Il lago che fluisce nella Grande Bellezza C’è
anche il lago di Bracciano nella Grande Bellezza da oscar di Sorrentino. L’acqua che scroscia nella prima scena arriva dal lago. E lì infatti al Fontanone del Gianicolo che termina l’acquedotto, voluto dal pontefice Paolo V per dare acqua ad una parte di Roma. Un intervento idrico che ricalcava quello voluto da Traiano nel 109 d.C.. Sulla mostra dell’Acqua Paola progettata da Giovanni Fontana e ultimata nel 1610 una iscrizione conferma: PAVLVS QVINTVS PONTIFEX MAXIMVS/ AQVAM IN AGRO BRACCIANENSIS/SALVBERRIMIS E FONTIBVS COLL E C TA M / V E T E R I B V S AQVAE ALSIETINAE DVCTIBVS RESTITVTIS/NOVISQVE ADDITIS/XXXV AB MILLIARIO DVXIT. Roma, oggi come allora, beve e si impreziosisce con l’acqua del lacus sabatinus. E mentre, omeopaticamente parlando, l’acqua ha memoria e Paolo V salutava la “saluberrima” fonte, oggi l’Acea tace, si compiace e non ringrazia.
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Gente Bracciano Aprile 2014 numero 0*
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Gente Bracciano
La lezione di Enrico 30 anni fa la scomparsa del segretario del PCI Berlinguer
Aprile 2014 Numero 0*
Dedicato a Giovanni
Editore: Claudio Calcaterra Direzione: Graziarosa Villani Redazione: Francesco Mancuso, Mena Maisano, Vittoria Casotti, Massimo Giribono, David Antonelli.
Perché “Gente di Bracciano” Come nasce questo giornale. Un gruppo di amici, voglioso di fare informazione, riscopre la necessità di rifare memoria storica indirizzata ai giovani e agli anziani di Bracciano. Può sembrare un atto fuori dal tempo. Siamo talmente sommersi dalla retorica della rete, del web, che scrivere può sembrare una cosa inutile, al massimo giuoco per vecchi demodé. Ci siamo messi insieme, per raccontare, in ogni numero, le storie di vita delle famiglie e dei personaggi di Bracciano, affettuosamente presenti nella memoria degli abitanti di questa città. Ci siamo mobilitati con il giusto entusiasmo in questa avventura con il desiderio di scrivere la vita vissuta da chi è disposta/o a raccontare la sua storia bella, brutta, difficile, tra amore e dolore, dalla adolescenza alla maturità fino al traguardo della vecchiaia. Iniziamo da questo numero con il raccontare la storia di “Zio Pietro”, pisciarelliano doc, con i suoi splendidi 93 anni, con i ricordi della sua guerra, della sua vita, dei suoi dolori e dei suoi amori. Dopo circa due mesi dall’uscita del numero zero che abbiamo presentato al Caffè Grand’Italia, con l’entusiasmo per il lavoro svolto da ognuno di noi e, per il successo avuto alla presentazione, con la partecipazione di un centinaio di convenuti interessati all’evento, usciamo con un nuovo numero del giornale, con il solito impegno di tutti noi. Inoltre con l’adesione dei nuovi entrati, felici di partecipare con la passione di chi crede di aver realizzato qualcosa di importante. Certamente il nostro entusiasmo potrebbe scemare se non dovessimo trovare, per proseguire la pubblicazione del giornale, “sponsor” per la pubblicità stampata di esercizi commerciali, professionisti, artigiani, enti, piccoli imprenditori, sindacati, partiti, ecc. Inoltre chiunque voglia contribuire alla stabilizzazione di un giornale tutto braccianese, con lettere, poesie, brevi racconti, aneddoti, piccole novelle e segnalazioni riguardanti problemi di vivibilità della città e dintorni, utili alla conoscenza e alla informazione degli abitanti di questa bellissima cittadina. Chiudo questo editoriale con un pensiero di Vasco Pratolini: “Il pane del povero è duro, e non è giusto dire che dove c’è poca roba, c’è poco pensiero. Al contrario. Stare a questo mondo è una fatica, soprattutto saperci stare”. (Metello) Claudio Calcaterra
Contatti: gentedibracciano@tiscali.it cell. 349 1359720
Stampato in proprio su carta riciclata
L’11 giugno 1984 dopo un malore durante un comizio moriva a Padov
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on riesco a parlare di Enrico Berlinguer senza che il mio pensiero vada subito a suo padre Mario, socialista, del quale fui compagno ed amico carissimo e che condivise con me tante battaglie democratiche e tanti rischi. Enrico l’ho conosciuto ancora ragazzo, taciturno e riflessivo fin da allora. L’ho sempre considerato una persona di famiglia e m’è difficile mettere da parte i legami di amicizia per dare un giudizio distaccato su di lui. Certo è però questo: che se il Partito Comunista Italiano è così profondamente radicato nella nostra realtà politica lo si deve anche e direi soprattutto alla sua opera. Desidero solo ricordare tre aspetti della sua personalità che mi hanno colpito: l’incessante tormentato impegno di ricerca nello sforzo di aprire vie nuove al suo partito e ad una società come la nostra, pluralista, democratica, in rapida trasformazione ed evoluzione; il grande rigore morale, il significato altissimo che egli attribuiva al tessuto di solidarietà, che, al di là delle collocazioni parlamentari, delle divisioni e anche degli scontri, tiene assieme tutte le forze politiche democratiche italiane. Questo legame, a suo giudizio, costituiva oltre che il dato caratteristico di una grande civiltà democratica, uno scudo della nostra democrazia, contro ogni crisi ed ogni aggressione.
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E questo è anche il mio convincimento. Con questi sentimenti ho seguito a Padova la sua agonia e ho pianto la sua morte. Sentivo che perdevo un fraterno amico ed un compagno di lotta sicuro. E la sua perdita la sento oggi in modo amaro ed acuto. Sandro Pertini Nell’anniversario trentennale della scomparsa del segretario del partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, ricordo, leggendo L’Unità, organo del partito, le testimonianze di personalità italiane e straniere. Ho conservato i giornali di quei tragici giorni. Era per tutti un momento particolare, Scriveva Luigi Pintor: «sento quello che è successo come una tragedia politica. È una brutta espressione retorica, eppure è così». Vittorio Foa scriveva: «Ricordo Berlinguer a Torino, nella vertenza Fiat dei 35 giorni, 1980. Mi parve allora che nessun dirigente del movimento operaio avrebbe avuto il suo coraggio, in una simile situazione di tempesta, affrontan-
do contemporaneamente l’attacco calunnioso e mistificante di tutta (quasi) la stampa italiana. La battaglia sindacale era perduta, conseguenze assai pesanti. Ma la presenza di Berlinguer alla Fiat, e proprio nel momento più duro, parve allora a me, e pare ancora oggi, un pegno per il futuro. Se una così grande parte del popolo, indipendentemente dalla posizione politica, pensa oggi con dolore e tenerezza alla morte di quest’uomo, questo nasce dal modello politico e umano che egli ci ha offerto». Roberto Benigni scriveva che avrebbe voluto avere studiato medicina. Essere un grande medico, saltare su quel palco dove Berlinguer s’era sentito male mentre parlava, salvarlo in pochi istanti. «Andiamo all’ospedale di corsa dicendo alla folla di aspettare. Faccio stendere Berlinguer, usciamo. Sta benissimo. “Grazie” dottor Benigni. “Niente”, Berlinguer. Ti voglio bene…In questi giorni s’è bruciato il firmamento, adesso so che si dirà: Berlinguer è vivo andiamo avanti. Io invece vorrei dire: Berlinguer è morto, torniamo indietro. Caro Enrico. Troppo presto. Morire a sessantadue anni è come nascere a ventiquattro mesi: uno non ci crede. E io sono sicuro che magari fra una settimana Berlinguer apparirà alla televisione con una bella camicia hawaiana. Io aspetto. Chissa!». La sensazione che avevamo io e la mia compagna era che si bruciavano, con la morte di Berlinguer, i nostri sogni di un mondo migliore. L’hanno avuta milioni di italiani. Abbiamo pensato non soltanto, che era avvenuta “una tragedia politica”, ma che la sua morte era per ognuno di noi una disgrazia personale, una perdita intima, qualsiasi fosse il colore politico di ognuno di noi. Un comunista ammirato e stimato, anche dagli avversari politici, per la sua forza morale. La sua straordinaria libertà mentale, la sua rettitudine, il suo coraggio e quel dono che aveva di parlare alla gente, di dominare la folla senza mai assumere i connotati e le striglie del potere. I giovani di oggi dovrebbero conoscere la storia di un grande leader di fine ’900, nel quale le speranze di milioni di italiani erano riposte. Claudio Calcaterra
Uomini di buone maniere ma di cattive abitudini. Classe dirigente che si è allontanata dal popolo, lo ha abbandonato, incapace di altro se non di seguire la propria ideologia e di scivolare verso la corruzione. Gesù li chiamava “sepolcri imbiancati”. Dall’omelia di Papa Francesco del 27 marzo 2014
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le loro intenzioni presero il manico di una scopa, legarono un po’ di camicie e uscirono allo scoperto dichiarando così la loro “voglia” di arrendersi. Zio Pietro ha un soprassalto e, orgoglioso della sua memoria, dichiara che il generale del distretto si chiamava Caratti, Caratti conferma più volte. Il comando americano trasferì i prigionieri nella piana di Catania, un prato, dei pali a delimitare il territorio, sentinelle che a chiunque provasse a uscire dal perimetro tracciato dai pali, filo spinato non ce n’era, sparavano un primo colpo ai loro piedi, del secondo non ce ne fu mai bisogno. Il campo era vicino a un piccolo aeroporto di fortuna. Due piloti prigionieri decisero di fuggire con un piccolo aereo a elica posteggiato nel campo, proposero a zio Pietro di seguirli, fu un no, aveva paura di volare. Ogni tanto zio Pietro si ferma, quasi che stesse sbobinando il nastro della sua guerra, un flash e ricomincia a narrare. Dopo qualche giorno furono imbarcati su una nave cargo, rimasero tre giorni alla fonda, poi partenza per la Tunisia. Al porto zio Pietro narra che furono accolti premurosamente da un gruppo di donne siciliane che offrirono ai prigionieri acqua e pane, come potessero essere lì quelle care femmine non ha saputo dirlo, ma ricorda nitida-
Zio Pietro va in guerra I ricordi del pisciarelliano doc
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i chiama Pietro de Santis, detto “scatizza”, l’attizza-fuoco, ed è nato a Pisciarelli nel 1921. Il soprannome se lo guadagnò a scuola, era il migliore nell’attizzare dispetti ed era l’unico che riusciva a tenere testa al “deputà”, un monello invasivo, a volte prepotente. Andò alle elementari in una casa rustica, proprietà del principe, la sua maestra, Emma, la ricorda con piacere, poche bacchettate sulle mani e tanta pazienza con quei monelli, figli di contadini. Mi mostra con orgoglio la sua pagella delle elementari, sette in ortografia e storia, la sua materia prediletta. La pagella è da incorniciare, tutta ghirigori perfetti e una scrittura che sembra uscita da un’antico testo copiato a mano da un monaco benedettino. Papà e mamma erano orgogliosi del loro figliolo e un giorno lo vestirono a festa con la divisa da balilla, lui ne fu contento, ma non troppo, la divisa gli impediva di “scatizzare” come a lui piaceva. La sua memoria di quei tempi è lontana, batte il bastone a terra irato quando qualche nome, qualche fatto non gli torna alla mente con la necessaria precisione. Poi, piano, piano comincia a raccontare “la sua guerra”. Il racconto inizia con la fotografia di tre giovani scanzonati in divisa. Quello al centro è lo zio Pietro. Da ora in poi lo chiamerò così, “zio Pietro”, una forma d’affetto che la comunità braccianese gli riconosce per i suoi splendidi 93 anni. Sono in posa, in divisa, l’aria di tre giovani che sfidano la vita, forse non del tutto consapevoli del dramma che sta vivendo l’Europa, attraversata dalla ferocia del nazismo e del suo alleato italico, il fascismo. Dietro s’intravede la Palermo di quei tempi, lì sono stati comandati in un centro trasmissioni del regio esercito. Con le mani tremanti gira la cartoliAprile 2014
Palermo, 6 maggio 1941
na e appare la sua ortografia, bella, ordinata, quasi un affresco: “se la vita fosse come un libro io ne straccerei le pagine dolorose giacchè non è fare e cerco di dimenticare i tristi giorni, Palermo 6 maggio 1941”. Non sa dire se sono sue parole o qualche brano tratto da qualcuno dei libri che ama leggere. Dopo un breve soggiorno viene trasferito a Corleone. La centralina era situata in una villa, proprietà di una nobildonna inglese, una spia, mormorava il popolo, nel suo bisogno d’incanto e d’inganno. Zio Pietro si ferma un attimo, sta mettendo a fuoco un episodio accaduto al suo maggiore, poi racconta. Il maggiore aveva una bella figliola di cui s’invaghì il suo autista, un siciliano verace. Il maggiore, capita l’antifona firmò il foglio di trasferi-
Pietro De Santis
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mento del suo autista, che, offeso nell’onore, si presentò a casa della sua bella con una pistola in pugno, se non l’avesse potuta avere lui allora nessun altro e le sparò. Fu la mamma a salvare la figlia, al momento dello sparo la buttò in terra e il proiettile s’infisse nel muro, allora l’autista si sparò. I colpi furono uditi fino alla villa e la vicenda non riuscì a rimanere chiusa nei cassetti. Come se un nesso legasse i due episodi racconta di seguito come fu salvato da una vecchia contadina del luogo. Una mattina arrivò trafelata strillando che gli americani erano sbarcati e che i loro carri armati avevano ormai sotto tiro la villa, per distruggere la centralina di trasmissione fascista. Pochi tedeschi in giro e si arresero di buona lena. Non trovando un lenzuolo bianco per dichiarare 5
17 novembre 1947
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mente quel loro fraseggiare siciliano, mentre offrivano ristoro alle loro gole secche e pance vuote. Poi in treno verso l’Algeria, tappa al porto di Orano. Quel viaggio lo tormenta ancora. Racconta, con gli ancora impauriti e arrabbiati, che a ogni stazione torme di soldati marocchini e di algerini li facevano segno di sputi e di sassate, di sputi e di sassate, di sputi e di sassate, ripete ancora indignato più volte, nessuna traccia di una domanda assassina, perché tutto quell’odio nei loro confronti? Poi un sorriso lo illumina e racconta di Bruno di Verona, che, non potendone più abbassò il vetro e i pantaloni e mostrò il suo membro sberleffo agli insultanti. Dovette intervenire il comando americano per impedire guai peggiori, portarono via Bruno e, dice zio Pietro, avemmo tutti cattivi presentimenti. Dopo un’oretta Bruno uscì sorridente dal comando con due enormi valigie tra le mani, una di sigarette, l’altra di cioccolata e scatolette. Misteri delle guerre. Giunti a Orano gli americani proposero ai prigionieri un’alternativa al campo di prigionia già pronto, quella di aiutarli a scaricare le navi che giungevano al porto, vettovagliamento e armi leggere per la guerra nel deserto, 40 cents al giorno e qualche libertà. Fu così che Zio Pietro cominciò a scaricare merci dalle navi. Nuova pausa di Zio Pietro, sta rincorrendo la sua guerra, puntiglioso, richiama la memoria al presente, vuole narrarla, raccontarla. Dopo qualche mese a Orano furono nuovamente imbarcati, destinazione Marsiglia. Giunti vicino al porto suonò l’allarme, c’era il rischio di bombardamenti aerei. La nave attraccò al largo e furono sbarcati su silenziose scialuppe, qualcuno si buttò in mare, una fuga acquatica, ma zio Pietro non sapeva nuotare. Sbarcato sul molo si trovò dinanzi la statua di Garibaldi, un soffio d’Italia dopo tante traversie. A Marsiglia incontrò un chirurgo americano che operava negli ospedali feriti agli occhi, alla gola, e quant’altro, gli serviva un assistente e capitò a zio Pietro. Cominciò a viaggiare per ospe-
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dali da campo, a lui toccava reggere la lampada mentre il chirurgo operava. Per lui non fu particolarmente difficile vivere tra ferite, sangue e morti. Era vaccinato dal fatto che a casa gli capitava spesso di aiutare nella macellazione degli animali che pascolavano nei suoi campi. In quel momento ho chiesto a zio Pietro quali pensieri accompagnavano quel suo peregrinare. Una fessura degli occhi, un refolo di voce e la risposta è stata “non pensavo a nulla, né alla mia vecchia casa a Pisciarelli, né al futuro, ero troppo impegnato a sopravvivere giorno dopo giorno”.
Dopo alcuni mesi il chirurgo finì il suo lavoro e zio Pietro si ritrovò tra i “liberi”, sempre al servizio del comando americano. Questa volta fu impegnato in un lavoro “dolorante”. La mattina partivano dei camion per i paesi tedeschi conquistati, con alcuni nativi che indicavano loro le abitazioni dei nazisti che avevano imperversato in quella zona. Il compito era di razziare le loro case, trasferire il materiale nei camion e portarli in un magazzino. A questo punto le parole di zio Pietro sono rimaste come sospese, “a volte, malgrado gli ordini degli ufficiali americani fossero perentori, lasciavamo nelle
In uno dei suoi viaggi per ospedali capitò a zio Pietro d’incontrare la linea che i francesi avevano costruito per impedire l’avanzata dei tedeschi, un lungo muro di pietra, la linea Maginot. Non servì a nulla, il piano di invasione tedesco del 1940 (nome ufficiale Fall Gelb, ma spesso indicato anche come Sichelschnitt - “colpo di falce”) venne pianificato tenendo in grande considerazione la Linea Maginot. Una forza civetta si appostò davanti alla Linea, mentre la vera forza d’attacco tagliò attraverso il Belgio e i Paesi Bassi, attraverso la Foresta delle Ardenne a nord delle difese principali dei francesi. In questo modo la forza d'attacco fu in grado di aggirare la Linea Maginot.
case quello che potevamo, colpiti da tante donne e bambini angosciati, terrorizzati, affamati”. Piccoli atti di umanità, pur in una tragedia biblica come quella che fu l’orrore del nazismo e del suo alleato italico, il fascismo. Zio Pietro si ritrovò così a Mannheim che sorge nel punto in cui il Reno riceve l'affluente Neckar. Mannheim è un importante snodo ferroviario ed il principale porto interno della Germania. È anche l'unica città tedesca col centro a pianta quadrangolare (come ad esempio Torino o New York) iscritta in un cerchio incompleto. Le due strade principali sono perpendicolari tra loro e attraversano il centro come i diametri del cerchio a
formare una croce. Qui passò alcuni mesi zio Pietro. Qui fece stragi di cuori, quasi a risarcirsi del silenzio degli anni passati. Ingemarie, Brunilde, Rosita furono le sue conquiste. Un sorriso antico solca il volto di zio Pietro mentre ricorda le sue fiamme. Poi abbassa il tono e parla di Rosita. Anni dopo gli arrivò una lettera che gli annunciava che aveva avuto un figlio con lei. Non ci credette, ma il dubbio lo portò a pensare che quell’incredulità fu fonte di profonde traversie che attraversarono poi la sua vita. Da Mannheim arrivò in camion a Reims, poi in treno a Marsiglia, poi in
nave a Livorno, infine in treno a Roma, da dove raggiunse la sua vecchia casa a Pisciarelli “capannora”, così soprannominata, spiega, perché ogni casa aveva attorno capanne per il ristoro delle bestie e l’immagazinamento del grano e degli ortaggi. Prende fiato zio Pietro. È contento di aver ricostruito la sua guerra. Poi un riso abbozzato e narra che la madre, quando se lo vide davanti, pensò a uno scherzo, stentò a riconoscerlo. Riprese l’attività lasciata prima della guerra, il papà aveva 30 vacche e terreni da coltivare, le nuove braccia furono preziose. Riprese colore e chili. Una fotogra-
fia lo mostra con quella sua aria da dolce conquistatore, lineamenti fini e occhi languidi, un acchiappa femmine. Ancora una sosta per riannodare i pensieri, poi riprende forza e racconta del suo bisogno di riprendersi la gioia della vita, il piacere della vita. Con la sua 350 Peugeot, la sua motocicletta rombante, andava spesso a Cerveteri, dove incontrò la donna della sua vita, Quinta. Racconta delle lunghe passeggiate, accompagnate irrimediabilmente dalla sorella più piccola, così si usava. La domenica al cinema a Bracciano, venti minuti lungo la ferrovia e via a gustare il mistero del cinema. Ricorda due film che lo appassionarono, “L’assedio di Alcatraz e il Cid Campeador”, due film di guerra e d’avventura, questa volta visti sgranocchiando noccioline e pop corn. E poi le partite a carte, briscola e tresette, all’osteria, tra prese in giro e bicchieri di vino. La chiacchierata con zio Pietro termina con una fotografia, una foto di gruppo del 17 novembre del 1947. Dietro con un’ortografia impeccabile è scritto: Quell’onda che nel mare si frange e spuma, perché l’annegato vi è battuto ovunque; perché non vi è tolto da tal martirio chi al mondo…forza con mia sorella! I puntini scrivono due tre parole illeggibili, ma la poesia del resto rimane a memoria di questa bella chiacchierata. Grazie zio Pietro! Francesco Mancuso (Ha collaborato Mena Maisano)
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Controcorrente 2: equilibri vò cercando Globale e locale devono imparare a convivere
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entezza e velocità sono due preconcetti agli antipodi che, con il passare del tempo, attraversando intere epoche, tanti hanno cercato di spiegare, pendendo, talvolta da una parte, talvolta dall’altra. Nella società della globalizzazione, questi due termini possono risultare tanto simili quanto differenti. Difatti, nella vita di tutti i giorni, la velocità è diventata un fattore talmente importante che, a volte, non riusciamo a concepire il contrario, poiché risulta quasi impossibile rallentare il ritmo frenetico, sfrenato, che ci accompagna in ogni momento della giornata. Per quanto riguarda, invece, la lentezza, essa è considerata, attualmente, un lusso destinato solo a pochi fortunati, basta pensare all’otium dei romani. Nonostante l’ambiguità presente nell’opposizione dei due termini, siamo in presenza di modalità d’azione e di pensiero entrambi indispensabili a chiunque. Proviamo a immaginare cosa sia la velocità che tiene in pugno la nostra giornata: l’esserci, il vincere, l’arrivare primi, l’essere sempre e comunque il number one, caratteristiche che appartengono al genere umano da sempre. Ciò che rende oggi difficile trovare un equilibrio tra i due termini è che la lentezza è vista come una perdita di tempo, come un danno alla creazione di ricchezza, e non come una condizione nella quale riordinare le idee e i pensieri, spesso molto confusi, proprio perché la velocità rischia spesso di smarrirli. Il dualismo che si è venuto a creare tra lentezza e velocità ha ispirato moltissimi nel creare storie, racconti e situazioni su tale tema. Nelle sue Lezioni americane, Italo Calvino parla della rapidità come valore solo e soltanto se compendiato dalla stessa lentezza, in alternanza e compresenza, allo scopo di produrre “un messaggio d'immediatezza ottenuto a forza d'aggiustaAprile 2014
menti pazienti, un’intuizione istantanea che appena formulata assume definitività di ciò che non poteva essere altrimenti”. Pensiamo all’apologo che chiude il capitolo su rapidità e lentezza. Un imperatore cinese fa costruire un muro che più lungo e più alto non è possibile immaginare. Vuole che il più grande pittore del mondo lo dipinga con il miglior affresco del mondo, a sua imperitura memoria. Il pittore giunto a corte si ferma davanti al muro, dispone a terra pennelli e colori e comincia a guardarlo. Per ben sette anni lo rimira, poi, in una notte dipinge il più bell’affresco mai dipinto al mondo. Sette anni per pensare, una notte per fare. Penso che anche globale e locale siano due preconcetti agli antipodi e anch’essi nelle varie epoche in tanti hanno tentato di spiegarli, pendendo di volta in volta per l’uno o per l’altro. Oggi criticare i processi indotti dalla globalizzazione è sinonimo di arretratezza, di pensiero negativo, d’incapacità di leggere l’innovazione, la “modernità”. Nella sua sfrenata corsa alla conquista di mercati, la globalizzazione mangia luoghi di lavoro, abbatte diritti, promuove enorme ricchezza per i detentori delle leve finanziarie che muovono questa roulette russa. Dall’altra i fautori del localismo invocano chiusure protezioniste delle loro merci e chiudono ogni spiraglio all’avvento di nuovi soggetti, persone, che si muovono nel mondo alla ricerca di una terra perduta. Due opposti che creano odi, guerre, revanscismi pericolosi, che la storia ha già vissuto. Bauman, un sociologo tedesco che da anni studia i cambiamenti sociali a fronte della globalizzazione, afferma che la tormentosa sfiducia esistenziale che caratterizza l’uomo dell’Occidente, il suo senso di solitudine e precarietà è “come quella dei passeggeri di un aereo che si accorgono, improvvisamente, che la cabina di pilotaggio è 8
vuota, e che la voce rassicurante del capitano è soltanto la ripetizione di un messaggio registrato molto tempo prima”. Oggi la politica non sa che dire che questo non è il migliore dei mondi immaginabili, ma il solo mondo reale, tutti gli altri sono peggiori. La politica ha perso la sua dimensione di sogno, ha smesso di farsi domande. Neanche l’avvicendarsi degli schieramenti politici diviene un fattore decisivo per “cambiare”, per provare a cambiare; al massimo, è un'increspatura sulla superficie di un fiume che scorre ininterrottamente, uniformemente, inesorabilmente nella propria direzione, spinto dalla forza propulsiva dei grandi finanzieri, dei grandi potentati economici. E non servono a molto i tentativi dei governi di concentrare questa inquietudine sul solo tema della sicurezza personale, delle guerre giuste, del chiudersi in casa. Si fa sempre più urgente, invece, la necessità di ridare il giusto spazio alla collettività e ridefinire la libertà individuale partendo dall’impegno collettivo. La politica deve ritrovare il suo spazio. Bauman lo individua nell'antica “agorà”, luogo privato e pubblico al tempo stesso. Qui l’uomo occidentale potrà tornare a interrogarsi, e le sofferenze private potranno essere finalmente pensate e vissute come problemi condivisi, comuni e politici. Globale e locale devono imparare a convivere. Qualche studioso parla della necessità di politiche “glocali”, ma questa sembra più un’azzeccata trovata linguistica, più che una proposta per trovare un equilibrio tra le due contrapposizioni. Freud, rispondendo ad Einstein che gli chiedeva come fosse possibile liberarsi della guerra, rispondeva, con qualche fatica, con l’incivilimento delle persone, aggiungendo, subito dopo, che la “velocità” di questo processo è eguale a quella di quei contadini che hanno portato grano al mulino per avere farina e
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mangiare, ma questo è talmente lento che rischiano di morire di fame. Guerra e pace sono anch’essi preconcetti in opposizione. Va detto che anche in questo caso, nel corso dei secoli c’è stato chi pensava la guerra fosse ineludibile per costruire la pace - Eraclito - e chi pensava che fosse solo fonte di barbarie - Erasmo da Rotterdam -. Si può pensarla come si vuole, ma i fatti storici ci dicono che non è esistito un solo giorno della storia dell’umanità senza guerre.
Proviamo a ricapitolare, con qualche forzatura: guerra, globale, velocità contro pace, locale, lentezza. Il buon senso di noi occidentali che non facciamo la guerra dalla fine della seconda guerra mondiale, seppure la facciamo o aiutiamo a farla in tante parti del mondo, direbbe che sarebbe “bello”: pace, locale, lentezza. Una possibilità o un sogno irrealizzabile? Essendo alla continua ricerca del pessimismo della ragione e dell’otti-
mismo della volontà, sento che lo sforzo dovrebbe essere quello di indagare i confini tra gli opposti alla ricerca di equilibri, sempre in movimento, sempre in mutazione. Devo ammettere, però, che è molto più facile essere rinunciatari o estremisti, una bolla di sapone dove possiamo non farci domande, perché la domanda morde, chiede mutamenti, aggiustamenti, a volte ferisce, fa male, ma almeno si vive, I hope. Francesco Mancuso
Sotto il campanone del Duomo La riscoperta della “braccianesità” di Giovanni Orsini e tornano a infondere linfa vitale ad anziani che ancora riconoscono il suono del campanone del Duomo, ad adulti di mezza età che non hanno più tempo per conoscersi e riconoscersi in piazza; ad adolescenti e bambini che non hanno un nonno o un genitore che sa o può raccontare loro dei dolci fatti con il lievito mondiale”. Interessanti le note riguardanti le origini del dialetto braccianese che risulta “influenzato da correnti linguistiche provenienti dalla Tuscia Viterbese, dalla Toscana meridionale, dall’Umbria occidentale, dall’Abruzzo e dalla Marche”. Una analisi attenta sulla lingue popolari è stata presentata in un recente convegno di studi sul tema “I 121 dialetti salvati dei comuni della provincia di Roma”. Dalle relazioni si è evidenziato che anche il dialetto nel Lazio e attorno Roma corre lungo le principali consolari, in una regione dove il Tevere fa da confine anche linguistico, e dove nella poesia dialettale ci si ispira, come ha osservato il professor Cosma Siani, a due filoni “la linea Belli-Pascarella-Trilussa, che racchiude in sé la tradizione come forma stilistica e contenuti, e la linea Dell’Arco-Marè, che rappresenta l’innovazione della poesia romanesca, fino all’esperimento modernistico”. Molti i lemmi nel dialetto braccianese derivanti dalla lingua francese che si rifanno al periodo napoleonico. La sapienza popolare traspare poi dalla non esaustiva raccolta di proverbi che chiude il volume di Orsini. Detti e motti in gran parte comuni al comprensorio del lago di Bracciano. Tra quelli “meteorologici” citiamo: “Quann’è nuvolo a Maccarese, pija la zappa e va’ ‘r paese”. Ed ancora il braccianese ammonisce che proprio se è necessario “Fatte ’mmazza da m boja capace”. G,V,
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bbiamo succhiato il nostro dialetto fin dall’infanzia come il latte materno, lo abbiamo assorbito e lo avremmo voluto parlare liberamente perché era quello che sentivamo tra i vicoli dei Monti e del Fossaccio, al Borgo o alle Cartiere, al Giardino Pubblico o al Lago, che giungeva spontaneo alle nostre orecchie e da lì scivolava rapido sulla nostra lingua”. Cosi Giovanni Orsini introduce nel suo libro Vocabolario del dialetto Braccianese il tema della “Braccianesità”. “Ma a noi – aggiunge Orsini – non era consentito e se lo usavamo eravamo subito corretti”. Ed ancora “è un po’ come andare in bicicletta; impari da piccolo e anche se poi non ti capita più di salirci, quando la inforchi dopo tanto tempo, pedali spedito senza cadere”. Così in questo lavoro si rinserra il binomio dialetto-infanzia. Per molti braccianesi il lavoro edito per Tuga Edizioni è molto più che una semplice raccolta di lemmi locali ormai destinati all’abbandono. E’ un ritrovare se stessi, è riscoprire, anche con un po’ di goliardia, le proprie radici e la propria identità. “Tornare indietro di quarant’anni, quando a piazza Saminiati – scrive Sergio Amici nella prefazione - le bambine che giocavano a campana gridavano brucio o al giardino pubblico i ragazzini preparavano la pista per sfidarsi a vetrole”. “Parole – commenta ancora Amici – ma anche e soprattutto luoghi, tradizioni, ricordi, che Giovanni Orsini tira fuori da quello scrigno mai così ben nascosto da poter essere dimenticato, che è la memoria di una comunità. Antiche radici, fortunatamente non completamente essiccate, vengono rinvigorite Aprile 2014
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Bracciano Nuova: servizi e integrazione
Stefano Rosso: un trasteverino a Bracciano
A colloquio col sindaco Giuliano Sala
Il menestrello di via della Scala
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racciano ieri ed oggi. A tracciarne un profilo Giuliano Sala, sindaco al quarto mandato. Bracciano conta oggi circa 20mila abitanti e sconta i problemi di un incremento demografico che è andato in crescendo. Ai braccianesi di una volta si aggiungono oggi i nuovi braccianesi. Una contaminazione che di recente si sta trasformando in una vera integrazione tra vecchi e nuovi cittadini in un processo che non può che far bene a tutti. Sindaco Sala come è cambiata Bracciano in questi anni e quali sono le sfide che si aprono in vista della nuova città metropolitana di Roma? Bracciano negli anni Ottanta e Novanta è stato senz’altro il centro di riferimento dell’intero comprensorio. Un centro importante, conosciuto a livello nazionale per la scuola di artiglieria e mondiale per il castello Orsini-Odescalchi, sede di servizi di rilievo dal punto di vista giudiziario, con la Pretura prima e la sezione distaccata del Tribunale di Civitavecchia poi, e dal punto di vista sanitario per la presenza dell’ospedale. Rispetto ad una crescita ulteriore la nostra scelta è stata quella di ridimensionarne l’incremento demografico riducendo di 10mila abitanti la previsione che era stata fatta col Piano Regolatore Generale del 1980, con l’approvazione del nuovo PRG approvato dalla Regione Lazio nel dicembre 2009. In questi anni ritengo che Bracciano sia cambiata in meglio. Dal punto di vista culturale possiamo vantare oggi un nostro Museo Civico, un archivio storico tra i migliori del Lazio, un auditorium per spettacoli e concerti e presto anche un vero e proprio teatro. Abbiamo inoltre molte strutture dedicate allo sport. Bracciano comunque non è rimasta immune dalle scelte della cosiddetta spending review che ha portato oggi alla chiusura del tribunale. Anche per l’ospedale, dopo la battaglia vinta al Consiglio di Stato, emergono delle criticità dovute al fatto che la Regione Lazio deve comunque mantenere fede ai controlli del ministero delle Finanze. Riguardo la città metropolitana mi auguro che siano fatti e non parole. Siamo l’unica provincia d’Italia che ad oggi non ha un’amministrazione eletta, ma un commissario. Il processo di integrazione con Bracciano Nuova non è stato facile. Oggi possiamo dire che l’integrazione è un fatto compiuto. Si stava realizzando una lottizzazione convenzionata ad alto insediamento abitativo, priva di servizi e con le opere di urbanizzazione non terminate. Il nostro sforzo in questi anni è stato quello di superare il problema della carenza di servizi dei nuovi quartieri. Per queste ragioni abbiamo ritenuto opportuno collocare a Bracciano Nuova una importante serie di servizi pubblici quali la farmacia comunale, il tribunale per il quale ci siamo fatti carico delle spese dei locali, il comando dei vigili urbani e inoltrare una sollecitazione alle Poste affinché aprissero un nuovo ufficio postale. Bracciano Nuova oggi è un luogo dove è stata costruita una nuova chiesa, dove abbiamo realizzato un centro civico che avrà attività polifunzionali a servizio del quartiere. Abbiamo cercato di dare a Bracciano la dignità che doveva avere.
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Come vede l’adozione del Piano di Assetto del Parco di Bracciano-Martignano? È un momento importante che può creare assolutamente un meccanismo virtuoso tra coloro che hanno sempre considerato il Parco come una limitazione e solo vincoli e coloro che al contrario hanno inteso il Parco, e tra questi noi, come uno strumento di sviluppo nella tutela. È chiaro che lo strumento urbanistico va integrato con un serio e funzionale Piano di Sviluppo Economico, valutando bene quali attività vanno sviluppate all’interno del Parco, che credo prioritariamente debbano essere quelle agro-silvo-pastorali e quelle turistiche. Devo dire però con amarezza che questo momento importante si scontra oggi con le difficoltà economico-finanziare generali che portano tagli delle risorse disponibili per i Parchi Regionali del Lazio. Sarà necessario pertanto ricercare nuove fonti di finanziamento guardando, come abbiamo sempre fatto, ancora di più ai fondi europei. La battaglia contro l’Acea c’è o non c’è? Sto verificando che la tendenza è quella di andare verso il superamento degli Ambiti Territoriali Ottimali. La recentissima legge sulla tutela dell’acqua come bene comune è una normativa importante per chi come noi gestisce in proprio il servizio idrico. Anche per quanto riguarda la gestione dell’acqua del lago è necessario cercare di trovare gli strumenti per armonizzare una reciproca convenienza. La discarica di Cupinoro riaprirà o no? La questione Cupinoro si inserisce oggi in un contesto regionale caratterizzato da situazioni di grande difficoltà complessiva. Il presidente regionale Zingaretti per la prima volta ha emesso un’ordinanza per mantenere aperta una discarica. Il prefetto di Roma ha annunciato che non si possono portare rifiuti negli impianti riconducibili alla gestione dell’avvocato Cerroni, che è oggi agli arresti domiciliari. Roma porterà i propri rifiuti a Soriano sul Rubicone impegnando fondi per 27 milioni di euro. Da parte nostra avevamo messo a punto un Piano industriale che probabilmente, stante le difficoltà ad ottenere la nuova Autorizzazione Integrata Ambientale, dovrà essere rivisto. Penso che nella situazione in cui ci troviamo, con la discarica chiusa dal 31 gennaio per esaurimento delle cubature autorizzate, è necessario, riguardo Cupinoro, attivarci per definire una strategia che ci permetta la gestione post operativa in accordo con la Regione Lazio poiché al contrario si manifesterebbero forti difficoltà di carattere ambientale. Va fatto presente che la Bracciano Ambiente dal 2004 ad oggi si è trovata a gestire un milione e 600mila metri cubi di rifiuti che sono stati conferiti durante la gestione della società Sel. Sono state effettuate spese complessive per 20.428.485 euro utilizzando risorse che appartenevano al fondo post mortem e all’ecotassa che doveva essere versata alla Regione. Abbiamo fatture probanti di questo. È chiaro che chiuso il bacino operativo ed inibita ad oggi l’opportunità di realizzare l’impiantistica proposta, la gestione post operativa diventa una grandissima difficoltà per i territori, che non può essere in capo solo alla Bracciano Ambiente e al Comune di Bracciano.
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Gente di Bracciano
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a via della Scala a via dell’Arazzaria. Non solo toponomastica. Ma due mondi allo stesso tempo vicini e lontani. Dalla Trastevere anni ’70 alla Bracciano anni Novanta. Deve essere comunque l’aria del vicolo, le pietre “vive” del centro storico, ad attrarre a Bracciano uno degli interpreti del sound italiano anni Settanta come Stefano Rosso. Una formazione musicale al celeberrimo Folkstudio di Trastevere accanto ad artisti come De Gregori, Venditti, Locasciulli. Stefano Rosso, l’autore di Letto 26 (1976) che in tanti cantavamo conoscendola come “via della Scala”, è lo stesso. Barba lunga, cappello e un rapporto stretto stretto con la chitarra, quasi fosse la sua vera ed unica compagna di vita. “La chitarra – confessò in una intervista del 1997 a Viviana Vitale – è lo strumento che mi piace d più perché è sanguigna è istintiva come la musica”.
La copertina del disco postumo
Da giovanissimo era diventato padrone di questo strumento. “Suonavo la chitarra classica” raccontava. Ed è sulle corde di questo strumento che Rosso compone brani che in qualche modo hanno fatto parte della colonna sonora di una generazione. Un’atmosfera di goliardia, di amicizia, di comitiva. “Che bello, due amici, una chitarra e uno spinello”. Si cantava. Testi scritti per lo più in una sorta di delirio creativo lasciando andare la mente e le emozioni. “Comporre non è un processo controllabile: entri in una specie di stato di delirio dal quale emerge l’ispirazione”.
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Il cantautore con la sua inseparabbile chitarra
A Bracciano Rosso è una meteora. Lo puoi incontrare su via Umberto I con una busta della spesa in mano, poi lo vedi scomparire nel suo appartamento su strada, tappezzato alle pareti di strumenti musicali. Pochi i rapporti con la città se non quello di insegnare. Cosa? Musica ovviamente. Ai ragazzi della scuola di Castel Giuliano. Trastevere per lui che l’ha vissuta pietra su pietra, resta sempre però nel suo cuore. “Romano de Roma” vive il quartiere romano per eccellenza così le sue canzoni parlano dei suoi vicoli delle sue osterie. Rosso così sembra vivere Bracciano come un esilio dalla sua Trastevere dove invece ha lasciato il cuore e l’anima. Continua a comporre ma non a incidere. Ed alcuni suoi lavori escono postumi per l’impegno di un amico, Andrea Tarquini. Il cd “Reds” uscito nel 2013, prodotto artisticamente da Paolo Giovenchi chitarrista di Francesco De Gregori, ne raccoglie molti. È un po’ il suo testamento musicale. E non a caso Rosso ricorda il bar della sua vita. In “C’è un vecchio bar” ricorda “il non plus ultra – si legge in una nota stampa - della realtà trasteverina: il famoso Bar San Callisto. Una canzone mai registrata in studio e che l’autore suonava in quel ritrovo di hiteppy e varia umanità giovanile, ovvero le scale della fontana di Piazza Santa. Maria in Trastevere”. Da “Reds” traspare anche l’impegno politico, mai ostentato dall’artista.
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In “Bologna ’77”, scritta insolitamente al pianoforte, scrive di Giorgiana Masi, studentessa diciottenne e militante radicale, rimasta uccisa il 12 maggio del 1977 durante un corteo che attraversava Ponte Garibaldi a Roma. Dagli esordi con il fratello con duo Romolo e Remo con il quale vinse nel 1968 il Festival degli Sconosciuti di Ariccia (al suo attivo anche un Telegatto nel 1977), fino alle ultime note, ad animare Rosso è stata sempre e comunque la voglia di raccontare, quasi fosse un menestrello, un aedo dei tempi moderni. Una forza alla quale non si poteva sottrarre. “Faccio il cantautore – ammise nell’intervista a Vitale – perché è bello poter raccontare. Se mi si togliesse la possibilità di prendere la chitarra e suonare quando voglio non mi sentirei più un essere umano”. Rosso e la sua musica. Rosso e i suoi versi. Rosso e la sua Trastevere ed una parentesi braccianese che pare non lasciare traccia. A quasi 60anni, nel 2008, muore. In tanti lo salutano nella chiesa di Santa Maria in Trastevere….”Via della Scala è sempre là”… Graziarosa Villani
Sempre bene nun se po’ sta, sempre male nemmeno Saggezza romanesca
Gente di Bracciano
Il suo atelier sul lago
L’
hotel Villa Clementina è una prestigiosa dimora immersa nel verde del parco di Bracciano, a 200 metri dalle rive del lago, progettata nei minimi particolari dal proprietario e pittore Dimitri Bonetti. Villa Clementina fu dimora e atelier di pittura dell'indimenticabile Maestro Lorenzo (Renzo) Vespignani dove vi soggiornò fin dagli anni ‘60. Vespignani nacque a Roma il 19 febbraio 1924 da Guido Vespignani ed Ester Molinari, bisnipote di Virginio Vespignani, famoso architetto. Dopo la morte del padre, stimato chirurgo e cardiologo, dovette, giovanissimo, trasferirsi con la madre nella zona proletaria di Portonaccio, adiacente al quartiere San Lorenzo, dove crebbe. Qui, durante il periodo di occupazione nazista della capitale, alla macchia come tanti suoi coetanei, cominciò a disegnare, cercando di rappresentare la realtà crudele, sporca e patetica attorno a lui: lo squallore del paesaggio urbano di periferia, le rovine e le macerie causate dai bombardamenti, il dramma degli emarginati e la povertà del quotidiano. Ma la sua arte non si limitò alla sola esperienza pittorica, fu illustratore di moltissimi capolavori. Come incisore produsse più di quattrocento titoli in acquaforte, vernice molle e litografia. Iniziò a dipingere durante l'occupazione nazista, nascosto presso l’incisore Lino Bianchi Barriviera, suo primo maestro. Il suo lavoro, tra il ‘44 e il ‘48 descrive il volenteroso e maldestro tentativo di resurrezione di un'Italia umiliata, affamata e distrutta dalla guerra. Nel 1956 fonda, con altri intellettuali, la rivista Città Aperta, incentrata sui problemi della cultura urbana. I soggetti delle sue opere sono città, porti, ferrovie e stazioni, spiagge, cui si associa sempre l’analisi del degrado subìto; ma su tutto domina la figura umana, disegnata con perfetta cognizione e immersa in una tipica luce che, se aiuta a connotarla impietosamente, la intride anche di valenze simboliche. Dopo alcuni dipinti con riferimenti a Bacon, dall'ultimo terzo degli anni ‘60 Vespignani esegue ritratti di personaggi del mondo politico e culturale romano ed inizia una significativa
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L’impegno sul territorio
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gni 5 anni, se non avviene prima lo scioglimento anticipato, la Camera viene rinnovata. I deputati (630) vengono eletti dai cittadini che abbiano compiuto 18 anni. Per essere eletti, invece, è necessario aver compiuto 25 anni di età. Dal 2006 12 deputati vengono eletti da cittadini italiani residenti all’estero. La Camera esamina e approva le leggi di iniziativa del Governo, di iniziativa parlamentare, di iniziativa popolare e di iniziativa del Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro o dei Consigli regionali. Durante il Procedimento legislativo, ogni testo è esaminato da una delle 14 Commissioni permanenti o da una Commissione speciale, prima di essere discusso dall'Assemblea. La Camera delibera anche su ogni revisione della Costituzione.
Esponente importante della cosiddetta Scuola Romana che riuniva tra gli anni tra le due guerre molti artisti che lavoravano nella capitale, Renzo Vespignani, a Bracciano non è stato un artista che si rinchiuso nel suo dorato atelier di via San Celso ma, con discrezione, ha preso parte anche ad alcuni momenti della vita collettiva del paese. In molti ricordano il suo interessamento per la produzione di carri di Carnevale. La città poi lo omaggiò con una mostra personale che venne ospitata, presente il pittore, al palazzo comunale. Vespignani fu anche uno dei protagonisti dell’asta collettiva “L’arte della speranza” per la raccolta fondi destinata al progetto di recupero di ex tossicodipendenti Giacomo Cusmano di Anguillara. Portò non solo i suoi quadri ma anche altri lavori di Guttuso, Cagli, Calabria. “Non so di cosa mi dobbiate ringraziare” ha detto in quell’occasione. “Salvare una persona – commentò Vespignani - anche solo una vita umana è fantastico”.
I deputati
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zione: quello stilistico e quello ideologico. Assunto il mondo popolare come oggetto, magari solo di pura denuncia o di dolorosa descrizione, egli avrà sempre la possibilità della “mimesis”, in cui far rivivere nella sua vita, far parlare nella sua lingua, quel mondo. Il pittore - Vespignani - ha fermo, nelle sue linee esterne, davanti a sé, quel mondo: i luoghi dove il proletariato lavora, soffre, ha le sue disperate allegrie, i suoi tremendi grigiori, le sue tristezze senza fondo: riprodurlo significa necessariamente giungere a una contaminazione stilistica». La pittura di Vespignani è estremamente realista, e vuole essere testimonianza e denuncia sociale contro la progressiva alienazione dell’uomo, prima umiliato dagli orrori della guerra e poi soffocato dagli scempi edilizi. Secondo Vespignani, infatti, la ricostruzione del dopoguerra fece emergere l’avidità della nuova borghesia dedita alla speculazione e allo sfruttamento della natura e degli individui, in un contesto in cui si affermava come dominante il modello liberista. E il suo fu un grido di dolore e di speranza. Vittoria Casotti
Gente di Bracciano
Il Parlamento nel disegno della Costituzione (Schema tratto dal sito della Camera dei deputati )
Per la Costituzione (art. 67) “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione” ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato, cioè le sue decisioni non sono vincolate ad un compito specifico, ma sono del tutto libere. Inoltre, secondo l’art. 68 della Costituzione, i membri del Parlamento, non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Il lavoro dei deputati comprende la partecipazione alle attività parlamentari: Assemblea, Giunte, Commissioni e
Appunti per un autoritratto
sequenza di autoritratti. Dal 1969, Vespignani lavora a grandi cicli pittorici dedicati alla crisi della società del benessere: Imbarco per Citera (1969), riguardante il ceto intellettuale coinvolto nel ‘68; Album di Famiglia (1971), uno sguardo polemico sulla sua personale quotidianità; Tra due guerre (1973-1975) un’analisi inflessibile sul perbenismo e l’autoritarismo piccolo-borghese in Italia; Come mosche nel miele (1984) dedicato a Pier Paolo Pasolini. Strettissimo il suo rapporto con la letteratura. Vespignani illustra il Decameron del Boccaccio, poesie e prose del Leopardi, le Opere Complete di Majakowskij, i Quattro Quartetti di Eliot, i Racconti di Kafka, i Sonetti del Belli, le Poesie del Porta, il Testamento di Villon e La Question di Alleg. Nel 1999 viene eletto Presidente dell’Accademia Nazionale di San Luca e nominato Grand’ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana. Scrive di lui il suo grande amico Pier Paolo Pasolini: «Per uno scrittore, almeno apparentemente, parrebbe più facile il far coincidere i due momenti di razionalizza-
La Camera dei Deputati oggi
In questo numero del giornale vorremmo iniziare una rubrica rivolta a tutti per far conoscere il sistema politico ed istituzionale così come stabilito dalla Costituzione italiana. Sarebbe, inoltre, nostro desiderio proseguire il lavoro, nelle prossime uscite, occupandoci delle regole e delle normative del Parlamento europeo. In ogni nuova edizione della rubrica, cercheremo di descrivere con parole semplici quali sono i compiti ed i poteri di ciascun organo costituzionale, come si approvano le leggi e quali sono i rapporti fra le diverse Istituzioni. Una puntata speciale sarà dedicata al Parlamento europeo ed al settore istituzionale dell’Unità Europea.
Renzo Vespignani: artista del reale
Gruppi di appartenenza; la presentazione di atti la cui iniziativa è loro riconosciuta (progetti di legge, emendamenti, interrogazioni, interpellanze, mozioni, ecc.). Il loro lavoro si svolge anche al di fuori della Camera: presso i partiti, le associazioni di cittadini e le circoscrizioni elettorali. Mena Maisano
Gente di Bracciano: laboratorio culturale
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l debutto di Gente di Bracciano, la nuova rivista che avete tra le mani, è avvenuto l’11 gennaio 2014 (sopra due momenti dell’iniziativa) nel corso di uno speciale evento di presentazione che si è tenuto al Caffè Grand’Italia. Gli ideatori, Claudio Calcaterra in primis, hanno illustrato ai tanti intervenuti l’idea, il progetto e le finalità del progetto editoriale che mira a valorizzare il tessuto socio-culturale di Bracciano e non solo, a dare spazio alla memoria, locale e non, a lanciare spunti di riflessione. Un laboratorio culturale in primo luogo aperto a tutti coloro che vogliano condividere gli stessi impegni.
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Gente di Bracciano
“Donne fatali”: emozioni eterne
Storia di un quartiere mai nato Nel 1876 la concessione dell’area al Prato Terra
Medea e le altre e il confronto con l’oggi
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o spettacolo promosso dall’amministrazione comunale di Bracciano per l’otto marzo, giornata internazionale della donna, è stato scritto da Biancamaria Alberi e messo in scena all’auditorium comunale di Bracciano dalla regista Marina Garroni. Le due protagoniste Giuliana Mangione e Benedetta Rustici, in circa un’ora di spettacolo, hanno dato espressione alla forza universale delle emozioni femminili, uguali a se stesse al di là di ogni tempo e di ogni luogo, a partire dai miti greci, fino alla vita contemporanea. La presenza nello spettacolo di Gianpiero Nardelli, unico attore uomo della piéce, ha arricchito il panorama narrativo con la testimonianza dello sgomento maschile di fronte alla determinazione estrema dimostrata dal mondo femminile. Quello che lo spettacolo ha raccontato è l’eternità delle emozioni provate e vissute dalle donne che, dal mondo delle tragedie
Il lago
Foto di Tiberio Ferri
L’
ingresso di Bracciano nel Regno d’Italia nel 1870 segnò l’inizio di una profonda trasformazione urbanistica volta ad adeguare il paese alle nuove esigenze dello Stato Unitario. Molti di questi progetti vennero realizzati (Scuola Elementare, ristrutturazione radicale del Palazzo Comunale, Mattatoio Comunale solamente per citarne alcuni) mentre altri rimasero sulla carta. Ed è proprio di uno di questi che ora parleremo leggendo i documenti conservati nell’Archivio Storico Comunale: il progetto di un nuovo quartiere nella zona di Prato Terra. Il Consiglio Comunale con deliberazione del 28 giugno 1876 aveva deciso di concedere gratuitamente ai cittadini “l’area al Prato Terra di proprietà Comunale ad effetto di Fabbricarvi, in questa zona che verrà stabilita da apposito Regolamento…Il Consiglio incarica l’ing. Sig. Martucci di redigere apposito tipo del terreno da concedersi, e la Giunta Municipale di approvare il regolamento in parola, il tutto d’approvarsi poi da questo Consiglio”. L’ing. Martucci il 25 aprile 1877 presenta al Consiglio il piano “onde fabbricare nel Prato Terra e il disegno relativo, accompagna-
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to da una sua relazione”. L’approvazione del piano viene però rinviata sine die in quanto alcuni consiglieri fanno osservare che nella deliberazione precedente l’ing. Martucci era stato incaricato solamente di redigere “un tipo del terreno, e non un piano come quello presentato dal Sig. Martucci” e che inoltre non era stato presentato e approvato dalla Giunta comunale alcun regolamento così come indicato nella stessa precedente deliberazione. Il piano verrà approvato definitivamente dal Consiglio Comunale nella seduta del 10 gennaio 1880 ma il quartiere non sarà mai realizzato. Ma come doveva essere questo nuovo quartiere? Esso doveva essere formato da sei rettangoli uniti tra di loro per comporre un unico grande rettangolo “Detto rettangolo, secondo la pianta in progetto, è di metri 70 x 100 = uguale a metri quadrati settemila, formandosi così una Piazza ragguardevole e maestosa da aggiunger maggior pregio a quest’Illustre Città. Siccome detta Piazza sarebbe inutilmente spaziosa, si è ideata la costruzione di un giardino di lusso, o comune… Questo giardino dovrebbe avere due ingressi principali da chiudersi con cancelli
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di ferro, ed intorno essere recinto da siepe di mortella per potere impedire in ogni tempo, quando si voglia, la comunicazione a tutti”. All’interno del giardino si sarebbero dovute costruire “due vasche ad uso fontana non solo per ornare, ma per innaffiare altresì il giardino medesimo”. Per quanto riguarda i caseggiati, questi avrebbero dovuto essere nel numero di 20 e “costruiti lungo i quattro lati del grande rettangolo, occupando ciascuno la lunghezza di metri 15 e la larghezza di metri 12, per una superficie di 180 metri quadrati…ciascuna delle dette 20 case da fabbricarsi non deve oltrepassare i limiti stabiliti in Pianta, vale a dire metri 15 di lunghezza, e metri 12 di larghezza.. si raccomanda, anzi si prescrive l’uniformità non tanto per la Pianta (che da ciascun proprietario, che vorrà fabbricarvi, potrà essere divisa e subdivisa in quanto ai vani interni, come meglio gli parerà, e piacerà) quanto per il prospetto, che dovrà essere totalmente simile…perché quest’Illustrissimo ed intelligente Comune desidera non solo l’ultilità pubblica, ma benanche il maggior decoro ed ornamento di questa città, sempre alla pubblica utilità connessa”. Massimo Giribono
Gente di Bracciano
Il paesaggio ci serra in una radiosa bellezza. La natura prepotente, primordiale, si rifugia tra verde lussureggiante e castello incantato e l’uomo si rifugia nell’inebriante panorama che la natura dona. Sopraffatto si trascina in un subliminale paesaggio di bellezza e di quiete. di naturale splendore.
Essenza della vecchiaia Ho sentito una voce, in mezzo a tante voci. Diverse, chiare, forti, opache, lontane sbiadite… Ma questa voce, non somiglia a nessuna. E’ una voce speciale, che sa accarezzare. Ti può far pensare a cose lontane, che non credevi più di poter ricordare…
Composizioni di Claudio Calcaterra
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classiche, restano vive ancora oggi in forme diverse, spesso anche deformate, ma saldamente ancorate ad un modo di sentire connaturato all’essere femminile. Si è trattato di un contributo originale che ha messo a confronto figure mitologiche con personaggi di donne contemporanee, che si sono avvicendate nella narrazione teatrale mettendo in evidenza lo stretto legame tra la loro vita e la potenza del fato. Da qui il titolo “Donne fatali” che traduce il senso dell’appartenenza ad un destino comune che contraddistingue, nel bene e nel male, la natura stessa delle donne. Così ad Antigone, simbolo del sacrificio, è seguito il monologo della testimone di un caso di femminicidio; a Medea, regina rifiutata da una terra straniera, ha fatto eco il racconto del viaggio di una donna africana verso l’Italia; ad Elettra, figlia che odia la madre e vive per vederla morta, è stata accostata l’esperienza di una ragazza moderna che sceglie di fare la escort. Infine, l’ultimo personaggio, Pentesilea, la regina delle Amazzoni, è stato messo in parallelo con l’esperienza di una terrorista italiana degli anni ’80 attraverso gli occhi di un suo vecchio amico. Lo spettacolo ha registrato un successo di pubblico che ha testimoniato il
Le attrici Benedetta Rustici e Giuliana Mangione
proprio apprezzamento con applausi a scena aperta e commenti positivi sulla qualità culturale della piéce teatrale e sulla bravura delle attrici e dell’attore. Lo spettacolo replica il 15 maggio prossimo alle 21 al Nuovo Teatro Stabile “Maurizio Fiorani” di Canale Monterano.
I consigli di una lettrice
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ente di Bracciano dovrebbe dare voce alla ricchezza di questo paese, alle persone nate o che hanno scelto di viverci che lo arricchiscono con la loro cultura, il loro impegno e la loro vitalità. Penso che la rivista dovrebbe dedicare spazio ai personaggi celebri di Bracciano, alle manifestazioni tradizionali, alla letteratura, raccontando di autori locali e recensendo libri delle case editrici locali. Altri argomenti da trattare, a mio avviso, dovrebbero essere l’arte - raccontando delle attività di varie associazioni come la Forum Clodii, la Cerqua o di vari singoli artisti -, la musica con i vari gruppi corali, bandistici e musicali, il teatro, il Novo Cine, ma anche compagnie teatrali, attori o maestri di teatro. Fondamentale anche parlare di scuola, con articoli a cura di numerosi eccellenti docenti in pensione oppure degli attuali dirigenti scolastici su temi riguardanti l’istruzione, il sapere, la conoscenza e la gioventù da crescere. Interessante anche valorizzare l’economia locale a chilometro zero raccontando l’impegno di allevatori e produttori agricoli del territorio. Da mettere in risalto poi l’attività delle associazioni di volontariato, in particolare Farò e Acquaria, l’una per la ricerca oncologica e l’altra per progetti in Paesi di sviluppo, dando voce ai loro obiettivi, per aprire il cuore e la mente a ciò che supera le nostre pure esigenze personali. Infine Gente di Bracciano dovrebbe occuparsi di ambiente e turismo, scrivendo delle ricchezze che rendono questo nostro paese gioiello naturalistico. Luigia de Michele
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Gente di Bracciano