Vicarello secondo il Piano del Parco
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ratori Flavi, approfittando della sommersione delle ville in uecentosettantuno ville, campi da golf ed altro. Era riva al lago, come è ormai accettato, realizzò la sua residenquesta l’ipotesi secondo il famoso Pacchetto za privata sul Colle del Vicarello dei Casale di Vicarello e primi anni ’90 ostegristrutturò l’attuale area giato con successo dal termale del bagno di mondo ambientalista Vicarello dotandola di locale. Ad oggi la storiun nuovo monumentale ca tenuta, di proprietà fabbricato di rappresendella Vicarello spa e tanza sul complesso che fa capo a investitodell’Attuale Casa di ri inglesi, può contare, Ledo - Ninfeo di almeno sulla carta, in Apollo. Secondo il un futuro da azienda Piano del Parco è in agricola, qual è, da programmo un progetto luogo archeologico di di restauro del complespregio e da centro terso delle Terme, “del male. Il Piano del quale può essere previParco di Braccianosta la ristrutturazione Martignano, giunto alla anche ai fini di inserifase delle osservazioni, mento di attività di serstabilisce quanto è previzio o ricettive, comvisto. L’area, 1016 ettapatibilmente con il ri, è, e lo conferma il mantenimento dei prePiano, “uno dei comgevoli caratteri architetprensori più belli deltonici”. l’intera area protetta Si valuta anche la assieme alle Vigne che possibilità di “realizzasi susseguono lungo le re una piscina termale rive del lago in direzioal di fuori delle zone di ne Bracciano”. massimo rispetto e delle La zonizzazione del fasce di rispetto delle Parco ne prevede “un risorse idriche, al fine d regime di massima conservare comunque il tutela per le fasce vegemodo d’uso che è stato tate lungo il fosso e all’origine dell’insedialungo la costa…un mento antico”. Secondo livello di tutela comungli studi di Cordiano que elevato per i piani sulla villa di Domiziano conservati del lago, la il “salone centrale”, salvaguardia del pae“coperto da una volta a saggio di mezza costa degli uliveti, la possibi- Schizzo assonometricidel Ninfeo di Apollo tratto da Sabatia Stagna 2 padiglione, presentava ai lati due nicchioni lità di recupero a fini fiancheggiati da porte e sul fondo un grande e profondo arco sociali e ricettivi dei volumi esistenti, preservando i fabbricacon un finestrone attraverso il quale appariva uno scivolo ti storici integralmente e conservando la tipologia architettod’acqua. Sulla sommità di questo - sempre secondo gli studi nica degli altri, pur permettendo eventuali modifiche interne di Cordiano - doveva ergersi la statua di Apollo, trovata in e gli adeguamenti necessari alle eventuali nuove destinaziofrantumi nell’agosto del 1978 all’interno del medesimo ni”. Si auspica anche “una variante del tracciato stradale a vano e che ha dato convenzionalmente il nome all’intero monte dei fabbricati che ripristini l’unitarietà del borgo”. complesso”. Il Piano indica inoltre che le “limitatissime nuove volumeIn Sabatia Stagna 2, il professor Cordiano mette in evitrie consentite dagli strumenti di tutela, assieme alle possidenza che “alla luce dello sviluppo architettonico e dell’enbilità di ampliamento del 20 per cento, potranno essere reafasi decorativa, il fabbricato viene considerato da alcuni lizzate all’esterno del borghetto con tipologie analoghe ed in specialisti come una “vera e propria villa imperiale”, voluta modo da non interferire visivamente con la piazza ed i da Domiziano in persona all’interno di una dimora articolamanufatti di valore storico monumentale, dei quali si preveta in almeno tre corpi di fabbrica: 1) la residenza privata de invece la sola possibilità di restauro”. Indicato inoltre un prospiciente il lago, 2) il piccolo edificio termale dell’Acqua progetto di valorizzazione delle Terme di Vicarello. L’area è Apollinares e per l’appunto 3) il limitrofo e vasto fabbricainteressata, secondo gli studi condotti dal professor to di rappresentanza detto convenzionalmente “Ninfeo di Giuseppe Cordiano dell’Università degli Studi di Siena, Apollo”. G.V. dalla villa dell’imperatore Domiziano. L’ultimo degli impe-
Gente di Bracciano Febbraio 2017 - numero 13
Gente diBracciano
Febbraio 2017- Numero 13
Dedicato a Caterina
Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente: Claudio Calcaterra
Direttore responsabile: Graziarosa Villani
Redazione: Francesco Mancuso, Vittoria Casotti, Biancamaria Alberi, Luigi Di Giampaolo Collaboratori: Massimo Giribono Fabercross, Pierluigi Grossi, Mena Maisano Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014
Stampa e impaginazione: FEDE 2011 srl Via dei Vignali, 60 - Anguillara Sabazia su carta riciclata Foto di controcopertina di Vinicio Ferri foto di copertina a cura di
Il valore della tolleranza
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oi, civiltà avanzata, sappiamo di vivere in un mondo dove ci sono più diritti, libertà e progresso rispetto al sud del mondo. La storia, non molto lontana del tempo, ci ha raccontato con orrore e commozione, dei trafficanti che razziavano uomini e donne dalle coste dell’Africa per venderli in schiavitù ai signori bianchi, immigrati dall’Europa, proprietari delle immense piantagioni di cotone in America. Oggi, davanti ai nostri occhi a volte un po’ distratti, bande di criminali rapiscono donne giovani e bambini nei loro paesi poveri, per costringere le donne con la violenza alla prostituzione e i bambini all’accattonaggio, se non addirittura alla vendita degli stessi, a personaggi del mondo “civile”, per ricavarne organi umani per venderli a soggetti ricchi che ne hanno bisogno. E di questa situazione, ne approfittano uomini “civili” di tutto il mondo cosiddetto “avanzato”. In un mondo come quello attuale, dove nel mare Mediterraneo muoiono giovani uomini, donne e bambini in fuga dalle guerre e dalla fame, noi dominati dalla velocità, dall’interdipendenza, dall’egoismo e dalla omofobia, restiamo quasi indifferenti a tale tragedia. Gli interrogativi sempre più drammatici che ci poniamo nel capire che tutto quello che si può fare eticamente tra la solidarietà e l’accoglienza, senza se e senza ma, è ritrovare la ragione nella gerarchia dei valori, del bene e del male, per trasmettere alle generazioni future i valori della tolleranza che ci hanno fatto resistere e qualche volta vincere nei momenti della tragedia. Recuperiamo l’intelligenza e la passione per rafforzare i sogni e la speranza di un mondo dove tutti gli esseri umani possano convivere senza odi e senza rancori, per ricostruire fiducia, guardando non solo alla faccia sporca, ma anche alla faccia pulita dei nostri anni e del nostro Paese. Claudio Calcaterra
Monica Vitti tra incomunicabilità e comicità
I mille volti di una grande attrice
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a interpretato l’incomunicabilità ma anche la gelosia, l’allegria, l’impegno politico. Bionda italiana di grande talento ed una carriera di prestigio. Monica Vitti, al secolo Maria Luisa Ceciarelli, resta una delle più grandi attrici italiane del secondo Novecento. Una vera e propria mattatrice in grado di interpretare ruoli diversissimi tra loro. Il prossimo 3 novembre compirà 85 anni. Ma non la si vede in pubblico dal marzo 2002. Assalita da una grave malattia invalidante - si dice demenza senile o Alzheimer - l’attrice, secondo la cronaca gossip, sta vivendo i suoi ultimi anni in una clinica svizzera, una situazione difficile allietata solo dalle visite del suo ultimo marito il fotografo di moda Roberto Russo. Occhi grandi, sguardo intenso, bocca volitiva, Monica Vitti ha incarnato la comicità al femminile ma è stata anche in grado di trasmettere emozioni attraverso i silenzi, i gesti, gli sguardi. Alle spalle di tanta bravura una preparazione solida con la frequentazione, in gioventù, della prestigiosa Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. In una intervista a Maria Grazia Recanati la Vitti commenta: “Il teatro significa fantasia, libertà, cambiare sempre la mia storia, vivere sempre un’altra emozione. Più che gli autori per il teatro, sono stati Silvio D’Amico e Sergio Tofano, due geni, a formare le menti di noi allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Hanno cambiato il tragitto del mio lavoro. Era difficile, si diceva, che una donna potesse essere un comico con la stessa forza di un uomo”. Comicità ed intimità, le due facce di una attrice protagonista del cinema italiano. “Nei film di Antonioni - ebbe a dire la Vitti a Laura Delli Colli - io ci sono, sì come attrice, ma moltissimo come persona, ci sono per intero”. Ma a suo dire la sua libertà l’ha riconosciuta nello scrivere. Due i suoi libri, Sette Sottane, autobiografia, e Il letto è una rosa, giallo romano. Impossibile ricordare i tanti personaggi, la ragazza con la pistola, Teresa La ladra, Ninì Tirabusciò e la sua celebre mossa. Quello che è certo e che i riconoscimenti non sono mancati. Tra questi anche quello di Commendatore all’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Vinti poi tre Nastri d’Argento (La notte, La ragazza con la pistola e L’anatra all’arancia) e cinque David di Donatello (La ragazza con la pistola, Ninì Tirabusciò, Polvere di stelle, L’anatra all’arancia, Amori miei).
Monica Vitti e Michelangelo Antonioni - Archivio Riccardi
Nel 1995 alla Mostra del Cinema di Venezia ritira il Leone d’Oro alla carriera. Anni prima, il 3 maggio 1988, Le Monde, incappato in una burla telefonica, pubblicò la notizia di un suicidio da barbaturici dell’attrice, salvo poi all’indomani scusarsi per la vergogna con un mazzo di rose. Monica è viva,.., Monica vive nei sui film, nelle sue canzoni, nelle sue battute argute, nei suoi intensi sguardi, nei suoi lunghissimi silenzi. A cura di Claudio Calcaterra
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Gente di Bracciano
Lago a rischio: fermare i prelievi Acea
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Cresce la mobilitazione per una corretta e partecipata gestione della principale risorsa del territorio resce l’allarme per i livelli minimi del lago di Bracciano il cui ecosistema è messo a rischio dagli indiscriminati prelievi Acea. L’impatto è notevole visto che studi scientifici, tra i quali quelli condotti da Loreto Rossi, docente di Ecologia evidenziano rischi concreti, che la riduzione del volume d’acqua disponibile agli ecosistemi lacustri impatta sullo stato di funzionamento dell’ecosistema e per l’ecologia delle specie lacustri (riduzione delle capacità autodepurative del sistema lacustre, sostituzione e scomparsa di specie, riduzione della biodiversità, variazioni delle concentrazioni di nutrienti ed inquinanti, variazioni dell’idrodinamica costiera con accentuazione dei fenomeni erosivi, riduzione del valore frattale della linea di costa, scomparsa della vegetazione infralitorale, scomparsa dei siti di riproduzione dei pesci foraggio, riduzione della pressione idrostatica sulla falda, frane). Il lago potrebbe diventare uno stagno senza vita. È infatti nella fascia riparia che il lago concentra la sua vitalità. La questio-
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ne, ormai annosa, è tornata con drammaticità in queste settimane. On line una petizione per chiedere a Zingaretti di fermare la captazione ha superato le mille sottoscrizioni alla data del 10 febbraio. Si e mosso con convinzione anche il Comitato di Difesa dei Laghi di Bracciano e Martignano che si era costituito proprio con lo scopo di individuare strumenti di gestione trasparente e partecipata della risorsa lago. A fare orecchie da mercante, ancora una volta, l’Acea che nella riunione del 30 gennaio Progetto SMALL - Sistema Monitoraggio Ambientale dei Livelli del Lago, coordinato dal Consorzio Lago Bracciano ha ammesso candidamente che i prelievi ci sono e sono consistenti. “ACEA Ato2, a fronte delle preoccupazioni emerse in merito alla entità delle captazioni dell’acqua del lago - si legge nel comunicato diffuso dal Consorzio Lago Bracciano relativo all’incontro - sottolinea che la stessa rispetta in pieno le contrattualistiche della Concessione per la gestione del servizio idrico, stipulata nel giugno 1990, avente durata di
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settanta anni, con il Ministero dei Lavori Pubblici, il Ministero del Tesoro ed il Ministero delle Finanze. La suddetta concessione prevede che L’ACEA: …. “derivi dal lago di Bracciano moduli medi 11 (litri/secondo 1.100) con un valore massimo in casi eccezionali di moduli 50”. ACEA sottolinea inoltre che, stando così i fatti, il vero problema non è la captazione - si legge ancora nel comunicato - ma le eccezionali condizioni meteorologiche caratterizzate dalla scarsità di precipitazioni piovose e che, comunque, il non emun-
Gente di Bracciano
La struttura azionaria di ACEA Spa
gimento non è una soluzione praticabile in quanto si lascerebbero a secco la Capitale ed i Comuni serviti”. Tutto questo non può continuare. Mentre in Parlamento si annunciano interrogazioni e l’intervento dei ministri Galletti e Delrio. Il Comitato chiede con convinzione la revisione degli accordi. Si consideri che per i bassi fondali anche la motonave Sabazia II non può navigare. Gente di Bracciano si fa protagonista di questa battaglia consapevole che attorno al lago ruota la vita dei paesi lacustri. Si tratta di una battaglia ambientale che deve essere condotta a tutela di tutte le categorie economiche del territorio. Acea, che non è più quella delle origini ma una delle “principali multiutility italiane”, quotata in Borsa e votata al profitto (si veda il grafico). Non può certo farlo sulla testa dei cittadini del territorio. Gente di Bracciano fa proprio la posizione assunta dal Comitato. “Il grave allarme creato dall’emergenza livello delle acque del lago -
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commenta il Comitato - ha risvegliato qualche istituzione (non tutte e non quelle più interessate al fenomeno) dal letargo in cui erano cadute. Un risveglio inefficace a giudicare dai risultati appresi dal comunicato diffuso a seguito della riunione presso il Consorzio Lago di Bracciano. Il Comitato di difesa del bacino lacuale dei laghi di Bracciano e Martignano è dalla primavera scorsa che lancia grida di allarme sulla preoccupante escursione del livello del lago. Nessuno ha battuto un colpo fino ad oggi. Assolutamente insufficiente dice ancora il Comitato - il risultato dell’incontro citato non solo per le risoluzioni scontate ma anche per la quantità e la qualità delle istituzioni presenti. Quella riunione, dove mancava il Comune di Roma e la Città metropolitana di Roma, è risultata essere una inaspettata tribuna per le arroganti performances della Acea sulle proprie inopinate giustificazioni riguardo all’incontrollato prelievo di acqua potabile per l'uso di ATO 2. È ora di farla finita di lasciare al solo ente tecnico strumentale Acea campo libero di valutare arbitrariamente il prelievo
delle acque del lago senza nessun controllo politico istituzionale in grado di valutare le conseguenze scientificamente rilevanti, sul piano ambientale, socio-economico ed igienico-sanitario per l'intero territorio. Bisogna istituire una Autorità Istituzionale per il governo complessivo della delicata gestione del regime delle acque del territorio sabatino. Questo è l’obiettivo di fondo del comitato costituitosi ufficialmente l’estate scorsa. Non servono più petizioni di principio - osserva il Comitato - o sigle di acronimi strani come SMALL o anche (precedentemente) COBIS. È arrivata l’ora di ribellarsi a questo stato di cose anche da semplici cittadini. Le azioni immediate che il Comitato intende perseguire sono: 1) Un esposto al Ministero dei LLPP (magari con petizione popolare allegata) dove risiede la custodia della “famigerata” Convenzione che dà alla Acea il potere di imperversare sull’intero ciclo delle acque del territorio lacustre (convogliamento-anello circumlacuale-e depurazione delle acque nere; captazione, potabilizzazione e distribuzione delle acque ad uso domestico). Bisogna interrompere questo circolo tutto in mano ad un ente meramente tecnico. 2) Adire, con le stesse motivazioni, - conclude il Comitato - l’Autorità Nazionale delle acque per chiedere un suo autorevole intervento per restituire alle popolazioni sabatine i loro diritti di cittadinanza e la loro dignità di autogoverno”. Graziarosa Villani
Il Molo di Anguillara si evidenzia il vistoso abbassamento rispetto allo zero
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Gente di Bracciano
Venere e Adone: storia di una scultura
L’opera resta l’unica testimonianza dell’arte sofisticata dell’artista Cristoforo Stati
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l Comune di Bracciano conserva un gruppo scultoreo in marmo raffigurante Venere e Adone, di grandi dimensioni e di raffinatissima fattura. È l’opera di uno scultore braccianese, vissuto negli anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo. Egli aveva lavorato quasi sempre lontano da Roma, ma ritornato nel feudo del duca Orsini, volle lasciare una memoria di sé nella terra natale. Lo scultore si chiama Cristoforo Stati: ebbe un figlio; anch’egli scultore di nome Francesco. A entrambi viene dedicata una breve biografia nell’opera di un contemporaneo G. Baglione, pittore e storiografo, nonché autore della più interessante panoramica sugli artisti presenti a Roma tra la fine del ’500 e le prime tre decadi del ’600. Artista egli stesso, Baglione ci dà quasi sempre una lettura critica illuminante dell’attività dei suoi compagni d’arte (anche se lo animò un’inimicizia irriducibile col Caravaggio). Ecco che cosa dice il Baglione a proposito di C. Stati:“…Non passerò in silenzio Cristofano Stati da Bracciano, che ivi hebbe il suo natale, ma però nella città di Fiorenza fu allevato; ove studiò i fondamenti e regole della Scoltura e in esse ne divenne ragionevole e buon Maestro. E d’indi giunto a Roma diedesi a cercare le anticaglie e pezzi di statue vecchie, per mandarle (come si diceva) a Fiorenza. e tanto fisso l’animo vi applicava, che vi consumò gran tempo, e poco di scultura qui fra noi operò. Fece per gli Eccellentissimi Signori Barberini nella prima Cappella a mano manca in S. Andrea della Valle la prima statua pure a mano manca di Santa Maria Maddalena a sedere, assai buona figura e accomodata attitudine in marmo. E dentro il nicchio al man dritta dove è la memoria di S. Sebastiano martire, fece la statua di marmo a sedere di Monsignore Barberino. Ha fabricato ancora Christofano braccianese una Venere, e un Adone di finissimo marmo, che in Bracciano ritrovasi, figure nude con sì bell’arte condotte e sì al vivo spiranti, che innamorano chiunque a loro riguarda. E qui in Roma nel vaghissimo giardino dé Signori Mattei alla Navicella ha egli una statua rappresentante l’Amicizia, molto bene in marmo scolpita”. Il Baglione continua citando il bassorilievo raffigurante gli ambasciatori stranieri in udienza dal pontefice che Cristoforo eseguì, forse con la collaborazione del figlio Francesco per il monumento funebre di Paolo V nella Cappella Paolina di S. Maria Maggiore, dà qualche informazione su Francesco, che una molteplicità di interessi
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Il 10 maggio 2014 è stata inaugurata al Museo Civico di Bracciano la postazione interattiva multisensoriale che consente, in scala, la fruizione della scultura Venere e Adone da parte di un pubblico non vedente
aveva distratto dalla scultura, nonostante fosse dotato di buon talento. Nella sua brevità il profilo che il Baglione disegna dà quindi alcune notizie essenziali per comprendere il carattere e il percorso di Cristoforo. In quegli anni gli artisti che lavoravano come scultori a Roma si erano formati o a Firenze o in Lombardia ed è comprensibile, dati gli stretti rapporti tra gli Orsini e i Medici che un vassallo degli Orsini fosse avvia-
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to a studiare arte a Firenze, patria della duchessa Isabella, dove peraltro la scultura vantava artisti del livello del Gianbologna. Rispondendo inoltre alla cultura della fine del ’500 e alla richiesta crescente di oggetti antichi che veniva da tutta la società colta del tempo, come molti artisti contemporanei, lo Stati si dedica al recupero e all’imitazione dell’antico, probabilmente non solo a vantaggio dei suoi nobilissimi patroni, Medici e Orsini, ma ricavandosi uno spazio nel mercato, favorito per di più dall’origine romana. Queste notizie trovano riscontro nel gruppo di Venere e Adone. L’ispirazione alla scultura del Giambologna, con le sue figure intrecciate e “serpentinate” (basta ricordare del Gianbologna il Ratto delle sabine nella loggia dei Lanzi) si fonde con il gusto di ricreare l’antico; tutto questo senza che però venga annullato in uno schema astratto ed elegante di forme geometriche il sostanziale naturalismo dei due nudi. Che anzi, giustificando in pieno le parole di ammirazione del Baglione, le figure sono tali da entrare in stretto rapporto psicologico con l’osservatore e comunicare una sottile emozione, grazie allo studio dal vero che si accompagna alla grazia manieristica e all’imitazione dall’antico. Se si fa attenzione anche solo allo scambio di sguardi che lega i due amanti ci si rende conto che il pittore storiografo Baglione ne coglieva tutta l’intensità espressiva quando definiva tali figure “vive e spiranti”; tanto da innamorare chi li riguardava. In questo senso lo Stati precorre per alcuni aspetti la sensibilità seicentesca. Una notizia ulteriore: la scultura era rimasta pressoché ignorata dagli studiosi in una stanza del palazzo comunale dove, fino al 1957 nessuno degli storici che si erano occupati dello scultore aveva pensato di cercarlo. È stato “scoperto” da un esimio studioso oggi scomparso, V. Martinelli, che riconobbe, nascosta sotto un cumulo di bandiere tricolori (che forse occultavano le nudità ritenute audaci) l’opera menzionata dal Baglione. Il Comune di Bracciano era invece ben consapevole della sua esistenza. Data l’eccellenza dell’opera, degna di figurare in un Museo, i duchi di Bracciano la ritennero proprietà di famiglia, e la trasferirono a Roma. Ma il Comune, sulla base di un documento originale, poté dimostrare che la scultura era stata offerta dall’artista non agli Orsini, ma alla comunità di Bracciano: e ne ottenne la restituzione. È stato così possibile dare un’esposizione adeguata alla scultura, che resta a Bracciano l’unica testimonianza dell’arte sofisticata di Cristoforo Stati. Alma Maria Tantillo
Gente di Bracciano
L’arcadico duca Livio Odescalchi
Nel 1696 acquistò il feudo di Bracciano per 386.300 scudi
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l poeta e storico Giovanni Mario Crescimbeni nel primo dei tre volumi che compongono l’opera da lui curata, “Notizie istoriche degli Arcadi morti” a proposito del Duca di Bracciano scrive: “Don Livio Odescalchi Comasco Principe del Soglio Pontificio, e del S.R.I. Grande di Spagna, Cavaliere del Tosone, Duca del Sirmio, di Bracciano, e di Ceri, e signore d’altri nobili feudi, figliuolo di Carlo Odescalchi fratello del Venerabile Papa Innocenzio XI. nacque l’anno 1655. E nella sua più tenera giovanezza, passata sotto l’esemplare educazione del mentovato suo Zio, allora Cardinale di S. chiesa, la fortuna alzollo al grado di Nipote del Papa. Ma siccome quel gran Pontefice, tra le altre sue insigni Virtù, fece sempre spiccare un’eroica Umiltà, accompagnata da un total disprezzo delle leggi del sangue; così quanto egli non volle mai, che Don Livio assumesse pubblicamente il titolo di Nipote …”. Livio Odescalchi nasce a Como il 10 marzo 1658 e non nel 1655 come riporta il Crescimbeni, unico figlio maschio di Carlo e della marchesa Beatrice Cusani. Famiglia di antichissima origine, gli Odescalchi, la leggenda narra di un Odo Scalcus, uno fra i dodici paladini al fianco di Carlomagno nella sua discesa in Italia. Si ritiene però più attendile la versione che fa risalire al capostipite un tal Giorgio, vivente in Como nel 1290. Don Livio non usufruisce del consueto “nepotismo dei papi”, non è uno dei numerosi “cardinal nepoti” della storia. Durante il pontificato dello zio non ha nessun potere istituzionale, ma beneficia del patrimonio privato dello zio, che lo sostiene nell’acquisto del feudo di Ceri (1678). Continuiamo a seguire il Crescimbeni: “E talmente il fece, che Don Livio ottenne d’altra parte tutti gli onori, e i trattamenti, che gli sarebbero stato dovuti, se il Papa l’avesse dichiarato Nipote … e oltre a ciò al Ducato di Ceri, che già aveva, aggiunse anche quello in Italia non poco riputato di Bracciano”. Come è noto il feudo di Bracciano viene acquistato da Livio Odescalchi nel 1696 per 386.300 scudi. Don Livio ha un carattere forte e una notevole intraprendenza per gli affari immobiliari. Oltre al ducato di Bracciano acquista le pontine nel 1701 con l’intenzione di prosciugarle e bonificarle; pochi anni prima, nel 1687, ha acquistato la villa “fuori Porta del Popolo”, villa Grazioli a Frascati. Nel 1693 compra la rocca di Palo degli Orsini e nel 1695 dal Conte Ferdinando Celsi Montemarte della Corbara la tenuta della “Castellaccia” fuori porta Flaminia. Con l’intento di dare impulso al ducato di Bracciano incarica l’architetto Carlo Buratti di progettare e costruire un acquedotto per favorire la nascita di una cartiera, di una serie di mulini, alcune ferriere e naturalmente per rifornire le fontane. Parallelamente agli affari, Don Livio Odescalchi ottiene dei successi militari e politici. Seguiamo il Crescimbeni: “… il Sacro Collegio nella Sede Vacante per morte dello stesso suo Zio il ricevè in qualità di Generale di Santa Chiesa; e l’Imperador Leopoldo il qualificò col titolo di Principe del S.R.I. e gli fece dono del Ducato di Sirmio nell’Ungheria, col quale tra i Sovrani dell’Europa venne anch’egli connumerato;”.
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Leopoldo I premia la sua fedeltà alla politica asburgica, lo nomina principe del Sacro Romano Impero nel 1689 e qualche anno dopo oltre all’attribuzione del ducato di Sirmio e di Sava estende il privilegio a fregiarsi del titolo di Sua Altezza Serenissima, principe dell’Impero, anche agli eredi. Ancora il Crescimbeni “… mentre morto il Re di Pollonia Giovanni III. permise altresì, che tra i Candidati per assumer la Corona di quel Regno fosse anche egli non tra gli ultimi considerato. (gli viene preferito il principe elettore di Sassonia Augusto II il forte). Ed in vero ben conferma l’alta estimazione, che colà esigeva, il fatto di Maria Casimira Regina Vedova del mentovato Re Giovanni, la quale venendo a Roma non solamente gradì d’esser da lui ricevuta nel proprio Palazzo, cui ben sempre ha mantenuto con regal magnificenza adornato, avendo a tale effetto fatta compra di tutti i preziosi mobili della Regina Cristina di Svezia”. Il Crescimbeni che ci ha accompagnato in questo brevissimo ritratto di Livio Odescalchi ci delinea un altro tratto della molteplice personalità del Duca di Bracciano: il versatile collezionismo, il mecenatismo, la passione per l’arte, per tutto ciò che è cultura. Il suo interesse per l’arte è anche il modo di imporsi all’interno delle complesse dinamiche sociali della Roma di fine Seicento, una sorta di riscatto per Livio che non ha goduto dei privilegi abitualmente accordati ai nipoti dei papi. L’acquisizione della collezione artistica della Regina Cristina di Svezia e la conseguente galleria del palazzo di piazza Santi Apostoli rappresentano il punto più alto della strategia nell’ascesa politico-sociale realizzata da Livio Odescalchi. È il 5 ottobre del 1690 quando 14 letterati, tra cui Giovanni Mario Crescimbeni, Gian Vincenzo Gravina, Scipione Maffei, viene stipulato l’atto costitutivo dell’Accademia dell’Arcadia sorta sulle spoglie dell’Accademia Reale scioltasi l’anno precedente, alla morte della sua fondatrice, Cristina di Svezia. Il gruppo si ispira alla religione greca, emblema fin dall’antichità di vita pura e innocente ed ha come obiettivo combattere la magniloquenza barocca con un’idea di letteratura vicina alle opere della classicità greca e latina. I membri dell’Accademia scelgono uno pseudonimo che ricorda l’identità di pastori-poeti arcadi e si riuniscono in un luogo chiamato Bosco Parrasio per declamare i loro versi. Livio Odescalchi aderisce all’Accademia nel 1692, seguiamo ancora il Crescimbeni: “Ora a questo ben degno Principe la nostra Adunanza, alla quale fu annoverato l’anno 1692. a’ 10. d’Aprile, col nome d’Aquilio Naviano…” e qualche anno dopo, nel 1711, concede ai membri dell’Arcadia Nuova nata dalla disputa tra Crescimbeni e Gravina culminata con la scissione dell’Accademia in due gruppi poi ricompattatisi nel 1719, l’uso della sua villa fuori Porta del Popolo per svolgere le proprie attività. Viene eletto Custode Generale dell’Arcadia. Livio Odescalchi muore a Roma l’8 settembre 1713 nel palazzo di piazza Ss. Apostoli. Fabercross
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I terremoto. Il sentimento di Mena
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ncontro Mena nella sua casa che si affaccia sul lago. Il cielo ha colori pastello e il lago ci si specchia. Sembra un quadro di Monet. Siamo rapiti da quella magia, mi volto e vedo Mena con uno sguardo solcato da una commozione interiore che non riesco a indagare, so solo che il suo pensiero non sta viaggiando sulle immagini che il lago ci sta regalando. Ci sediamo, uno davanti all’altra, tra noi un tavolo. Mi guarda negli occhi dove vedo trattenersi lacrime tristi e insieme dense di desiderio di partecipare il suo stato d’animo. E comincia a raccontarmi di un lontano inverno del 1980…erano circa le 20.00 del 23 novembre, ero comodamente seduta sul divano del mio salotto con la televisione accesa in attesa delle notizie del giorno. Ed ecco, apparire sullo schermo, "Edizione straordinaria". Era arrivata la notizia del terribile terremoto in Irpinia. Poi cominciarono ad arrivare le prime immagini, dove prima c’erano case ora si vedevano solo macerie. Il mio primo pensiero andò a quella sera di alcuni anni prima in cui ero a casa, rientrata da poco da una giornata di lavoro e vidi improvvisamente i lampadari ballare e le ante degli armadi aprirsi e chiudersi, anche il mio stomaco ballava e sentii la paura invadermi. Pensai a qualche scherzo di fantasmi, poi la realtà prese il sopravvento e capii che quei dondolii erano frutto di un terremoto. Intanto sullo schermo continuavano ad arrivare immagini di morte e di dolore. La notte non riuscii a dormire. La mente continuava a tornare a quelle immagini. A quella povera gente così duramente colpita. La mattina successiva arrivai molto presto in ufficio, con l'animo in subbuglio e il desiderio di fare. Come se il cielo mi avesse ascoltata, trovai un gruppo di colleghi pronti a partire per quei luoghi distrutti e rimasti isolati dal terribile sisma. Andavano in avanscoperta per poter rendersi conto di quali concreti aiuti portare a quei poveretti. Tornarono sconvolti per gli orrori visti e le grida di disperazione dei sopravvissuti. Esistevano solo macerie e morte. Intere famiglie senza tetto. Nevicava e gli scampati al sisma non avevano di che coprirsi e di che sfamarsi. Bambini spaventati (alcuni rimasti orfani). Insomma, ci volle poco per trovare, fra i dipendenti della Camera dei deputati, un gruppo di volontari che sarebbe partito di lì a poche ore ed anch'io decisi di partire. Si ferma un attimo, avverto il suo stato gassoso, le sue parole escono crinate da un dolore che non riesce ad emergere completamente. So della riservatezza di Mena e della fatica che sta facendo per estrarre da sé la memoria di quel disastro e comincio ad intuire il motivo che l’ha spinta a esplicitarla, ne ho conferma quando riprende a parlare…sai sono notti che dormo affaticata, ho sempre davanti agli occhi il terremoto che si è scatenato nell'Italia centrale, ma ancor più per le immagini di Rigopiano, di quella valanga assassina e dell’incuria dell’uomo: ma come si può morire in quel modo atroce? Avverto che non è una domanda ma un urlo al mondo, avverto che parla la sua ferita non rimarginata dell’altro terremoto, intanto due lacrime sfuggono al suo controllo e scorrono doloranti sul suo viso…non si può morire così…ripete quasi a fermare il tempo del suo dolore…sai avevo bisogno di far uscire dalle mie caverne questo mio stato d’animo, vorrei che le parole che scriveremo possano essere un monito contro l’inettitudine dell’uomo davanti a queste tragedie…poi riprende a parlare dell’Irpinia…era notte fonda quando arrivò il pullman che ci avrebbe portato sui luoghi della tragedia, fu un viaggio particola-
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La Scuola di Mena
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re, pochi avevano voglia di parlare, pochi strapparono alla notte qualche ora di sonno, gli sguardi erano incerti, quasi timorosi, nulla sapevamo di cosa avremmo trovato e cosa avremmo potuto fare, l’animo ingombro di dolore per i morti annunciati, forti solo della nostra voglia di esserci, per aiutare quella popolazione in disgrazia. Giungemmo all’alba e cominciammo a vedere gli effetti del disastro, paesi rasi al suolo, strade sparite e poi quella lunga teoria di abiti abbandonati sul ciglio di quelle che una volta erano le strade. Sapemmo dopo che erano altri gruppi di volontari arrivati fin lì, con le loro macchine che non potevano più andare avanti, allora lasciavano i loro aiuti lì, qualcuno a piedi avrebbe potuto raggiungerli. Ancora uno stacco, sento che Mena ha bisogno, ogni tanto, di riallacciare i fili dell’esperienza irpina con i fatti di Rigopiano…questi sono i veri eroi, persone meravigliose che affrontano disagi e fatiche immani per portare soccorso a quell’umanità dolente…Castelnuovo di Conza e Santomenna erano paesi distrutti, Santomenna addirittura irraggiungibile per le frane che avevano ingoiato le strade di accesso, solo a piedi si poteva sperare di arrivarci. Io e Roberto decidemmo di andare a portare soccorso proprio a Santomenna, qualche ora d’inerpicamento e arrivammo in quello che era stato un paese. Qui ho imparato il silenzio della morte. Macerie, solo macerie, qui e là affioravano mani, piedi, corpi devastati dalle rovine crollate addosso, non so ricordare i sentimenti che mi assalirono davanti a quelle immagini, ero come in apnea, tutte le energie impegnate a respirare, a strozzare l’orrore che mi saliva in gola. Ogni tanto un’ombra furtiva, i pochi superstiti alla ricerca di qualche speranza erano senza voce e senza peso, anime morte. Poi incontrammo un gruppo di militari, laceri, sporchi, affamati, a grattare con le unghie per provare a sentire un respiro di speranza. I morti li mettevano dentro dei sacchi che allineavano uno accanto all'altro sotto un muretto. Nessuno di loro seppe o volle dirci come erano arrivati e a quale ordine stessero obbedendo. A sera tornarono giù a valle con noi per un piatto di minestra e qualche abito asciutto. Questi sono i veri eroi, persone meravigliose che affrontano disagi e fatiche immani per portare soccorso a quell’umanità dolente…prende fiato Mena, sempre in quello stato gassoso che le attraversa la memoria e i sentimenti, la sua è una nenia dolente che non sa rassegnarsi a tanto dolore e che ha sentito il bisogno di raccontare la sua esperienza irpina nella speranza che possa attivare solidarietà, nuova e più forte solidarietà, per quegli uomini e quelle donne colpiti negli affetti più profondi, spesso privati anche della speranza del domani, poi riprende…intanto avevamo cominciato, con i mezzi portati con i camion, a dare aiuto alla popolazione. Ricordo ancora con un misto di gioia e disperazione gli enormi pentoloni di rigatoni al sugo che sfornavamo, loro chiedevano insieme una fetta di pane, ad asciugare il dolore e la fame. Le donne erano senza lacrime, quasi che rifiutassero di sentirsi parte di quella tragedia immane, forse era anche un modo per sopravvivere ai tanti cari perduti. Gli uomini cominciarono ad aiutarci, ma era difficile
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sapere cosa fare, mancava un coordinamento generale delle attività…a queste parole un moto di rabbia dà il cambio al dolore…non si può morire così… poi un lieve sorriso, lento, antico…sai, il momento più toccante fu quando, riaperte in una tenda le attività scolastiche, cominciai a leggere ai bambini favole, a farli giuocare a campana, a palla, a incuriosirli con le tabelline, una scuola da campo per allontanare i loro occhi e le loro menti da quanto li circondava. Mi donò gioia anche il dialogo che si aprì con le ragazze, perché riuscivano a dire a me, donna, quei loro bisogni che mai avrebbero consegnato a un uomo…un nuovo stacco, un nuovo accorato appello alla solidarietà, devo dire che ho avuto quasi la percezione che si sentisse come una naufraga su un’isola deserta che lancia in mare la bottiglia che contiene il suo messaggio di speranza. Poi la sua voce s’incrina di nuovo, sento paura nelle sue parole… una mattina andai, con un collega, su una piccola altura che sovrastava il campo, avevamo bisogno di spazi dove mettere altre tende per i sopravvissuti, arrivati in cima, vivemmo attimi di vero terrore, vedemmo davanti a noi la terra aprirsi e chiudersi con una violenza a noi inconosciuta, la fraglia ci lambì i piedi, poi il silenzio, un silenzio cupo, denso del nostro terrore… la interrompo e le chiedo perché ha sentito così vicina la memoria del territorio irpino con quello che è successo in Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria…. perché della mia esperienza ricordo insieme gioia e dolore, gioia di qualche sorriso strappato alla tempesta, dolore della condizione di quelle povere anime in fuga dal niente dei loro paesi. Ho negli occhi la gratitudine di tante persone a cui abbiamo donato un piatto fumante di pasta, una medicina per lenire una tosse, un mal di pancia. Perché ho nell’animo l’immagine di quelle mani che affioravano dalle macerie, le lacrime inconsolabili di
persone che non ritrovavano più nessun figlio, parente, amico, gli sguardi torvi di chi sentiva di aver subito un’infame ingiustizia a cui nessuno avrebbe dato giustizia. Così come sta accadendo in Abruzzo e nelle altre Regioni; centinaia e centinaia di eroi generosi a salvare vite e donare un sorriso, una macchina istituzionale lenta e spesso in ritardo, non deve più succedere, mai più, mai più, aiutiamoci ad aiutarli…sento dalla forza dolorante delle sue parole che non è solo un invito a fare di più, ma un bisogno profondo che cerca di smuovere la pigrizia atavica che spesso attanaglia le istituzioni davanti a queste tragedie. Non so come Mena vorrà chiudere questo nostro incontro, poi, sorpreso, la sento dire…poi, sai, come spesso accade, la vita riprende a offrire spazi di futuro. Fu nel nostro campo che vollero sposarsi due giovani. Preparammo una torta e offrimmo il vino che aiutò tutti, quel giorno, a ricostruire una qualche idea di futuro. Francesco Mancuso
Roberto e Mena
Gli abiti abbandonati sul ciglio della strada
Barbara e Mena
Il matrimonio
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Tommaso Tittoni: l’influente senatore
Potente sotto la monarchia ma anche durante il Fascismo, l’eminente proprietario terriero che volle la ferrovia Roma-Viterbo e fondò l’Accademia d’Italia
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Bracciano, ormai da varie generazioni, i bambini hanno il loro primo impatto con la scuola nelle aule della Tittoni. L’edificio intitolato a Tommaso Tittoni ospita, da circa 90 anni, gli alunni delle elementari ai quali, successivamente, si sono aggiunti i bambini della scuola materna dopo l’istituzione della stessa da parte dello Stato. Il nome Tittoni è quindi molto famigliare e di uso comune tra la popolazione ma forse pochi sanno chi effettivamente sia stato questo personaggio che è apparso all’orizzonte e nel linguaggio dei braccianesi fin dalla più tenera età. Nato a Roma nel 1855, ma originario da una famiglia manzianese, morì nel 1931 dopo aver ricoperto varie cariche pubbliche, sia elettive che di nomina, essendo stato Prefetto, Ambasciatore, Deputato per varie legislature, Ministro Tommaso Tittoni degli Esteri, Senatore e Presidente del Senato. Nel marzo 1905 fu anche Presidente del Consiglio dei Ministri, sia pur “ad interim” per soli 15 giorni. Per meglio chiarire il suo pensiero e per una conferma dei suoi propositi politici non proprio succubi al fascismo, anche se collaborativo con il regime, si riporta il suo intervento al Senato effettuato in data 2 giugno 1924 in occasione della riconferma della sua terza presidenza consecutiva, durata complessivamente 10 anni. “Onorevoli colleghi! Schietta e profonda nella sua semplicità è la parola di gratitudine che io vi rivolgo, poiché grande e legittima è la soddisfazione che provo per essere stato chiamato a quest'alto ufficio con notevole maggioranza di suffragi e per ben tre volte, in epoche che corrispondono a situazioni politiche così diverse, e da un’Assemblea così eccelsa e nella quale è così vivo ed affinato lo spirito critico. E tanto più grande è la mia soddisfazione in quanto ho la coscienza di aver adempiuto il mio dovere nei limiti modesti delle mie forze, ma con uno zelo ed una passione che mai si affievolirono; di aver sempre avuto in cima dei miei pensieri il prestigio, l'autorità e la dignità del Senato; e di non aver mai pensato di attenuare o scolorire la mia personalità per renderla adattabile ad una troppo estesa generalità di consensi che un uomo politico, il quale tiene alla propria fisionomia, non deve desiderare.” La sua rapida carriera pubblica che lo vede prima impegnato come membro del Consiglio Provinciale di Roma (agosto 1881- dicembre 1886) in rappresentanza del mandamento di Bracciano e poi eletto deputato nel 1886, a soli 31 anni, sostituendo alla Camera il padre Vincenzo, nel frattempo passato al Senato. Rimarrà in carica per quattro legislature fino al 1897 militando sempre nel gruppo della destra storica. Come deputato utilizzò in ambito legislativo la sua profonda conoscenza degli usi civici che gravavano come domini collettivi nelle campagne romane e contribuì alla stesura della legge che nel 1894 riconobbe le Università Agrarie come persone giuridiche. Il suo impegno, si evidenziò poi non del tutto disinteressato, fu determinante anche per la realizzazione della linea ferroviaria Roma-Viterbo, da lui sostenuta in Parlamento e come presidente del consorzio di imprese che costruirono la tratta dal 1889 al 1894 (la linea fu inaugurata il 29 aprile 1894 con gli inviti che portavano la sua firma di presidente del consorzio). In quel periodo faceva parte anche del Consiglio della Provincia di Roma, della cui Assemblea fu presidente dal 1893 al 1898 e, successivamente, dal 1905 al 1920. Questo suo impegno nella vita pubblica, che lo vedeva schierato su più fronti cumulando contemporaneamente varie cariche, non gli impedì di curare anche tematiche scientifiche che furono esposte in trattati, come, tra gli altri, quello sulla configurazione geologica dei vulcani laziali. Questa sua versatilità di conoscenze letterarie e scientifiche lo porterà ad essere, come vedremo, il primo Presidente dell’Accademia d’Italia. Con il 1898 Tommaso Tittoni lascia le cariche pubbliche elettive e si trasforma in un burocrate di Stato di alto livello. Viene nominato Prefetto di Perugia, ruolo che mantiene per tre anni fino al 1900
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(maggio 1898-settembre 1900) quando, con lo stesso incarico, viene trasferito a Napoli, dove rimarrà fino al 1903 (settembre 1900 - novembre 1903). Da notare che in quel periodo era poco più che quarantenne mentre la tradizione del tempo prevedeva per questa carica personaggi di una certa età. L’apprezzamento per il lavoro svolto gli porterà come riconoscimento la nomina a Senatore, avvenuta nel dicembre 1902, da parte del Re. Ma il grande salto avviene nel 1903 quando Giovanni Giolitti lo volle come Ministro degli Esteri del suo secondo governo. Il giornale La Tribuna, in un editoriale del 31 ottobre 1903, scrive che “Tittoni fu scelto perché è gentiluomo, colto, studioso e giovine”. Con la crisi governativa dell’inizio del 1905 e le conseguenti di-missioni di Giolitti, Tommaso Tittoni assunse l’interim della Presidenza del Consiglio per 15 giorni, su indicazione del Re, per lasciare poi l’ incarico al suo successore Alessandro Fortis, assumendo però la carica di Ministro dell’Interno. Successivamente, nel 1906, Tittoni viene designato quale Ambasciatore a Londra, ruolo che svolge per poco tempo (marzo-maggio 1906) perché, con la formazione del terzo governo Giolitti, fu di nuovo nominato Ministro degli Esteri, carica che ricoprì fino al 1909. Dal 1910 al 1916 fu invece Ambasciatore a Parigi e nel 1919 rappresentò l’Italia alla Conferenza di pace come capo delegazione. Nello stesso anno 1919 ritornò a fare il Ministro degli Esteri nel primo governo Nitti per assumere poi nello stesso anno la carica di Presidente del Senato che mantenne ininterrottamente fino alla fine del 1928.Terminata la sua cinquantennale carriera politica, all’età di 74 anni, anziché dedicarsi ad un meritato riposo fu chiamato a ricoprire un nuovo prestigioso incarico culturale ed operativo nello stesso tempo: la presidenza della Accademia d’Italia appena fondata. È lui che accoglie tra i membri dell’Accademia personaggi, tanto per citare alcuni nomi, come Enrico Fermi, Giovanni Gentile, Pietro Mascagni, Tommaso Marinetti, Cesare Pascarella, Luigi Pirandello e tanti altri, compreso Guglielmo Marconi che diverrà il secondo presidente nel 1931 dopo la morte di Tittoni. Questo il commento del suo successore alla presidenza del Senato sugli ultimi impegni della sua vita: “Il 22 dicembre 1928, al termine della XXVII legislatura, Tommaso Tittoni si congedava dal Senato con un ultimo discorso, stupendo per contenuta commozione e classica limpidezza, dichiarando di credere giunto ormai, con la nuova era di ordinata e consolidata rigenerazione italica, il tempo da lui desiderato del raccoglimento nei sereni studi, dopo mezzo secolo di politica combattiva. Era l'insigne parlamentare che cedeva il passo al geniale umanista, chiamato a dar vita e avviamento alla nascente Accademia d'Italia. Ancora un anno e mezzo di preclare fatiche spese nell'esercizio della nuova altissima carica per la cultura nazionale e per la patria, con entusiasmo giovanile, senza risparmio di energie; poi la fortissima tempra, d'improvviso, si spezzò. E fu la lunga condanna all'inerte silenzio, tanto più triste per un uomo che del lavoro, del pensiero, della parola avvincente e illuminatrice in servigio delle più pure idealità aveva fatto la milizia di tutta la sua vita. Da così crudele tormento la morte sembrò liberazione. Ma dell'ampia e nobile opera di lui sopravvive e sopravviverà la memoria, principalmente in questo nostro Senato che Tommaso Tittoni sopra tutto onorò con il ricco ingegno, con la feconda attività e con l'ardente sentimento civico. Esso pone il nome di lui fra quelli dei suoi uomini maggiori, meritevoli di più duratura e grata ricordanza”. A Bracciano la duratura “ricordanza” visiva di questa memoria si materializza nella scritta del suo nome, con caratteri cubitali, posta nella parte alta dell’edificio scolastico del centro cittadino, proprio sopra lo storico ingresso principale. Pierluigi Grossi
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L’indicatore di felicità umana: dal Pil al Benessere Interno Lordo
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importanza che da sempre riveste la felicità per gli esseri umani è un fatto incontrovertibile con cui si sono confrontate e si continuano a confrontare in modi diversi tutte le discipline. Nel suo saggio “L’economia della felicità” il giornalista Luca de Biase sostiene che per troppo tempo gli uomini hanno pensato che la felicità dipendesse dal livello dei consumi e, per assicurarsene una fetta sempre maggiore, hanno dedicato al lavoro una quota sempre più alta del loro tempo. Così facendo hanno però finito col sacrificare le relazioni umane che costituiscono invece il principale generatore di felicità. Il risultato e che col tempo la quota di felicità ha finito con l’assumere proporzioni intollerabili. L’invito, in altre parole, è di considerare il Prodotto Interno Lordo - PIL come l’unico metro di misura per valutare la ricchezza di un paese e della sua popolazione. Da sola, infatti, questa misura è incompleta: dice quanta ricchezza monetaria c’è all’interno di un territorio, ma non quanta felicità c’è tra i suoi abitanti. Al PIL, insomma, dovrebbe essere quanto meno affiancato un indicatore di felicità umana. Come disse per primo Bob Kennedy nel celebre discorso alla Kansas University del 1968, esso “misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. Le radici di questo scollamento fra l’indicatore ed il benessere effettivo sono da ricercarsi probabilmente nelle sue origini. Il PIL fu creato a cavallo fra la grande depressione degli anni Trenta ed il secondo Dopoguerra. Sebbene fin d’allora il suo ideatore, tale Simon Kuznets alla guida di un team di ricercatori del Ministero del Commercio Usa, nutrisse delle perplessità sull’utilizzo dell’indice - tant’è che decise di dimettersi - è accettabile che in un periodo di ristrettezze e povertà, ad un aumento della produzione e de consumi corrispondesse un aumento del benessere delle famiglie. Allora aumentare i propri consumi significava avere accesso a beni di prim’ordine, che garantivano un reale miglioramento del tenero di vita, delle condizioni igieniche, etc. Certo questo non avviene oggi. Nel bel mezzo di una crisi economica mondiale pretendere che le famiglie aumentino i consumi è improponibile, mentre diventa evidente l’utilità di investire le proprie
risorse ed il proprio tempo in attività che possano comportare un reale miglioramento della qualità della vita personale e. magari, anche della qualità della società in cui vivono. La società dei consumi, oggi al tramonto, ha di fatto consumato la capacità umana di stabilire relazioni autentiche. Emerge quindi una profonda esigenza di riscoprire valori sociali ed etici da condividere in prospettiva di una inversione di tendenza rispetto al modello dominante dello sviluppo e della crescita illimitati. Una inversione di tendenza che si rende necessaria per il semplice motivo che l’attuale modello di sviluppo è ecologicamente insostenibile, ingiusto ed incompatibile con il mantenimento della pace. Esso inoltre porta con sé, anche all’interno dei Paesi ricchi, perdita di autonomia, alienazione, aumento delle diseguaglianze e dell’insicurezza. Cosa aspettarsi? Per prima cosa di non confondere “qualità” con “felicità”. La felicità è un concetto complesso e piò sfuggire a misurazioni di tipo statistico. La qualità, invece, rappresenta la capacità di un territorio di fornire ai cittadini servizi di alto livello, infrastrutture adeguate, tutela ambientale, occasioni di lavoro e di affari, di svago e di cultura, sicurezza e solido tessuto sociale. Insomma, anche se questi aspetti non sono proprio tutti gli ingredienti della felicità, sono comunque dei loro presupposti. Tratto da “La felicità come Indice di Sviluppo Umano” scritto da Biancamaria Alberi
Progetto Pace o Guerra: 1914 I Dilemmi del Novecento
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Mostre, proiezioni, concerti a Bracciano con l’Associazione Eserciti e Popoli
roiezioni nelle scuole, visite nelle scuole, un approfondimento con gli studenti, concerti, mostre e una tavola rotonda sulla realtà socioeconomica e militare di Bracciano e del comprensorio del lago dell’epoca. Ricco il programma delle iniziative previste fino a giugno a Bracciano per il Progetto Pace o Guerra: 1914 I Dilemmi del Novecento. Finanziato dalla Regione Lazio ai sensi della legge n. 6 del 7 agosto 2013 il progetto ha interessato i comuni di Anguillara Sabazia, Bracciano, Campagnano Romano, Cerveteri, Formello, Mazzano Romano, Oriolo Romano, Tolfa, la Soprintendenza Archivistica del Lazio, l’Istituto Luce e l’Istituto Storico per il Risorgimento. La manifestazione vede come protagonista a Bracciano l’Associazione Eserciti e Popoli che si è distinta negli anni per l’organizzazione dell’importante rassegna cinematografica legata alle forze armate ospitando rappresentanti di tutto il mondo. Per il Progetto Pace o Guerra, l’associazione mette ora in campo tutta la sua competenza. Importante l’impegno rivolto alle scuole. Da non mancare poi un concerto di musiche d’epoca popolari e folcloristiche da parte della Banda Filippo Cruciani che vedra anche esibirsi in canti militari di trincea il coro dell’Associazione Nazionale Arma di Cavalleria – sezione Tuscia Romana. Gli anni tragici della Grande Guerra saranno anche ricordati con una mostra di giornali, fotografie e documenti.
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Gente di Bracciano
Maria Amaral
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Racconti dal mondo
aria possiede due occhi neri incendiati, la carnagione piena dei colori dei mille incontri della sua terra, maya, inca, francesi, spagnoli, neri dell’Africa schiava, amerindi e poi creoli, mulatti, meticci. Un corpo antico, fiero, segnato dalla fatica e dalle gravidanze, un passo altero, seppure il bacino si sia allargato donandole un moto di pendolo birichino, mani corte, seppure leggere, seno copioso, allungato dalla fame dei suoi ninos, seppure ancora eretto. Lavora la terra insieme al suo uomo, Ollo, un gigante amerindo, macho arrogante che fa sognare molte donne di Tlaxcala tra un figlio e l’altro di Maria. Sua nonna e suo nonno sono morti sotto i quarant’anni, contadina lei, operaio lui, creolo lui, mulatta lei, cafoni entrambi. Hanno lavorato una vita, senza sosta, per tirare su otto figli, poveri analfabeti di Tlaxcala. Il nonno di Maria è morto con Pancho Villa insieme al sogno della rivoluzione. Sua nonna s’è tirata su le maniche ed ha tirato su i loro sei figli lavando panni, facendo servizi ed amando chi poteva. É morta stremata e quel giorno ha tirato su il primo sorriso di sollievo della sua vita, stampato su un volto corroso dal tempo e dalla fatica. Lì sulla veranda della sua casa Maria passa i pochi momenti di calma della sua giornata, riflettendo su sé, sui suoi sogni, sulle sue fatiche quotidiane, sempre eguali, incapaci di offrirle una carezza, una voce amica, un grazie, ripensando spesso ai suoi genitori che hanno copiato la vita di suo nonno e sua nonna, fatica, senza resa. Ed è così che Maria sente appassire la sua. Spesso si sente invasa da desideri che affluiscono improvvisi nella sua testa e che dolore doverli scacciare quando Pequinho, il suo fragile ultimo nato, caccia urli indecifrabili o quando Alfonso, il primogenito, mette le sue mani procaci su Anna o quando Eleuteria, la sua oca prediletta, azzanna Victoria e Paquito o quando Ollo, già nudo, reclama la sua razione d’amore!!! Oggi, 3 luglio, Maria è particolarmente stanca. E stanco è il suo cortile attraversato da polli malandati, da cani secchi con il ventre gonfio e da Micia, la sua adorata gatta, che perde peli ad ogni passo. Solo Ollo è grande, grosso, irridente, tronfio, allegro, si sente a distanza il suo sesso maleodorante ma sempre aguzzo e la sua carica vitale, che emana odori di zolfo e umori di ferro, riempie sempre d’invidia e d’ammirazione il bar macho di Tlaxcala. E grande è anche la sua antenna parabolica, per un anno Ollo ha sarchiato, sterrato, potato, raccolto, posato mattoni e calce per avere quel segno di delirio e di potenza nella sua casa di pochi mattoni, fango e lamiera a coprire. Da lì Maria ha conosciuto tanti nomi lontani e sconosciuti, li beve come una limonata quando il termometro segna 45 gradi e l’umidità le chiede solo di rimanere ferma, immobile per non sciogliere la vita in quell’afa maledetta: Cecenia, Grozny, Inguscezia, Ruanda, Burundi, Sarajevo, Bihac, serbi, sloveni, croati, serbi bosniaci, bosniaci, bosniaci musulmani, Tirana, Valona, tutsi, hutu, ninos brasiliani, traffico d’organi dall’India, Algeria, fondamentalismi, islamici, cattolici, induisti, animisti, shintoisti, Jihad, razza, nazione, curdi iraniani-turchi-iraqeni-turkesistani, Chernobyl, Bhopal, narcotrafficanti, Medellin, Tijuana…suo fratello è morto a Tijuana, per mano di uno yankee grosso e pasciuto quando provarono la grande avventura cercando di entrare negli USA, pagarono il viaggio della speranza alle organizzazioni malavitose locali e poi pagarono la tangente ai polleros che scrivono i tuoi percorsi di libertà, lì dove il Messico finisce, poi bisogna sfuggire ai fucili della guardia nazionale americana, ultimo baluardo “all’invasione” dei messicani nel paese più ricco del mondo...è morto con un colpo preciso alla schiena, morì sopra di lei lorda del suo sangue prezioso che le salvò la vita. E Maria vive tutto questo senza particolari emozioni, le hanno insegnato che per vivere a Tlaxcala bisogna chiudere le emozioni in stanze segrete, accessibili solo ai tormenti, ai sogni personali. E quando riflette sul suo destino e sul suo futuro, nella veranda assolata della sua casa, dinanzi al cortile stanco della sua casa, le tornano alla memoria i consigli di vita e di morte della madre, quelli che i vecchi ingessano nella testa dei
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giovani, di generazione in generazione, ciechi ai desideri dei loro figli. In quei rari momenti di riposo sulla veranda, Maria fa scorrere i suoi pensieri che hanno formato in lei laghi di dolore attraversati da maligne correnti di ribellione, un misto di rabbia e di dolcezza affogate nella memoria delle sue radici. E ne esce sempre più spossata, accompagnata però da un crescente bisogno di scrollarsi di dosso padroni e doveri. L’unico lampo di gioia, che ogni tanto l’attraversa, glielo regala la memoria del racconto che faceva suo padre, quando era abbastanza ubriaco ma non troppo, di quel 3 luglio 1533, quando a Santiago Tlaltelolco venne recitata da una compagnia di guitti, in prima mondiale, la Renovacion de la vida, commedia satirica per far sognare cafoni e derelitti. Oggi, 3 luglio, Maria Alamar vede Ollo correre verso casa, capisce che il suo uomo sta venendo a reclamare la sua razione quotidiana d’amore e sa che dovrà sopportare, ancora una volta, il gusto rancido e rancoroso del suo alito. Ollo non riesce neanche minimamente a intuire lo sguardo di odio che, nell’istante del suo orgasmo, Maria trae dalle sue caverne doloranti, lei ne è sorpresa, non tanto dell’odio, con cui aveva avuto già incontri occasionali, ma di averlo saputo riconoscere e farlo uscire. Per la prima volta, avverte una sensazione di leggerezza e un sorriso nascosto e amaro accompagna la fine della “violenza” subita. Pequinho, così piccolo e indifeso, è il suo beniamino, lo culla, lo protegge dalle fiere aggressioni di Alfonso e Paquito, che già percorrono le orme paterne, da Victoria e Juana che lo scherniscono ogni volta che lui ruzzola tra le loro gambe. Pequinho ama la maternità divorante di Maria e non sa come districarsi tra le aggressioni dei machi di casa, gli scherni delle sorelle e il miele di sua madre. Così Pequinho ha sviluppato, nel tempo, una sua tattica difensiva, urla, e i suoi urli sono talmente raggelanti e possiedono una tale virulenza atonale da riuscire a bloccare spesso i suoi aggressori e le sue schernitrici, inoltre ama scavare gallerie e cunicoli dove solo lui può camminare nelle sue fughe disperate. Maria non sempre accorre a quelle richieste d’aiuto, non essendo sempre in grado di decriptare il suo linguaggio preferisce a volte eludere la richiesta. Ma quel 3 luglio il grido di Pequinho possiede una forza ed una forma mai sentite prima, Maria stenta a credere che quello scricciolo di risaia sia in grado di arrivare a quelle note. E così Maria schizza via e corre a perdifiato verso la fonte dell’urlo e trova Pequinho che ride come un matto, nero come la pece. Uno zampillo nero, lento, maleodorante, sgorga da uno dei cunicoli da lui scavati, ora è fermo in aria, a pochi centimetri da terra, come se attendesse un segnale per capire se debba esplodere o rientrare, intanto Pequinho abbraccia senza sosta quell’amico sgorgato dalle
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santa chili di odio e ribellione al ritmo maniacale di Ollo. È passato un anno da quel 3 luglio in cui un capriccioso ramo di sequoia si spezzò cambiando la vita di Maria. In quell’anno aveva assaporato nuove opportunità, nuove libertà; la ribellione e l’odio sono ormai amici consapevoli della sua forza, Maria parla con loro e loro con lei, senza segreti, senza dover attraversare cunicoli nascosti per annusarsi, per intendersi. Cerca vie di fuga da Ollo, intanto accumula dollari, per un anno intero ed il 3 luglio dell’anno successivo un enorme boato seppellisce Ollo e la sua casa e la sua veranda e le sue bestie. Eleuteria, Micia ed i figli, sono ospiti della zia. Maria Amaral ha piazzato un candelotto di dinamite in un vecchio cunicolo scavato da Pequinho, lo ha fatto brillare e lo scoppio ha prodotto uho squarcio irreparabile nella vita e nel terreno di Maria Amaral, che sparisce nel nulla. A Sarajevo si racconta una leggenda. Un 3 luglio di uno dei terribili anni della guerra serbo-bosniaca-croata è arrivata dal nulla una strana donna con due occhi neri incendiati, la carnagione piena dei colori dei mille incontri tra bianchi, neri, amerindi, il corpo sodo e caldo, le mani corte e leggere. Non c’è ospedale che non racconti della sua presenza nel cucire ferite, nel ricongiungere arti, nel tamponare buchi, nel lenire ustioni, nello spendere parole giuste nel momento giusto a fanciulli e fanciulle in cerca di padri e madri e zii e nonni, morti sotto l’urto dei mortai, delle mine, dei cecchini. E tutti ricordano la sua capacità miracolosa nel passare nelle vie più martoriate dai cecchini per portare una medicina, un pacco di farina, una parola di conforto in quell’inferno sulla terra. Si narra che molti cecchini, quando la vedono sfrecciare zigzagando per le vie, non le sparano più, terrorizzati dal dio o dal demone che la protegge. Maria Amaral sa che quel suo daffare non c’entra nulla con il rimorso per la morte di Ollo; sa che non c’è generosità nel suo affannarsi per salvare e lenire quelle vite disperate, pronte domani a diventare carnefici. Ci pensa spesso e quel 3 luglio, distratta da questi pensieri non s’avvede di quella mina assassina che la disintegra. A Sarajevo stanno ancora chiedendosi dove sia svanita quella donna dagli occhi neri incendiati e dalla pelle dei colori dei mille incontri della sua terra. Nessuno la vide più. E nessuno sa che quel 3 luglio, proprio sopra il cunicolo scavato dal suo Pequinho ricominciò a sgorgare uno strano getto di materia nera, alto pochi centimetri, fermo nell’aria, in attesa di essere sfruttato. Francesco Mancuso
viscere del suo scavare. Maria prende un secchio e lo mette sotto lo zampillo, incapace di credere ai suoi occhi, lo zampillo s’agita, riempie il secchio e si ferma di nuovo in aria, curioso di vedere la seconda mossa di Maria Alamar, che non tarda ad arrivare nella forma di un secondo secchio che lo zampillo si affretta a riempire per poi fermarsi di nuovo. Maria chiede tempo alla sua comprensione, sgrassa Pequinho e nasconde lo zampillo rovesciando sopra di lui il terzo secchio; prende i due secchi pieni di petrolio e li nasconde nel cunicolo di Pequinho, a cui fa giurare di non raccontare a nessuno il misterioso avvenimento. Il giorno dopo a Pequinho viene una febbre da cavallo. Muore in una settimana, senza mai profferire parole e senza un solo urlo, muore con uno sguardo d’indecifrabile complicità con la madre. Ollo, che ha sempre pensato che Pequinho non fosse suo figlio, ma un errore della sua donna, si sente quasi liberato da quell’accidente. La morte chiude dubbi e sospetti nel migliore dei modi. Ed Ollo mostra il suo primo gesto di stima per Pequinho quando gli chiude le palpebre, già morte. Maria Amaral riesce a nascondere per un anno intero il suo segreto. Quante volte passa dinanzi al secchio senza avere il coraggio di rovesciarlo per vedere se lo zampillo è ancora lì. Intanto ha venduto al mercato nero i suoi due secchi di petrolio e, così, riesce a comprarsi delle calze e del rossetto, rosso fuoco. Oggi è un 3 luglio torrido, un secco vento del Nord spazza quelle terre dolenti e accade l’imprevisto. Si schianta un ramo della sequoia che nasconde il secchio capovolto, gli crolla sopra e lo rovescia, un frastuono pauroso arriva all’orecchio di Maria Alamar che corre verso lo zampillo di Pequinho e lo vede lì, fermo, quasi a chiedere di venire sfruttato. Fu un lampo e Maria Alamar comincia a riempire ogni secchio della fattoria, ogni recipiente che trova. Un suo vecchio amico di Ciudad del Messico vende e compra al mercato nero ogni cosa degna di fargli intascare qualche soldo, così Maria Amaral apre con lui un piccolo commercio di petrolio che le permette di assaporare gioie mai provate: un vestito nuovo, un taxi per la metropoli e ritorno, la stanzetta di una pensione dove si allaccia con il suo compare di Ciudad del Messico, che fiuta l’affare e prova, scivolando la sua lingua sul collo di Maria, a farle dire l’origine di quella ricchezza. Maria l’osserva fredda, senza particolari reazioni, capisce le sue intenzioni e lo minaccia: se non smette dirà al capo trafficante del suo lavoro sporco alle sue spalle. Intanto anche Ollo comincia ad avere dei sospetti e così la tempesta di domande assillanti, moltiplicando le sue richieste “d’amore”. Maria Amaral cova brace, mentre adegua i suoi ses-
La favola: Nerone
C’
è a Roma, nell’anfiteatro Flavio (Colosseo) un gatto grande e nero che si chiama Nerone e che si considera imperatore. Ha la testa triangolare, gli occhi rossi e le orecchie appuntite. Sta seduto su una pietra antica e sembra un monumento quando sta immobile. Sono stati i turisti stranieri i primi a riconoscerlo imperatore con le parole: “Ave o divino Nerone, fermo così: click, click, click”, “ non muoverti imperatore”, “ guarda da questa parte o maestà imperiale”, “alza una zampa o divino”. E Nerone così sta quasi sempre in posa maestosa, regale e imperiale al centro dell’Anfiteatro Flavio. Dalle gradinate lo guardano, lo adorano, gli rivolgono suppliche…“chiama i tuoi sudditi o divino Cesare”, come per incanto appaiono intorno a lui gatti bianchi, gialli, verdi, rossi, siamesi, persiani ecc.. Click, click, click. E l’imperatore Nerone riceve l’applauso nella sua reggia con la sua corte. Da tutto il mondo vengono a vederlo, specie le giovani. Indossano vesti lunghissime o cortissime. Sono bianche, nere, belle e gli dicono “Ave o Cesare, noi siamo le tue ancelle, le tue vestàli, solleva il capo o Cesare”. L’imperatore capisce quasi tutte le lingue anche se non le parla, ma di una cosa non riesce a capacitarsi: perché lo chiamino anche Cesare, dal momento che il suo nome è Nerone. Per tutto il giorno risuonano le invocazioni a lui dirette “o Augusto concedi a noi di ascoltare la tua voce”…click, click, click. “Rendiamo grazie a te o nobile Augusto”. Nerone continua a non spiegarsi questo Augusto dal momento che lui si chiama Nerone. “Il tuo incedere mostrati a noi mentre cammini o Cesare Augusto”, “accetta questo cibo d’oriente o Augusto
Febbraio 2017
Cesare”. Nerone tutt’ora non si spiega perché è chiamato Cesare o Augusto e come se non bastasse Augusto Cesare dal momento che lui si chiama Nerone. Ma la sera, quando tutti sono andati via, tutto cambia. Entra al Colosseo una donna anziana con indosso vesti povere, col volto pieno di rughe, sola, sembra antica come l’anfiteatro. Nerone l’attende, le va incontro, le carezza il corpo con la coda e mangia insieme agli altri gatti e a lei quello che casa ha portato. Non è più imperatore, è solo un gatto con la sua vecchia padrona, nella loro casa, anche se diroccata, senza porte, senza finestre e senza focolare. Ma forse non ha freddo la padrona di casa, non ha freddo anche se anziana. Forse durante la notte le sue misere vesti diventano una pelliccia, calda, morbida, d’angora e di tutti i colori. Non
c’era più un imperatore: nel suo castello c’era solo una regina!!! Ettore De Santis
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Gente di Bracciano
“Permette un ballo, signorina?”
In piedi, Signori, davanti a una donna
Per tutte le violenze consumate su di lei per tutte le umiliazioni che ha subito per il suo corpo che avete sfruttato per la sua intelligenza che avete calpestato per l’ignoranza in cui l’avete lasciata per la libertà che le avete negato per la bocca che le avete tappato per le ali che le avete tagliato per tutto questo in piedi, Signori, davanti a una Donna.
Q
ualche sera fa ho accompagnato un amico in discoteca, ho capito allora che il tempo “passato” quello del corteggiamento, del ballo della mattonella, del “permette un ballo, signorina?”, appartiene ad un passato che è “passato” davvero. La discoteca: chi se l’era immaginata così!! La discoteca: musica assordante, luci coloratissime che lampeggiano e girano vorticosamente. Entrato, sono rimasto stordito dalla musica e dalla confusione, devo aver avuto una faccia e un’espressione un po’ cretina perché mi si avvicina un ragazzotto e: “aho’, te vedo stranito, svejeteee, datte na’ spettinata, tirate fori la camicia da li’ carzoni e...butteteee”… Bei suggerimenti non c'è che dire!! Mi adeguo e “c’hai ragione mo’ me ripjo e poi me butto”, “aho’ non me sembra, però sei svejo, e vaii!!”. Prima di “buttarmi” osservo... ciascuno balla come se gli altri non esistessero pur stando in gruppo, la mia sensazione è che tutti si muovano seguendo, non il ritmo della musica, quanto piuttosto il “ritmo” dei propri pensieri. Osservo ancora quel mondo conosciuto per me, fino ad allora, solo per sentito dire. Là, ragazzi e ragazze con qualche infiltrato, un tempo giovane, ballano agitandosi. Mi si avvicina una biondina tutto pepe “che fai lì tutto solo, vieni nel gruppo”, “ma io..”, “vieni”, non posso rifiutare. La seguo. Parte una musica rockettara, guardo gli altri: gambe su, gambe giù, giravolte, saltelli un po’ qua e un po’ là…ed io mi adeguo…saltello. Tutti ridono. Meno male. Fortunatamente la musica caciarona termi-
I balli sfrenati dei giovani di oggi
na, qualcuno mi porta un bicchierone coloratissimo. Prendo fiato, ne bevo un sorso, mi rivolgo al gruppo rockettaro “scusate, esco a prendere una boccata d’aria, mi gira un po’ la testa”, sorrisini di compatimento. Guardo il cielo, le stelle stanno sempre lì: meno male!! La Luna mi sembra più splendente del solito. Respiro profondamente. Chiudo gli occhi. Ecco una sala: sedie appoggiate alle pareti, ragazze sedute da un lato, dall’altro giovanottelli imbrillantinati timidoni. Sul tavolo un giradischi. La musica: un lento. I giovanottelli si avvicinano alle ragazze: “permettete un ballo, signorina?”, il giovanotto diventa rosso, la ragazza timidamente si avvicina, si formano le coppie. Una ragazza è rimasta seduta…è la meno carina, un amico mi getta uno sguardo: capisco. Mi avvicino e con un sorriso: “permette un ballo, signorina?”, subito mi pren-
de e mi stringe, gli altri ragazzi mi guardano, i “lenti” si susseguono. L’atmosfera è bellissima. Riapro gli occhi. Sono ancora confuso. Vedo un’ombra… “permette un ballo, signorina?”, una voce mi fa sobbalzare: “aho’, nun beve che te fa male”. Mi giro, è il ragazzotto. “Perché?”, “come perché? Nun vedi che stai a parla’ co’ n'arbero?”, “macchè”, faccio un po' di scena, mi inchino, muovo le braccia “sto’a prova’no’spettacolo!”. “Ah, vabbe’, però sei forte, come reciti bene!”, si allontana rassicurato. “Andiamo?”, questa volta è la voce dell’amico che ho accompagnato in discoteca. “Ti sei divertito?”. “Moltissimo”. Mette in moto. Mi scappa un “permette un ballo signorina?” “Ma che stai... che dici?”. “Guida poi te spiego!”. Luigi Di Giampaolo
ancano gli spazi ma non la voglia di teatro. Così anche una sala del Trifoglio può ospitare in un uggioso pomeriggio domenicale una bellissima pagina di teatro non solo perché la pièce “Ladro di razza” è stata scritta dall’infaticabile autore contemporaneo Gianni Clementi, ma anche perché gli interpreti si sono calati talmente nel personaggio da riuscire a trasmettere al pubblico emozioni infinite. Oreste, Tiberio e Rachele, nella Roma di Kappler di quel tragico ottobre 1943 dei rastrellamenti al ghetto, deportazioni da cui in molti non faranno ritorno. Oreste è uno che si prepara alla Resistenza, Tiberio, appena uscito da Regina Coeli, sfugge al cravattaro Atto di Dolore, Rachele, zitella benestante contribuisce a raccogliere quei 50 chili d’oro richiesti per la salvezza degli Ebrei di Roma. Un canovaccio che solo l’ironia e la straordinaria freschezza di un autore come Clementi sa tessere capovolgendo una storiella da poco in un messaggio universale. Il gesto finale di Tiberio lo riscatta dal qualunquismo, dall’indifferenza che pure in quegli anni ebbero in molti. Oggi anche io sono ebreo e anche per lui si apriranno le porte dei vagoni della deportazione. Mentre si ride, scorrono nelle mente quei filmati drammatici, quelle signore incappottate delle quali non rimarrà niente se non un mucchio di scarpe. Eppure si ride. E il merito va tutto agli interpreti. Insuperabile nel ruolo di Tiberio, Gianpiero Nardelli che, di commedia in commedia, ha raggiunto davvero livelli di attore di razza. Bravissimi comprimari Paola Suberati e Riccardo Papa. La regia di Marina Garrone è così ben fatta che pare non esserci. A tutti loro Applausi. Graziarosa Villani Gli attori Gianpiero Nardelli e Paola Suberati
Febbraio 2017
In piedi, Signori, ogni volta che vi accarezza una mano ogni volta che vi asciuga le lacrime come foste i suoi figli e quando vi aspetta anche se Lei vorrebbe correre.
Il cigno nero
Ladro di Razza: grande pagina di teatro a Bracciano
M
E non bastasse questo inchinatevi ogni volta che vi guarda l’anima perché Lei la sa vedere perché Lei sa farla cantare.
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Gente di Bracciano
Passeggiando in riva al lago ti incontro, non intento a volare ma con leggiadra elenganza, con zampe fatte a remo a navigare.
In piedi, sempre in piedi, miei Signori quando entra nella stanza e suona l’amore e quando vi nasconde il dolore e la solitudine e il bisogno terribile di essere amata. Non provate ad allungare la vostra mano per aiutarla quando Lei crolla sotto il peso del mondo. Non ha bisogno della vostra compassione. Ha bisogno che voi vi sediate in terra vicino a Lei e che aspettiate che il cuore calmi il battito, che la paura scompaia, che tutto il mondo riprenda a girare tranquillo e sarà sempre Lei ad alzarsi per prima e a darvi la mano per tirarvi su in modo da avvicinarvi al cielo in quel cielo alto dove la sua anima vive e da dove, Signori, non la strapperete mai... William Shakespeare
Conosco nell’artista che è in te, la passione per il ballo e la letteratura senza te sarebbe in fallo.
Con grande dignità mi guardi in attesa di un movimento di mano che lanci nell’acqua pezzi di pane ma non troppo lontano.
Oche, gabbiani e germani veloci sono in volo, mentre tu con il tuo nero piumaggio, e la lenta bellezza della tua andatura, sfiora l’acqua senza ferire.
D’improvviso alle spalle sento un gran sbattere di ali, quasi ho paura. È il tuo volo radente, breve e possente, che si tuffa nel lago in cerca d’avventura. Claudio Calcaterra
Brilla la sera sul ponte medievale Coi passi scalpitanti dei cavalli, controvento, volano gli stendardi sui calessi…
Ai piedi tuoi, Bracciano, tra ritagliati specchi di opale, un cavaliere scende caricando il destriero che dirimpetto incespica ed avanza, d’oro e perle agghindato… Febbraio 2017
che strascico d’invidia tra i passanti! Dalle panchine e dalle passeggiate, sguardi cadono sui ciottoli disintegre, ed è scompiglio…subito!
Tordi e civette su a “La Sentinella” S’alzano in volo, mentre tu Nobile castellana attendi Di stare accanto al misterioso Che si stende ai tuoi pié, rabbrividente. Silvana Meloni 13
La tenerezza
È un amore disinteressato e generoso che non chiede nient’altro che di essere compreso ed apprezzato.
Alda Merini
Gente di Bracciano