla, si sono interrotte le passioni nel regista. Lo spettacolo finisce. Ha inizio il film «Otto e mezzo». Si gira.


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Oggi Piacenza, 22-04-1963, Giulio Cattivelli

Cat risponde a coloro che non hanno capito 8 e ½ L’arte non è facile, il critico fa il suo mestiere, la gente deve svegliarsi Dal critico cinematografico prof. Giulio Cattivelli riceviamo e pubblichiamo: Caro Concarotti, vorrei rispondere alla lettera di lunedì scorso alla signorina Rina Salvetti; alla quale il titolo da te apposto («Non sarebbe il caso di impiccare anche il signor Cat?»). Se rileggi bene la chiusa della missiva vedrai che dice soltanto: «Non si. sente il sig. C. come quel tal critico che Fellini impicca?»: Dunque chi propone di mandarmi alla forca sei tu, e ne prendo atto; ti credevo un amico, è scopro in te la vocazione del boia (per fortuna a corto di corda e sapone). Scherzi a parte, comincerò col ribattere all’affermazione più importante della lettore: non è vero che la vera arte sia accessibile: a prima vista a tutti quanti: una specie di Spirito Santo che tocca, dischiude e illumina le menti più ottenebrate. O almeno è però soltanto in certi casi. Per restare nel campo del cinema, esistono artisti grandissimi coma Chaplin che parlano un linguaggio semplice e universale (ma appunto per questo molta gente, lo scambiava soltanto per un giullare); e ne esistono altri come Bergman e Dreyer, di assai meno facile lettura. Il posto delle fragole è un bellissimo film, ma offre a uno spettatore sprovveduto” o maldisposto più o meno le stesse difficoltà di Otto e mezzo. Insomma, anche il pubblico deve metterci qualcosa, perlomeno la buona volontà e, in certi casi, un minimo di preparazione. La Divina Commedia è per definizione il sommo poema, ma ad affrontarlo senza una base culturale resta sullo stomaco. Perché il cinema dovrebbe essere diverso? Forse perché nel novanta per cento dei casi è semplice passatempo, a livello infantile? Ma qui stiamo parlando, è chiaro, del restante dieci per cento. E poi Otto e mezzo non è nemmeno un film tanto difficile. Cosa ha di difficile la confessione di un artista che ricapitola la propria crisi di artista e di uomo, e obbliga gli altri a rispecchiarvisi? Fellini adopera un linguaggio un po’ insolito, questo sì, fuori dagli schermi tradizionali, che bisogna cominciare ad accettare. È questione di strumenti, di tecnica, di esposizione. Voglio fare un esempio: la gentile lettrice immagini, anziché una storia oggettiva e


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convenzionalmente costruita di raccontare una giornata della propria vita mescolando i fatti esterni ai ricordi, ai pensieri, ai sogni e alle riflessioni che occupano la sua mente nell’arco delle 24 ore; vedrà che ciò che ne risulta non è molto lontano dalla tecnica di Fellini, una tecnica già ampiamente usata in letteratura e anche nel cinema, la rappresentazione di una realtà globale e “aperta”, non meno, ma anzi più reale di quella del solito racconto “chiuso” con un capo, un corpo e una coda. Film come Otto e mezzo sono importanti anche per il loro valore di rottura, proprio perché percorrono i tempi e fanno “scandalo” nell’accezione evangelica del termine («bisogna che gli scandali avvengano»), provocando il pubblico e obbligandolo a levarsi i paraocchi. È questo il vero male: la pigrizia mentale, la voluttà di star tappati nel proprio guscio, il fastidio del nuovo, in una una parola il conformismo. Diciamolo con garbo: è tempo che la gente si svegli, che non si creda meno intelligente di quello che è. E santo cielo il critico fa il suo mestiere come chiunque altro: seguendo le regole della società e della specializzazione professionale. Non può dire che un bel film è brutto solo per adeguarsi ai gusti di un pubblico domenicale: sarebbe come se un medico, per compiacere una clientela superstiziosa, adottasse le terapie degli stregoni di campagna. Naturalmente il critico (come il medico) può sbagliare diagnosi. In questo caso però bisognerebbe dimostrarglielo con solidi argomenti. Ma il dire: «Non voglio capire ne pensare» è il più povero e il meno civile degli argomenti. P.S. Il bello è poi ripensando, che quando le lettrici definiscono l’arte come atto di magia e folgorazione improvvisa, viene proprio a coincidere con le conclusioni di Fellini, l’unico punto del film su cui non sono d’accordo. E allora è forse inevitabile che mi rassegni a salire il patibolo.


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Gazzetta Mestre Terraferma, 23-05-1963, Paolo Babini

rappresenterà l’italia a mosca

Otto e mezzo Si è tanto parlato di questo film e in tutti i sensi, che sembra quasi che non se ne possa dire più nulla: di «Otto e mezzo» hanno fatto successivamente una biografia del regista, un grande documento di costume, un’opera surrealistica, senza trama e senza significato. Ma ciò che più è sembrato animare il pubblico non è stata tanto tutta questa critica più o meno favorevole, quanto l’aver capito o meno la pellicola in questione. In campi opposti si sono successivamente schierati quelli che hanno detto del film «semplice! lampante!» e quelli che si sono stretti nelle spalle e modestamente hanno riconosciuto di non averci capito nulla: non sapremmo se queste due posizioni siano effettivamente da prendersi. In verità la pellicola è stata un pochino bizzarra, ma non al punto di essere costretti a dire di essa che non si è capito niente o poco: ma non è stata poi così semplice come gli altri affermano. Ma cos’è stato, poi, questo Otto e mezzo? Un gran bel film, di quelli che ormai stanno lentamente scomparendo dai nostri schermi, ma che ci vengono opportunamente in mente ogni qualvolta andiamo a vedere in filmetti imbrogliapopolj. È la storia stessa del film, e non necessariamente la storia del film di Fellini: diremmo invece la storia di come può nascere un film di un grande regista: e se ne illustrano tutti i preparativi, e i precedenti e tutto ciò che concorre all’attuazione di esso. Abbiamo il regista — un eccellente Mastroianni — i tecnici, gli attori, il produttore e un po’ tutti i personaggi che vivono nel mondo del cinema: costoro animano un intreccio complicato, fatto parte di sogni e parte di realtà. Un noto regista è dunque assillato dall’idea di fare del cinema: ne conosce i personaggi, li ha voltati e rivoltati nella mente, li ha scavati a fondo psicologicamente, li ha arricchiti di una personalità; ha una certa idea di quali potranno essere gli attori che li impersoneranno ed anche ha in sè, diciamo, quello che è il germe della opera sua. Per giunta è affascinato da alcune scene che introdurrà nella pellicola: l’unico problema, il più grosso, è come


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cominciare il film, come distribuire le scene, come finirlo. Diventa allora il dramma della vaghezza che non vuole schiarirsi, del velo di maya che offusca le immagini e non riesce a sollevare: dietro quel velo c’è tutto il fil, bello, chiaro, lampante: ma come vederlo? Ciò che più è notevole ed essenzialmente poetico nella pellicola è l’assoluto realismo di essa: realismo del sogno, realismo della vita di’ questo regista. Forse accompagnato da una punta di ironia, la quale però non guasta anzi arricchisce. L’ironia, non pesante e beffarda, ma assai tenue e ben condotta, sta forse nel fatto che sotto sotto l’idea del film, che è nella mente del regista, è in fondo la ricostruzione della vita del regista stesso: e il fatto non gli è ignoto, ma come il protagonista del film che egli vuol dirigere nella sua vaghezza non riesce a combinare niente di definito — perchè non sa concludere nulla secondo il suo tenore di vita e il suo modo di concepire la vita —, così egli stesso non riesce a concludere nulla, perchè nella società in cui egli vive, tutto è diverso, fragile, vago e contrastante. Egli comprende si e no che solo mutando se stesso potrebbe risolvere la faccenda, cosa ardua questa in quanto significherebbe riconoscere di aver finora sbagliato. Solo alla fine egli sembra comprendere ciò e con una impennata cerca di vedere i suoi problemi da quel punto di vista che moglie, produttore e l’ambiente, in cui vive, gli indicano come il più giusto e ragionevole: ed ecco finalmente - la-prima scena de! film —o l’ultima? — svolgergli davanti senza quel fastidioso velo di Maya che prima gliela celava. Niente polemiche, niente problemi morali o sociali: solo il dramma di un grande regista, della vaghezza di un capolavoro, di una vita sbagliata. Altro non c’è eppure esso è un’ottima opera.




CONCLUSIONI


192

MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA


CONCLUSIONI

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Nuove prospettive di ricerca sulla censura Al termine di questa ricerca, si può arrivare a sostenere che la dimensione censoria nel cinema ha assunto dei risvolti inaspettati e interessanti, se si fa riferimento ai due casi studio presi in analisi. Nei capitoli di questa tesi si è più volte evidenziato come il meccanismo di censura sia in realtà il risultato di un gioco di forze fra le parti, le quali utilizzano gli stessi dispositivi, ovvero le leggi e gli strumenti del cinema, per modulare ciò che è ritenuto visibile, secondo la morale ed il giudizio dei poteri e dell'opinione pubblica. Sicuramente la censura si conferma uno strumento di controllo molto potente. Ogni concetto di censura è solidale con determinate strutture ed immagini di potere. Se ci limitiamo a considerare l'intervento censorio solo alla fine del processo (nel momento in cui il film viene tolto dalla circolazione, o la rivista ritirata), abbiamo una concezione riduttiva del potere. Eppure è questa immagine terminale del potere che maggiormente ha attirato l'attenzione e che ha dato origine alle più diffuse teorie sulla censura.1 Non possiamo dimenticare però i mascheramenti, le parti tagliate, gli elementi scartati, i pezzi buttati dalle pratiche censorie, perché essi costituiscono una parte mancante del cinema, ed in qualche modo potrebbero aver cambiato il senso di molte opere e delle volte anche coinvolto la fortuna/sfortuna dei registi. Il cinema, per sua natura è una forma d'arte di straordinario impatto

1 Remo Bodei, Sapere, nascondere, deformare. Modelli teorici di censura in Strategie e pratiche della censura, Regione Emilia Romagna-Assessorato alla Cultura, Ferrara-Bologna, 1980, p.13


194

MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

visivo ed emozionale, ma d'altra parte deve essere anche essere considerato per la sua qualità massmediale ed il suo conseguente sistema di produzione. La contraddizione più grande è che la censura sia sprofondata nel processo produttivo, fino ad essere associata al modo di produzione cinematografico, secondo modelli sia culturali-concettuali, che strutturali. Per questo considerare il problema soltanto da un punto di vista ideologico e politico, oggi, è a mio parere insufficiente. Si può ritenere invece, che la censura abbia cambiato, seppur parzialmente, la logica produttiva del cinema italiano degli anni Sessanta non essendo più esclusivamente un intervento dall'esterno sui film, ma per certi versi una pratica interiorizzata. A tal proposito sono ancora esplicative le parole del filosofo Remo Bodei: È assolutamente vero, che per esempio negli anni '50 meritorie battaglie contro la censura che hanno mobilitato attori, registi, uomini di cinema, intellettuali, ecc. e che erano contro la censura andreottiana, finivano poi spesso per firmare degli auspici di leggi che rafforzavano, per esempio, dei sistemi distributivi o dei sistemi produttivi che erano per se stessi all'interno censori. E quindi non si capiva che non bastava a combattere un certo tipo di censura e che a volte, addirittura, combattendo quella non solo se ne dimenticava un'altra, ma si rischiava perfino di rafforzare. Capisco che si possa dire, per esempio, che la censura produce astuzia. Qualche anno fa mi raccontavano che quando si cominciava a fare i telefilms (allora si chiamavano in un altro modo) americani, si dovevano fare con una certa misura anche di tempi e, quindi, di struttura del prodotto perché questa era condizionato alla pubblicità, ed il trovarsi davanti a una serie di difficoltà stimolava il cervello. Tuttavia non si può neanche dimenticare che questo produca effetti molto gravi, mi pare infatti che, lo scopo dell'analisi debba andare oltre il vecchio concetto di censura, debba cercare di capire come la censura oggi è sprofondata nel processo produttivo, e debba servire innanzitutto per cogliere quali equivoci e quali aree ha lasciato scoperto il vecchio tipo di concezione della censura.2

2 Giovanni Cesareo, Segreto delle fonti e autocensura del processo produttivo dell’informazione, Regione Emilia Romagna-Assessorato alla Cultura, Ferrara-Bologna, 1980, p. 53


CONCLUSIONI

195

Si pone la necessità di considerare le strategie del mercato cinematografico, anche in funzione di dinamiche autoregolative e preventive, indubbiamente causate da motivazioni economiche o di ordine morale. Per queste ragioni credo che oggi sia davvero utile rileggere la storia della censura cinematografica, in relazione anche a singolari aspetti della cultura e del costume italiano e più in generale, riflettere sull'influenza del cinema nella mentalità collettiva. Infatti, all'inizio degli anni Sessanta, il cinema italiano e contemporaneamente la tv, hanno avuto una capacità incredibile di strutturare memoria, formare categorie e divulgare storia e idee a livello di massa. Se pensassimo ai meccanismi di censura e di controllo, in chiave moderna, diremmo che sono certamente più sottili e meno visibili, con un aspetto diverso da quello del giudizio morale, o del controllo sull'oscenità e sulla violenza. Ma non per questo ci illudiamo che siano definitivamente estinti nell'ambito dei mezzi di comunicazione. Il lavoro di ricerca condotto fra la Cineteca di Bologna e il Centro Sperimentale di Roma e l'incontro con alcuni "testimoni" della vicenda mi ha molto appassionato e mi ha fatto scoprire questa vicenda poco conosciuta, che sicuramente meriterebbe più attenzione per la sua varietà d'interpretazioni e per l'incredibile legame con il presente. Infatti, il progetto ministeriale Italia Taglia, promosso dalla Direzione Generale per il Cinema e realizzato dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con l'A.N.I.C.A. (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e multimediali), muove dalla necessità di conservare e catalogare frammenti, metri o intere bobine di pellicola sottoposte alla censura e creare una banca dati che raccolga le informazioni più significative, tratte dai visti di censura, di ciascun film sottoposto alla revisione cinematografica dal 1913. Si delineano così prospettive e nuovi orizzonti progettuali e di ricerca sull'operato della censura cinematografica in Italia, sui titoli delle opere sottoposte a tagli, il loro contenuto, la loro entità e la relative motivazioni. La sfida maggiore di questo progetto è stata sicuramente la fase di ricerca delle fonti, e la comprensione trasversale delle problematiche legislative della censura in relazione anche agli sviluppi tecnici del mondo del cinema. La chiave di lettura della tesi (probabilmente sperimentale) iniziata


196

MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

con lo sviluppo del saggio di Antonio Costa, mi ha permesso di concentrare gli sforzi su un aspetto davvero unico, ovvero quello della manipolazione delle immagini filmiche. Ammettendo la difficoltĂ di tenere insieme una materia cosĂŹ vasta e complessa, oltre che il limite di un lavoro svolto singolarmente, la tesi si pone come materiale di base, dalla quale partire per produrre future ricerche, sviluppare progetti, produrre interviste e documentazione sul tema.


197

APPENDICE A

Fonti iconografiche


198


FONTI ICONOGRAFICHE

1

3

1 - 2 Scene del film Il tetto, regia di Vittorio

De Sica (Italia, 1955) 3 Locandina originale del film Il tetto, prodotto

dalla Titanus film

199

2


200

4

5

4 - 5 Locandine originali del film Il grido, prodotto

6 - 7 Scene del film Il grido, regia di Michelangelo

da Franco Cancellieri, Spa Cinematografica, Robert

Antonioni (Italia, 1957)

Alexander Productions Inc.


FONTI ICONOGRAFICHE

6

7

201


202

8

9

8 - 9 Scene girate in spazi esterni del film

L’anno scorso a Marienbad, regia di Alain Resnais (Italia-Francia, 1961)


FONTI ICONOGRAFICHE

10

11

10 - 11 Scene girate in ambienti interni del film

L’anno scorso a Marienbad, regia di Alain Resnais (Italia-Francia, 1961)

203


204

12

13


FONTI ICONOGRAFICHE

205

14

15

12 - 13 Monica Vitti interpreta il personaggio di

14 - 15 Locandine originali del film L’avventura

Claudia ne L’avventura di Michelangelo Antonioni

di Michelangelo Antonioni, prodotto da Amato

(Italia-Francia, 1960)

Pennasilico per Cino Del Duca


206

16

18

16 Hannes Messemer e Vittorio De Sica in una

scena del film Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini 17 Vittorio De Sica e Sandra Milo in una scena del

film Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini 18 Primo piano di Vittorio De Sica in una scena

del film Il generale Della Rovere regia di Roberto Rossellini, (Italia-Francia, 1959) prodotto da Moris Ergas

17


FONTI ICONOGRAFICHE

19

21

19 - 20 Scene del film Tutti a casa, regia di Luigi

Comencini (Italia-Francia, 1960) prodotto da Dino De Laurentiis cinematografica e Orsay Film 21 Scene del film con Alberto Sordi nel ruolo

del Sottotenente Alberto Innocenzi in Tutti a casa di Luigi Comencini

207

20


208

22

22 Sophia Loren nel ruolo di Cesira ne La ciociara,

regia di Vittorio De Sica (Italia-Francia, 1960)


FONTI ICONOGRAFICHE

23

23 - 24 Locandine originali del film La ciociara

prodotto da Carlo Ponti e distribuito da Titanus film

209

24


210

25

26

25 - 26 Scene del film I vitelloni, regia di Federico

Fellini (Italia-Francia, 1953), casa di produzione Peg Films, Cite Films


FONTI ICONOGRAFICHE

27

28

27 Scene del film con Marcello Mastroianni e Alain

Cuny ne La dolce vita, regia di Federico Fellini (Italia-Francia, 1960) prodotto da Angelo Rizzoli e Giuseppe Amato e distribuito da Cineriz 28 Scene del film con Anita Ekberg nel ruolo

di Sylvia ne La dolce vita (1960)

211


212

29

31

29 - 30 Scene del film I dolci inganni di Alberto

Lattuada con Catherine Spaak nel ruolo di Francesca (1960) 31 Titoli di testa de I dolci inganni, regia di Alberto

Lattuada (Italia-Francia, 1960), prodotto da Silvio Clementelli e distribuito da Titanus film

30


FONTI ICONOGRAFICHE

32

34

32 Entrata del pubblico nel cinema in Nuovo

Cinema Paradiso, regia di Giuseppe Tornatore (Italia, 1988) 33 Pubblico in sala in Nuovo Cinema Paradiso,

regia di Giuseppe Tornatore (Italia, 1988)prodotto da Franco Cristaldi e distribuito da Titanus film 34 Scena del film Nuovo Cinema Paradiso

con Philippe Noiret e Salvatore Cascio, mentre procedono all’operazione di revisione della pellicola

213

33


214

35

37

35 - 36 Scene del film Il cammino della speranza,

regia di Pietro Germi (Italia, 1950) 37 Locandina originale de Il cammino della speranza

(Italia, 1950), prodotto da Luigi Rovere

36


FONTI ICONOGRAFICHE

38

40

38 - 39 Scene del film La donna scimmia,

regia di Marco Ferreri (Italia-Francia, 1964) con Ugo Tognazzi e Annie Girardot 40 Locandina originale de La donna scimmia (1964)

di Marco Ferreri, prodotto da Carlo Ponti

215

39


216

41

42

41 Primo piano di Mario Cipriani nel ruolo

di Giovanni stracci in La ricotta (1963) 42 Scena del film La ricotta, regia di Pier Paolo

Pasolini (Italia-Francia, 1963) prodotto da Angelo Rizzoli, Alfredo Bini, Alberto Barsanti


FONTI ICONOGRAFICHE

43

43 Sequenza dell’intervista fatta da TV7 nel 1972

al regista Pietro Germi

217


218

44

44 Un esempio di macchina Moviola


FONTI ICONOGRAFICHE

219

45

46

47

48

45 - 46 Esempi di colorazione manuale con

47 Esempio di imbibizione, ottenuta grazie

colori all’anilina, applicati dalle operaie delle

all’applicazione di una vernice colorata sul

case produttrici direttamente sulla pellicola con

supporto o mediante imbibizione della gelatina in

pennellino. Questa tecnica rimanda alle colorazioni

una soluzione acquosa di materie coloranti o con

già in voga per i vetrini da lanterna magica.

l’utilizzo di una pellicola già colorata in partenza

La colorazione a mano ha maggior diffusione nei

48 Esempio di viraggio nel quale un sale metallico

primi anni del cinema, tuttavia continuerà a essere

colorato si sostituisce all’argento dell’emulsione

sporadicamente utilizzata fino all’epoca sonora.

senza tingere la gelatina del film


220

49

49 Esempio di macchina Truca, utilizzata per alcuni

effetti speciali e l’inserimento di maschere sulla pellicola


FONTI ICONOGRAFICHE

221

50

51

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53

50 - 51 - 52 - 53 Alcune scene del film Brucia ragazzo

brucia, regia di Fernando Di Leo (Italia, 1969) dove la censura impone l’alleggerimento della sequenza erotica con una retino


222

54


FONTI ICONOGRAFICHE

223

55

56

54 Visto di censura n. 32871 rilasciato dal Ministero

55 Ciak d’inizio del film Rocco e i suoi fratelli, regia

del Turismo e dello Spettacolo il 27 settembre

di Luchino Visconti (Italia-Francia, 1960)

1960. Fonte: Italia Taglia, progetto di ricerca sulla

56 Immagine del congresso Titanus nel 1959 a

censura cinematografica in Italia, promosso da

Stresa

MiBAC (DGC) e Fondazione Cineteca di Bologna. www.italiataglia.it


224

57

58


FONTI ICONOGRAFICHE

59

60

57 - 58 - 59 - 60 Articoli di giornale sul caso di Rocco

e i suoi fratelli e i problemi con la censura

225


226

61

63

61 - 62 Goffredo Lombardo, proprietario della casa

di produzione Titanus 63 Logo della casa di produzione Titanus film

62


FONTI ICONOGRAFICHE

64

64 Arrivo alla stazione di Milano della famiglia

Parondi in Rocco e i suoi fratelli, regia di Luchino Visconti (1960)

227


228

65

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67

68

65 - 66 - 67 - 68 Scene del film Rocco e i suoi fratelli,

69 Scena del film Rocco e i suoi fratelli (1960), con

regia di Luchino Visconti (1960), prodotto dalla

Alain Delon nel ruolo di Rocco

Titanus film

70 Scena censurata del film Rocco e i suoi fratelli

(1960) con Renato Salvatori nel ruolo di Simone e Annie Girardot nel ruolo di Nadia


FONTI ICONOGRAFICHE

69

70

229


230

71

71 Scena del film Rocco e i suoi fratelli (1960),

con Max Cartier nel ruolo di Ciro


FONTI ICONOGRAFICHE

72

72 Scena del film Rocco e i suoi fratelli (1960),

con Max Cartier nel ruolo di Ciro e Rocco Vidolazzi nel ruolo di Luca

231


232

73


FONTI ICONOGRAFICHE

233

74

75

73 Visto di censura n. 39461 rilasciato dal Ministero

74 - 75 Rassegna stampa su Otto e mezzo, regia

del Turismo e dello Spettacolo il 7 febbraio 1963.

di Federico Fellini (Italia-Francia, 1963). Fonte:

Fonte: Italia Taglia, progetto di ricerca sulla censura

Archivio Rizzoli presso il Centro sperimentale di

cinematografica in Italia, promosso da MiBAC

Cinematografia di Roma

(DGC) e Fondazione Cineteca di Bologna.


234

76

77

76 - 77 - 78 - 79 Rassegna stampa su Otto e mezzo,

regia di Federico Fellini (Italia-Francia, 1963). Fonte: Archivio Rizzoli presso il Centro sperimentale di Cinematografia di Roma


FONTI ICONOGRAFICHE

235

78

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236

80

81


FONTI ICONOGRAFICHE

237

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83

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85

80 - 81 Scena onirica del film Otto e mezzo, regia

82 - 83 - 84 - 85 Scena onirica del film Otto e mezzo,

di Federico Fellini (Italia-Francia, 1963), mentre il

regia di Federico Fellini (Italia-Francia, 1963),

protagonista Guido sogna di volare

mentre il regista Guido immagina un incontro con i genitori morti


238

86

87

88

86 Anouk AimĂŠe nel ruolo della moglie Luisa

89 Confessionale progettato dallo scenografo Piero

in Otto e mezzo (1963)

Gherardi per Otto e mezzo (1963)

87 Sandra Milo nel ruolo dell’amante Carla

90 Flashback del protagonista Guido al periodo in

in Otto e mezzo (1963)

cui frequenta la scuola cattolica

88 Claudia Cardinale nel ruolo di Claudia

in Otto e mezzo (1963)


FONTI ICONOGRAFICHE

89

90

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91

92


FONTI ICONOGRAFICHE

241

93

94

95

91 Scena onirica dell’harem con Marcello

93 - 94 - 95 Scena onirica in cui tutti i personaggi

Mastroianni e Sandra Milo

camminano sulla spiaggia vestiti di bianco

92 Scena onirica dell’harem con Marcello

in Otto e mezzo (1963)

Mastroianni con primo piano su Madeleine LeBeau nel ruolo di Madeleine, l’attrice francese


242

96

97

98

99

96 Marcello Mastroianni in una sequenza finale

del film Otto e mezzo (1963) 97 Primo piano di Ian Dallas, nel ruolo

di Maurice il telepata nella scena finale del film Otto e mezzo (1963) 98 - 99 Scene della sequenza finale del film

Otto e mezzo (1963), in cui Guido chiama tutti i personaggi del film per un girotondo


FONTI ICONOGRAFICHE

100

100 Scene della sequenza finale del film Otto

e mezzo (1963), in cui tutti i personaggi compiono un girotondo

243


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA


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APPENDICE B Le interviste


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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA


INTERVISTE

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Intervista ad Antonio Costa Durante il Convegno Internazionale sul tema delle censura organizzato dall’Università di Bologna con la Yale University, svoltosi a Bologna tra il 10 e il 12 dicembre 1998, Lei ha introdotto il concetto di “forbici creative”. Cosa intende esattamente con questa definizione? Avevo dato questo titolo, provocatorio e paradossale, al mio intervento sulla censura cinematografica, prendendo spunto da Béla Balázs. È noto che è stato Balázs a introdurre il concetto di forbici creative per definire il montaggio. Ma lo stesso Balázs, trattando della censura, aveva raccontato il caso del film di Ejzenštejn, La corazzata Potemkin, che era stato distribuito nei paesi scandinavi, con la clausola che niente dove essere tolto o aggiunto. Gli scandinavi rispettarono il patto, ma intervennero sul montaggio (ecco le forbici creative): con alcuni spostamenti nell’ordine delle sequenze, ottennero, come dice Balázs, la trasformazione del film più rivoluzionario in un film controrivoluzionario. Il riferimento a questo episodio raccontato da Balázs mi permetteva di introdurre l’idea che le forbici non sono l’unico strumento in mano alla censura, o meglio che la censura non sempre usa le forbici per tagliare. Balázs aveva chiamato questo paragrafo del suo libro La truffa delle forbici. In realtà nel mio intervento volevo mettere in discussione l’idea che la censura sia un organismo amministrativo che si limita a tagliare. Il ragionamento che facevo era questo: se chiedo ai miei studenti del primo anno qual è l’etimologia della parola censura, sono certo che almeno una metà o forse si arrampicherà su deboli ricordi di latino per cavare fuori la coniugazione del verbo caedere (tagliare) piuttosto che riferirsi alla giusta etimologia dal verbo censere (valutare). Quella del censore nel mondo latino era la carica di colui che doveva valutare il reddito dei cittadini e stabilire la classe di appartenenza: il censore nel mondo latino non toglieva, ma attribuiva diritti e doveri. La censura verifica il rispetto dei diritti e doveri di un prodotto, dopo di che gli attribuisce il visto. L’attività principale della censura è di emettere il visto, quindi di trasformare un artefatto in una merce dotata di valore: solo così la pellicola potrà iniziare il suo ciclo di sfruttamento commerciale.


248

MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Inoltre citavo i casi in cui l’intervento della censura consisteva in un’aggiunta e non in una sottrazione, per esempio il caso di La guerra e il sogno di Momi (1917), un film di propaganda bellica realizzato con grande disponibilità di mezzi dall’Itala Film di Torino che lo affidò alle cure del mago degli effetti speciali Segundo de Chomón, con la supervisione di Giovanni Pastrone. Il film si concludeva con la didascalia «Pax». La censura, preoccupata di fugare ogni possibile sospetto di pacifismo generico e rinunciatario, richiese di integrare la didascalia con l’aggiunta dell’aggettivo «vittoriosa» (ecco quanto era prescritto dal verbale della commissione di censura «L’ultima didascalia che leggessi sulla pellicola deve essere PAX VITTORIOSA e non semplicemente PAX»). Un altro caso che citavo erano appunto i viraggi aggiunti ad alcune sequenze di Otto e mezzo di Fellini, viraggi che – se mi è permesso un gioco di parole – non avevano lo scopo di oscurare le immagini (come era capitato nei viraggi di Rocco e i suoi fratelli), ma di chiarire il senso del film, differenziando le sequenze oniriche da quelle “realistiche”. L’ottusità della censura (in questo caso intervento spontaneo di alcuni distributori, a quanto pare, quindi autocensura) raggiunge livelli sublimi: per salvaguardare lo spettatore (da cosa? dalla poesia?) si distrugge il senso di un’opera. Come si può vedere è quando la censura aggiunge (e per di più sua sponte) che dà il meglio, cioè il peggio, di sé. Si può ritenere che l’intervento censorio possa aver influito sulla produzione cinematografica modificando determinati valori estetici o linguistici del cinema stesso? Il cinema classico, la cui stagione più creativa ha coinciso con il periodo in cui furoreggiava il Codice Hays, codice di autocensura, si badi bene, è stato un periodo in cui i cineasti sono stati costretti ad autentiche acrobazie, ad autentiche invenzioni per potere esprimersi, per riuscire a dire senza mostrare cose non erano tollerate. Ciò ha affinato l’arte dei cineasti e li ha costretti a ricorrere all’elisione, alla reticenza, alla sineddoche, alle metafore: insomma a tutte le risorse della retorica per poter esprimere ciò che non era direttamente mostrabile. Ciò ha sicuramente contribuito a definire certe caratteristiche dello stile classico. Questo, intendiamoci bene, non assolve nessuna censura dai suoi crimini e dalle


INTERVISTE

249

sue nefandezze, semmai accresce la nostra ammirazione per i cineasti, per quello che sono riusciti a esprimere nonostante la censura. Del resto, Christian Metz, nel suo libro Il significante immaginario, che ha come orizzonte di riferimento il cinema classico, ha messo in evidenza i nessi che esistono tra i meccanismi della censura nei processi psichici e i regimi censori del cinema classico (uno degli ultimi capitoli del libro, quello che si chiama La censura – sbarramento o scarto? è esemplare in questo senso. Nella mia tesi metto in relazione due casi studio, Rocco e i suoi fratelli di Visconti e Otto e mezzo di Fellini. Questi due film sono temporalmente divisi dalla nuova legge del 1962, che pone una più “moderna” visione dei regolamenti per la Commissione di Revisione cinematografica. Per entrambi i film viene praticato il viraggio di alcune scene, che seppur con finalità differenti, potrebbe essere letto come un intervento censorio. A suo parere, come può essere interpretato questo lavoro di manipolazione delle immagini e cosa il pubblico potrebbe aver percepito? Mi aspetto che sia lei, con il suo lavoro a fornirci materiali e idee. Per quanto mi riguarda, quando nel corso del convegno di Bologna del 1998 ho accostato i due casi non avevo forse nemmeno io ben chiaro fino a che punto fosse legittimo accostarli: tutti e due, ma soprattutto, quello sul film di Fellini, costituivano un intervento anomalo, che apriva scenari nuovi, inediti. Per il film di Visconti, poteva valere la considerazione che oscurare, annebbiare, sfumare è meno grave che sopprimere, tagliare. Quindi poteva essere visto come un segnale che la censura era disposta ad allentare le sue maglie, mitigare i suoi interventi. Per il film di Fellini poteva addirittura sembrare un intervento di explication de texte, come si fa nelle scuole francesi. Nell’uno e nell’altro caso, con il paternalismo di sempre e con un po’ di ipocrisia di più, si voleva, da una parte, salvaguardare il valore commerciale delle pellicole sancito dal regolare visto di censura che avevavono ottenuto (torna l’importanza dell’etimologia corretta) e dall’altra si voleva, ahimè!, salvaguardare lo spettatore dalla forza delle immagini, dal loro potere perturbante. Nell’uno e nell’altro caso, anche se con metodi nuovi, la censura confermava la sua vocazione repressiva. Ma dei due, forse il più grave è l’intervento sul film di Fellini,


250

MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

perché operava non sulla sfera della morale, ma su quello dell’estetica. Del resto, censura e magistratura hanno sempre avuto la vocazione di esprimere le loro idee in fatto di opera d’arte, subordinando la concessione o meno dei loro salvacondotti alla loro prerogativa di stabilire ciò che è opera d’arte o meno.


INTERVISTE

251

Intervista a Carlo Montanaro Il suo libro “Dall’argento al pixel. Storia della tecnica del cinema” mi è stato molto utile per comprendere molti dei meccanismi appartenenti all’evoluzione del cinema. Da quanto lei scrive, il concetto di cancellazione nel cinema in realtà nasce come un’operazione di sovrapposizione determinato dalle tecniche di montaggio. Può spiegarci meglio questo concetto? Di “montaggio” interno all’inquadratira e quindi all’immagine. Non di montaggio nel senso del’editing. Per citare un termine che temo sia uscito dalla quotidianità del fare cinema, il principio è quello dell’”impallare”. Ovvero sovrapporre dando risalto a quanto appare mentre nasconde quello che rimane, strumentale o meno, dietro. Perché anche le mascherature che stanno alla base della truccheria cinematografica creavano una sorta di puzzle di frammenti sovrapposti che permettevano proporre magie o semplicemente di ambientare una vicenda in un posto diverso da quello dove si stata girando la scena. Il digitale ha rivoluzionato tutto permettendo, invece, di “cancellare”. Ovvero di eliminare porzioni d’immagine: le gambe di un amputato, ma anche l’elastico che consente la simulazione super spettacolare della caduta di un cascatore. Il “chroma key” di origine televisiva ora permette intarsi di ogni genere, inserendo il corpo umano in qualsivoglia ambientazione. Non possiamo pensare al cinema senza prendere in causa l’evoluzione delle tecnica che direttamente lo riguarda. Nel suo libro, dedica una parte agli effetti speciali, che vengono utilizzati sistematicamente nel linguaggio cinematografico, come ad esempio bagni di colore, sovrapposizioni con la truca ed anche montaggi creativi. Secondo lei, questi strumenti possono essere stati sfruttati da registi e produttori, con il fine di aggirare i vincoli imposti dalle commissioni di censura, che imponevano dei tagli drastici alle pellicole? È successo, ma non in modo sistematico. Per celare un seno o un dettaglio anatomico ritenuto sconveniente, ma anche per far


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scomparire un dettaglio inutile e/o diventato inutile nel tempo come un personaggio politico caduto in disgrazia e quindi da eliminare. La truca per un occhio smaliziato è sempre visibile, ma non lo è per lo spettatore comune che non la percepisce più di tanto. Sempre in truca è possibile aggiungere segni e disegni. Censurando in modo più palese le scene con le “pecette”, ovvero i rettangolini neri tipici dell’idea stessa della censura, ma anche quei segni geometrici del “vedo e non vedo” che parecellizzando la visione diventano ancora più “pornografici” facendo volare alta la fantasia nella supposizione di quello che si sarebbe visto segna il pattern disturbante. Per “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti, Goffredo Lombardo nel 1960 pensa ad un escamotage temporaneo per oscurare le scene imputate dalla censura, servendosi dei proiezionisti in sala. Quali vantaggi produttivi portava questa operazione? Può inoltre chiarire come pragmaticamente avveniva l’operazione dell’oscuramento e cosa veniva percepito dal pubblico? È stata un’operazione unica e irripetibile. Si è inserito nel proiettore un cristallo temperato grigio scuro azionabile con una manopola. L’operatore, al momento opportuno presegnalato dalla forza pubblica che doveva vegliare sull’evento, azionando la manopola abbassava il filtro che, intercettando con la sua densità monocromatica il flusso della luce, rendeva poco leggibile quell’azione che, perfettamente percettibile per la parte sonora, non eliminava l’episodio dalla complessità del racconto e quindi dalla comprensione del film. È evidente che l’espediente rese eccezionale ogni proiezione anhe perché il film era comunque considerato, data la lunghezza, un evento. Evento che, da quel che ricordo, durò relativamente poco nel tempo risultanto impossibile nelle programmazioni di “proseguimento della prima visione” sia l’esecuzione che il controllo della limitazione del “vedere”.


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Intervista ad Enzo Natta Lei è un autore e un critico cinematografico molto esperto anche nel campo del sistema produttivo del cinema italiano. Inoltre ha fatto parte delle Commissione di Revisione cinematografica. Potrebbe descrivere meglio la sua esperienza ed i meccanismi al suo interno? Si tratta di esperienze diverse e, proprio perché su due piani completamente diversi, non hanno alcunché in comune se non un nullaosta ministeriale che consente al prodotto ultimato (il film) di circolare liberamente sul mercato. Andare a cercare un parallelo o qualsiasi altro rapporto interattivo fra queste esperienze è una forzatura inutile e si risolverebbe in un un arrampicarsi sugli specchi. È ovvio che ogni componente delle commissioni di revisione porta (o dovrebbe portare) nella consultazione e nel dibattito che seguono alla proiezione del film il contributo della sua professionalità e della sua competenza settoriale, ma al di là di questo dato specifico sono proprio i “meccanismi interni” a risultare non assimilabili a causa della loro divergenza. Se non addirittura per una forma di incompatibilità fra creatività da una parte e limitazione della creatività dall’altra. Nel settembre 1934, con il decreto n.1506 viene attribuito alla Direzione Generale, il compito di esaminare e revisionare i soggetti dei film di produzione nazionale, cominciando così con l’applicazione del principio della censura preventiva, già formulato nel 1919. Quanto ha influito a suo parere, tale pratica censoria, nella produzione cinematografica italiana? Quali sono stati gli effetti? Non abbiamo la controprova che consenta di valutare come sarebbero andate le cose se non fosse esistita la censura preventiva. Di conseguenza si possono fare soltanto congetture e si possono formulare soltanto ipotesi. L’idea fornirebbe però un ottimo banco di prova per un racconto di fantapolitica (un po’ sulla scia di quel che fece Ray Bradbury in quel bel racconto che è Caccia al dinosauro) in cui valutare i risultati e gli effetti di un cinema realizzato in un regime autoritario sprovvisto di


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censura preventiva. Di sicuro scatterebbe una forma di autocensura. Un fenomeno che per certi versi, pur all’interno di un sistema democratico, si verificò negli Stati Uniti con il Codice Hays fra il 1930 e il 1966. Nel 1935 nasce il Centro Cattolico Cinematografico, con il compito di formulare dei giudizi di carattere morale sui film programmati e sul tipo di pubblico adatto alla visione. Inoltre negli anni Sessanta, le sale cinematografiche parrocchiali si diffondono a macchia d’olio sul territorio nazionale, rappresentando circa il 50% di tutti i cinema. Quanto ha condizionato, secondo Lei, questa ulteriore classificazione sulle scelte degli italiani al cinema? Saprebbe anche descrivermi il clima che si respirava all’interno di queste sale e come si agiva nel caso di film censurati? Non penso che la rete delle sale parrocchiali abbia “condizionato” le scelte cinematografiche degli italiani. Negli anni ‘50, quando le sale parrocchiali erano circa 5 mila (periodo del massimo splendore), vale a dire circa la metà dell’intera rete dell’esercizio nazionale, erano sale di seconda o terza visione e programmavano film che avevano già trovato ampia diffusione nel circuito di prima visione. Non vedo, quindi, quale condizionamento o influenza avrebbero potuto esercitare sul pubblico. Il clima che si respirava in queste sale? Lo stesso che si respirava nelle altre, in quelle “laiche” tanto per usare una terminologia un po’ stantia e deteriorata. Forse l’ambiente era più popolare. Se non altro per il ridotto costo del biglietto. Come agivano le sale parrocchiali nei confronti di film che erano stati censurati? Le sale programmavano esclusivamente film che il Centro Cattolico Cinematografico aveva classificato “per tutti”, “per adulti” e “per adulti con riserva”. Quelli classificati “sconsigliati” o “esclusi” (e che quindi, presumibilmente, potevano aver incontrato qualche ostacolo sulla via del nullaosta) non rientravano nel loro criterio di programmazione. Così, in generale, quelli vietati ai minori di 14 e di 18 anni. Che, inevitabilmente, finivano fra gli “sconsigliati” o gli “esclusi”.


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Intervista a Teresio Spalla In quanto regista, ha svolto recentemente anche una funzione all’interno della Commissione di Revisione cinematografica. Potrebbe descrivere la sua esperienza? Devo premettere che non ho mai svolto, nella quadriennale partecipazione nelle commissioni di revisione, come per quindici anni in quelle per la “programmazione obbligatoria”, le funzioni di regista ma di “esperto della materia”. L’esperto, secondo lo spirito della Legge dovrebbe mediare, attraverso la sua competenza, tra i vari membri designati e successivamente indicati al ministro designante dalle categorie dello Spettacolo. Ma, mentre nella prima e lunga e ricca esperienza ciò avvenne effettivamente dato l’alto livello dei partecipanti e il gusto di tutti per trovare soluzioni adeguate sia al fattore artistico che economico; nelle commissioni di revisione, a parte qualche caso particolare, ho incontrato persone molto distratte che svolgevano l’incarico più per apatico dovere d’ufficio che per altro, e spesso senza un minimo di sensibilità pertinente. L’aspetto più squallido era però nel tipo di partecipazione e di piccolo potere interno che assumevano i rappresentanti delle associazioni dei genitori, delle famiglie, e di qualche altra entità a nome della quale nessuno dovrebbe ergersi a rappresentante ne tantomeno elargire giudizi a titolo di non si sa bene chi e perché. Costoro ragionavano (e probabilmente ragionano ancora) secondo concezioni di atroce soperchieria. Se un film presentava scene di violenza o di sessualità (anche minime) il giudizio era sempre negativo anche se si trattava di una pellicola interessante o di elevato pregio artistico. A meno che non si rendessero conto che, dietro queste esposizioni, non vi fosse un discorso politico dichiaratamente o furbescamente di retroguardia. In tal caso anche dei film indegni (il cosiddetto cinema “panettone” zeppo di turpiloquio, doppi sensi e una visione cialtronesca della società; e film stranieri imbevuti di tacita o dichiarata tematica retrograda) venivano lasciati passare senza divieto o col divieto ai quattordici anni che, nella pratica, significa che in sala il prodotto sarà visto da tutti e in tv, pur dovendo primariamente apparire


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dopo le 23.30, passerà in prima serata grazie al meccanismo dei ricorsi e dei tagli contrattati da cui spesso la commissione è estranea. Ricordo, per dare un esempio chiaro, un piccolo film proveniente dalla ex Jugoslavia che una casa di distribuzione minore aveva acquistato sulla scorta dei premi internazionali che questo prodotto aveva ottenuto in tutto il mondo. Non si trattava certo di una pietra miliare della storia del cinema e la mancanza di investimenti si sentiva perfettamente nella scelta di ambienti e interpreti. Eppure aveva un valore di interesse notevole poiché mostrava come, anche in un ristretto centro rurale dove sembrava finalmente dominare la pace e la solidarietà contadina dopo la guerra, all’improvviso poteva esplodere l’odio razziale e religioso sotto forma di violenza a una povera ragazza colpevole di essere rimasta incinta in seguito ad una storia d’amore con un uomo originariamente appartenente ad un’altra etnia. Ebbene quel film fu bocciato tra l’indifferenza dei rappresentanti delle categorie (tanto si trattava di una società troppo piccola per captare gli interessi di qualcuno tranne essa stessa) e con le maledizioni furibonde dei rappresentanti delle famiglie (sic) che, non stranamente, quel giorno erano accorsi tutti e non s’erano avvicendati a turno come di solito capitava. L’unico che si batté fino all’ultimo perché questo film non fosse cassato (non gli fu attribuito nemmeno il divieto ai 18 anni che significa l’estromissione, salvo tagli e compromessi ulteriori, dai passaggi televisivi notturni; che in sala avrebbe resistito solo un paio di giorno era chiaro comunque) fui io. Non riuscii nemmeno a convincere i rappresentanti dell’Anica e dell’Agis a non mandare in rovina quella società che aveva investito tutto in quel film. Riservavano i loro ardori alla difesa di produzioni che del loro impegno potevano largamente fare a meno. In quella circostanza mi resi perfettamente conto di come il mio compito di “esperto” significasse nulla in quella sede. Spesso rinvenivo solidarietà soltanto dai funzionari del Ministero presenti che, per esperienza, si rendevano conto delle mie ragioni ma non potevano certo staccarsi dalla loro funzione puramente istruttoria. E poi non avrebbero ricevuto che insulti o ammaestramenti da questi pudibondi cadaveri viventi i quali costituiscono, ancora oggi, il lascito di una concezione delle commissioni di censura degli anni cinquanta. Per essi, ignari di cosa sia il cinema, in quanto arte o industria che possa essere, l’”esperto” era soltanto un rompiscatole che doveva


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necessariamente soccombere sotto la loro compattezza ideologica. Rimasi deluso anche dai rappresentanti delle associazioni animaliste (c’erano anche quelle) i quali si vedevano raramente ma ogni tanto, se venivano avvertiti o annusavano la presenza di animali, e arrivavano in proiezione un po’ con lo stesso spirito delle signore delle congreghe genitoriali : trascorrere un pomeriggio al cinema, per di più gratis, potendo anche discorrere tra loro come stessero prendendo il the delle cinque, nemmeno fingendo di ignorare di trovarsi all’interno di un meccanismo istituzionale concepito come terreno di caccia per la loro curiosità da beghine e non come un laboratorio funzionale a qualcosa di ben più importante. Tutti coloro che lavorano nel cinema sanno che ormai, con sistemi di trucchi presenti da tempo ma che la lavorazione digitale ha migliorato fino a renderli obsoleti, la violenza su animali sui set non esiste. Può esistere il mostrare la violenza su animali (che però non mi capita di vedere dai tempi in cui ero bambino e, nei peggiori i western europei, si osava mostrare in piano ravvicinato gli speroni che ferivano i fianchi sanguinolenti dei cavalli; fatto di per se inesistente nella realtà in quanto un destriero ferito non ubbidisce al cavaliere lanciandosi in corsa ma si ribella e lo disarciona o si accascia e non si muove più). Ma questa minima conoscenza era estranea ai difensori degli uccelli e agli antivivisezionisti. Per quanto potessi essere d’accordo o meno con essi sulla loro scelta di vita, mi offendeva l’assoluta mancanza di erudizione su ciò che venivano a giudicare o con spocchia o con soperchieria. Per quale ragione un rappresentante della lega per la protezione dei fagoceri eritrei dovrebbe avere il diritto di far vietare o tagliare un film della cui genesi e del cui futuro non sa nulla; e su quali motivazioni poi se nel film in giudizio non vi sono animali e se vi sono non subiscono alcuna ingiustizia ne in realtà ne in finzione? Così, a causa di tutto questo andazzo a me poco avvezzo, iniziai a diradare la mia presenza e, ad un certo punto, quando si trattò di lasciare o proseguire quest’esperienza, che tra l’altro non mi rendeva nulla e costituiva un notevole spreco di tempo, lasciai perdere con gran piacere anche se qualche persona dabbene l’ho incontrata anche lì e qualche buona discussione tra pari s’è fatta. Ma quasi sempre fuori e non dentro la sala dove calava la picozza dei commissari-giudici.


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Secondo lei, quanto ancora influisce il giudizio di tali commissioni, sulla produzione cinematografica nazionale? Influisce sul destino di piccoli film italiani (magari prodotti con fondi regionali o addirittura comunali che non hanno l’ambizione di uscire dalle loro lande originarie) o film stranieri privi del sostegno di una distribuzione media o grande che sono però, è bene dirlo, in numero super esiguo. Per il resto le decisioni vere e proprie sui film vengono ben prima prese tra produttori e funzionari tv in quanto, come ho specificato già sopra, l’esistenza di un film in sala è solo la minima quota (se non in casi eclatanti che capitano una volta l’anno, se capitano) di quanto un prodotto cinematografico può piacere o incassare. Il resto avviene nella sua infinita vita sugli schermi televisivi dove, essendo stati di fatto censurati i film in bianco e nero (caso unico nell’Unione Europea e in paesi che ancora godono dell’influenza anglosassone-occidentale come Canada, Australia ecc), ormai da anni vanno in onda solo prodotti dagli anni ottanta in poi. E, in questo palinsesto governato dall’Auditel e dallo strapotere pubblicitario, può apparire di tutto, alla fine, per riempire gli spazi offerti da sempre più numerosi e ripetitivi canali digitalterrestri o satellitari. E se questo tutto sia passato sotto il giudizio non dico della censura ma almeno di una “commissione di qualità” (come esiste in Inghilterra, nei paesi scandinavi, in misura diversa in Francia e in Germania, non in Spagna dove la rinascita della libertà d’espressione ha purtroppo coinciso con la diffusione della reti private non immuni da influenze italiane) a quel punto non importa a nessuno. Del resto cosa c’è da temere per i bigotti e i campioni della retroguardia più ammuffita ? Se un film con forti componenti erotiche venisse vietato ai 18 anni e non potesse apparire sui canali “generalisti” esso farà la sua puntuale apparizione magari in “prima visione televisiva” sul satellite, dove non esiste controllo mentre, un mese dopo, apparirà in versione integrale in dvd non prima del passaggio in streaming. Al consumo sul web è ormai affidata la fruizione della pornografia che qualcuno mi dovrebbe spiegare come si possa realmente tenere lontana dai minori senza una scuola e una famiglia giornalmente impegnati a insegnare loro che non è l’esposizione di corpi nudi o la simulazione di affettuosità carnali a costituire in se un male ma il modo come ciò che necessariamente


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attrae ogni essere umano viene usato e commercializzato. In quanto alla presenza della violenza, per restringere l’attenzione alla programmazione normale di pellicole italiane o comunitarie o extracomunitarie (cioè per il 90% di provenienza Usa), essa in quanto tale è tenuta a bada così come la presenza esplicita di tematiche sessuali anche se, trattandosi di materiale acquistato a caro prezzo come nel caso di Sex in the City e Casalinghe disperate, vengono attuate delle ipocrite sanatorie. Tutto ciò, se prevalesse la qualità o l’arte sia in produzioni dedicate al grande pubblico che al cosiddetto “pubblico di nicchia”, non sarebbe un problema. Ma come si può parlare di qualità quando i pomeriggi, e orami anche le serate, degli italiani sono infarcite da programmi che portano al deterioramento della concezione dei sentimenti, della vita come esperienza solidale, stimolano soprattutto una vorace competitività in nome di obiettivi molto meschini. In realtà c’erano più sesso e violenza nella tv monopolista (anche se non si vedevano) e nel cinema degli anni sessanta e settanta (eccome se si vedevano) dove però sussistevano anche erudizioni al libero giudizio e ad una concezione più aperta e democratica della società in cui si viveva, insomma veniva dati strumenti atti a superare, criticare razionalmente, giudicare con raziocinio, tutto ciò che appariva sui grandi come sui piccoli schermi. Quindi se c’è oggi un cinema e un cinema per la tv pudibondo e attento alle mosse delle forze politiche di retroguardia, per questioni di soldi e di rimbecillimento della massa dei consumatori, è quello italiano. E allora a cosa serve la censura o questa forma detta delle commissioni di revisione che sarebbe più evoluta se non vi circolassero personaggi come quelli sopra descritti? A quasi nulla. Infatti le produzioni e le distribuzioni in definitiva se ne infischiano. Tanto, se in un caso su cinquanta esiste qualcosa che possa scatenare gli ormoni guasti degli ultimi autentici censori, gli accordi tra il direttore generale o alti funzionari del Mibac con le grandi distribuzioni ( a loro volta conniventi o in simbiosi con quelle televisive) faranno in modo che se un film deve passare passerà anche se immensamente e disgustosamente violento come, tanto per citare un esempio per fortuna non seguito se non nelle tante vandee statunitensi, quel film di Mel Gibson che interpretava la religiosità umana come un’esperienza di prevaricazione del dolore gratuito sulla libertà di credere in chi si vuole e pregare come si vuole. Nella mia esperienza mi sono così convinto


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che l’esistenza delle commissioni di revisioni sia utile oggi solo a certe signore che non sanno dove andare nei pomeriggi invernali e blaterano invano non conoscendo nemmeno la differenza che passa tra il cinema di Luchino Visconti e quello di Aristide Massaccesi. In passato l’istituzione della censura ha rappresentato uno strumento di potere nelle mani dei governi o dei vari procuratori. Rileva delle anomalie tutt’oggi all’interno del meccanismo di revisione cinematografica e ritiene che l’aspetto politico vincoli ancora alcune scelte, anche di carattere etico? Credo che alla base del suo ragionamento vi sia una casistica tutto sommato limitata anche se, in uno studio recente che non le sarà ignoto, si è mostrato quanto si sia sforbiciato e tagliato nel cinema italiano dal dopoguerra agli anni ottanta. E’ sempre la stessa sequenza di citazioni : gli innumerevoli tagli a Totò e Carolina e le gambe delle gemelle Kessler coi calzettoni; la messa al rogo di Ultimo tango a Parigi e l’espulsione di Dario Fo e Franca Rame da un innocuo varietà televisivo. A mio parere, quando la censura esisteva, ed esisteva eccome, le grandi e notorie violenze sono state perpetrare da individui isolati che hanno fatto pesare il loro parere in base a uno zelo del tutto personale ed esagerato ma non hanno condizionato la visione d’insieme che anche la Democrazia Cristiana, sia negli anni del centrismo che del centrosinistra, ha avuto di come doveva essere il nostro cinema che allora rivestiva un’importanza, nella società e nell’economia, come oggi sarebbe solo un sogno. In realtà le produzioni erano già allora assolutamente attrezzate per forme di autocensura preventiva. Gli autori, con grande abilità, cercavano di far passare lo stesso quel che potevano attraverso queste maglie. Ma come tanti grandi registi americani mediavano i loro contenuti ai tempi del maccartismo, in Italia esisteva una mediazione, soprattutto sui temi sociali e politici, che i bravi registi e gli arguti sceneggiatori sapevano come evitare. Sempre che i film si realizzassero e non rimanessero nel cassetto, come purtroppo è avvenuto frequentemente. D’accordo, gente riottosa e violenta impose l’oscuramento di una scena essenziale di Rocco e i suoi fratelli. Ma questo immenso capolavoro di Visconti uscì lo stesso nelle sale ed ebbe un successo straordinario; e che


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all’idroscalo Salvatori avesse abusato della Girardot l’hanno capito tutti lo stesso. Mi lasci preferire quei tempi ad oggi in cui di Visconti passa normalmente in tv un solo film – Il gattopardo - mentre delle sue altre straordinarie pellicole possiamo assicurarci la visione soltanto comprando, a carissimo prezzo, dvd nemmeno tanto speciali i cui diritti sono state ceduti in toto a Mediaset da un produttore il quale, per salvarsi dal fallimento, si vendette tutto il magazzino. La vera censura, un vero tipo tra i tanti tipi di censura, secondo me, era, negli anni tra il ’54 e il ’64 circa, quella che lasciava esporre cosce e decolté nei film comici e di commedia in modo che poi gli autori di tali film si autoimponessero il cinecoito interrotto. Il peccato carnale non avveniva quasi mai e, se avveniva, era talmente fuori scena e fuori storia che ci potevano far caso solo i “difensori della morale” più occhiuti e in palese malafede. In seguito quando l’esistenza degli western prima e dei polizieschi poi, dei film erotici con Gloria Guida ecc, si legò esplicitamente al mostrare ciò che prima era vietato e, nel caso del cinema d’azione, soprattutto di una carica di violenza inusitata, il mercato è stato lasciato andare per la sua strada. Il pretore zelante era un caso e non una ricorrenza fissa. Se interveniva si sapeva già cosa tagliare e cosa sminuzzare per addivenire alla sua clemenza bavosa.Del resto più c’erano in giro film con ragazze discinte e rapinatori sadici e meno c’era posto nel mercato per il cinema d’autore che, se si confermava nella presenza di registi consolidati già da trenta o quarant’anni, per gli esordi la strada era difficilissima anche con l’aiuto, che poi durò solo per un periodo molto limitato nel tempo, di un Italnoleggio particolarmente generoso a concedere la prima firma quanto impossibilitato a garantire un budget meno minimo dei minimo. I veri esordi importanti (che tranne quello di Gianni Amelio non hanno portato poi a nessun nuovo estro prestigioso) sono avvenuti nella tv duopolista della seconda metà degli anni settanta e pur sempre destinati ad un pubblico di quattro gatti se si trattava di produzioni filmate, mentre a quelle sotto forma del tradizionale sceneggiato veniva concessa la prima visione domenicale che però, con la concorrenza delle tv private allora numerosissime, non godeva più, e godrà sempre meno, degli ascolti di un tempo. Insomma, la censura è stata uno strumento dalle molteplici sfaccettature di cui quelle più note furono solo le meno usuali. A qualcuno ha fatto del male, ad altri di meno, a qualcuno


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tantissimo. Ma non è stata l’unico strumento per sminuire la possibilità di un cinema maturo e politicamente indipendente in Italia. E ciò, sia chiaro, era negli interessi di parte della Dc come del Pci che difendeva a scelta i registi affiliati però se ne infischiava di altri autori i quali, di idee laicolibertarie o socialiste precraxiane, potevano continuare a girare i film che volevano ma concedendo al mercato l’attore di grido, l’inutile sequenza d’amplesso, un po’ di sangue fuori dell’ordinario. Sta di fatto che non è mai esistito in Italia un cinema libero e forte come quello del periodo che pressappoco va dal 1957 al 1977. E poi che dire del fatto che allora era praticamente obbligatorio che le attrici si spogliassero più o meno abbondantemente, libertariamente facoltativo che di sesso e aborto si parlasse con notevole libertà, mentre oggi anche Tinto Brass deve racimolare dei cast di sconosciute per le sue ultime e stanche esibizioni di un talento ormai bruciato, mentre le “dive” del cinema italiano sono diventate tutte delle suore tranne a parole ? E quando la parolaccia da caserma impera e l’autentico ingegno latita, la censura, la vera censura che agisce e spadroneggia, non si deve cercare dov’è facile trovarla ma dove nessuno o quasi immagina si trovi e dove nessuno ha il coraggio di cercarla. Di trovarla e svergognarla poi, non se ne parla neanche. Non sarà finita soprattutto dentro le coscienze di chi la coscienza dovrebbe mettere al servizio di un cinema che in questo paese non esiste più o, se esiste, sparisce misteriosamente prima che anche le associazioni dei genitori e gli animalisti forsennati possano dire la loro nelle sale buie del Mibac ?


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Intervista a Domenico Monetti Nel 2008 con Giuseppe Ricci ha curato il libro “8 e mezzo raccontato dagli Archivi Rizzoli”, edito dal Centro Sperimentale di Cinematografia con la Fondazione Fellini. Dai documenti e dalla rassegna stampa raccolti nel Fondo Rizzoli è emersa una generale incomprensibilità del film da parte del pubblico e di alcuni critici. Cosa ne pensa? Quale furono le ragioni a suo parere? Fellini è stato sempre troppo avanti. Ogni suo film era un flashforward ora ironico, ora grottesco, ora apocalittico sulla nostra società. Ecco perché ogni suo film invade altri campi (sociologia, arte, musica, politica, storia, urbanistica, architettura, televisione…). Per tali ragioni, purtroppo, non è stato il solo 8 e ½ ad apparire incompreso. Da due articoli inseriti nel IV Volume del Fondo Rizzoli (gli articoli sono del 3 aprile 1963 su Il Giorno di Milano, e del 4 aprile 1963 su L’ Espresso Sera di Catania), si scopre che in molte città italiane si proietta una pellicola di 8 e mezzo, con le scene del sogno virate, per facilitare la comprensione del pubblico, non abituato ai bruschi passaggi fra immaginario e realtà. Secondo lei, chi suggerisce tale scelta e perché viene utilizzato un procedimento del cinema muto (il viraggio) per rendere più leggibile il film di Fellini? Non ho prove ma probabilmente in questo tipo di “manipolazione” ci può essere sempre lo zampino del produttore e/o del distributore. La storia del cinema in tal senso insegna… Gli anni Sessanta rappresentano un periodo di grande cambiamento estetico e linguistico del cinema italiano, anche grazie alla presenza di produttori come Angelo Rizzoli, che ha il coraggio di investire in film come La dolce vita e 8 e mezzo. Contemporaneamente però il mercato cinematografico subisce un calo, che diventa sempre più pesante nel periodo successivo. Si può ritenere che le condizioni specifiche della politica italiana e gli ostacoli imposti anche dall’istituzione della censura


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e dall’opinione pubblica, abbiano condizionato il mondo della produzione cinematografica italiana? Chi ha ucciso realmente il cinema come industria è stata la sentenza del 28 luglio 1976 della Corte Costituzionale che istituiva la liberalizzazione dell’etere (senza mettere regole). A partire da quella data è iniziato il grande esodo della domanda cinematografica dal grande al piccolo schermo.


FONTI



FONTI

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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Filmografia

• La terra trema, Luchino Visconti, Italia, 1948 • Il cammino della speranza, Pietro Germi, Italia, 1950 • I vitelloni, Federico Fellini, Italia-Francia, 1953 • Il seduttore, Franco Rossi, Italia, 1954 • Il tetto, Vittorio De Sica,Italia, 1955 • Il grido, Michelangelo Antonioni, Italia, 1957 • Il generale Della Rovere, Roberto Rossellini, Italia-Francia, 1959 • I dolci inganni, Alberto Lattuada, Italia-Francia, 1960 • Il Passaggio del Reno, (Le Passage du Rhin), André Cayatte, FranciaItalia, 1960 • L’avventura, Michelangelo Antonioni, Italia-Francia, 1960 • La ciociara, Vittorio De Sica, Italia-Francia, 1960 • La dolce vita, Federico Fellini, Italia-Francia, 1960 • La giornata balorda, Mauro Bolognini, Italia, 1960 • La notte, Michelangelo Antonioni, Italia-Francia, 1960 • Rocco e i suoi fratelli, Luchino Visconti, Italia-Francia, 1960 • Tutti a casa, Luigi Comencini, Italia-Francia, 1960 • Accattone, Pier Paolo Pasolini, Italia, 1961 • L’anno scorso a Marienbad, (L'année dernière à Marienbad), Alain Resnais, Italia-Francia, 1961 • La comare secca, Bernardo Bertolucci, Italia, 1962 • Mamma Roma, Pier Paolo Pasolini, Italia, 1962 • Un uomo da bruciare, Vittorio Taviani, Paolo Taviani, Valentino Orsini, Italia, 1962 • L’ape regina, Marco Ferreri, Italia-Francia, 1963 • La ricotta, Pier Paolo Pasolini, Italia-Francia 1963 • Otto e mezzo, Federico Fellini, Italia-Francia, 1963 • La donna scimmia, Marco Ferreri, Italia-Francia, 1964 • Bella di giorno, (Belle de jour) Luis Buñuel, Italia-Francia, 1967 • Helga, (Helga - Vom Werden des menschlichen Lebens), Erich F. Bender, Germania, 1967 • Grazie zia, Salvatore Samperi, Italia, 1968 • Brucia ragazzo brucia, Fernando Di Leo, Italia, 1969


FONTI

• Il faro in capo al mondo, (The Light a the Edge of the World), Stati Uniti, Kevin Billington, 1971 • Nuovo Cinema Paradiso, Giuseppe Tornatore, Italia, 1988

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MECCANISMI DI CENSURA NEL CINEMA

Sitografia

• Argentieri M., Muscio G., Censura: Enciclopedia del Cinema in http:// www.treccani.it/enciclopedia/censura_(Enciclopedia-del-Cinema)/ • Casetti F., L'esperienza filmica. Una breve storia in http://www. illavorosulfilm.unito.it/sezione.php?idart=56&sz=interventi • De Vincenti G., Christian Metz. Enciclopedia del Cinema in http://www. treccani.it/enciclopedia/christian-metz_(Enciclopedia-del-Cinema)/ • Dall'Asta M., Pescatore G., Ombrecolore in http://box.dar.unibo.it/ muspe/wwcat/period/fotogen/num01/numero1a.html • Fagioli A., I costumi sessuali nell'Italia del Novecento in http:// cronologia.leonardo.it/storia/tabello/tabe1591.htm • Farassino a., Trent' anni da rocco scandaloso Visconti in http://ricerca. repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1990/11/29/trent-anni-darocco-scandaloso-visconti.html • Fumagalli M, Brocchieri B., Casi illustri. Dagli averroisti a Pico della Mirandola in http://www.golemindispensabile.it/index.php?_ idnodo=7930&_idfrm=61 • Giachetti D., Alle origini della rivoluzione sessuale in http://www. alpcub.com/storia/Riv%20sessuale3.pdf • Imbevaro S., L'iniziazione sessuale delle Coorti italiane nate nel 1986 e 1990, in http://tesi.cab.unipd.it/14522/1/Imbevaro_Silvia.pdf • Kezich T., Fellini. Enciclopedia del Cinema in http://www.treccani.it/ enciclopedia/federico-fellini_(Enciclopedia_del_Cinema)/ • Mancaniello A., 8 e 1/2 di Federico Fellini in http://www.artearti.net/ magazine/articolo/8-e-mezzo-di-federico-fellini • Marcheselli M., Censure, inibizioni, rimozioni, in http://www. golemindispensabile.it/index.php?_idnodo=7952&_idfrm=107 • Scollo Lavizzari M., Cineriz. Enciclopedia del Cinema in http://www. treccani.it/enciclopedia/cineriz_(Enciclopedia-del-Cinema)/ • Varni A., Cent'anni di tagli italiani in http://www.ilsole24ore.com/art/ cultura/2013-08-12/centanni-tagli-italiani-085431.shtml • http://www.alessandrafagioli.com/visioni-e-simboli.html • http://censuralcinema.wordpress.com/leggi/


FONTI

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• http://www.fondazionescuola.it/iniziative/Media-Pedia/mediapedia/ media-e-societa/censura.html • http://www.federicofellini.it/ • http://www.giusepperausa.it/brucia_ragazzo_brucia__amarsi_.html • http://www.italiataglia.it/home • http://org.noemalab.eu/sections/specials/tetcm/cinema_e_digitale/ effetto_speciale/era_digitale.html • http://www.psychiatryonline.it/node/992 • http://www.scudit.net/mdtvcensura.htm • http://www.siti.chiesacattolica.it/pls/siti/v3_s2ew_consultazione. mostra_pagina?id_pagina=2523 • http://www.siti.chiesacattolica.it/pls/siti/v3_s2ew_consultazione. mostra_pagina?id_pagina=2554 • http://it.wikipedia.org/wiki/Visto_censura • http://www.114.it/se-upload/Legge-21-aprile-1962-n-161.pdf



Ringraziamenti Questa tesi non è solo il progetto conclusivo della mia carriera universitaria, ma segna anche il termine di un periodo intenso e straordinario della mia vita a Venezia. Ringrazio anzitutto il mio relatore Marco Bertozzi, per il suo supporto e la sua guida sapiente durante questi mesi. Inoltre desidero esprimere la mia gratitudine verso tutti coloro che mi hanno aiutato nella stesura della tesi con suggerimenti, critiche ed osservazioni: Ad Antonio Costa, il cui contributo è stato fondamentale per la chiave di lettura di questa tesi. A Carlo Montanaro, per la sua infinita disponibilità e per avermi illuminato con le sue idee sul cinema. Ad Andrea Morini, per le preziose conversazioni e il suo interesse verso il mio prgetto. Ad Enzo Natta, Teresio Spalla, Domenico Monetti e Maurizio Negri per le loro riflessioni e spunti sull’argomento di questa tesi. Ringrazio tanto anche il personale della Biblioteca Luigi Chiarini di Roma e della Cineteca di Bologna. In particolare Valeria Dalle Donne, responsabile dell’Archivio video della Cineteca di Bologna e Marzia Ruta, collaboratrice del progetto ministeriale Italia Taglia, che ha costantemente ascoltato ed interpretato le mie esigenze, facilitando le mie ricerche. Un ringraziamento particolare va agli amici “veneziani” che in modo unico hanno sempre dimostrato il loro affetto ed hanno condiviso con me progetti, momenti difficili e risate durante questi anni: Nicola, Gloria, Melania, Maria Alba, Gabriella, Ciuffo, Chiara, Rocco, Dario, Maria grazie di esistere! Un grazie speciale ai miei coinquilini Daniele, Francesca, Luca e Valentina che mi hanno sempre fatto sentire a casa, mi hanno coccolato e mi hanno sostenuto durante questi anni di convivenza. Grazie al mio compagno Enzo, per il suo amore e per tutto quello che ha fatto per me nonostante la lontananza. Vorrei infine dedicare questo lavoro alla mia famiglia, Mamma Lia, Papà Franco e mio fratello Domenico che, con il loro incrollabile sostegno morale ed economico, mi hanno permesso di raggiungere questo traguardo.





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