Gente di bracciano gennaio 2015

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Gente diBracciano Gennaio 2015 numero 1

Da un secolo artiglieria e aviazione di casa a Bracciano

Artiglieria e aviazione. Se il conflitto che si svolge al fronte si vive attraverso le lettere che i braccianesi scrivono dal fronte orientale, sul posto sono anni che da un lato segnalo le sperimentazioni aeronautica nella base di Vigna di Valle e le eserciazioni della Scuola di Artiglieria. È ancora il periodo dei “più leggeri dell’aria”, dei dirigibili di Rinaldini e Crocco che vengono sperimentati con successo sul lago. Sui campi invece dell’artigliera si formiranno migliaia di artiglieri italiani, noti e meno noti. Bracciano in quegli anni vide anche la visita di Vittorio Emanuele III.

Le due armi, che misero le radici allora sul territorio, in qualche modo restano ancora oggi connotati importanti per Bracciano. L’aviazione sperimentale di allora, ha lasciato il posto al Museo Storico dell’Aeronautica Militare, importante scrigno di imprese di aviatori e di cimeli, mentre l’artiglieria, pur se ridimensionata, costituisce una delle attività che caratterizzano Bracciano. Tra i tanti artiglieri che passarono da Bracciano, anche Filippo Tommaso Marinetti, il padre del Futurismo che era in forze al III Regimento e che giurò a Bracciano il 5 settembre 1916.

o m o t a n u e r a z z e p s e l i c a È più f o i z i d u i g e r p che un

Albert Einstein


Giuseppe Di Vittorio: il bracciante che divenne l’alfiere dello Statuto dei Lavoratori

Gente diBracciano

Gennaio 2015 Numero 1

Dedicato a Secondo Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente Claudio Calcaterra

Direttore responsabile: Graziarosa Villani

Redazione: Francesco Mancuso, Vittoria Casotti, Mena Maisano, Biancamaria Alberi, Luigi Di Giampaolo Collaboratori: Massimo Giribono Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014 Stampa: Tipo-Offset Anguillara Via dei Vignali, 60 Anguillara Sabazia

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Le ragioni del sindacato per la costruzione e difesa della democrazia

Se proviamo ad essere ottimisti

lismo rivoluzionario come terreno sul quale organizzare e promuovere l’unità fra i lavoratori, la solidarietà tra i poveri, in una regione in cui, le distinzioni tradizionali fra lavoro attivo, disoccupazione, sottoccupazione, precariato, lavoro stagionale erano affidate alla statistica, ma negate continuamente dalla realtà, cioè una concezione del sindacato come solidarietà organizzata. Ricordiamo la sua battaglia contro quelle che lui chiamava “le nuove forme di sfruttamento” che si diffondevano nella fabbrica nei primi anni Cinquanta (che oggi si ripresenta drammaticamente attuale) e nella sua incessante lotta rivolta alla conquista del diritto di rappresentanza dei lavoratori anche non iscritti al sindacato, alla conquista dei diritti individuali e collettivi, attraverso quello Statuto dei Diritti dei Lavoratori di cui fu l’alfiere, inascoltato per oltre 10 anni. La sua concezione unitaria era contro la logica settaria della separazione. E quando oggi qualche politico e qualche sindacalista arrivano a parlare, in questi tempi, dell’unità sindacale come di un disvalore, confesso sinceramente, al di là del dissenso, che sorge in me l’angoscia per la totale perdita di memoria storica. Di Vittorio si oppose già nel 1956 assumendo una posizione durissima nei confronti della repressione dei movimenti popolari, degli scioperi in Polonia. Egli affermò pubblicamente in una assise internazionale (quella della Federazione Sindacale Mondiale), il diritto inalienabile dei lavoratori organizzati di decidere sulla distribuzione delle risorse tra investimenti e consumi come base di qualsiasi tipo di democrazia. Nel documentarmi su una sua biografia ho scoperto che Giuseppe Di Vittorio delegato al congresso della Federazione Sindacale Mondiale del 1954 intervenendo, si rivolse ai delegati di tutto il mondo dicendo “Vedo davanti a me tante facce, vedo dei neri, vedo quelli che sono proprio neri, neri come me, ma tutti insieme, con voi, siamo il sindacato di domani”. Il Congresso impazzì, nell’imbarazzo dei burocrati del sindacalismo internazionale, di fronte a quello spettacolo di liberazione umana, a un linguaggio così semplice, ma con il quale Di Vittorio si metteva in mezzo agli altri. Così ricordiamo Di Vittorio, un grande dirigente che sapeva in ogni momento mettersi in discussione e mettersi in mezzo agli altri, con i loro problemi, le loro angosce e le loro speranze. Anche per questo, ognuno di noi deve ritrovare, anche nei momenti più amari, le ragioni di lotta per ritrovare nel sindacalismo di oggi (certo con altre ragioni), il linguaggio e la passione di Di Vittorio e la funzione morale che il suo messaggio assume. A cura di Claudio Calcaterra

Una associazione fresca di costituzione e una testata regolarmente registrata. “Gente di Bracciano” cresce e si consolida. Un prodotto editoriale nuovo tra storia, ricerche, indagini sociologiche e racconti di vita. Una avventura che nasce sull’entusiasmo di un gruppo di appassionati convinti che molto c’è da “scoprire”, molto da “raccontare” guardando Bracciano e il mondo con un pizzico di ottimismo. Per questo, nel primo numero, dopo i quattro numeri usciti prima della registrazione della testata, dedichiamo la copertina ad un “braccianese” sorridente che guarda con evidente soddisfazione le banconote che ha in una mano e il documento dall’altro. È una foto dell’Istituto Luce che ritrae un assegnatario di Bracciano. I tempi sono quelli della Riforma Agraria quando l’Italia del secondo Dopoguerra aveva l’esigenza non solo di uscire dalla miseria ma soprattutto quella di redistribuire la ricchezza. Oggi come allora una esigenza prioritaria per ridare fiducia alle famiglie, per dare linfa all’economia, anche di Bracciano.

Un vecchio

Seduto accanto a me c’era un vecchio che “non conoscevo”. Il volto rugato nell’ombra e le mani in grembo. Mi parlava in una lingua da imparare, lucida. Ero stupito dalla luce argentea che emanavano i suoi capelli, ero rapito dalla gestualità delle sue mani. Ho attraversato con rapidità gli anni che ci separavano. Alzò la testa per capire il mio tempo e mi spiegò l’importanza del suo. Per raccontarmelo quel vecchio tirò fuori parole e gesti che mai avevo udito e visto. Attraversai la mia vita, mentre parlava della sua, a tratti sospirava per le occasioni che sentiva perdute. Parlò delle cose che aveva dovuto lasciare per non aver saputo parlare, per qualche sguardo schiso e qualche gesto sbagliato. Parlò delle donne che aveva perduto per il suo carattere troppo fiero. Ora aspetta con umiltà un giorno qualunque di un tempo qualunque, senza riconoscere il nome, il colore, l’odore del confine della sua vita e sento che mi chiede di accompagnarlo, vuole passare nell’ombra attraverso gli occhi di chi ha ancora luce davanti a sé. La sua ombra divenne la mia, vidi brillare i suoi occhi e mi ritrovai tra le sue braccia. Seduto accanto a me c’è un uomo che ho imparato ad amare. Dedicato a mio padre Secondo

Claudio Calcaterra

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Di Vittorio parla alla folla

iuseppe Di Vittorio è morto nel 1957, in un periodo che sembra molto lontano da noi, dai problemi che il movimento sindacale italiano si trova ad affrontare oggi. Eppure, soprattutto quanti non hanno avuto la fortuna di lavorare con lui, nella sua organizzazione, quando egli la dirigeva, avvertono ancora quanto attuale, grande e ricco sia il patrimonio umano, culturale e politico che egli ha lasciato al movimento sindacale italiano. Io posso soltanto tentare di testimoniare su alcuni di quelli che mi sono sembrati i suoi apporti più rilevanti, in molti casi smarriti dalla memoria collettiva. Il primo tratto che ha pesato in tutta l’opera di Di Vittorio, come dirigente della Cgil, è quello che porta il segno incancellabile della sua origine sociale e politica, l’aver cominciato la militanza sindacale come bracciante, l’aver assunto il sindaca-

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Ritratto della famiglia Canini. Amedeo, Romolo, Camillo, Domenico, Liliana, Rolando, Fortunata, Fortunato, Ottorina, Gabriella, la mamma Emilia, il papà Lorenzo, Dora e Danilo.

Piccola storia di Romolo Canini e della sua famiglia

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Fondò a Bracciano la Casa del Popolo milia Gallerana d’Ercole è nata a Bracciano nel 1888. Mi guarda con aria fiera e severa da una foto che mi ha accompagnato nel viaggio dentro la famiglia Canini. Nella foto ci sono Emilia e Lorenzo Canini, suo marito, con l’aria severa anche lui, ma più mite, seppure bardato di due baffi imperiosi, insieme ai loro dodici figli, tutti tirati a festa, i più grandi sono sui vent’anni, il più piccolo sui cinque e nella fotografia sono disposti in stretto “ordine cronologico”, dal più grande al più piccolo. Tina e Mena, le mie anfitrione in questa storia, mi fanno vedere Romolo, il secondo nato, il padre di Tina, e Gabriella, ancora piccolina, la madre di Mena. Mi raccontano, a due voci, che ne nacquero sette neri e cinque rossi, di capelli, e che Lorenzo, quando arrivò il primo rosso, il sesto, si adombrò, “come mai quei

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capelli strani?”, si chiese, seppe poi, per il bene di tutti, che nel suo ramo familiare di Civitavecchia erano tutti rossi. La famiglia Canini abitava in via Gabriele d’Annunzio, uno stanzone al primo piano in cui dormivano tutti i maschi e uno al secondo piano in cui dormivano tutte le femmine. Lorenzo lavorava i suoi terreni a Montefranco, San Liberato e Pisciarelli, un impegno duro che lo teneva tutto il giorno fuori casa. La foto mostra una famiglia benestante, tutti con lo sguardo di chi sente futuro davanti a sé, i grandi in giacca e cravatta, i piccoli in mise d’ordinanza. Emilia gestiva un negozio di stoffe in via Principe di Napoli, all’inizio della via, vicino alla vecchia ferramenta Cottani, si approvvigionava da suo cognato Alfredo, marito della sorella Petronilla, che ebbero un ruolo importante nella vita di Gabriella, 4

vedremo poi perché. Lorenzo fuori a lavorare, Emilia a gestire la famiglia e il negozio, facendosi aiutare dai figli più grandi a gestire i più piccoli, una comunità solidale, dove ognuno aveva un ruolo e lo rispettava. Erano gli insegnamenti di Lorenzo ed Emilia, che fecero crescere una famiglia numerosa, unita, piena di rispetto per sé e per gli altri e dove tutti impararono a leggere e scrivere, in tempi in cui ciò non era affatto scontato. Raccontano le voci narranti di Tina e Mena che i loro genitori ricordano che non si sentiva volare una mosca quando tutti sedevano al desco con la zuppa fumante pronta ad essere servita, solo il rumore dei cucchiai infrangeva quel silenzio che sapeva di rispetto. Mena racconta che Emilia e Lorenzo, immancabilmente, il 15 agosto prendevano il loro biroccino e andavano alla Gente di Bracciano

festa di Pisciarelli, a festeggiare la recita della commedia e godevano del Lorenzo, nella sua notte. Ho sentito rac- mio volto un po’ stupefatto, anch’io amo contare spesso da Mena la storia del fra- recitare le mie maschere. Ora Tina si sofferma a parlare della tello di Lorenzo, Peppe, “un gran fumantino quasi a pareggiare la mitezza del fra- storia del primogenito, Amedeo e del tello”, insieme, non sopportava soprusi e secondogenito Romolo, nato il ventuno angherie. Fu così che una sera, all’oste- gennaio del 1905, il primo divenne ria, quando vide un bullo prendersela monarchico, l’altro comunista. Entrambi non furono arruolati nel con un povero vecchio, inveendo contro di lui fino a sputargli addosso, non ci Regio esercito. vide più e lo aggredì. Come spesso accade nella vita il diavolo mette lo zampino nelle storie degli uomini e la lite finì in tragedia e Peppe pagò caro quel suo atto di solidarietà a un povero vecchio indifeso. Aveva quarantadue anni Emilia quando un male oscuro pose termine alla sua vita. “C’era acqua nel suo sangue” gridava disperato Lorenzo, che non sopportò quel dolore, si sentì perso e non riuscì a tenere unita la famiglia come un tempo. Ci pensarono i più grandi ad andare avanti, memori dell’educazione avuta, dell’affetto cresciuto nella loro vita comunitaria. Fu Documento d’identità di Romolo Canini così che Gabriella si ritrovò in Calabria. Alfredo, il commerciante di Romolo era amico del maresciallo stoffe, si ritirò con Petronilla nella sua dei carabinieri di Bracciano che gli disse ricca casa calabrese e portarono con loro che per non fare il soldato era necessario la piccola Gabriella che così visse da avere almeno quattro figli. Romolo ne signora, seppure lontana dai suoi fratel- aveva tre. Fu questione di nove mesi e li, dalle sue sorelle. Fu una volta che era- nacque Giulio, il suo quarto figlio. In vamo da Alfredo con Mena e il suo com- effetti, dice Tina, era stato scelto per lui pagno, Claudio, per festeggiare i suoi il nome di Salvatore, in rappresentazionovantacinque anni, è l’unica ancora in ne del dono che avrebbe fatto a suo vita della famiglia di Emilia e Lorenzo, padre: non partire per le guerre che il che mi raccontò dell’episodio della “ sua fascismo aveva cominciato a fare, in cameriera personale”. Raccontò che la Libia, in Somalia, in Etiopia, nella follia ragazza, una figlia di poveri contadini, di diventare un Impero. Accadde però le fece uno sgarbo o quello che lei pen- che poco prima di nascere morì una sava fosse uno sgarbo, e che la strattonò sorella della moglie, Giulia. Fu così che violentemente rischiando di farla volare Salvatore si chiamò, Giulio, ma sempre dalla finestra, si fermò un attimo e, con Giulio Salvatore per Romolo e sua un sorriso ironico stampato sul volto, si moglie. autoproclamò “una donna cattiva, cattiAmedeo era invece di salute cagionevissima”, ma si sentiva chiaramente che vole, il cuore gli provocava guai, e non stava costruendosi una maschera di fu dichiarato idoneo a svolgere il servidonna dura, forte, orgogliosa, non si zio militare. Amedeo era sposato con arriva alla sua età per caso, per compiaClara, era una fornaia e gestiva il suo cersi, per farsi compiacere, una commenegozio. Amedeo fu fatto cavaliere, nesdia umana ricca di sbaffi e di umori. Mena, insieme a Claudio, sorridevano suna delle due ricorda perché, ma Tina sornioni, avevano già sentito altre volte ricorda che spesso lo prendevano in

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giro…”i cavalieri vanno a cavallo, non sui somari”…facezie e arguzie paesane. Romolo cominciò a lavorare nel negozio dello zio Alfredo, che trattava ancora le stoffe, ma era uno spirito libero e soffriva di stare “sotto padrone”, fosse pure Alfredo, lo zio. Fu così che prese in affitto un terreno sotto la rocca della sentinella da Giuseppina Cini, già affittuaria del terreno da parte del principe Odescalchi, ma era solo un mezzadro, una patata a lui, una a Giuseppina, ma chi lavorava, e sodo, era lui. Ma quel terreno divenne famoso per altri motivi. Era l’8 settembre del 1943 e il governo Badoglio firmò l’armistizio che rompeva l’alleanza con il nazismo. Fu un periodo terribile per il nostro Paese, migliaia di giovani si trovarono improvvisamente senza sapere cosa fare. Più della metà dei soldati in servizio nella penisola abbandonarono le armi e tornarono alle loro case in abiti civili. La ritorsione da parte degli ormai exalleati nazisti, non si fece attendere: fu immediatamente messa in atto "l'operazione Achse" (asse), ovvero l'occupazione militare di tutta la penisola italiana, insieme cominciarono i bombardamenti alleati delle città italiane. Anche Livorno fu bombardata e il cognato di Romolo Giuseppe, che si trovava in quella città, fuggì dall’esercito. Non sapeva dove andare, poi pensò a Romolo a Bracciano e lì si diresse. Intanto nel suo terreno affittato Romolo aveva scavato una galleria per salvarsi dai bombardamenti degli alleati, con doppia uscita, non si sa mai, alcune bombe colpirono anche il castello di Bracciano che mostra ancora le sue ferite. Bracciano era presidiata dalle SS che, dopo l’8 settembre, rastrellavano i quartieri cittadini alla caccia di quelli che loro chiamavano “disertori”. Quando Giuseppe arrivò fu subito nascosto in quella galleria e poi in altre grotte che furono scavate per impedire ai tedeschi di trovare le persone fuggite da una guerra infame. Tutta la famiglia Canini conosceva quello che stava facendo Romolo, funzionò l’antica solidarietà e tutti coprirono quei luoghi di salvatagGente di Bracciano


Romolo Canini e la moglie Elvira

gio nel terreno sotto il borgo della Sentinella. La guerra finì e tornò un po’ di pace a Bracciano, ma gli animi erano accesi. Romolo prese la tessera del partito comunista nel 1944 e fu il primo segretario braccianese, nell’Italia libera, del suo partito. Il due giugno si doveva tenere il referendum per stabilire se l’Italia sarebbe stata monarchica o repubblicana, votavano per la prima volta anche le donne. Romolo comprò un altoparlante e cominciò a scorazzare per il paese e dintorni, gridava, “tutti alle urne, con serietà, con compostezza, con calma, orgogliosi di aver finalmente ritrovato noi stessi; orgogliosi di essere ancora dei cittadini, viva la repubblica”. Nello stesso tempo Amedeo girava per le case a sostenere la causa della monarchia. Romolo e Amedeo non si parlarono più per venti anni. All’inizio vivevano uno un piano sopra l’altro, s’incontravano, ma non si salutavano, erano troppo forti le passioni in quel dopoguerra povero e coraggioso. Nel 1966 Amedeo si ammalò gravemente e fu trasferito in un ospedale romano. Romolo si mise la giacca e la cravatta più belle, prese il treno e andò a trovare il fratello perso in quel lontano 1946. Quando mi racconta questa storia Tina ha un attimo di commozione…” per noi fu una lezione civica memorabile, nel momento del dolore mio padre volle riappacificarsi con il fratello”… lo sussurra con un filo di voce.

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Romolo fondò la casa del popolo a Bracciano, un suo compagno di partito, Salvatore Barella, aveva due piccole stanze a disposizione, che divennero il punto di raccolta del popolo di sinistra di Bracciano, tra riunioni e feste dell’Unità. Nel 1948 uscì una legge che aboliva la mezzadria, Romolo poteva finalmente pagare solo l’affitto e non essere più costretto a portare ogni giorno il canestrello dei beni prodotti dal suo lavoro alla Giuseppina Cini. Ma non si accontentò e così fece causa al

La quasi centenaria Gabriella Canini, figlia di Lorenzo ed Emilia

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principe Odescalchi perché le migliorie che aveva apportato al terreno valevano più del suo valore, in effetti non ci fu neanche causa perché il principe mollò subito quel terreno al suo affittuario, Romolo Canini. Nel 1952 viene eletto nel consiglio comunale di Bracciano. Poi, nel 1962, va a lavorare all’Ente Maremma e lascia al fratello, Camillo, l’usufrutto del terreno sotto borgo della Sentinella e non smette mai di lottare per gli altri, il suo impegno politico è presente anche nel suo nuovo lavoro. Nel 1982 si ritira al Sambuco presso l’aeroporto Savini, ma non smette di essere attivo, diventa Presidente dell’Università agraria di Bracciano e lotta per il rispetto dei beni comuni e degli usi civici del territorio. Ci fermiamo, sono più di due ore che con Tina e Mena riavvolgiamo il nastro delle vite dei loro familiari, anche con piccole e simpatiche scoperte, una volta l’una e una volta l’altra scoprono fatti a loro sconosciuti. Chiedo a Tina parole per il ricordo del padre, le luccicano gli occhi…” ero la sua patatina, l’unica figlia tra quattro maschi, con me è stato sempre un padre straordinario, amorevole”. Orlando, il marito di Tina, ha teneramente accompagnato tutta la nostra chiacchierata. Gli chiedo di visitare la casa. In ingresso mi mostra mille fotografie, sono bisnonni e tra figli nipoti e nipotini, se ne contano troppi perché io riesca a fissarli tutti. Poi mi fa vedere i quadri che dipinge, che copia e che crea, tra figure femminili, cavalli e paesaggi naif, insieme fa tennis e legge. Poi mi racconta che all’inizio il rapporto con Romolo fu complicato. Romolo era al Sambuco e il sottufficiale Orlando era meccanico all’aeroporto. Nei tempi di libertà Orlando andava ad aiutare Romolo a lavorare la terra, ma il complimento più carino che riusciva a ottenere era che con il suo lavoro non si pagava neanche una zucchina. Poi il suo amore per Tina contagiò anche Romolo che gli volle bene. Ci lasciamo e ci abbracciamo come fossimo vecchi amici. Non scorderò mai più quella fotografia che ha accompagnato la loro memoria. Grazie Tina! Grazie Mena! Grazie Orlando! Francesco Mancuso Gente di Bracciano

Lo stampatore ducale Andrea Fei

Una prestigiosa stamperia braccianese nota in tutto lo Stato pontificio

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a Stamperia Fei è stata una prestigiosa realtà braccianese conosciuta in tutto lo Stato Pontificio. Andrea Fei, il fondatore, era figlio di Giovanni Battista, nasce verso il 1579. Inizia lavorando nell’azienda di Luigi Zanetti tipografo veneziano attivo a Roma e in seguito si associa con Antonio Facchetti editore e libraio originario di Brescia anche lui attivo a Roma dal 1591. Quando la società si scioglie, nel 1600, Andrea Fei torna alla tipografia Zanetti e dal 1613 inizia a lavorare in proprio, sia a Roma che a Bracciano, dove diviene stampatore ducale per volontà del duca Paolo Giordano II. Uomo colto e raffinato, compositore e poeta, (Andrea Fei pubblica a Bracciano nel 1648 un volume contenente Rime, Rime sacre e Satire), appassionato di numismatica ed epigrafista, Paolo Giordano II, succede a Virginio nel 1615 e in breve tempo da un grande impulso al ducato. Riqualifica il Castello, con raffinati arredi e con le pitture di Pompeo Caccini, poi la Stamperia ducale, l’allevamento di trote nel lago, l’industria del ferro che arriva dall’Elba, la lavorazione della lana e la produzione della seta e tutto il settore manifatturiero che ne deriva, la costruzione di un acquedotto sono parte del progetto di sviluppo e di rilancio operato dal Duca per il suo dominio. Seguendo l’Opac del Servizio Bibliotecario Nazionale apprendiamo che la prima opera prodotta da Andrea Fei come Stampatore Ducale di Bracciano è stata “Parallelo fra la citta e la villa satire undici: Intendesi della citta di residenza oue monarca abiti. A Mario Stellanteposto”, nel 1618, conservata nella biblioteca Giovardiana di Veroli. A questa opera ne seguono tante altre, di

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ogni genere, stampate e vendute a Roma, in genere a Piazza Navona e i suoi dintorni dove gravita la maggior parte del commercio librario dell’epoca. Come ogni buon stampatore anche Andrea Fei ha la sua marca tipografica. La marca tipografica è l’emblema o l’ insegna particolare che tipografi, librai, editori pongono nei libri da loro stampati o editi, generalmente impressa sul frontespizio, per contraddistinguerli commercialmente e garantirne l’autenticità. (da Enciclopedia Italiana Treccani – voce: Marca). Di solito la marca tipografica rappresenta stemmi o figure accompagnate spesso da lettere iniziali e da un motto. Andrea Fei sceglie come figura quella di un vecchio che tende il braccio destro verso un ulivo scosso dal vento e dalla pioggia; sullo sfondo c’è un paesaggio con edifici. Il tutto in una cornice figurata e come motto impresso su un nastro: Noli altum sapere. Oppure solo la figura senza il motto. Molto probabilmente s’ispira, sia per la figura che per il motto, al tipografo, editore e grammatico francese Robert Estienne noto col nome latino di Robertus Stephanus (Parigi, 1503 Ginevra, 1559), appartenente a una famiglia di editori parigini per conto della corte reale di Francia. Nel frattempo Fei mette su famiglia, sposa Caterina Lazzari, ha otto figli, 3 femmine e 5 maschi. Solo uno di questi, Giacomo, gli succede nel lavoro di stampatore quando passa a miglior vita, il 6 febbraio 1650. L’ultima opera stampata a Bracciano dai Fei, sempre dal Servizio Bibliotecario Nazionale, risulta essere “Braccianum exultans in secundis nuptijs principis sui D. Flauij 1. Vrsini patroni ducis cum madama principissa Mariana de Tremoglie”, di Vincenzo Pitoni. Dalla scheda catalografica apprendiamo che risale all’anno tertio iubilaei 1675 ed è ora conservata nella Biblioteca Casanatense di Roma. Un’epopea durata quasi 60 anni, vissuta dai Fei, padre e figlio, tra Bracciano e Roma. E’ strettissimo, per Andrea Fei, il legame tra la capitale e Bracciano. Nel 1624 stampa “Vita di Cola di Renzo tribuno del popolo romano. Scritta in lingua volgare romana di quella età da Tomao Fiortifiocca scribasenato” e ristampato poi nel 1631 sempre a Bracciano con alcune differenze che risultano evidenti già dal titolo

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“Vita di Cola di Rienzo tribuno del Popolo Romano. In questa seconda impressione distinta in più capitoli, & arricchita delle dichiarationi de le voci più oscure della lingua romana di quei tempi, nella quale è descritta l’historia”. Entrambe le edizioni sono commissionate da Pompilio Totti libraro in Naona, così come leggiamo dal frontespizio. La copia dell’edizione del 1624 alla quale facciamo riferimento è conservata presso la Biblioteca della Corte dei Conti “Antonino De Stefano”. Un libretto in 12° di 274 pagine che Andrea Fei dedica all’Illustrissimo, & Eccellentissimo Prencipe PAOLO GIORDANO ORSINO DVCA DI BRACCIANO Prencipe di Piombino, & c.: Essendo io stato più volte pregato da molti Signori letterati e amatori di quei antichi Scrittori che dovessi pubblicare al mondo la vita di Cola di Renzo Romano, reputato per eminenza di virtù, e varietà de’ successi d’essere ricordato alla posterità: Corsi sollecitamente à cercare quanti manoscritti potevo, e in meglio di sette trovatola non meno culta pe la qualità dello scrivere di quei tempi, che dilettevole e piena di curiosità; m’è parso di non dover sospendere più il desiderio universale. Onde nel sodisfare à quelli, ho preso ardire di offerirla all’Eccellenza Vostra Illu-strissima per segno della continuazione in me di quella devota servitù, à cui è già gran tempo che carica ben grande d’oblighi, necessariamente mi astringe. Supplico V.E. ad essercitar meco in ricever questo picciol frutto dell’industria mia, la solita sua generosità, e dal Signore Iddio li auguro ogni maggior prosperità. Di Bracciano li 24. Di Luglio 1624 – Andrea Fei. Fabercross

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Controcorrente 5: solidarietà vs competizione

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reccani riporta che contrari di solidarietà sono rivalità, competizione. In merito Bernard de Mandeville, un medico e filosofo olandese, scrisse nel 1705 la “Favola delle api”. In un vasto alveare, abitato da una moltitudine di api, commercio e industria prosperano, alimentati dal lusso, dalla volubilità e dal vizio delle api ricche, che danno lavoro a milioni di povere api operaie, finché un giorno Giove, adirato, impone la virtù, e in breve tempo il lusso scompare, giudici e poliziotti si trovarono disoccupati, le prigioni si svuotano, ma la comunità di api finisce per ridursi a un piccolo alveare, incapace di produrre miele per tutta la comunità. La virtù le ha tolto il gusto di rivaleggiare e le porta alla povertà, peggiore di quella esistente con i vizi. L’autore intendeva offrire una rappresentazione realistica della nascente società borghese e dei suoi meccanismi di funzionamento; forte delle sue conoscenze economiche, egli intendeva sottolineare l’inapplicabilità di una concezione morale rigoristica, fondata cioè sui principi della giustizia sociale e sulla carità, in una grande società basata sul commercio e sul denaro, “in cui l’accumulazione di ricchezza presuppone l’esistenza di milioni di poveri che lavorano, mantenuti nell’ignoranza”. Come non ricordare il primo quadro dell’opera di Umberto Giordano, l’Andrea Chenier, quando Gerard, il servo maggiordomo, durante una festa di aristocratici, allietata da gavotte impertinenti, all’irruzione di una folla di mendicanti, siamo agli albori della rivoluzione francese, scaglia la sua livrea contro la padrona e se ne va con i mendicanti a sostenere la rivoluzione! La padrona si sente male, con un filo di voce dirà “l’ha rovinato il leggere” e ordina che la festa continui, bisogna pur divertirsi! L'apologo di Mandeville risente delle idee libertine che si stavano sviluppando in Europa all’alba della rivoluzione industriale e vuol essere la critica di una società ipocrita, che vuol presentarsi come virtuosa nascondendo i suoi vizi, i quali sostiene Mandeville, sono indispensabili per il benessere collettivo della società. Senza egoismo e rivalità non c’è benessere. Furono proprio questi aforismi, che stimolavano

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la fantasia collettiva, a dare celebrità all'opera di Mandeville, che arrivava a sostenere che è la ricerca della soddisfazione dei propri vizi (come il lusso, lo sperpero, l'invidia, la lussuria, ecc.) che fa sviluppare e prosperare la società, poiché il loro perseguimento mette in moto l'aumento dei consumi dei più ricchi, contribuendo a fare circolare il denaro e ad aumentare il lavoro per le classi più povere. Che, poi, bambini di dieci anni lavorino per dodici ore al giorno, rimane solo un leggero prurito, un lontano fastidio, bisogna pur arricchirsi! Coloro che invece impostano la loro esistenza secondo il virtuoso principio dell'accontentarsi della propria condizione, conducono la loro vita nella rassegnazione e nella pigrizia, danneggiando la produzione industriale, causando la povertà della nazione e ostacolando il prodigioso sviluppo che stava portando l'Inghilterra alla Rivoluzione industriale, alla ricchezza. Ancora: il "gusto" per Kant, (1724-1804) filosofo dell’illuminismo, non è solo l’educazione all'arte e al buon vivere, ma un modo di stare al mondo, la vera essenza dell'illuminismo. L'educazione al gusto insegna a mettersi dal punto di vista dell'altro, a empatizzare, a sentirlo e accettarlo come punto di vista legittimo nel mondo: non ci sono solo io, ma anche tu a vivere in questo mondo e hai gli stessi diritti che ho io. Questa idea applicata alla frase di Marx, "viviamo ancora nella preistoria", potrebbe indurre a dire che la preistoria è la lotta per la sopravvivenza, le risorse sono mie e non tue, io vivo impossessandomi delle risorse disponibili, a dire che la sopraffazione è l'essenza della preistoria e della società divisa in classi, le api ricche e le api operaie povere. Ora la preistoria non è, come pensava Marx, un'epoca da superare, ma una condizione dell'uomo, preistoria e illuminismo convivono in noi, empatia e sopraffazione insieme, a noi scegliere chi e cosa essere, e ogni giorno, questa è l'educazione al gusto, la scelta quotidiana di non cedere alla preistoria. Ancora: ieri leggevo uno strano e bellissimo libro di un romantico americano David Henry Thoreau (Concord, 1817–1862) che si rifugiò in un bosco e visse per due anni una vita solo a contatto con la natura, fuggendo dai rumori aspri dell’incombente rivoluzione industriale. Scrive: “andai nei boschi per vivere con saggezza, vivere con profondità e succhiare tutto il midollo della vita, per sbaragliare tutto ciò che non era vita evitando di scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”. Come ormai saprà chi ha avuto la voglia di seguire le mie capriole controcorrente, mi annoto sempre le frasi e le parole che mi colpiscono. Ero intento nella lettura del capitolo 14, che racconta dei suoi vagabondaggi estatici nelle acque del lago Walden, quando ho incontrato l’espressione “pesci del pensiero”. La sera, quando vado a letto, lascio liberi i miei pensieri e rimango sospeso in uno stato di straordinaria libertà. Una Gente di Bracciano

notte ho ripensato a quelle parole e ho sentito che quei miei pensieri notturni sono davvero come pesci guizzanti. Spesso arrivano senza che io li abbia richiesti e non sempre riesco a indovinare l’amo e l’esca per poterli catturare, per farmi raccontare i misteri che nascondono. Ultimamente, con più frequenza del solito, questa antinomia tra solidarietà e competizione mi ha accompagnato al sonno e devo dire che mi provoca, insieme, sonni tranquilli e sonni agitati, sogni favolistici e sogni angosciosi. Eh sì, ho impegnato la mia vita per combattere l’egoismo (altro contrario di solidarietà), l’ingiustizia sociale, per conquistare diritti che dessero alle api operaie la possibilità di “competere” con le api ricche. Eccolo il pesce pensiero. Competere per conquistare “solidarietà”. Due opposti che trovano una miscela che li rende indissolubili. Eh sì, non amo perdere, me lo devo dire, anzi, mi piace vincere e bene. Quanti ricordi di trattative sindacali in punta di fioretto, a volta di sciabola, per piegare le resistenze “padronali”. A volte, però, ho provato ad usare l’amo dell’empatia, via la preistoria, vai con l’illuminismo, e ho provato a mettermi nei panni del “padrone”, dell’ape viziosa e foriera di ricchezze. Ecco l’antinomia presentarsi, entrambe le parole hanno spiegazioni valide per essere sostenute. Essendo la nostra condizione umana, o almeno la mia, densa di entrambe le parole, di spirito di solidarietà e di bisogno di competere, la prima volta che sono riuscito a prendere questo pesce di pensiero ho sentito l’amo dell’empatia provocarmi ulcere dolorose (sono i casi in cui la notte faccio sogni angosciosi). Mi chiedo spesso come fare per uscirne. A volte mi racconto che è possibile con l’educazione al gusto, con la mia personale ricerca di educazione al gusto e mi sono sentito felice di questa risposta, che per un po’ ha alleviato le mie ulcere notturne. Ma subito un altro pesce pensiero mi ha invaso: ma che vuol dire educazione al gusto, come devo e posso tradurla in azioni concrete? Una notte, avevo mangiato molti peperoni, il mio pesce pensiero mi rispose che se qualcuno davanti a La Gioconda di Leonardo, dicesse, storcendo il naso, che quel dipinto gli pare una crosta, probabilmente attirerebbe su di sé gli sguardi inorriditi degli astanti. Tutti direbbero di lui: "Che barbaro! Che mancanza di gusto! Ecco un uomo che disonora l'umanità!" Se però provassimo a chiederci perché sia possibile tanta aggressività di fronte ad una simile differenza di gusto o, peggio ancora, se provassimo a domandarci su che cosa si possa fondare l'idea che quel quadro debba per forza piacere a tutti, forse ci troveremmo di fronte a qualche imbarazzo. Che cosa potremmo dire? Che cosa potremmo opporre a chi ci obiettasse che il gusto è soggettivo? Pur con tutte le nostre convinzioni, forse, non sapremmo fornire un concetto adeguato dell'idea che tutti consideriamo vera, ossia la convinzione che la bellezza sia qualcosa che dovrebbe incontrare il placet di ogni possibile gusto. Sospettiamo che, se la bellezza non incontrasse l'approvazione di ogni possibile gusto, forse non potremmo più rifarci a questo concetto. Il giudizio di gusto, ne siamo convinti, esige il consenso di tutti. Ma come si può dire che il gusto estetico sia unico per tutti gli individui e che non sia differenziato in base alle diversità degli uomini. Se, poi, riducessimo il gusto ad un puro fatto di palato, di disposizione transitoria della nostra sensibilità, non correremmo il rischio di sminuirlo? Viceversa, non è forse vero che la bellezza sia qualcosa in

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grado di produrre piacere? Il piacere è un fatto concreto del nostro sentire, non un concetto. Il gusto, dunque, sembrerebbe essere compreso tra due mondi, senza essere di casa in nessuno dei due, è legato al piacere e a ciò che dispiace, ma non è soggettivo, come invece sembrerebbero essere il piacere e il dispiacere. Il piacere estetico ci riguarda individualmente e al tempo stesso, credo, debba riguardare individualmente tutti gli uomini. Che cos'è dunque il gusto? Aiuto! Il pesce pensiero è riuscito a liberarsi dell’amo e io sono nel pallone. Avevo iniziato a scrivere per sostenere la tesi della solidarietà, lì ho impegnato la mia vita, e mi ritrovo confuso. Certo potrei scrivere, con piglio autoritario, che la solidarietà è il motore della vita sociale, contro l’egoismo che la disgrega. Poi penso a Theleton e sto male, solidarietà bacata, piena di lustrini, di esposizione mediatica, sembra che la facciano solo quelli belli e ricchi. Poi penso a Emergency, e sento di dover sostenere, in silenzio, persone che espongono la propria vita in territori di guerra, antico amore o antica dannazione dell’uomo. Poi penso alla carità che spesso nasconde solo la rimozione della condizione del povero, un po’ di fastidio, per gli animi più “sensibili”, un po’ di carità e tutto rimane come prima. Poi penso alle mille forme con cui persone straordinarie stanno in giro per il mondo a lenire dolori e miserie, seppure il pesce pensiero m’insinua, con qualche malizia, che anche in questo caso si lenisce il problema, non lo si risolve. Poi penso…no, occorre che mi fermi, intanto per la mia salute mentale… Ma, forse, rileggendo i fatti sopra enunciati riesco a riprendermi dalla confusione in cui mi trovo. Credo che questa continua pesca dei pesci pensiero sia la mia ricerca di educazione al gusto, giuocando spesso sui contrari, ma ho scoperto che devo sostenerla e motivarla ogni giorno, ogni giorno ricercare, intanto, l’equilibrio a me possibile tra l’aspirazione ad una solidarietà attiva e il bisogno di competere, e non solo per conquistare solidarietà, qui sta il busillibus. Confesso che mi è guizzato subito un altro pesce pensiero: anche la solidarietà aiuta una situazione, ma non sempre la risolve. Che occorre fare, allora, per rendere il mondo “solidale” o, meglio, è nella natura umana realizzare questa condizione dell’anima? Mi fermo, sono stremato e vi saluto con affetto. Se qualcuno vorrà aiutarmi a cercare di prendere questo pesce pensiero lo aspetto felicemente ansioso su fran.mancuso@libero.it. Francesco Mancuso

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Storie di barche…di lago Dalle piroghe neolitiche alla “sabatina”

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ul lago di Bracciano, la sensazionale scoperta avvenuta nel 1989 in occasione della realizzazione da parte dell’Acea del nuovo acquedotto per l’emergenza per Roma, sposta di millenni l’indagini finora condotta in relazione alle imbarcazioni impiegate sui laghi e su fiumi. Venne infatti rinvenuto a 12 metri di profondità un villaggio risalente alla seconda metà del VI millennio avanti Cristo. Un villaggio di capanne risalente quindi ad 8mila anni fa periodo in cui l’uomo da raccoglitore divenne agricoltore. Gli scavi condotti dalla Soprintendente alla Preistoria, dottoressa Maria Fugazzola Delpino interessarono all’epoca solo il tratto di villaggio denominato della “Marmotta”, dal nome anguillarino dell’insenatura, interessato dai lavori dell’Acea. Ma il sito da indagare è molto vasto in quanto si estende per un chilometro quadrato circa. L’evento fu eccezionale in quanto, non solo era stato rinvenuto il più antico villaggio di sponda dell’Europa Occidentale ma, grazie soprattutto a 3 metri di limo che ricopriva il sito, è stato possibile anche rinvenire materiale organico (spighe, semi e un dente di cane), reperti utili anche ad indagare il clima e altri aspetti dell’epoca neolitica. I Marmottani, secondo quanto affermato dalla soprintendente Fugazzola, erano delle genti giunte su quella sponda di lago risalendo l’Arrone, l’emissario del lago di Bracciano. In loco avevano il lago per pescare, i boschi per cacciare e quanto poteva essere utile per una popolazione che proprio allora diveniva stanziale. Durante la campagna di scavi forte clamore ha destato il rinvenimento di alcune piroghe monossili, ovvero scavate in un unico tronco. Il recupero della prima piroga avvenuta nel 1994 richiese l’intervento di una speciale squadra dei vigili del fuoco. La piroga posta su un camion fu trasportata al Museo Pigorini di Roma dove è stata sottoposta ad un intervento di restauro. E’ stato necessario, in particolare, tenerla dentro una grande vasca per scongiurare che potesse sgretolarsi. Le testimonianze dirette della Soprintendente Fugazzola rese in occasione della stesura di un articolo a mia firma per Il Messaggero danno alcune indicazioni sull’esatta posizione in cui la piroga risa-

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lente ad 8mila anni fa è stata rinvenuta. Queste le sue dichiarazioni: “Negli ultimi giorni della campagna di scavi nell’ultimo dei quadrati indagati al di sotto dell’ultimo strato di limo rinvenimmo un massiccio pezzo di legno. Avevamo trovato la poppa di una grande piroga in legno di quercia. La piroga era riversata sul fianco sinistro. Erano evidenti tracce di lavorazione lasciate all’interno della piroga delle asce

Barca tradizionale del lago di Bracciano

in pietra levigata e degli altri strumenti litici. Ne decidemmo lo scavo e il recupero. L’ossidiana rinvenuta all’interno della piroga ci riporta alle lunghe rotte marittime che anche gli antichi agricoltori dovevano saper percorrere alla ricerca della preziosa pietra vulcanica di Lipari e Palmarola. L’interno della piroga venne svuotato per strati successivi. Sulla piroga si erano abbattuti un paio di paletti il cui crollo aveva provocato molte fratture soprattutto ai bordi e alle fiancate dell’imbarcazione. Si scoprirono piano piano i molti particolari strutturali dell’interno soprattutto i quattro manieri trasversali risparmiati sullo sfondo per il riposo dello scafo. Sono ancora ben visibili a contatto con la superficie del fondo nuclei di cenere di carbone residui dei fuochi accesi per asportare più facilmente il legno. Sono stati rinvenuti anche diversi elementi lignei mobili aggiunti al monossile per permettere una migliore tenuta e navigabi-

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lità. All’esterno la superficie della piroga è completamente scortecciata”. La testimonianza della Fugazzola Delpino indica inoltre un fenomeno improvviso e repentino che costrinse i Marmottani ad abbandonare in tutta fretta il loro villaggio. Forse un innalzamento improvviso del livello del lago per cause ancora ignote. Un fenomeno che ebbe a ripetersi in epoca romana, come confer-

mano gli studi del professor Giuseppe Cordiano riportati in “Sabatia Stagna” che indicano come una ventina di ville dell’epoca finirono sott’acqua in modo repentino per poi essere in parte ricostruite sulla nuova riva. Proprio in prossimità della Marmotta è inoltre documentato l’episodio di innalzamento del lago avvenuto attorno al 64 d. C. in età tiberiano-claudia a seguito del quale il sistema portuale di proprietà della matrona romana Rutilia Polla, titolare del diritto esclusivo di pesca nel lacus sabatinus, finì sommerso.

Il legame tra il villaggio della Marmotta dove veniva impiegata l’ossidiana con le isole Eolie, unico luogo in cui si rinviene questa pietra, si rinnova alla fine degli anni Novanta proprio a seguito de “L’expédition Monoxylon – Une pirogue monoxyle en Méditarrenée occidentale”, avvenuta nel 1998 che è riuscita nella missione che si era data ovvero quella di dimostrare “che

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una piroga monossile costruita secondo il modello di quella scoperta nel lago di Bracciano può navigare ed affrontare tutte le condizioni atmosferiche”. Al riguardo Radomir Tichi ha testimoniato “la spedizione monoxilon II ha sperimentato - ha detto in una intervista che mi è stata rilasciata - che la navigazione dei tempi preistorici dipende molto dalle correnti marine che influenzano la velocità di battello e la direzione della navigazione e della presenza di una catena di isole che favoriscono gli approdi. Ha dimostrato inoltre aggiunge lo studioso che gli spostamenti su grandi distanze (Pantelleria Lampedusa, Sardegna) sarebbero stati difficilmente realizzabili con delle barche di canne, a causa della loro lentezza e che, al contrario barche scavate in un tronco d”albero come la piroga, di più grande capacità e velocità, permettevano di superare queste distanze e di favorire la colonizzazione delle isole. La spedizione – ha spiegato ancora Tichy - ha ottenuto i suoi obbiettivi: ha provato che una piroga monossile costruita secondo il modello di quella scoperta nel lago di Bracciano poteva navigare ed affrontare tutte le condizioni atmosferiche che su tragitti che collegavano siti neolitici sulle coste del mediterraneo occidentale”.

Dal neolitico al Novecento il salto è notevole e ci riporta al tema delle barche per la pesca professionali impiegate nel lago di Bracciano. Al riguardo risulta estremamente interessante ed utile il lavoro realizzato da Macrina Marilena Maffei nella ricerca “Tra reti e paladini – cenni sull’arte della pesca ad Anguillara” (2002) finanziata dalla Provincia di Roma che realizza uno studio approfondito a partire da quanto esposto al Museo della Civiltà Contadina e della Cultura Popolare “Augusto Montori” di Anguillara, gestito dall’Associazione Culturale Sabate della quale la scrivente è presidente fin dalla sua fondazione nel 1992. Riguardo le imbarcazioni utilizzate si fa riferimento a la battana “piccola imbarcazione a fondo piatto a propulsione remica”. “Il modello tradizionale” anguillarino – si legge – “è in legno di abete, è lunga cinque metri, larga uno e mezzo, ha una

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forma lanceolata con la prua, in dialetto punta, e la poppa, culatta, rettangolari”. Una essenzialità delle forme che per la fabbricazione non richiedeva maestri d’ascia. Le battane ad Anguillara venivano realizzate da alcune famiglie di falegnami (Galilei, Paris, Settimi) che oltre alle barche si dedicavano alla fattura di mobili. “Il fondo della barca era formato da strutture trasversali, chiamate traverse, mentre le fiancate, costarecce, erano costruite da tre tavole che risultavano leggermente aperte, sbracate. La norma costruttiva – si legge ancora – imponeva che all’interno, tra il fondo e le sponde, si creasse un’incurvatura di ventisette-ventotto centimetri, ma comunque fosse fabbricata si trattava sempre si una imbarcazione fragile destinata a rompersi facilmente se le onde del lago diventavano più impetuose. Per evitare tale inconveniente – sottolinea ancora lo studio – le fiancate venivano rinforzate con supporti di ferro o di legno di olivo di forma angolare, chiamate cianghette. Nella barca, per i rematori, venivano costruiti due banchi fissi detti trasti mentre sulle fiancate, poiché lo scafo era privo di scalmi, venivano infissi due pioli di ferro, detti pirara, a cui con una corda si legava il remo. Quest’ultimo di legno di castagno, era costruito da due parti: il braccio, chiamato stio, lungo da un metro e sessanta a un metro e ottanta, che spesso i pescatori si fabbricavano da soli, realizzando un prodotto grezzo ma ugualmente funzionale, e la pala che invece veniva sempre costruita dal falegname ed era lunga circa un metro e venti. I due elementi venivano sovrapposti per trenta centimetri e ben inchiodati. I colori preferiti – prosegue lo studio “Tra reti e paladini” - per la barca erano e sono: il nero, il verde scuso e l’azzurro. Nel passato non c’era l’uso di calafatare la barca ma semplicemente di verniciarla, le spaccature del legno venivano riempite dagli stessi pescatori con della stoppa inserita fra i comenti con gli scalpelli, poi si ricopriva il tutto con la vernice. Esisteva anche un tipo di barca più grande – dice ancora lo studio – lunga undici metri e larga un metro e ottanta, solitamente era di cerro e veniva costruita fuori dal paese. Le

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sue caratteristiche erano il fondo piatto, la prua leggermente rialzata, le sponde molto aperte e una conclusione tronca sulla poppa. D’estate le barche di cerro, tirate a secco sulla spiaggia, con il sole subivano un vistoso allargamento delle fessure formatesi tra le diverse tavole che componevano l’imbarcazione, per evitare l’inconveniente c’era l’uso di farle andare a fondo nelle acque del lago e di tirarle fuori a settembre”. Attualmente, anche per questioni di sicurezza, la Provincia di Roma, competente per le acque interne, ha obbligato i pescatori di dotarsi di nuove imbarcazioni in vetro resina. Una “rottamazione” per la quale i pescatori di professione del lago di Bracciano hanno ricevuto specifiche agevolazioni, anche grazie il tramite del Consorzio Lago Bracciano presieduto da Rolando Luciani.

In una ricostruzione di Storie di barche di lago tradizionali la scrivente ritiene doveroso inserire una sezione dedicata alla barche a vela. Anche perché la vela sul lago di Bracciano, favorita dal divieto di navigazione a motore introdotta da una legge regionale mirata a tutelare la riserva idrica d’emergenza per Roma (con la realizzazione da parte dell’Acea dell’acquedotto Lago di Bracciano), è una delle discipline sportive che si portano avanti sullo specchio lacustre, identificato dai velisti, come una ottima palestra per imparare ad andare a vela. La sezione è importante perché proprio su iniziativa di una famiglia locale, i Cerocchi, è stata messa a punto una vera e propria barca denominata Sabatina, che prendeva le mosse dalle tipologie costruttive dalla battana, come descritta sopra, impiegata dai pescatori professionali. Al riguardo risulta fondamentale la ricerca effettuata da Pio Cerocchi in “Primi appunti per una storia della vela sul lago di Bracciano” reperibile in rete.

Relazione di Graziarosa Villani, presidente dell’Associazione Culturale Sabate – Museo Storico della Civiltà Contadina e della Cultura Popolare “Augusto Montori” - Castiglione del Lago – 18 maggio 2013 – Palazzo della Corgna Gente di Bracciano


Rifondazione “Primavera”

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poi?…Poi, riprendiamo il nostro racconto. Gli anni passano in fretta: anni ’50, anni ’60, anni ’70; ma il tempo con il suo trascorrere lento ed inesorabile assottiglia il numero degli orchestrali. Così su quella “storica” primavera. E le luci della ribalta prima si affievoliscono poi, ad una ad una, si spengono, cala il sipario. Buio in sala. Anni ’80: silenzio, anni ’90: silenzio; anni 2000: ancora silenzio. Che tristezza! Tuttavia, il ricordo e la nostalgia della Primavera non si perdono, anzi rimangono più che mai vive nell’animo della gente che ne custodisce la memoria come “cosa” cara e spera sempre in un ritorno. La vita, molto spesso, lo avete notato, è fatta di “storie” che sembrano finite, ma che poi, all’improvviso, chissà per quali misteriosi ragioni si incontrano e danno vita a quelle vecchie. Mah. Per “la primavera” è avvenuto proprio così. Le “misteriose” ragioni? No niente di misterioso: tutto è avvenuto in un negozio di barbiere. Possibile? Sì, possibile. Il negozio è quello del compianto “prima verista” della prima ora Alessio Argenti, prematuramente scomparso, a cui va il commosso ricordo di tutti i prima veristi e dei tanti amici. In quel negozio tra un taglio di capelli, un’aggiustatina ai baffi, un’accorciatina alle basette, alcune persone: un professore, un impiegato, un negoziante, un pensionato e qualche perditempo osservano, con sempre maggiore attenzione un mandolino che silenziosamente fa bella mostra di sé in un angolo. Ed ecco che,

Galeotto fu il mandolino

sempre più spesso, ne chiedono al buon Alessio, la “sua” storia. Ed è così la storia della “Primavera” torna ad essere viva. Nelle parole, nelle immagini, insomma nell’entusiasmo di chi la racconta. Per caso, ma sarà stato proprio il caso? Diviene cliente di quella “barberia” un maestro di musica, Salvatore Mele, componente della “banda” della Marina Militare. I discorsi sulla musica e sulle tradizioni musicali di Bracciano si fanno sempre più cariche di rimpianto e di nostalgia. Pian piano, nasce così e si fa strada, l’idea di far rinascere “la Primavera”. Si discute e si discute. Il maestro Mele mette a disposizione gratuitamente la sua esperienza, le sue conoscenze musicali. S riprende in mano il vecchio statuto, in alcune parti lo si aggiusta, si cerca un locale dove eventualmente muovere i primi passi, lo

Ci sono mestieri che disctruggono e mestieri che conservano, tra quelli che conservano meglio, per naturale compenso sono appunto i mestieri che consistono nel conservare qualcosa: documenti, libri, opere d’arte, istituti, istituzioni, tradizioni. È esperienza comune che i bibliotecari, i guardiani di musei, i sacrestani, i bidelli, gli archivisti, non soltanto sono longevi ma conservano se stessi per decenni senza visibili alterazioni.

a risoluzione 54/134 del 17 dicembre 1999 dell’Assemblea delle Nazioni Unite ha sancito la data del 25 novembre come Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che dal 2005 viene commemorata anche in Italia. La scelta del 25 novembre vuole ricordare il feroce assassinio delle tre sorelle Mirabal avvenuto nel 1960 nella Repubblica Domenicana ad opera della polizia del regime di Rafael Leónidas Trujillo (1930-1961), il dittatore che tenne la Repubblica Dominicana nell'arretratezza e nel caos per oltre 30 anni. Le tre donne, esempio di coraggio ed impegno politico e sociale, mentre si recavano a far visita ai loro mariti in prigione, furono bloccate sulla strada da agenti del Servizio di informazione militare, condotte in un luogo nascosto, torturate e strangolate, per poi essere gettate in un precipizio, a bordo della loro auto, per simulare un incidente. Dal 1960 ad oggi il fenomeno della violenza sulle donne è diventata una vera emergenza sociale trasformandosi da fatti episodici principalmente di natura politica a eventi della vita quotidiana che hanno registrato nel tempo numeri sempre più esagerati fino a quelli odierni riassumibili in un femminicidio ogni due giorni. Sembra purtroppo che Il mondo globalizzato in cui viviamo oggi abbia trovato il suo minimo comune denominatore proprio nella violenza. Una violenza diffusa, multiforme, spessa eclatante, a volte sottile, ma comunque sempre presente in tutti gli aspetti della vita socia-

le, ma in particolare nella vita familiare che vede le donne come le prime vittime di questa follia generalizzata. Ad una prima impressione, da questo punto di vista Bracciano sembra un’isola felice soprattutto se il confronto è con la vita delle grandi città, ma a guardare meglio la situazione è meno rosea di quello che si potrebbe credere. Fatte le dovute proporzioni con realtà metropolitane di altre dimensioni, i servizi sociali segnalano una preponderanza di casi legati alla violenza tra le mura domestiche che riguardano circa l’80 per cento degli accessi allo Sportello Famiglia. Niente di eclatante, ma comunque la testimonianza di come niente e nessuno siano ormai immuni dall’impulso violento di imporre con prepotenza le proprie volontà senza curarsi di quelle altrui, che sembra essere la malattia del secolo. La società braccianese purtroppo non è esente da tutto questo: anche tra il blu del lago e il verde delle colline esplode la rabbia cieca figlia della frustrazione di chi, per affermare la sua presenza nel mondo, deve urlare o colpire se no, semplicemente, non esiste. E, come emerge dall’esperienza dello Sportello Famiglia del Comune di Bracciano, a pagare il prezzo più altro del disagio sociale, sono ancora una volta le donne. Va riconosciuto all’amministrazione comunale di Bracciano il tentativo di proporre modelli positivi da opporre a tanta negatività soprattutto nel campo delle politiche di genere che da anni mettono in campo iniziative di aggregazione ed offrono opportunità di forma-

Senza educazione popolare, senza cultura seria, universale, non può sussistere governo democratico. È vero per tutti i tempi e tanto più vero per il nostro tempo e per il nostro paese

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s trova al centro anziani. La presidente Luciana Iadicicco si dichiara ben lieta di dare una mano all’iniziativa. L’entusiasmo è alle stelle ed ecco che in una assolata giornata di settembre e precisamente il 15 del 2003 grazie all’impegno dei soci rifondatori “la Primavera” rinasce. La Primavera, dunque, come l’Araba Fenice, rinasce dalle proprie ceneri. Alessio Argenti, Gino M. Mondini, Salvatore Mele, Pierino Narducci, Daniele Virgili, Riccardo Pugnoli, prendono idealmente il testimone, da quelle persone straordinarie che sono e si impegnano a continuare la “storia della Primavera”. Già, ma quali sono gli obiettivi che questi “nuovi” prima veristi si pongono? Obiettivo principale: proporre la “sua” musica, quella musica che “la primavera” con il “trillo” dei suoi mandolini, mandole e chitarre sa cogliere e tradurre in emozioni: la gioia, la tristezza, i sogni, le illusioni. Eh sì! Quei sentimenti e quegli stati d’animo che il rincorrersi e l’alternarsi delle note sanno rendere nelle loro più piccole sfumature. Quei sentimenti e quelle emozioni che si rincorrono, si accavallano, si dividono, si ricompongono, sono proprio le onde del mare: sempre uguali, eppure sempre diverse. Non è appassionante? Obiettivi troppo ambiziosi? Forse. Ma se si vuole realizzare un grande sogno occorre avere una grande capacità di sognare! E poi? Ah. Ma già lo sapete Il poi…ai prossimi numeri. Professor Luigi Di Gianpaolo Attuale Presidente della “Primavera”

25 novembre: una data per combattere la violenza contro le donne L

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Una delle opere esposte alla mostra di Mail Art curata da Sabina Masoni

zione e di incontro e da anni, ogni 25 novembre, promuovono eventi contro la violenza sulle donne in modo da tenere alta l’attenzione su un tema che continua ad essere emergente e non può essere né sottovalutato, né ignorato. Da segnalare quest’anno, oltre agli eventi promossi in proprio per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, l’adesione del Comune alla campagna nazionale “Posto Occupato”, con una poltrona vuota messa al centro dell’aula consiliare durante il Consiglio Comunale del 21 novembre su cui spiccava una borsa e una sciarpa rossa per occupare un posto che ogni vittima di femminicidio non occuperà più. Quel posto è stato simbolicamente riservato a tutte loro, con l’obiettivo di impedire che la quotidianità lo possa sommergere. Un’immagine forte, triste, ma efficace a toccare la coscienza di tutti. Biancamaria Alberi

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Al cinema una volta a Bracciano

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Le proiezioni al Virgilio

A Montecitorio la mostra “Palmiro Togliatti un padre della Costituzione”

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mentare a cui non venne mai meno, ma anche un uomo capace di gesti di estrema tenerezza, come dimostrano le lettere inviate alla figlia e le poesie scritte alla donna della sua vita, Nilde Iotti. Colpisce la foto che il Time volle dedicargli, pur trattandosi di un “nemico” da combattere. “Nei lavori dell’Assemblea Costituente sottolinea una nota della mostra - la sua visione della democrazia, dei valori fondanti del lavoLa copertina di Time dedicata a Togliatti ro, dei diritti fondamentali, della eguaglianza delle persone senza distinzioni di razza, di lingua, di religione, dei diritti inviolabili, fornì un contributo rilevante alla stesura della Costituzione”

a Camera dei Deputati, in collaborazione con la Fondazione Istituto Gramsci e l’Archivio Centrale dello Stato, ha voluto ricordare, attraverso una mostra, la vita e le opere di un fondatore della Costituzione italiana: Palmiro Togliatti. Un gruppo di cittadini/e di Bracciano l’hanno visitata con la preziosa guida del Sovrintendente all’Archivio storico della Camera dei Deputati, dottor Paolo Massa. La visita si è svolta sotto il segno di un silenzio rispettoso, di sguardi sorpresi per la ricchezza del materiale esposto, di qualche commozione per l’incontro con una parte sottaciuta dalla storiografia, l’uomo innamorato, l’uomo che guarda alla vita con entrambi gli occhi, della ragione e del sentimento. La mostra, allestita nella Sala della Regina, è composta da teli specchianti, monitor, proiezioni e touch-screen e comprende moltissimi materiali audiovisivi, che si affiancano a documenti originali (tra i quali una delle tre copie originali della Costituzione), il Patto di Roma: l’accordo sindacale che sancì la nascita del sindacato unitario, il manoscritto del Memoriale di Jalta, che tanta importanza ebbe sulle politiche internazionali), fotografie, giornali dell’epoca, manifesti, e la riproduzione, in dimensioni reali, del celebre quadro di Guttuso sui funerali del segretario comunista. Ne viene fuori l’immagine a tutto tondo del politico “di razza”, artefice dei valori fondanti di una democrazia parla-

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Gente di Bracciano

h, il cinema, il cinema. Anche se in bianco e nero, per noi, i ragazzi degli anni ’50, non era un “sogno”, era “il sogno”. L’immedesimazione nella storia e nei personaggi era totale. L’emozione di noi giovani, ma anche di quelli non più giovani, era palpabile ed era sottolineata dal rumoroso sgranocchiare delle noccioline: più emozione, più rumore, meno emozione meno rumore. Erano i tempi in cui “l’urlo di Tarzan” riempiva le sale e ci teneva con il fiato sospeso: avrebbe avuto la meglio sulla perfida tigre o sul terribile coccodrillo? La magia del bianco e nero ci lasciava immaginare il verde delle praterie dei film dei cow-boy e il volto dipinto degli indiani, dei “siuxe”, come li chiamavamo. Le sparatorie, gli inseguimenti, i carri dei pionieri che si chiudevano a cerchio, i “cattivi” indiani che urlando scagliavano nugoli di frecce e il rumore dei winchester che rispondevano per le rime, le lotte corpo a corpo e poi, squilli di tromba, e “arrivano i nostri”, i buoni a sconfiggere i cattivi, senza l’ombra di un dubbio! E le eroine? Bellissime e coraggiosissime e moglissime. La trama di quei film era semplice, ma noi ne eravamo totalmente coinvolti, partecipavamo alle vicende che si snodavano sotto i nostri occhi curiosi e spesso commentavamo, a volte con battute “forti”, il cattivo di turno che le beccava di santa ragione: tjè, beccate questa, fijo…, che tempi! E le storie di Roma antica? Quelle legioni che avanzavano quasi fossero un sol uomo. Anche qui lo schema era semplice e quando i “barbari” venivano travolti dalle falangi romane partivano una salva di evviva, quando, addirittura, non si battevano le mani! Il premio che ci concedevamo era una gassosa e pacchetti di noccioline e pop-corn. Poi arrivò la mitica vespa in giro per Roma. Si respirava l’aria del miracolo economico. Durante la settimana c’industriavamo per raccogliere la moneta giusta per pagare il biglietto. Il film andava visto in comitiva, se no che gusto c’era! Ce n’era sempre qualcuno “più grande” che aspirava voluttuosamente una sigaretta dopo l’altra, dopo un po’ il fascio di luce della proiezione era annebbiato dal loro fumo. Allora qualcuno cominciava a tossire e strillava “a regà che è stà fumera?...”nun rompe, fuma pure tu, semo un popolo libero”, si rispondeva a più voci!

Gennaio 2015

Vorrei… Vorrei essere un sorriso Sull’ingenua bocca di un bambino Mentre corre incontro alla sua mamma.

Erano tempi in cui ci sentivamo poveri ma belli e la felicità era a portata di mano. Nel vedere “Guardie e ladri” ridevamo proprio de core, tanto da seccarci la gola e il bibitaro faceva affari d’oro. E quelli sentimentali? dove la povera sartina era circuita dal ricco e cattivissimo avventuriero di turno? Si sentiva qualche tremore in sala e scendeva pure qualche lacrima, accompagnata, a volte, da un fragoroso: “ma li mortacci tua”. E che dire quando la sartina trovava il giovane per bene che l’avrebbe sposata? Finiva sempre con un casto bacio e noi tifavamo per un bacio forte…Bacio, bacio, bacio, urlavamo, anche un po’ eccitati. Ma lo eravamo ancor di più nei film dove apparivano le “maggiorate”, tanta abbondanza ci lasciava ammutoliti, ognuno chiuso nel suo desiderio. E ora? Da molti anni quel cinema non c’è più, ma quel mondo, quei personaggi sono parte della mia memoria, sono parte di me, di quel ragazzo che si divertiva a sognare e, forse ingenuamente, a inseguire quei sogni. Ah! Dimenticavo. Quando c’era una prima guardavamo sempre i piani alti della sala per vedere se qualche personaggio dei film fosse lì, a vederlo con noi. La questione è che nei piccoli centri testavano il gradimento dei film prima che uscissero nelle sale delle grandi città, per vedere il gradimento del pubblico ed eventualmente cambiare qualche scena. Non scorderò mai il giorno in cui, alzando gli occhi verso la l’alto, vidi, insieme, De Laurentiis e Alberto Sordi all’uscita di un loro film ad episodi. Una magia! Luigi di Giampaolo

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Vorrei essere un sorriso Sulle labbra di una donna Quando ascolta estasiata Le parole dei suoi spasimanti. Vorrei essere un sorriso Sulla bocca di un vecchio Mentre sogna il suo passato. Vorrei essere il sole Per far splendere I boccoli di un bambino.

Vorrei essere il sole Per riscaldare il vecchio Che chino sta seduto Insieme ai suoi ricordi.

Vorrei essere quel sole Che ogni mattina Bacia il mio cuscino E illumina il mio risveglio.

Vorrei essere il fuoco Per bruciare La lingua degli invidiosi.

Claudio Calcaterra Gente di Bracciano


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