Gente di bracciano n 11 novembre 2016

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Ecosistema lago di Bracciano: nasce un comitato a tutela Il territorio si mobilita a difesa del proprio bacino lacustre. Preoccupanti le evidenti variazioni di livello

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utelare l’ecosistema lago di Bracciano adottando un sistema di partecipazione democratica. Questo l’obiettivo del comitato che si è costituito sabato 29 ottobre presso il circolo velico Il Gabbiano di Vigna di Valle al termine di un incontro del gruppo di lavoro che riunisce studiosi, operatori turistici, giuristi, pescatori, comunicatori, cittadini dei tre paesi rivieraschi di Anguillara, Bracciano e Trevignano Romano. Il Comitato intende promuovere, completamente a titolo gratuito, azioni di studio, consulenza e eventualmente coordinamento sulla gestione del lago, da tutti i punti di vista. Il dato di fondo da cui si è partiti sono i potenziali impatti che le escursioni del livello dell’acqua e la completa scomparsa della vegetazione ripariale determinano per l’ecosistema. Studi scientifici condotti sul campo dimostrano che anche per il lago di Bracciano intervengono sofferenze a causa delle variazioni del livello. È infatti nella fascia riparia che il lago concentra le proprie capacità di rigenerazione e molti km2 di fondale possono rimanere esposti all’aria. Negli ultimi anni le variazioni del livello del lago di Bracciano, in particolare per ragioni antropiche che si sono aggiunte agli effetti dei cambiamenti climatici, ha subìto repentini cambiamenti. Tutto ciò costituisce un grave rischio per il mantenimento dell’ecosistema lago. Il Comitato ritiene prioritaria e si adopererà per aiutare l’adozione di procedure democratiche e trasparenti che pongano fine al sistema di delega degli ultimi decenni, consapevole che l’acqua costituisce un bene co-

mune e che il lago, se dovesse perdere le proprie capacità autodepurative, rischia di divenire un semplice invaso privo di funzionalità naturali. Il Comitato, che inizia ora a lavorare, si propone in primo luogo di sensibilizzare la popolazione e di promuovere un coordinamento che, anche con il coinvolgimento delle istituzioni interessate, conduca ad una più consapevole gestione del bacino lacustre. “Con la perdita delle funzionalità ecosistemiche - hanno spiegato gli esperti - si avrà anche la perdita dell’attuale qualità dell’acqua, compreso l’uso potabile, a causa della crisi dei sistemi autodepurativi. Importanti variazioni di livello possono anche essere fisiologiche, ma l’intervento antropico moderno aumenta la frequenza senza concedere all’ecosistema tempi di adattamento indispensabili per il suo equilibrio. I laghi vulcanici laziali e in particolare quello sabatino stanno subendo una drastica e molto preoccupante riduzione del loro abituale livello. Solo negli ultimi 12 mesi la riduzione ha superato un metro (similmente a quanto accaduto nel 2003) e le conseguenze sia per l’ecosistema lacustre sia per l’uomo che ne fa uso sono evidenti. Già tutta la vegetazione circumlacuale è scomparsa e con lei le aree di riproduzione dei pesci foraggio (indispensabili alla nutrizione dei pesci di valore commerciale) e gran parte delle potenzialità autodepurative dovute alle macrofite emergenti. Con elevata probabilità - concludono gli esperti profilando uno scenario inquietante - la tendenza porterà al depauperamento della risorsa idrica e destabilizzerà l’ecosistema fino al collasso”.

Gente di Bracciano Novembre 2016 numero 11


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Ettore Majorana: ancora senza un perché la sua scomparsa

Gente Bracciano

Novembre 2016 - Numero 11

Dedicato a Altibano Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente: Claudio Calcaterra Direttore responsabile: Graziarosa Villani Redazione: Francesco Mancuso, Vittoria Casotti, Biancamaria Alberi, Luigi Di Giampaolo Collaboratori: Massimo Giribono Fabercross, Pierluigi Grossi, Mena Maisano Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014 Stampa e impaginazione: FEDE 2011 srl Via dei Vignali, 60 - Anguillara Sabazia su carta riciclata Foto di controcopertina di Vinicio Ferri foto di copertina a cura di

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A proposito di partiti e stupidità

Confermata quest’anno l’esistenza dei fermioni che portano il suo nome, particelle che si comportano simultaneamente come materia e antimateria

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i è molto scritto, in Italia, negli ultimi tempi, sulla crisi dei partiti. Si è, anche, alimentata una campagna contro il “sistema dei partiti”. Confluiscono in questa polemica, posizioni e forze assai diverse. Posizioni di chiaro stampo reazionario; forze che tendono a colpire il regime democratico e ad impedire uno sviluppo progressivo della lotta politica e sociale, lungo la strada aperta dalla Resistenza e dalla Costituzione. Ma anche posizioni e forze di ispirazione democratica, che esprimono un travaglio reale e complesso, una ricerca non priva di validi motivi. Nè saremo certo noi a negare fenomeni di degenerazione che si sono prodotti, nel corso di venti e più anni, nella vita interna di determinati partiti e nel loro rapporto col Paese. Ci riferiamo innanzitutto e soprattutto alla Democrazia Cristiana. L’ininterrotto e spregiudicato esercizio del potere per un così lungo periodo, l’uso arbitrario delle leve dello Stato per scopi di partito. L’aperto intervento, fino a non molti anni fa, delle supreme autorità e dell’organizzazione della chiesa nella lotta politica, hanno fatto del rapporto tra Democrazia Cristiana e vaste masse di cittadini, tra Democrazia Cristiana e corpo elettorale, un rapporto in larga misura non democratico, fondato non su una libera scelta e su una reale partecipazione politica ma su molteplici elementi di pressione e corruzione. Gli aspetti deteriori che ha presentato e sempre più presenta la vicenda delle correnti all’interno del maggiore partito italiano, hanno costituito un motivo di crescente polemica e distacco, da parte di strati importanti della pubblica opinione, nei confronti del “sistema dei partiti”. Guasti analoghi si sono d’altronde prodotti, in maggiore o minor misura, nei partiti che hanno condiviso con la Democrazia Cristiana l’esercito del potere. Tutto l’insieme dei rapporti tra grandi masse popolari e regime democratico è stato gravemente intaccato da una pratica di governo che ha trovato la sua espressione politica in ristretti dibattiti e accordi di vertice e si è risolta in un parziale svuotamento delle fondamentali istituzioni democratiche, delle assemblee elettive. Tutto questo però non autorizza né a mettere sotto accusa il sistema dei partiti in quanto tale, né a confondere i singoli partiti in un unico, complessivo giudizio di condanna. “I partiti - disse Togliatti alla Costituente - sono la democrazia che si organizza”. Guai a perdere di vista questo dato essenziale, guai a smarrire questo fondamentale punto d’orientamento. La critica deve perciò essere puntuale, investire quelli che sono davvero fenomeni degenerativi, non alimentare l’equivoca ipotesi del superamento dei partiti, ma tradursi in positive, concrete istanze di rinnovamento della direzione politica del Paese. Giorgio Napolitano (1971) Questo è quello che scriveva nel 1971 il benemerito ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Evidentemente oggi non la pensa più così. Certo sono passati molti anni. Il mondo è cambiato. L’Italia è cambiata, ma gli schieramenti e il modo di fare politica sono sempre gli stessi. Qualcuno tempo fa si è inventato/a un detto che è diventato, in bocca a molti, di uso comune, e cioè “soltanto gli stupidi non cambiano idea”. Quando sento questa frase, detta da individui che sono impegnati nella politica, mi viene sempre da pensare che questo individuo/a è uno/a opportunista. Claudio Calcaterra

esta un cold case, un caso irrisolto, quello del grande fisico e matematico Ettore Majorana. Uno scienziato, forse l’unico, che poteva confrontarsi pari a pari con Enrico Fermi, che si teneva in disparte rispetto alla “comitiva” dei ragazzi di via Panisperna. La sua scomparsa nel marzo del 1938 resta un mistero. Non è stata ancora scritta la storia certa di quali furono le sue sorti dopo il presunto e fatidico viaggio di ritorno da Palermo a bordo del postale della Tirrenia. Da quel momento si perdono le sue tracce. Si gettò in mare durante la navigazione? Sbarcò e si chiuse in convento a Napoli o in altri luoghi? Emigrò in Venezuela e poi in Argentina? Fu il clochard Tommaso Lipari che viveva a Mazara del Vallo e morto il 9 luglio del 1973? O fu il senzatetto che sostava dinanzi l’Università Gregoriana a Roma e che si incontro con Di Liegro? Certo è che Majorana è stato uno dei più grandi scienziati italiani. A distanza di 80 anni la sua intuizione rispetto alle particelle che si comportano simultaneamente come materia e antimateria, chiamate Lo scienziato scomparso appunto “fermioni di Majorana”, sono una realtà. È dell’aprile 2016 un nuovo esperimento, dopo il primo rilevamento del 2014, eseguito presso l’Oak Ridge National Laboratory del Tennessee negli Stati Uniti, che ne conferma definitivamente l’esistenza. I fermioni di Majorana possono costituire una straordinaria accelerazione verso la realizzazione di supercomputer quantistici. Ma quale visione, con la sua grande scienza, ebbe Majorana? La bomba atomica o qualcosa di molto, molto più inquietante? La vicenda della scomparsa sconfina nella cronaca. La sera del 25 marzo Majorana, in procinto di imbarcarsi a Napoli, scrive due lettere, una alla madre Dorina Corso, l’altra a Antonio Carelli direttore dell’Istituto di Fisica dell’Università di Napoli dove dal gennaio precedente tiene un corso di Fisica Teorica. A Carelli è indirizzato inoltre un telegramma - “Non allarmarti. Segue lettera. Majorana” ed una lettera datata 26 marzo 1938: “Spero che ti siano arrivati insieme il telegramma e la lettera. Il mare mi ha rifiutato e ritornerò domani all'albergo Bologna, viaggiando forse con questo stesso foglio. Ho però intenzione di rinunziare all'insegnamento”. Ritira inoltre gli stipendi da docente che non aveva ritirato prima d’allora. Poi più nulla. Ettore, era nato a Catania nella centralissima via Etnea. La sua è una famiglia bene. Vi si annoverano anche dei parlamentari. Gli studi sin da giovanissimo lo portarono a Roma dove frequentò anche il liceo Torquato Tasso. Il suo caso fu portato anche all’attenzione, con una lettera della madre e di Enrico Fermi, di Benito Mussolini che sul fascicolo scrisse “voglio che si trovi”. Leonardo Sciascia per Einaudi scrisse un libro sulla vicenda. Il volume contiene “notizie sulla carriera didattica”, un curriculum vitae breve, si direbbe oggi. Note scritte dallo stesso Ettore Majorana. “Sono nato a Catania il 5 agosto 1906. Ho seguito gli studi classici conseguendo la licenza liceale nel 1923; ho poi atte-

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so regolarmente gli studi di ingegneria in Roma fino alla soglia dell’ultimo anno. Nel 1928, desiderando occuparmi di scienza pura, ho chiesto e ottenuto il passaggio alla Facoltà di Fisica e nel 1929 mi sono laureato in Fisica Teorica sotto la direzione di S.E. Fermi svolgendo la tesi: “La teoria quantistica dei nuclei radioattivi” e ottenendo i pieni voti e la lode. Negli anni successivi ho frequentato liberamente l’Istituto di Fisica di Roma seguendo il movimento scientifico e attendendo a ricerche teoriche di varia indole. Ininterrottamente mi sono giovato della guida sapiente e animatrice di S.E. il prof. Enrico Fermi”. Un passo del libro mette insieme due immagini di Majorana, uomo in un certo senso “pirandelliano” che vuole come eclissarsi nella Roma di allora da un lato e il grande fisico dall’altro. “La mattina, nell’andare in tram all’Istituto, - scrive Sciascia riportando un ricordo di Laura Fermi - si metteva a pensare con la fronte accigliata. Gli veniva in mente un’idea nuova, o la soluzione di un problema difficile, o la spiegazione di certi risultati sperimentali che erano sembrati incomprensibili: si frugava le tasche, ne estraeva una matita e un pacchetto di sigarette su cui scarabocchiava formule complicate. Sceso dal tram se ne andava tutto assorto, col capo chino e un gran ciuffo di capelli neri e scarrufati spioventi sugli occhi. Arrivato all’Istituto cercava di Fermi o di Rasetti e, pacchetto di sigarette alla mano, spiegava la sua idea. Ma appena gli altri approvavano, se ne entusiasmavano, lo esortavano a pubblicare, – e qui è Sciascia a scrivere – Majorana si rinchiudeva, farfugliava che era roba da bambini e che non valeva la pena discorrerne: e appena fumata l’ultima sigaretta (e non ci voleva molto, per lui fumatore accanito, arrivare all’ultima delle dieci ‘macedonia’ del pacchetto), buttava il pacchetto – e i calcoli, e le teorie – nel cestino. Così finì, pensata e calcolata prima che Heisenberg la pubblicasse, la teoria, che da Heisenberg prese nome, del nucleo fatto di protoni e neutroni”. Premio Nobel per la fisica nel 1932 “per la creazione della meccanica quantistica”, Werner Heinsenberg, con il quale Majorana si incontrò a Lipsia nel 1933 beneficiando di una borsa di studio del Centro Nazionale delle Ricerche, era stato inserito da Hitler nel Club dell’Uranio, la struttura tedesca per la ricerca sulla bomba atomica. Benché la fissione nucleare fosse stata scoperta in Germania già nel 1939, fu poi il Progetto Manhattan, di là dell’oceano a portare alla realizzazione di “Little Boy”, la prima bomba nucleare sganciata su Hiroshima il 6 agosto del 1945. Due canali di ricerca paralleli, in pieno evento bellico, che non videro tra i protagonisti il genio - considerato da Fermi alla stregua di Galilei e Newton - già scomparso, volontariamente o no, di Ettore Majorana. Il mistero permane. La sua uscita di scena ha segnato per la scienza una perdita la cui entità resta, come una ferita che non si rimargina, una profonda incognita. A cura di Claudio Calcaterra

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Piccola storia di Ninetto “il panettiere felice” A

ppena stringo la mano di Ninetto (Grossi) so che sto per incontrare una bella storia. Piccolo, sguardo brighello, capelli bianchi, un volto giovane, ha 88 anni, lo sguardo di una persona che “sa di aver vissuto”. Apro il mio quaderno Mnemosine, prendo la penna e devo cominciare subito a tracciare i segni dei suoi ricordi: Ninetto è già partito e rimango colpito dalla serenità con cui racconta che alla sua morte desidera un fornetto e, accanto, una pala da panettiere, l’arnese del suo mestiere della vita. Si ferma un attimo, poi con un filo di voce suadente dice…ho passato una vita a fare pane, il mio sogno, ho una cara famiglia che mi coccola e mi accudisce, non mi è mancato nulla…io insisto un po’…nulla, proprio nulla?…e lui, soave, senza alcuna traccia di rimpianto, solo un refolo di desiderio…forse ho pensato “troppo” alla famiglia, mi sarebbe piaciuto conoscere il mondo, anche se ho girato tutta l’Italia…tra me e me penso a quel “troppo” dichiarato così delicatamente, mentre “troppo” è un avverbio di quantità che evoca quasi sempre fatiche narrative, scoprirò poi che Ninetto usa aggettivi forti, forse non del tutto esatti, ma di una straordinaria forza espressiva, li segnalerò man mano, lui li fa lievitare come il pane. Intanto Ninetto ha cominciato a parlare dei suoi genitori…papà era di Forlì e faceva il tranviere, fu ferito da una scheggia in guerra e questo gli valse il suo lavoro alle tranvie romane…una lieve pausa…morì andando sotto un tram…e mi viene in mente Gaudì, l’architetto che ha rivoluzionato Barcellona, anche lui morì andando sotto un tram…mamma era un’energica casalinga di Anagni, che amava ripeterci spesso un detto del suo paese “se non porti non magni”…insieme fecero 10 figli…e, con i suoi 88 anni sul cuore, Ninetto rievoca tutte le loro date di nascita…1916, 17, 19, 22, io nacqui nel 28, nell’intervallo 3 morirono di parto, gli altri due nel 29 e 32…quando nacqui io un mio zio “scorbutico”…ecco l’aggettivo di Ninetto, allora gli chiedo perché lo fosse…no, è che era spiritoso, ma un po’ troppo, quando nacqui aveva da poco ammazzato un maialino, fu da lì che non mi chiamai più Ermanno, il mio nome, ma Ninetto, anch’io un diminutivo, penso…a scuola non ero un granché, ho fatto fino alla V elementare, e non è poco per quei tempi, passammo anni in cui eravamo tutti uniti, la sera a tavola parlavamo delle fatiche della giornata, un coro senza stonature…gli chiedo cosa mangiassero e lui, di rimando…tutto meno i fagioli, proprio non li digerivo…gli chiedo di raccontare la marachella più impertinente che ricorda, ci pensa un po’…mah, devo dire nessuna, ero un ragazzo a posto, andavo a scuola al Prenestino, là dove piazze e vie hanno tutti nomi di condottieri, Ettore Fieramosca, Alberto da Giussano, dopo la scuola per le vie a giuocare a nizza, a fare a spadate, a campana, i giuochi di quei tempi…papà, invece, era un “bolide”…segnato in rosso, è un sostantivo, ma tutto ninettia-

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Ninetto Grossi

no…ci tagliava i capelli, ci faceva e riparava le scarpe, andava lui a fare la spesa: 4 chili di pane e 4 chili di patate e un po’ di companatico, lui era socialista, ma con l’avvento del fascismo dovette iscriversi alla corporazione fascista dei tranvieri, lavorava in un’azienda pubblica! Insieme, mattone su mattone, tirò su la casa dei suoi sogni…ma mamma, mamma, una madonna, una santa, sempre a star dietro a lui e noi, certo il fatto che papà avesse un posto fisso ci aiutò molto, ricordo anche con piacere i periodi passati nelle colonie “balilla”, ad Anzio, Nettuno, mare, sole e bagni, una delizia! Gli chiedo come vivessero il fascismo, lui e i suoi fratelli più grandi che erano partiti per la guerra in Africa…mah! Se ne parlava poco, avevamo già tanto da fare per tirare avanti la carretta, ricordo però che i miei fratelli erano

La moglie Graziella

orgogliosi di partecipare a una guerra che faceva grande l’Italia, poi furono fatti prigionieri dagli Inglesi a Tobruk e spediti uno nei campi di prigionia in India, l’altro in Inghilterra…non sapemmo nulla di loro durante la guerra, ogni tanto un ufficiale

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inglese ci chiamava per dirci che stavano provvedendo e io pensavo “se viene qui lo faccio secco”. Poi rientrarono e uno, in quanto reduce, fu assunto dalla Romana Gas…si ferma un attimo, le mani serenamente intrecciate a giuocare tra loro, sembra felice di poter raccontare la sua storia…a 12 anni ero io che comandavo a casa, i fratelli grandi in guerra, io sapevo leggere e scrivere, mamma no, già lavoravo in un forno, quello di Baresi, col triciclo portavo i sacchi di farina, ricordo ancora le bombe a Roma quel 19 luglio del 1943 quando bombardarono San Lorenzo, papà intanto faceva il telemetrista a Monte Mario, orientava la contraerea, io mi nascondevo spesso in un negozio di vino e olio e quando vedevo arrivare i pompieri pensavo fossero condottieri immortali, avrei voluto andare via con loro, e l’8 settembre!, vicino alla borgata dove abitavo c’era una caserma, quel giorno non si capì più nulla, fuggivano tutti e intanto si dilettavano a rubare tutto quello che era possibile…Claudio e Mena sono incantati, Claudio perché attraverso le parole di Ninetto sente quasi rivivere la sua storia e quella di suo padre, Mena per quel volto serafico che racconta con straordinaria leggerezza storie difficili, complicate, di tempi difficili, complicati …io posseggo un’energia che non si ferma davanti a niente, quando incontrai Graziella le dissi “ ti faccio signora”…parole forti, che sembrerebbero adombrare qualche arroganza, nulla di tutto ciò, è tutta dolce convinzione, tenacia, senso di sé e dell’energia che sente di possedere, splendido Ninetto dei miracoli. Rientro in me da questo tuffo nella forza della sua semplicità giusto in tempo per sentire Ninetto che è ripartito…nel 1960 andai in Germania, a Stoccarda, a lavorare nei forni, ogni tanto una scappata a Monaco per saggiare i boccali della sua birra, ci sono stato un anno in Germania. Misi da parte qualche soldo, non potevo vivere sapendo di non avere qualche lira in più di quanto mi necessitasse. Rientrato andai alcuni mesi a Firenze da un mio fratello, facevo il lavamacchine, poi l’incontro fatale. La moglie di mio fratello era fiorentina e spesso si era a tavola con

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loro amici e parenti, lì vidi per la prima volta Graziella, la mia futura moglie, ma la scintilla accese il fuoco quando la vidi con pantaloncini corti, blusa sportiva e una racchetta di tennis in mano, mi sciolsi completamente. Nel frattempo tornai a Roma dove cominciai a lavorare nel forno di piazza dei Condottieri, ma il sabato sera e la domenica!!! Prendevo la mia fida 600 e via, per i Radicofani, a trovare Graziella, sette ore di macchina tra le gole e i dirupi di quelle montagne una volta abitate da masnadieri e briganti. Ma chi poteva fermarmi?...chiedo a Ninetto cosa facesse a Firenze durante quel soggiorno incantato, lo vedo imbarazzato, no solo riservato, allora vedo arrivare in suo soccorso la fida Graziella che con occhio birbo dice…che vuoi che facessimo, al cinema e poi ai giardini a scambiare parole, il primo bacio “vero” ce lo demmo a Roma, ospiti di una zia di Ninetto…rinfrancato Ninetto riprende…Graziella aveva dodici anni meno

cambio di una pagnottella con prosciutto alla famosa pizzicheria Piccioni, proprio a fianco del forno. E trovai chi mi portò al lavoro. Poi mi trasferii a Bracciano, intanto erano nati i miei due figli, Laura nel 63 e Renato nel 64…ancora una delle sue pause serafiche e…sai Bracciano m’ha abbracciato…altro aggettivo ninettiano, non c’è bisogno che gli chieda nulla…il fatto è che nel forno, attraverso la mia esperienza, ho cominciato a proporre non solo la solita pagnotta, ma sfilatini, rosette, pizza e la gente di Bracciano cominciò a frequentare il forno sempre di più, arrivavamo a lavorare 4 quintali di farina al giorno, ma non mi fermavo lì, finito il lavoro al forno andavo a lavorare alla pizzicheria, tutto questo tra il 1965 e il 1968…lo vedo per un attimo rannuvolarsi…poi accadde il fatto. Eravamo andati in un weekend a trovare i parenti di Graziella a Firenze, lì una sua zia doveva andare a Pisa a trovare un figliuolo e mi chiese di accompagnarla, era domenica e

In un quadro il forno di Ninetto in piena attività

di me, ci sposammo nel 1962, allora lavoravo a un forno dalle 4 del mattino a mattinata inoltrata, una dormita pomeridiana e pronto per il nuovo turno mattutino, c’era poco tempo per stare insieme. La vedevo poco, non ce la facevo più, così mi licenziai. Intanto mi iscrissi al sindacato fornai. Un giorno ero lì, in attesa di un lavoro, quando arrivò Attilio Piccioni che aveva in gestione, a Bracciano, un forno, il proprietario si chiamava Coccioni, gli serviva un operaio per una settimana e io ero lì, pronto a lavorare. La prima volta che ci andai con la mia vespa 125 Bracciano mi apparve come un quartiere di Roma, il cinema, i biliardi al bar Grand’Italia, le fraschette, con in più il lago. Piccioni mi prorogò il contratto e io continuai a fare avanti e indietro con Roma. Una volta ebbi un guasto alla vespa e andai con il treno, il problema è che mi svegliai a Manziana, la fermata dopo Bracciano. Scesi e chiesi in giro se qualcuno poteva portarmi a Bracciano in

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io dovevo partire per essere presente al turno di lunedì all’alba, ma tanto disse e tanto fece che riuscì a portarmi a Pisa per cui lunedì saltai il lavoro. Il giorno dopo trovai uno striscione su cui era scritto “sei licenziato”, avevano dovuto chiudere il forno per un giorno, era mancato maestro Ninetto. Lì per lì pensai fosse uno scherzo, invece era dannatamente vero! Ma trovai presto lavoro a Cerveteri al forno Capriotti e poi a Osteria Nuova dove portavo il pane appena sfornato ai casali, siamo tra il 1968 e il 1970. Poi la prima svolta. Piccioni lasciò la gestione del forno di Coccioni, così mi proposi come nuovo gestore, come sempre avevo un po’ di soldi da parte e mi accordai per 60.000 lire al mese, che diventarono nel tempo 250.000 lire. Così cominciai la mia avventura. Intanto cominciai a vendere il pane direttamente dentro il forno, poi non badavo troppo al peso e il mio pane era buono e fragrante! Fu un “corteggiamento” di persone! Poi comin-

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ciai a cuocere i soli che le comari portavano, pollo, abbacchio, pomodori con il riso, melanzane e a vendere tozzetti. Ebbi anche qualche guaio, i commercianti si lamentarono che vendevo il pane senza licenza, così dovetti ristrutturare il forno e fare un bancone dove venderlo. Nel ‘74 una nuova svolta. Coccioni vendeva il forno e io ero lì pronto a comprarlo, soldi sull’unghia. Anche Graziella aveva cominciato a lavorare il pane, a lei non dovevi mai mettere fretta, amava la lentezza, la calma, la pazienza, ma che pane sfornava! Piano piano presi un operaio, poi due, poi tre, mentre io andavo a portarlo ai ristoranti del lago, praticamente tutti, alle fraschette, ai negozi di Bracciano. Gli affari andavano bene. Un giorno mi si presentò un sensale che mi offriva opportunità d’investimento dei miei guadagni, fu stima e simpatia reciproca al primo incontro e io mi sentivo un po’ “gradasso”… altro aggettivo ninettiano, non gli ho chiesto nulla, so che voleva dire che era orgoglioso di sentirsi realizzato…così comprai delle terre che mi consigliò l’allora presidente dell’Agraria, Romolo Canini e costruii la casa che voi oggi vedete. Poi nel 1994 sono andato in pensione, lasciavo ai figli un lavoro e delle sicurezze. Io cominciai ad andare alle “cavolette” con i miei amici, “erano grossi e forti come tori” a mangiare pizza e prosciutto e giuocare a carte, oggi lavoro l’orto e accudisco i miei animali, galline, conigli, pecore, oche che amo guardare dalla finestra della mia camera da letto sui 10.000 metri quadrati che guardano la mia casa e spesso mi crogiuolo al sole…vedo Ninetto sostare nella sua cavalcata, ma sento che deve dire ancora delle cose…sai una volta andai al mare e mi presi una solenne scottatura, il giorno dopo a lavorare, forno bollente, io bollente, sono stato tutto il tempo con secchi d’acqua fresca a stemperare la mia pelle rossa…sento che siamo alla fine, ma tengo il mio quaderno acchiappaparole ancora aperto e la penna pronta, vedo che non ha ancora detto la parola fine alla nostra chiacchierata…sapete, devo ringraziarvi, mi ha fatto bene riannodare i fili del mio viaggio, mi sento come un ragazzino…e devo dire che a fronte dei suoi 88 anni ha proprio ragione…anche se la salute comincia ad essere incerta…e lo dice senza tristezza, enuncia solo un fatto, è consapevole che il nostro viaggio non è eterno…allora sono andato dal notaio e ho diviso i miei risparmi e le mie proprietà in quattro parti eguali, una per ogni nipote che ne avranno usufrutto al compimento dei 30 anni, non voglio che quando non ci sarò più sorgano questioni…come sempre finisco le mie storie di braccianesi con un grazie. Ma sento che questa volta è insufficiente, questa chiacchierata mi ha consegnato eccessi di adrenalina che sento il bisogno di compensare. Un grande scrittore e poeta, premio nobel nel 1971, Pablo Neruda, quello del film “Il postino” con Philippe Noiret e Massimo Troisi, scrisse un libro di memorie, uscito postumo, “Confesso che ho vissuto”… sento di doverlo dedicare a Ninetto (Grossi). Grazie Ninetto.

Francesco Mancuso

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Bracciano: Il convento dei Cappuccini Sorto attorno alla chiesetta medievale di Santa Lucia degli Agricoltori

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l colle dei Cappuccini ha rappresentato a Bracciano, a partire dalla fine del 1500 e per circa quattro secoli, un luogo religioso isolato che ospitava un convento costruito intorno ad una preesistente chiesetta sorta nel periodo medioevale ed intitolata a “S. Lucia degli agricoltori”. Così Oreste Raggi, avvocato e studioso di storia antica, descrive la situazione nel 1849. “Sparsi qua e là nelle circonvicine campagne erano dapprima case di agricoltori, a quel modo che vediamo oggi qui presso nel villaggio dei Pisciarelli e sembra prima sorgesse Bracciano che una parrocchia per comune uso di quelle genti fosse sul monte che chiamavano sacro, o sacrano, dove oggi è la chiesa dei cappuccini consacrata fin d'allora a santa Lucia. Da quel nome, che portava di sacro, o sacrano, è chi argomenta che prima anche dei tempi cristiani, e forse de'romani stes- Il complesso conventuale si, qui fosse un luogo consacralo a qualche rito religioso o ad alcuna etnica divinità: e poiché fu uso dei primitivi cristiani là appunto dove sorgeva un tempio alla idolatria innalzare le loro chiese al nuovo culto, così sembra che qui avvenisse altrettanto dove fu la prima parrocchia di questi dintorni, consacrata a santa Lucia, e dalla quale prende oggidì nome il colle medesimo che dicono pure dei cappuccini. Senza tornare su di esso, diremo come la natura di questo colle sia del tutto vulcanica, e come un picciol rivo, che qui in basso si ravvolge fra sassi e ciottoli di diversa specie, chiamino il fosso del diavolo. Narrano che in fare lavorazioni di campagna si rinvenissero, non sono molti anni, alcuni monumenti da me ricercati, ma non veduti, perché più non esistono dopo che con vandalico costume si fecero servire a materiali nella ristaurazione della chiesa o in altro modo si dispersero; ma trovo accennato per tradizione de'più vecchi del luogo, che fossero tracce di antichissimi muri, avanzi di sepolcri, e anfore, e marmi lavorati, e vasi e pàtere dipinte, e incrostature di mosaici e monete romane. Più specialmente poi si ricorda una cassa mortuaria con suo coperchio in marmo bianco, scavata in una grotta là dove il luogo declina fra levante e tramontana, alla profondità di circa sette palmi. Descrivono questa cassa avente scolpiti a bassorilievo alcuni geni alati danzanti insieme: ciò che potrebbe dirsi che appelli a quella seconda età etrusca che fu detta etrusco-romana”. Ma procediamo in ordine cronologico nella descrizione degli avvenimenti. Nell’alto medioevo la rocca di Bracciano ancora non esisteva, il centro romano di Forum Clodii era stato distrutto da poco dalle invasioni barbariche, tutta la popolazione viveva ramificata in casolari sparsi nelle campagne ed ormai aveva abbracciato la religione cristiana. Si sentiva per questo la necessità di poter disporre di un centro di culto dove radunarsi. Sulla collina che aveva già ospitato in precedenza un tempio pagano viene così costruita una chiesetta intitolata a S. Lucia degli agricoltori, proprio per marcare la provenienza dell’iniziativa. Come noto, Lucia è una giovane martire cristiana, vissuta a Catania, morta nei primi anni del terzo secolo e la cui festività viene celebrata il 13 dicembre, giorno che avrebbe poi dato vita all’allestimento della fiera che ancora oggi si effettua in quel giorno. La fiera nasce proprio dalle esigenze degli agri-

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coltori locali di potersi incontrare per uno scambio del bestiame e dei prodotti vari. Fino al 1400 è praticamente la chiesa più importante del territorio, fino a quando, cioè, Bracciano assume un ruolo centrale ed al suo interno vengono realizzate altre chiese, dapprima S. Sebastiano (annessa al vecchio ospedale) e poi il duomo di S. Stefano e S. Maria Novella. La chiesetta di S. Lucia rimane una costruzione isolata fino al 1580 quando la comunità di Bracciano ed il duca Paolo Giordano Orsini la assegnano ai frati Cappuccini per consentire loro di costruire un annesso convento, forse per bilanciare l’influenza di quello degli Agostiniani, già realizzato in prossimità del castello. I lavori iniziarono presto e nel primo decennio del 1600 il convento era pressoché completato. Ma al convento nuovo si opponeva la vetustà della chiesa, ormai fatiscente, per cui, a partire dalla seconda metà del 1600 si provvide ad una radicale ristrutturazione e la chiesa fu di nuovo consacrata nell’aprile del 1700, come ricorda l’iscrizione incisa su una lapide esposta al suo interno. Un’altra epigrafe, posta a destra dell’altare, ricorda che in questa chiesa fu sepolto il cardinale Alessandro Orsini, nato nel 1592 e morto a Bracciano nel 1626, figlio del duca Virginio e di Flavia Damasceni Peretti, pronipote del papa Sisto V. Creato cardinale a soli 23 anni, è ricordato per i suoi positivi rapporti con Galileo, il quale lo scelse come destinatario di un trattato sulle maree, nonché per le sue opere caritatevoli svolte come legato pontificio a Ravenna. Un altro personaggio aleggia nella memoria all’interno del convento, questa volta di umili origini. Si tratta di fra Crispino, un cappuccino proclamato beato, vissuto a cavallo del 1700 e che fu ospite del convento a più riprese. Ma il soggiorno più ricordato è quello che avvenne nell’estate del 1707. Nella vita di F. Crispino da Viterbo, stampata a Venezia nel 1752, si legge: “… era d’estate, e del mese di Luglio, quando al Provinciale occorse di spedire un qualche Religioso per supplemento nel Convento di Bracciano, dove la famiglia era quasi tutta inferma, per un’influenza d’Aria infetta, e pestifera, che correva in quella Città, stante l’escavazione d’un gran prato, detto del Gallo, in occorrenza dei nuovi acquedotti ordinati dal Duca D. Livio Odescalchi, per le nuove fabbriche di Cartiere, e Ferriere, le quali

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Successivamente i Torlonia sparirono dalla scena perchè, nel 1847, il feudo era ritornato nella proprietà degli Odescalchi. Le criticità, però, non sono terminate e se ne prospettano di nuove collegate al passaggio al Regno d’Italia, nel 1870, dei territori appartenenti all’ex Stato Pontificio. Già nel 1866 il Parlamento italiano aveva proclamato la soppressione degli ordini religiosi e nel 1867 aveva approvato la liquidazione dei loro beni. Queste leggi furono, ovviamente, poi applicate negli ex possedimenti dello Stato Pontificio e, quindi, anche il nostro convento fu messo in vendita nel 1875. Ad acquistarlo, con un chiaro intento speculativo, fu un certo Remigio Cionci, facoltoso personaggio che operava nell’edilizia romana, e che risulta pure essere socio della Società operaia di Mutuo Soccorso di Bracciano. Di fatto, però, non si concretizza alcun intervento edilizio, per cui dopo la sua morte gli eredi vendono il convento agli Odescalchi nel 1891. Si ripete così quanto avvenuto circa 80 anni prima: il complesso viene acquistato dal titolare del feudo per riconsegnarlo ai frati che nel 1904 vi ritornano a pieno titolo. Contrariamente a quanto normalmente si pensa, l’attività prevalente dei frati consisteva nello studio e non nella vita contemplativa tipica di chi vive in comunità isolate. Pur se non all’altezza della biblioteca racchiusa nell’abbazia benedettina resa famosa dal romanzo, e poi film, “Il nome della rosa” di Umberto Eco, anche il nostro convento ospitava una biblioteca di tutto rispetto. Non aveva avuto le frequentazioni di Guglielmo da Baskerville, pure lui frate francescano, ma è stata meta per approfondimenti da parte di diversi studiosi. Vi erano contenuti moltissimi volumi ed opuscoli, con preziose edizioni che vanno dal 1500 al 1800, su tematiche che spaziano dalla filosofia alla geografia e storia, comprese, ovviamente, teologia e storia della Chiesa. La biblioteca è tuttora ricompresa nell’anagrafe delle biblioteche tenuta dall’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane. Il 1900 non riserva sorprese se non la novità che la dimora è pienamente disponibile ma, causa la carenza delle vocazioni, mancano gli inquilini che possano occuparla perché i frati scarseggiano. L’Ordine dei Cappuccini pensa così ad altri utilizzi non strettamente religiosi ma più o meno caritatevoli. Questo è il presente, il futuro è tutto da inventare e difficile da prevedere. Certo il luogo, ormai assediato dalle nuovi costruzioni, non è più quello descritto dal Raggi durante il suo soggiorno nel 1849 che così lo ricorda: “…ma io non posso distaccarmi da questo luogo senza ricordare affettuosamente la piccola, ma bella ed amenissima macchia di annose querce, che sorge nel prossimo terreno dei cappuccini, e dove in queste limpide mattine autunnali io passo ogni giorno alcune ore in leggendo nella più cara e soave tranquillità. Qui veramente io mi delizio nella desiderata solitudine della campagna, e di qua lungi dal mondo la mia mente si solleva e si trasporta in pensieri i più melanconici, ma i più dolci ad un tempo”. Ambienti e sentimenti ormai irripetibili. Pierluigi Grossi

in quel tempo l’Architetto Salvetti faceva lavorare … i famigliari di F. Crispino cercavano persuadergli di non andarvi trattandosi di vita...il giorno seguente s’istradò a quella volta, dove giunto, parte colla sua fraterna assistenza, e Carità, e parte colle sue Orazioni, e consuete penitenze, per loro applicate, tutti gl’infermi di quella famiglia guarirono, ed egli sempre sano ed in buone forze nel mese d’Ottobre fece ritorno…”. Certo appare difficile immaginare che una pestilenza possa essere causata dallo scavo di un prato per farvi passare un acquedotto e quindi va rivalutato e ridimensionato pure l’intervento guaritore di fra Crispino. È interessante notare come il prato detto del Gallo fosse in prossimità del convento e i lavori di escavazione fossero riferiti alla costruzione del condotto oggi noto come archi di Mazzasette. Nelle vicinanze una strada mantiene tuttora il nome di Prato Gallo. Si ricorda un altro coevo religioso cappuccino non strettamente connesso con il convento ma appartenente ad una famiglia braccianese. Si tratta di Tommaso Polidori, divenuto religioso con il nome di fra Felice da Bracciano, nato nel 1748 da Alessandro Polidori e Rosa Cappelletti. Anche lui, come fra Crispino, non divenne sacerdote ma solo monaco con professione dei voti. È conosciuto però come architetto e viene citato nella ristrutturazione del santuario “la sughera” di Tolfa. Per tutto il 1700 il convento ed i suoi ospiti vissero tranquilli senza subire particolari vicende, ma il secolo seguente riservò loro notevoli sconvolgimenti, iniziati proprio dall’anno 1798 con la costituzione della Repubblica Romana e l’invasione dello Stato Pontificio da parte degli eserciti francesi che risentivano ancora fortemente dell’influenza della rivoluzione ed erano poco accondiscendenti nei confronti dei poteri forti. Furono anni molto travagliati, con scontri tra le opposte fazioni e cambi di potere fino al 1805 quando i Francesi presero definitivo possesso della nostra zona e tutto il territorio fu annesso all’impero napoleonico nel 1809. Per fare cassa, con un decreto del 25 aprile 1810, Napoleone stabilì la soppressione di tutti gli ordini religiosi e la vendita all’incanto dei loro beni. Fu così che anche il convento di Bracciano fu confiscato ma la famiglia Torlonia, subentrata agli Odescalchi nella proprietà del feudo nel 1803, dopo poco tempo riuscì a riscattarlo e ad aggiudicarselo di nuovo dietro pagamento, in virtù anche dei buoni rapporti che il duca Giovanni Raimondo Torlonia, banchiere, intratteneva con i francesi, tanto che veniva scherzosamente denominato “banquier de jour et duc de Bracciano la nuit”. Giovanni Raimondo consegnò di nuovo il convento ai Cappuccini che così ne ripresero il possesso in tutta tranquillità, essendosi affermato di nuovo, nel frattempo, il potere temporale dei papi. La forte predisposizione religiosa del duca proseguì anche con il figlio Marino che nel 1840 provvide al restauro del complesso conventuale, come ricordato anche da una epigrafe in marmo. Già in precedenza, nel 1832, Marino Torlonia aveva provveduto a restaurare la chiesa della Visitazione, come attestato dalla lapide tuttora presente sopra il portone di ingresso.

Joséphine: lo straordinario angelo della speranza caotica e senza speranza. Allora viva a un po’ di tempo seguo su La7, insieme alla Joséphine che ci dà speranza. Nella sua semD mia compagna Mena, le storie e le imprese plicità, nella sua bontà, nel suo amore verso il di Joséphine, angelo custode che scende sulla

prossimo, pardon, verso gli umani, ci racconta che è possibile intervenire sul destino di ogni singolo essere umano. Ma sono solo sogni, non è la realtà…La realtà è che gli angeli custodi sono solo un sogno, un lieto sogno grazie al quale si può volare attraverso la fantasia e la dolcezza amorevole di Joséphine che ci commuove. Ma purtroppo la fine del sogno ci riporta nella vita reale dove tutto è crudele, inumano, feroce e tremendo, con tutto ciò che l’uomo mette in campo nella sua esistenza terrena. Grazie allora Joséphine che ci fai sognare ancora. Meriteresti senz’altro un Oscar alla speranza. Claudio Calcaterra

terra in missione, inviata dal “capo” supremo, per risolvere problemi gravi o meno gravi, di mortali terreni. Certo, molti di noi pensano che queste storielle siano solo edulcoranti e bugiarde. Probabilmente è vero. Però sicuramente nessuno di noi si sofferma un attimo, sul valore educativo e amorevolmente appagante che queste vicende hanno per chi nella vita non ha altro che sognare. Sognare. L’amore che un angelo custode non può vivere, ma poiché nell’amore c’è la vita tutta, la sofferenza che comunque genera è vera e reale. Noi umani abbiamo il bisogno di credere che qualcuno vicino a noi ci garantisca la possibilità di sopravvivenza nel marasma dell’esistenza

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Da Parigi al lago di Bracciano: la straordinaria storia del “Ballon du Sacre” Lanciato in volo per i festeggiamenti in onore dell’incoronazione di Napoleone venne a cadere nelle acque lacustre. È il più antico cimelio di volo al mondo. Il recente libro di Carlo Piola Caselli ricostruisce la vertenza che nacque dalla contesa tra anguillarini e braccianesi

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n pallone, o meglio un aerostato, una contesa ante litteram tra braccianesi e anguillarini, la vertenza “Romana Globi Areostatici”, un imperatore, Napoleone I, un papa, Pio VII, e due famiglie nobiliari I Grillo e i Torlonia. A distanza di secoli resta ancora incredibile la storia del Ballon du Sacre, il più antico cimelio del volo oggi conservato al Museo dell’Aeronautica di Vigna di Valle. Una straordinaria vicenda che travalica i confini, investe il diritto, solleva interrogativi scientifici ed addirittura superstizioni. È il 16 dicembre 1804, qualche giorno prima, il 2 dicembre in Notre Dame, Napoleone incorona se stesso. Tutti gli impeti libertari della Rivoluzione Francese vengono meno. Un gesto che di per sé ha fatto la storia. Alla cerimonia è presente anche il papa Pio VII. I festeggiamenti si protraggono per giorni. Il 3 dicembre André Jaques Garnerin, uno dei primi aerostieri con all’attivo già numerosi esperienze di aerostati, sopraintende al lancio in Place de la Concorde a Parigi di quattro palloni, un quinto pallone reca una grande aquila imperiale. La straordinaria impresa del “Ballon du Sacre” avviene qualche giorno dopo. “Questa magnifica mongolfiera, che costò 23.500 franchi - racconta una cronaca - fu uno dei numeri più belli del programma di quei festeggiamenti. Era tutta adorna di drappi, con sotto un’aquila ed una corona imperiale illuminata da ben 3.000 vetri colorati. La partenza avvenne il 16 dicembre 1804, dall’ atrio di Notre Dame, mentre tutta Parigi acclamava”. Il pallone, una volta alzato in volo, si dirige - con un velocità di 60 chilometri orari - verso sud, viene scorto durante il passaggio nel Delfinato, come veniva chiamata allora provincia del sud est della Francia tra le Alpi e la valle del Rodano e poi dopo un viaggio nei cieli d’Europa di 22 ore di volo finisce nel lago di Bracciano. Poco prima, il pallone si sarebbe scontrato con quella

Il lancio dei palloni per celebrare l’incoronazione di Napoleone a Parigi

che da sempre è nota come la Tomba di Nerone (in realtà sepolcro di Publio Vibio Mariano), sulla consolare Cassia, lasciando impigliata una parte della corona imperiale. Lo stupore sul lago per la visione di una simile macchina del volo è grande. Così scrisse in una lettera il Filippo Agapito Grillo duca di Mondragone al cardinale Ercole Consalvi, segretario di Stato di Pio VII: "Ieri sera, 17 dicembre, verso le ventiquattro ore (circa il tramonto del sole secondo l’orologio italiano) si vide comparire nell’aria un globo di smisurata grandezza che a poco a poco cadde nel lago di Bracciano nelle cui acque sembrava una casa galleggiante. Diversi navicellai vennero spediti nella stessa notte perché se ne impadronissero e lo conducessero a terra, ma insorsero tra loro alcuni alterchi, i quali impedirono l'operazione. Ritornativi questa mattina, per mezzo di una barca l’hanno trasportato nella riva. Il globo scrive ancora il nobile – è di seta ingommata, circondato da una rete. La galleria ch’è formata di filo di ferro si è un po’ rotta. Sembra essere stata illuminata, poiché vi si trovano ancora alcuni lumicini. Attaccato al globo trovossi uno scritto, in lingua francese, che conteneva precisamente

L’aerostiere Garnerin

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queste parole: il pallone portato di questa lettera si è alzato in Parigi la sera del 25 frimale per opera del signor Garnerin, Aeronauta Privilegiato G.S.M l’imperadore di Russia, ed Ordinario del governo francese, nella circostanza della festa data dalla città di Parigi a S. M. l’Imperatore Napoleone. Quelli che troveranno questo pallone, sono pregati ad averne cura, ed a ragguagliare il signor Garnerin del luogo in cui fosse disceso. Egli stesso si recherà, se ciò fosse necessario, ove il pallone sarà caduto”. Notizie sull’aerostato sono contenute anche negli appunti dell’Abate Jacometti, conservate dal parroco di Anguillara Don Angelo Zibellini. Ne parlò anche Tomasetti nella sua Campagna Romana. Ma ad approfondire senz’altro l’argomento arriva ora il libro di Carlo Piola Caselli, “Il ‘Ballon du sacre’ e l’inizio del diritto aeronautico” presentato a Bracciano il 14 settembre 2016 nell’ambito delle iniziative per Il Battello della Lettura, alla presenza dell’autore e di Massimo Mondini, colonnello pilota e già direttore del Museo Storico dell’Aeronautica. Mondini nel suo libro “Il lago degli Aviatori”, rifacendosi al libro di Caselli così descrive la scena “I pescatori di Anguillara, la sera del 17 dicembre avevano avvistato il pallone che sorvolava Anguillara e che poi lentamente andava scivolando sulle acque del lago; con la barca avevano provato ad inseguirlo e quasi erano riusciti ad afferrarlo, poi, sospinto dal vento, il pallone si era allontanato ed essi erano dovuti tornare a mani vuote. Il mattino seguente erano di nuovo andati in cerca del pallone e l’avevano avvistato a un albero di ontano a Vigna Campana, di proprietà del marchese Torlonia di Bracciano; sul posto era nata una discussione tra loro e il vignaiolo del marchese, tale Domenico Negretti, ma gli anguillarini, capeggiati dai fratelli Senzadenari, con furbizia erano riusciti a portarsi via l’ambito pallone”. Trenta marenghi dati in premio fecero poi scoppiare una lite tra braccianesi ed anguillarini. “Questo globo aerostatico - scrive Piola Caselli - venne esposto nella Biblioteca Apostolica Vaticana. All'inizio discussero della questione tutti i dotti, principalmente in Italia ed in Francia, poi quando la città di Parigi volle premiare con 30 marenghi d'oro il commando dei pescatori, che aveva recuperato il prezioso globo aerostatico, insorsero i vignaioli, nel cui terreno, feudo del marchese Giovanni Torlonia era stato rinvenuto e carpito loro con astuzia, per avere la loro parte. Cosicché Torlonia reclamò l'aerostato, il duca non poté darglielo poiché era ormai diventato una questione di Stato, allora si rivolse a Consalvi per avere giustizia, il quale tagliò corto requisendo il pallone, proprio come fa l'arbitro, e mettendo tutto nelle mani di una «Congregazione Particolare», composta di tre giudici rotali (eminenze grigie della cassazione dell'epoca), cosicché la vertenza venne intitolata «Romana Globi Areostatici», senza possibilità di appello, con il concorso di due avvocati di grande scienza giuridica e prestigio”. Gli anguillarini incassarono i 30 marenghi, ma l’aerostato fu letteralmente sequestrato. Anche Napoleone si interessò in prima persona dello straordinario ritrovamento. In una lettera al papa, il corso, pur avendo colto come un mesto presagio la perdita di parte della corona imperiale nello scontro con la ritenuta Tomba di Nerone, scrisse di proprio pugno: “bisogna metterlo in un sito in cui i viaggiatori lo possano vedere e apporvi un’iscrizione da cui si conosca il numero

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Disegno dell’aerostato che arrivò sul lago di Bracciano delle ore che impiegò per giungere a Roma”. L’aerostato così, per qualche tempo venne esposto alle Logge Vaticane. Finì poi nella Floreria Vaticana. Solo nel 1904 il pallone fu posto in una cassa di legno, quindi nel 1932 venne esposto al pubblico in occasione della mostra sull’Ottocento Romano. Poi, nel 1978 a seguito di uno specifico atto di donazione di papa Paolo VI all’Aeronautica Militare, lo straordinario aerostato fu esposto al Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, aperto l’anno precedente. Un pezzo di storia in tutti i sensi che tutti, come voleva Napoleone, possono ammirare ancora all’inizio del percorso di visita perché, come commenta l’ex direttore del Museo, Mondini: “il pallone di Garnerin o ‘ Ballon du Sacre’ è il più antico cimelio aeronautico al mondo giunto sino ai giorni nostri”. Graziarosa Villani

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Bracciano: se le vie raccontano una comunità Personaggi noti e meno noti tracciano storia e vissuto della città

l’opera, fu intestata anche al padre Umberto I una parte di via della Collegiata, riducendone quindi la lunghezza, nel tratto che porta al castello partendo dall’attuale piazza 1° Maggio. È interessante una osservazione: i meriti non sono sempre costanti e talvolta risentono degli umori del momento, per cui i titoli si attribuiscono ma si tolgono pure. È il caso della stessa piazza 1° Maggio che in passato, con il nome di piazza del Ponte, rappresentava la parte finale di via Flavia. Durante il fascismo era divenuta piazza Mariano Catena, in omaggio ad un noto esponente del fascio locale. Con la caduta del regime, però, l’intestazione fu subito revocata e divenne 1° Maggio. La via Flavia, così chiamata in omaggio a Flavio Orsini, ultimo duca di Bracciano prima della vendita del feudo agli Odescalchi (1696), era la principale via che immetteva a Bracciano venendo da Roma ed originariamente arrivava fino alle mura di recinzione. Con il tempo fu suddivisa in tre tronconi per lasciare spazio a Salvatore Negretti e Agostino Fausti, militari braccianesi ai quali si farà accenno in seguito. Nella scelta dei nomi delle vie si evidenziano alcune specificità. Stranamente sono pressoché assenti i riferimenti a personaggi storici di casa Orsini ed Odescalchi, fatta eccezione per il generico viale Odescalchi e per il collegamento a Flavio Orsini contenuto in via Flavia. Dei politici moderni sono ricordati i soli Sandro Pertini e Giorgio Almirante. Sono pure poco presenti i poeti o gli scrittori nazionali rappresentati dai soli Dante e D’Annunzio. Recenti la intitolazione di vie a due grandi cantautori italiani: Fabrizio De André e Pierangelo Bertoli. Di contro sono significativi e numerosi le memorie di eventi bellici come quelli collegati al triumvirato della Repubblica Romana del 1849 (Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini ed Aurelio Saffi), i riferimenti all’irredentismo (Cesare Battisti, Guglielmo Oberdan, Trento, Trieste e Zara) ed i fiumi legati alla Prima Guerra Mondiale (Adige, Piave, Isonzo e Brenta). Le vie intestate ai fiumi, però, sono estese anche ad altri importanti corsi d’acqua come Po, Tevere ed Arno. Sempre alla grande guerra si ricollega la piazza del Comune, divenuta IV Novembre, ma storicamente nota con il nome di piazza delle Monache a causa del sovrastante complesso adibito a convento delle religiose, ora civili abitazioni, che tuttora ospita la chiesa della Visitazione. Si riallacciano al Risorgimento anche via XX Settembre e via Martiri di Belfiore, mentre via Salvo d’Acquisto ricorda il generoso ed eroico sacrificio del secondo conflitto mondiale. Alcuni nomi risentono della specifica ubicazione e caratterizzano i luoghi, soprattutto quelli più antichi come via Ponte vecchio,

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a toponomastica di una città rispecchia un po’ la storia dei suoi abitanti e le tendenze ed i rapporti sociali che si sono susseguiti negli anni. L’intestazione di una via dapprima ha individuato e caratterizzato la specificità di un luogo, successivamente ha voluto rappresentare un omaggio a qualche personaggio degno di ammirazione, da ricordare per i suoi meriti. Si è passati, poi, ad individuare ed attribuire dediche che richiamassero eventi storici (prevalentemente conflitti) per arrivare, infine, ad una semplice assegnazione di nomi che distinguessero le vie senza alcuna pretesa didattico-educativa (è il caso dei nomi delle piante che caratterizzano Bracciano Nuova). Bracciano conta oltre 250 tra vie e piazze alle quali è stato attribuito un nome, di cui più di 30 sono dedicate a personaggi o nativi del posto o che hanno svolto attività in loco. Prima di evidenziare alcuni particolari è opportuno precisare che, come facilmente deducibile, la città risente, in modo preponderante, dello spirito patriottico e della presenza di insediamenti militari anche nei nomi attribuiti alle vie. A cominciare da via Principe di Napoli che venne così chiamata in omaggio a Vittorio Emanuele III che, quando era ancora principe ereditario, si fregiava appunto di tale titolo. Il futuro re soggiornò per alcuni giorni a Bracciano nel 1890 mentre svolgeva il servizio militare. La casa che lo ospitò è ubicata in prossimità dell’attuale passaggio a livello e sull’edificio è apposta una targa di marmo che ricorda l’evento. Al tempo del soggiorno la ferrovia non era stata ancora realizzata (lo sarà 4 anni dopo) e l’edificio era del tutto isolato e, a parte il complesso de le “cartiere” posto un po’ più in alto, era l’unico presente nel tracciato che conduceva al convento dei Cappuccini. Per completare

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Ponte medioevale, Cupetta del mattatoio, del Fossato, delle Ferriere, delle Grotte, Arazzaria, del Pescino, delle Cantine, della Collegiata, del Campanile, largo della Cattedrale e tanti altri. A proposito della cattedrale c’è da evidenziare l’utilizzo improprio del termine dal momento che può fregiarsi di tale titolo solo la chiesa più importante di un centro dove risiede un vescovo titolare di diocesi, e non è il caso di Bracciano, anche se una sede episcopale era stata ospitata a Forum Clodii nei primi secoli del Cristianesimo ma il centro fu distrutto dalle invasioni barbariche. Parecchie vie, inoltre, sono intitolate a personaggi nati a Bracciano o che hanno avuto rapporti con il territorio il cui elenco nominativo, non completo, viene riportato di seguito in un ordine cronologico necessariamente approssimativo. Si precisa, inoltre, che essendo personaggi spesso non conosciuti al di fuori della nostra città, non è facile reperire su di loro notizie più dettagliate se non tramite una approfondita e laboriosa ricerca nei documenti contenuti nell’archivio comunale, ricerca che non è stata effettuata in questa circostanza. Ecco i personaggi. Stati Cristoforo: nato a Bracciano nel 1556, ma formatosi a Firenze, è forse il personaggio locale più noto e famoso all’esterno. Morì a Roma nel 1619. Fu uno scultore di talento ed una sua statua, raffigurante Venere e Adone, è custodita nel museo civico. Tra le sue principali opere, presenti a Roma, vanno annoverati un rilievo nel monumento a Paolo V nella chiesa di S. Maria Maggiore e la statua della Maddalena nella cappella Barberini di S. Andrea della Valle. Manuzio Aldo: si trova ad essere intestatario di un largo, forse per motivi impropri, in quanto alcune fonti lo indicano, erroneamente, come nativo di Bracciano. Sono noti due personaggi con lo stesso nome: il primo è nato in provincia di Latina nella metà del 1400, umanista trasformato in editore-tipografo. Ma quello del nostro riferimento è il secondo, nipote del primo, nato a Venezia nel 1547 e morto a Roma nel 1597, più erudito che tipografo, anche se potrebbe essere stata proprio questa sua professione che lo avrebbe avvicinato alle attività tipografiche locali, fiorenti in quel periodo. Fioravanti: è una tra le famiglie più antiche ed influenti di Bracciano. Si ricordano tra i suoi membri più datati un certo Fioravante Fioravanti, al servizio del duca Paolo Giordano, sodale di Ludovico Orsini e sospettato di essere coinvolto nell’uccisione del marito di Vittoria Accoramboni nel 1581, nonché un Alessandro Fioravanti, consigliere comunale nei primi anni del 1600. La famiglia era cointeressata anche nella gestione delle ferriere ed in un edificio della via è murato il suo stemma. Saminiati: storica famiglia già presente in loco e citata in documenti del 1600, al tempo proprietaria dell’edificio posto sulla suggestiva piazzetta. Traversini Paolo: è stato il primo sindaco di Bracciano al momento del suo ingresso nel Regno d’Italia nel 1870. Originario del posto, nacque nel 1828 da una famiglia di possidenti. Durante lo Stato Pontificio ricoprì la carica di Gonfaloniere fino al 1870 quando divenne sindaco, funzione che mantenne per diversi anni. Si è impegnato molto nel volere che la stazione della ferrovia fosse realizzata all’interno di Bracciano e non nella zona degli Archi di Mezzasette, come previsto dal progetto originario. Nell’aula del Consiglio comunale è presente una scultura in bronzo che lo raffigura. Bresciani Gervasio: di famiglia braccianese doc, capo mastro muratore, vissuto nel 1800 (morto nel 1894) appare in alcuni atti pubblici. Risulta come firmatario di una supplica nel 1863 e come firmatario - testimone del verbale attestante la convalida dei risultati del plebiscito svoltosi nel 1870 per l’annessione di Bracciano nel Regno d’Italia. Tamburri Girolamo: sacerdote, monsignore e canonico del duomo, appare in alcune citazioni della seconda metà del 1800. Giacomelli Raffaele: nato a Roma nel 1878, di origine bolognese, studioso di astronomia, dal 1913 al 1918 fece parte, con il grado di capitano del genio, del servizio aerologico dell'Aeronautica di Vigna di Valle. Volpi Giulio: avvocato, nato a Bracciano nel 1877, fu consigliere comunale a cavallo tra 1800/1900 e deputato per 3 legislatura dal

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1919 al 1929 militando nell’ambito dell’area socialista. Per le sue idee non in linea con il regime fu confinato ad Amelia, dove tuttora una lapide ne ricorda il forzato soggiorno. Silla Francesco: militare braccianese morto ad Adua nel 1896 nella guerra di Abissinia contro il negus Menelik. Lo ricorda anche una targa posta negli uffici comunali. Palazzi Giuseppe: storico medico condotto di Bracciano, attivo nella prima metà del 1900, nato nel 1864 e morto nel 1947. Il suo busto in bronzo, con dedica, è collocato nell’aula del Consiglio comunale. Negretti Salvatore: nato a Bracciano nel 1882, si arruolò ventenne nell’esercito per poi passare nella Guardia di Finanza dove rimase fino al 1911. Ritornato nell’esercito con il grado di sergente partecipò alla spedizione in Tripolitania nel 1913. Nel 1916 divenne tenente ed assegnato come istruttore a Reggio Calabria. All’inizio del 1917 ritornò in zona di guerra, dove fu ucciso il 30 ottobre 1917 nei pressi di S. Daniele del Friuli. Nel 1925 gli fu conferita la medaglia d’argento al valor militare. Perugini Arturo: nato a Bracciano, divenuto maresciallo dell’Arma dei Carabinieri. Partecipò alla Prima Guerra Mondiale rimanendo ucciso al fronte. Latini Ettore: di famiglia braccianese, sottufficiale dell’esercito, anche lui partecipò al primo conflitto mondiale senza fare più ritorno a casa. Fausti Agostino: sergente maggiore, nato a Bracciano nel 1918, muore poco dopo l’inizio della guerra il 4 luglio 1940, all’età di 22 anni, precipitando con il suo aereo al largo di Tobruk dopo aver abbattuto due aerei nemici. Per questa azione gli fu conferita la medaglia d’oro al valor militare. Bombieri Udino: sergente maggiore e medaglia d’oro al valor militare alla memoria. Nacque a Grezzana (Verona), nel 1915. Fu ucciso dai tedeschi a Bracciano nel 1943 proprio il giorno dopo l’armistizio dell’8 settembre. Domenici Luigi: marinaio sommergibilista originario di Bracciano, morì partecipando al secondo conflitto mondiale. Marchi Carlo: anche lui militare braccianese fece parte del contingente dislocato in Africa settentrionale dove trovò la morte. Pollastrini Attilio: nato a Bracciano nel 1922 si arruolò volontario e fu tra i dispersi della campagna di Russia dove morì appena ventenne nel 1942. Formaggi Franco: fu l’unico ufficiale braccianese morto nella seconda guerra mondiale. Cesolini Alfredo: sacerdote, storico parroco di Bracciano per molti anni fino a circa il 1965. Argenti Giuseppe: pescatore, è morto intorno agli anni 1970 ed è stato il capostipite della famiglia che poi ha iniziato a dar vita all’attività di ristorazione sul lungolago. Pedacchiola Domenico: braccianese, muratore, morto in un incidente sul lavoro nella seconda metà del 1900. Valletti Lorenzo: sacerdote vissuto nel 1900, è stato insegnante di religione nelle scuole braccianesi. Nichols Peter: giornalista e scrittore inglese, nominato baronetto dalla regina, è stato corrispondente del Time da Roma. Intorno agli anni 1970 aveva scelto di vivere a Bracciano dove aveva acquistato una casa in prossimità del castello. È morto nel 1989. Pavese Cesare: professore, da non confondere con l’omonimo più noto scrittore morto nel 1950, fu il primo preside del liceo scientifico Vian dal 1967 fino al 1981. Fu proprio lui a voler titolare la scuola a Ignazio Vian, partigiano medaglia d’oro della Resistenza, ucciso a Torino nel 1944 con il quale aveva intrattenuto rapporti di amicizia. Montanino Gennaro: ginecologo di fama internazionale. Ha prestato servizio all’inizio della carriera presso l’ospedale di Bracciano nella seconda metà del 1900. Aveva scelto Bracciano come sua seconda residenza dove trascorreva i suoi momenti di riposo. Formisano Maurizio: originario di Brindisi, ispettore superiore di polizia morto in servizio nel 2005 cadendo con un aereo sul litorale Abruzzese. La famiglia è residente a Bracciano. Pierluigi Grossi

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Il postino?... Una volta!

I giovani in fuga dall’Italia: nuovi emigranti o cittadini del mondo? Millennials braccianesi pronti a partire

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arlare di emigrazione oggi vuol dire toccare uno dei temi più scottanti e problematici della nostra società. Nulla a che fare con i fenomeni migratori storici del ’900 che vedevano generazioni di uomini lasciare le proprie famiglie per trovare una speranza di futuro in terre lontane e sconosciute. Oggi i Paesi da cui si emigrava un tempo sono diventati mete per nuovi migranti che fuggono dalla guerra oltre che dalla povertà e che cercano nei Paesi europei un’opportunità di vita libera dalla paura e dall’oppressione. Le difficoltà dell’Europa di fronte a questa emergenza sono i temi quotidiani del dibattito politico che riguardano trasversalmente tutte le nazioni. Nel periodo attuale però esiste anche un altro tipo di emigrazione, meno drammatica, ma non meno significativa, che riguarda in particolare l’Italia dove un gran numero di persone decidono ogni anno di espatriare e tra questi una percentuale importante riguarda i giovani di età compresa tra i 18 e i 39 anni. Dai dati dell’Aire (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) emerge che dal 2006 al 2016 sono 817.000 gli italiani che hanno lasciato il Paese per altri lidi e la crescita dei trasferimenti per gli under 40 è stata stimata nel 34,4 per cento del totale, il che vuole dire che per ogni mille abitanti più di 3 ragazzi hanno fatto le valigie. Il fenomeno non è estraneo alla comunità di Bracciano che assiste a questa forma di mobilità giovanile sempre più frequentemente. Non sono partenze equiparabili a quelle dei nostri bisnonni: i ragazzi partono in aereo e sono sostenuti dalle proprie famiglie che restano comunque disponibili ad aiutarli a trovare una propria dimensione in un mondo che non è più così lontano, ma resta a portata di cellulare in ogni momento. Molte sono le ragioni che spingono i giovani ad andarsene all’estero: la voglia di arricchirsi culturalmente, di acquisire maggiori competenze linguistiche o di confrontarsi con sistemi formativi differenti, ma anche di realizzare all’estero il proprio progetto di vita o professionale. Il problema per il Paese di origine si pone quando i giovani non tornano più indietro: il cosiddetto fenomeno della “fuga di cervelli e di talenti”. La lettura di questo fenomeno è complessa e non riducibile ad un’unica visione. Ad esempio il presidente Mattarella, in un telegramma inviato alla Fondazione Migrantes per la presentazione del rapporto “Italiani nel mondo 2016” svoltasi ad ottobre, ha sostenuto che: "Oggi gli italiani migranti rappresentano un segno di impoverimento piuttosto che una libera scelta ispirata alla circolazione dei saperi e delle esperienze", aggiungendo che il fenomeno "riguarda fasce d'età e categorie sociali differenti". Sta di fatto che i giovani continuano a lasciare l'Italia ed a farla da protagonisti sono quelli che il rapporto della Fondazione Migrantes chiama i “millennials” e cioè i ragazzi tra i 18 e i 34 anni che si collocano al centro dei nuovi flussi migratori. Oltre un terzo degli italiani residenti all'estero appartiene a questa fascia d'età, che è anche quella che ha fatto segnare il maggior numero di partenze nel corso del 2015, il 36,7 per cento del totale dei 107.529 (+6,2 per cento rispetto al 2014) espatriati nell'anno solare. Al di là delle diverse letture possibili, tutte ugualmente legittime, va sottolineato che si tratta di un flusso migratorio nuovo nelle sue caratteristiche. Per i giovani lasciare l'Italia non è sicuramente una fuga, quanto "una scelta per coltivare ambizioni e nutrire curiosità". Anche il tipo di mobilità è inedito: "La loro mobilità – si legge nel rapporto Migrantes, la fondazione vicina alla Conferenza episcopale italiana – è in itinere e può modificarsi continuamente perché non si basa su un progetto migratorio già determinato ma su opportunità lavorative sempre nuove”. Per molti, provenendo da un Paese in cui sembra sempre più difficile entrare e muoversi nel mondo del lavoro, l'estero diventa meta privilegiata, proprio alla luce delle "migliori condizioni lavorative". In ogni caso, i millennials sono segnalati come, la “prima generazione mobile”, con le valigie in mano, sempre pronta a partire. Anche perché, per il 43 per cento di loro questo status rappresenta “l'unica opportunità di realizzazione”. Nel mondo in cui la questione dei migranti, siano essi provenienti da Paesi poveri e zone in guerra o siano essi laureati e lavoratori specializ-

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zati, i giovani italiani continuano a rappresentare uno spirito europeo all'insegna della libera circolazione, denunciando allo stesso tempo la carenza di opportunità disponibili nel nostro Paese. L'indagine dell'Istituto Giuseppe Toniolo rivela che per il 90 per cento degli under 32 lasciare la Penisola è una necessità per trovare un'occupazione adeguata. Australia, Usa e Regno Unito sono le mete in vetta alla classifica. A smentire la famigerata affermazione della Fornero di pochi anni fa, che sosteneva che i giovani italiani erano troppo “choosy”, oggi si rileva che la maggioranza dei giovani italiani, oltre il 61 per cento, è pronta a emigrare all’estero per cercare lavoro. E nove su dieci sono convinti che ormai lasciare la Penisola sia una necessità. È il quadro che emerge dal Rapporto giovani sul tema “Mobilità per studio e lavoro”, presentato a Treviso durante il Festival della statistica e della demografia. L’indagine è basata su un panel di 1.000 giovani tra i 18 e i 32 anni e promossa dall’Istituto Giuseppe Toniolo, in collaborazione con l’Università Cattolica e con il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo. “La migrazione italiana negli ultimi anni è decisamente cambiata. Non si tratta più di connazionali che prendono il treno un po’ spaesati e con al braccio valigie di cartone, ma di giovani dinamici, intraprendenti, affamati di nuove opportunità e con un tablet pieno di appunti su progetti e sogni da realizzare – commenta Alessandro Rosina, tra i curatori del Rapporto – Da un lato la generazione dei millennials considera del tutto naturale muoversi senza confini. Sono sempre più consapevoli che la mobilità internazionale è di per sé positiva, perché consente di aprirsi al mondo, conoscere diverse culture, arricchire il proprio bagaglio di esperienze, ampliare la rete di relazioni. Dall’altro lato il sempre più ampio divario tra condizioni lavorative delle nuove generazioni e possibilità di valorizzazione del capitale umano in Italia rispetto agli altri paesi avanzati e in maggiore crescita, porta sempre più giovani a lasciare il paese non solo per scelta ma anche per non rassegnarsi a rimanere a lungo disoccupati o a fare un lavoro sotto inquadrato e sottopagato”. In sostanza ci si trova di fronte ad un quadro meno stereotipato rispetto a quello usualmente fornito nei mass media, schiacciato molto spesso sul tema della fuga dei laureati. La fuga è solo un aspetto del fenomeno a cui si va ad affiancare la curiosità intellettuale di scoprire nuove realtà con cui confrontarsi ed in cui cercare opportunità di realizzazione. Un altro elemento da tenere in debito conto inoltre è l’assoluta trasversalità sociale del fenomeno per cui la propensione ad andarsene, soprattutto se legata a difficoltà oggettive di trovare lavoro, è sentita in tutte le categorie e tutti i livelli di istruzione.

l postino con quel suo “c’è postaaaaa”, è un personaggio ormai familiare a grandi e piccoli. Il postino, o un tempo non troppo lontano, portalettere, con quel suo borsone dall’infinità di scomparti, era atteso con impazienza: in molti casi, infatti portava, allora, buone notizie. Con mano sicura e con occhio di lince “pescava” in quel suo borsone lettere, cartoline, piccoli pacchi, biglietti di auguri a cui aggiungeva i propri con un sorriso. Quel postino, o portalettere, aveva una memoria di ferro: conosceva i cognomi, ma spesso anche i nomi dei componenti delle famiglie alle quali portava la posta. Qualche volta è pur vero che confondeva Giuseppe con Nicola o Antonietta con Loretta, ma veniva subito perdonato…”è un lapis” diceva, “vuol dire un lapsus”, “proprio così”…quant’è difficile sto’ latino!!, una risata e una stretta di mano metteva fine alla questione linguistica. Quel postino o portalettere, era anche un fine psicologo: “Buongiorno signorina Sofia” e vedendola arrossire nel porgere la lettera aggiungeva “…è sempre più innamorato, vero? È la quarta lettera che scrive in una settimana!” e la signorina Sofia arrossendo “sembra proprio di sì” e il buon postino di rimando “Eh, siete proprio una bella coppia

Gente di Bracciano

Tina Anselmi: la politica al femminile

Scopri l’amore

A 89 anni è morta il 1° novembre 2016, là dove era nata a Castelfranco Veneto, Tina Anselmi. Di lei ricordiamo la gioventù partigiana come staffetta, quindi i prestigiosi incarichi politici. Spiccano al riguardo quella di ministro, prima donna in Italia, del Lavoro e della Previdenza Sociale e la presidenza della Commissione parlamentare di Inchiesta sulla loggia massonica P2. Come ministra alla Sanità lavorò all’introduzione del Sistema Sanitario Nazionale. “Quando le donne si sono impegnate nelle battaglie - ha detto - le vittorie sono state per tutta la società”.

Prendi un sorriso regalalo a chi non l’ha mai visto. Prendi un raggio di sole fallo volare là dove regna la notte. Scopri una sorgente fa bagnare chi vive nel fango. Prendi una lacrima posala sul volto di chi non ha mai pianto. Prendi il coraggio mettilo nell’animo di chi non sa lottare. Scopri la vita raccontala a chi non sa capirla. Prendi la bontà e donala a chi non sa donare. Scopri l’amore e fallo conoscere al mondo.

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Biancamaria Alberi

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di innamorati!!”, naturalmente il rossore della signorina Sofia aumentava. Quando poi portava l’avviso di riscossione delle pensioni, correva più veloce del solito e ancora con il fiatone, “signora Concetta eccola, so che l’aspettate sempre con impazienza, questa volta c’è anche un piccolo aumento” che occhio di lince!! E la signora Concetta “grazie, grazie, siete proprio un bravo ragazzo, volete un bicchiere di vino fresco? Con questo caldo!”. “Grazie, scusate mi levo un attimo sta’ scarpa, c’ho un piede che mi fa

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male…”, e la signora Concetta, con un misto di ammirazione, guardava quel povero postino mentre con una mano si massaggiava il piede e con l’altra teneva il bicchiere. Quando portava un biglietto con una linea nera sul bordo, abbassava il tono della voce e dal suo atteggiamento traspariva una mesta partecipazione. E le feste? Natale, Pasqua, Capodanno, Carnevale, la Befana erano per il postino, o portalettere, dei veri e propri momenti di gloria: mance, dolci e dolcetti lo facevano sentire insostituibile. Ma oggi? Beh, oggi è tutto cambiato, il mondo corre veloce e anche il postino, o portalettere corre veloce: arriva su una rombante motoretta, indossa casco, occhiali ed una giacca fosforescente. Al posto del borsone ha davanti al manubrio una specie di cassetta dove mette la posta. Sono ragazzi simpaticissimi, il loro arrivo, però, è diventato quasi un incubo. Perché? Perché salvo rarissimi casi, non portano più lettere d’amore, o di qualche vecchio zio, o una cartolina d’auguri. No, no. Portano sempre, o quasi, avvisi di scadenze: luce, gas, mutuo, rata della macchina, del computer, del cellulare, del… Quando ne vedo uno fermarsi davanti al mio portone mi prende quasi un colpo, ma sono sicuro che anche a voi capiti qualcosa di simile. L’espressione che faccio deve essere talmente funerea che subito mi rassicura “Dotto’, oggi solo pubblicità: è Sant’Antonio”, “meno male” dico, e mi scappa un “viva Sant’Antonio!”. “Sempre viva” da bravo ragazzo mi risponde. Poi, veloce, balza in sella e mette in moto. Ho appena il tempo di dire “postino”, si gira, mi risponde “porta posta, porta posta” e con una sgassata è già alla fine del viale. “Porta posta?” e il “postino?”. Il postino…una volta!!! Luigi Di Giampaolo

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MAHATMA GANDHI

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1° maggio in Salvador Racconti dal mondo 2

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on c’è nulla di più fantasioso e imponderabile del caso. Quella sera tornai a casa, stanco e fumino: la giornata era trascorsa tra riunioni affumicate, colpi bassi, parole avvelenate. A fatica salutai i bambini, felici che era arrivato il loro babbo, mi sdraiai teatralmente sul divano e accesi la televisione: un signore paludato, dalla voce atona, stava dando la notizia dell’assassinio del cardinal Romero in Salvador. Fu assassinato a causa del suo impegno nel denunciare le violenze della dittatura contro i poveri, contro i contadini, fu ucciso da un cecchino mentre stava celebrando la messa nella cappella di un ospedale. In quel momento squillò il telefono: era Tiziana, un’amica regista che mi voleva vedere, aveva una cosa importante da dirmi. Le chiesi di cosa si trattasse, non ero dell’umore per passare la notte senza conoscere il motivo della sua telefonata. Hai tempo? Mi chiese. Quanto ne vuoi, risposi. Bene, allora ascolta, oggi è rientrata dal Salvador una mia cara amica, Mariella, cooperante internazionale a sostegno degli sforzi che l’ONU sta facendo per riportare la pace in quel paese, martoriato dalla dittatura e dalla guerra civile… è stata arrestata dagli squadroni della morte mentre era in una riunione con un comitato di donne salvadoregne alla ricerca dei loro mariti spariti nelle carceri del dittatore… lì è stata torturata per quindici giorni, si è salvata solo per l’intervento dall’ambasciatore che ha preteso la sua liberazione, in Salvador hanno investito diverse aziende italiane…la notizia è nata morta, non ne parla nessuno, forse il prezzo della sua liberazione, così abbiamo deciso di fare un documentario dove Mariella racconterà la sua terribile esperienza…non troviamo nessuno disposto a finanziarlo, così mi chiedevo se tu puoi aiutarci per proporre alla Cgil questa nostra intenzione…costi all’osso, il materiale e poco altro. Per un attimo ho pensato a un messaggio alato del cardinal Romero, ho sempre bisogno di un po’ di sano romanticismo quando sono nella peste, poi gli dissi che avrei fatto l’impossibile. Cominciammo a lavorare poche settimane dopo e nel mezzo di una ripresa dove Mariella, incappucciata, con davanti la bacinella d’acqua dove la immergevano continuamente, faceva rivivere la sua storia, mi arrivò una telefonata, era Luisa, la responsabile dell’ufficio internazionale: devo vederti Francesco, ho da proporti un viaggio in Sudamerica. Mi precipitai e Luisa mi chiese se ero disponibile a rappresentare la Cgil in Salvador: il sindacato internazionale aveva chiesto una partecipazione straordinaria dei sindacati europei per sostenere quello salvadoregno, era stata programmata una grande manifestazione che si sarebbe conclusa nella piazza della cattedrale, per ricordare il cardinal Romero, per dare un segno forte di presenza proprio ora che si stavano svolgendo difficili incontri tra l’ONU, la dittatura e la guerriglia per arrivare a una pacificazione democratica del paese. Fino a ieri sapevo appena che esisteva il Salvador, una lingua di terra nell’istmo del centro America, ora quel fazzoletto di terra entrava a gamba tesa nella mia vita. Luisa non mi nascose i pericoli di quel viaggio, il paese era ancora attraversato dalla guerra civile, un terzo del paese era sotto il controllo della guerriglia e si poteva sparire per poco. Accettai subito. Mia moglie, nonostante i rischi, m’incoraggiò, ebbe solo a farmi presente che avrebbe gradito partecipare alla decisione. Così cominciai a preparare il borsone. Quella sera mi arrivò una telefonata di Mariella. Mi chiedeva di vederla prima della mia partenza. Venne a trovarmi al sindacato, per darmi qualche dritta, disse: stai attento ai camerieri d’albergo, dei ristoranti e ai tassisti, sono spie del dittatore che ti vendono per pochi dollari, non lasciare nulla di compromettente in pensione quando esci, perquisiscono sempre le stanze degli stranieri. In quel momento tirò fuori dalla borsa una busta panciuta. Tieni, sono tremila dollari, devi portarli a Josè, il mio compagno in Salvador, al sindacato lo conoscono bene. Li presi e la rassicurai, i soldi sarebbero arrivati a Josè. Chi non era rassicurato ero io, ogni giorno che passava il Salvador mi pro-

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poneva nuove sfide. Il 28 aprile finalmente partii: scalo a Los Angeles e via verso la città di San Salvador. Durante il viaggio cercai d’indagare il motivo profondo che mi aveva spinto ad accettare. Il fatto è che sentivo il bisogno di misurarmi concretamente con le cose di cui andavo narrando sul Sud e il Nord del mondo, sulla sproporzione di potere e di ricchezza tra l'Occidente ed i paesi non sviluppati; capire in loco, insomma, come funzionano i meccanismi della politica. Così sono partito, da solo, conoscendo poche parole di spagnolo, sentendomi indosso, come un vestito lacero, una sottile paura. Ho tenuto un diario di quei giorni, ne riporto qualche brano. 29 aprile: l’arrivo. La prima cosa che mi colpisce, mentre atterro, è quell’ala dell’aereo che sfiora le centinaia di case, meglio dire baracche, tuguri, che circondano l’aeroporto, miseria e nobiltà. Intanto non riesco a smettere di pensare a quella busta panciuta che naviga nel mio borsone. Non ho denunciato la somma che sto facendo entrare e più si avvicina il mio turno per passare la dogana, dove un militare dall’aria poco espansiva controlla meticolosamente tutti bagagli, più divento consapevole del rischio che mi sono assunto. E’ stato un attimo e da una porta ho visto sbucare un bel giovane con un cartello in mano, nel cartello il mio nome. L’ambasciatore, informato del mio arrivo da un telegramma di Luisa, ha mandato un carabiniere italiano in servizio all’ambasciata a prendermi. L’avrei baciato. Quella mattina l’ambasciatore mi ha ospitato nella sua villa, una doccia, un pranzo delizioso, un chiacchierare disteso sull’Italia e sulla politica internazionale e via a incontrare il sindacato salvadoregno. Mi ha accompagnato Arnolfo, l’autista dell’ambasciatore, che mi lascia a due isolati dalla sede del sindacato: “Non è buona cosa che ti vedano arrivare con la macchina di servizio dell’ambasciata”, mi dice, un po’ sornione, un po’ buon padre di famiglia. 29 aprile: incontri semi-clandestini, il sindacato è solo sopportato dai militari al potere, con Octavio, Marco Tullio e Victor, in una piccola stanza con grate a posto delle finestre, nel cortile una macchina a motore acceso pronta a fuggire, con tanto di "sentinelle" tese a scrutare le strade adiacenti al luogo del nostro incontro, non si sa mai, dice Octavio, provocatori e polizia segreta sono sempre in agguato. Discutiamo della manifestazione e degli interventi dei sindacati arrivati per il 1° maggio, pochi, ho sussurrato tra me e me con una fitta al cuore. Alla fine consegno la busta panciuta a Marco Tullio, gli dico chi la manda, in risposta ho un grazie un po’ stirato, sto per chiedergli di Josè, ma un diavoletto mi dice che è meglio tacere. Non c’è proprio nulla di più fantasioso e imponderabile del caso. Uscendo dalla riunione, nella sala dove si stavano preparando gli striscioni con le parole d’ordine per la manifestazione, trovo sindacalisti americani, canadesi e una ragazza della CUT brasiliana, Ines. Poi, improvvisamente, sento parlare torinese, toscano, campano e siciliano. Ci abbracciamo e la sera tra tortillas e salsicciotti impariamo a conoscerci, avremmo passato insieme quattro strane e intense giornate. La posse è composta da Massimo, un simpatico socialista torinese della Cgil, pieno di verve e preoccupazioni; varecchina per lavare i sanitari, spray contro le zanzare, antiemorragici, anticolera, dispeptici, ettolitri di amuchina; da Maurizio alla ricerca di sostegni e fondi per aprire una scuola nelle

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quelli da me frequentati. Abbiamo attraversato viottoli improbabili e guadi riottosi. All’arrivo ci accoglie una grande festa, uomini, donne, bambini tutti a coccolare gli italiani arrivati fin lì. Siamo stati in vari villaggi visitando scuole e ospedali illuminate da generatori che forniscono luce solo in alcune ore, l’acqua razionata, ma tutto condito con l’orgoglio di sapersi uomini e donne liberi/e. Negli incontri avuti ci hanno chiesto grano e pallottole, e noi a raccontare loro che gli stavamo già dando tutto quello che per noi era possibile. Ritorno a notte fonda, dopo aver foraggiato altri due posti di blocco militari. 5 maggio: la posse è partita, chi in Italia, chi in Nicaragua, chi chissà dove. Parto dopodomani, il sindacato locale è totalmente impegnato nel dopo-manifestazione che ha suscitato echi lontani e distratti nelle cancellerie internazionali, tutto è ancora sospeso, tra speranza di pace e paura di un ritorno alla violenza. Ne ho approfittato per immergermi nella città, per ascoltare le sue voci, per ammirare i suoi odori, per perdermi nei suoi miasmi. Ho preso un autobus. Sinibaldo mi aveva spiegato che non esiste servizio pubblico, ognuno è proprietario del proprio mezzo, che viene "personalizzato”, ognuno di loro è un’opera d’arte: piante, foglie, alberi, cieli, animali, madonne, angeli, cristi, frutti, donne procaci senza veli, tutti dipinti con i colori accesi della loro vita; ne ho visto uno che aveva dipinto un prato fiorito sul vetro della guida con due fessure: le due finestre per gli occhi del conducente. Non ci sono fermate, solo monelli aggrappati al predellino che quando vedono un gruppo di persone dicono all’autista di fermarsi. E’ far west, spesso i gruppi di persone vedono arrivare due-tre pullmini, chi arriva prima l’imbarca. Il mercato si anima già verso le quattro del mattino, quando i primi pullman scaricano dalle campagne enormi ceste di frutti e verdure, tutte grandi e colorate, e insieme, armadilli, polli, capre e galline, vasi e stoffe, carni essiccate e via dicendo; a fine mercato, tra i rifiuti lì sparsi, gongolano un paio di enormi maiali... un brivido ed ho pensato ai tempi del colera di Marquez. La “zona rosa” è quella più bella della città, ma separata, un altro mondo. Vi si trovano ville, ambasciate, centri commerciali "in", locali e negozi alla moda, una vegetazione stupenda impreziosita dalle vivide chiome degli alberi del fuoco, case e ville dall'architettura ardita e, insieme, militari e polizia a chiudere ogni entrata d'accesso. La parte blindata di San Salvador passa le sue serate nelle sue pizzerie, nelle sue discoteche, nei suoi ristoranti, nelle sue sale da giuoco. 6 maggio: visita alla cattedrale metropolitana, in stile spagnolo ovviamente, me l’aveva consigliata quello spretato di Gaspare, mi diceva che per conoscere il paese non si può fare a meno di tuffarsi nella sua religiosità dai due volti, quella del potere che gozzoviglia col dittatore e quella della liberazione i cui preti ci lasciano spesso la vita. La Chiesa permea di sé la vita quotidiana dei salvadoregni. Girando per le vie della città s'incontrano a ogni angolo madonnine, altarini, venditori di grazie e santini, are votive, crocefissi in legno, pietra, ferro, marmo e tante Iglesias. Quello spretato mi disse anche che non era possibile non andare a vedere la cupola della cattedrale, affrescata con immagini del Paradiso, che ricoprono una superficie di 2.000 metri quadrati, ne vale la pena soffiò lo sbruffone! Il controcanto di questa religiosità esibita è il divorante machismo che attraversa tutti, ricchi e poveri, colti e ignoranti. Nei miei viaggi vedo sempre un po’ di televisione, racconta molto del paese: una messa, un cardinale e un generale a parlare di ordine e verità, ma intercalati sempre da un poderoso gallo che consiglia ai maschi la pillola della felicità, la pillola dell’amplesso gigante. E, insieme battute trimalcione sul sesso e le donne. 7 maggio: riunioni di rito, saluti, baci e abbracci, al sindacato, all’ambasciata, al tenero Vittorio sempre all’inseguimento del suo amore, a Marco Tullio che, in un attimo di tenerezza a lui inusuale, mi porta i cari saluti di Josè con un messaggio per Mariella, a Ines, la rappresentante della CUT brasiliana che vuole assolutamente farmi sapere di aver letto “golosamente” il libro di Bruno Trentin “Da sfruttati a produttori” e via a fare la valigia. 8 maggio: via per Miami e poi per Roma con un volo Alitalia. In volo ho riascoltato il nastro che ho voluto incidere per non dimenticare la mia esperienza e per non lasciare in giro troppi fogli compromettenti. E subito sono stato colpito dal tono della mia voce: sommessa, sicuramente per quello strato di sottile paura che mi ha allegramente accompagnato nel mio soggiorno salvadoregno. Quando l'aereo si è staccato dal suolo ho tirato su un curioso senso di dolorosa liberazione, ma ho saputo che quell’esperienza sarebbe diventata sangue e fiato della mia vita. Mi chiamo Dante Sacripante. Francesco Mancuso

zone occupate dalla guerriglia; trent'anni, alto, viso affilato, dolorosamente sognante; da Vittorio che sta cercando di rintracciare due fanciulle salvadoregne conosciute avventurosamente in Italia; piccolo, occhi teneri, gesti delicati, ha preso una sbornia gigante per la più piccola delle due; Antonio, il classico individualista-anarchico, istrice ed orso, tranne alcuni momenti magici in cui si apre mostrando ricchezze straordinarie; alto, dinoccolato, ondivagante, spesso assente, età indefinibile; Gaspare, il duro della posse, costola della sinistra estrema in Italia, a sua detta non c’è luogo del sud-america con spifferi di tempesta che non lo abbia visto partecipe; statura media, tarchiato, occhialetto tondo, gilè scaciato, jeans mal ridotti, grande chiacchiera, quasi un infinito bisogno di sorprendere l’interlocutore. 30 aprile: tra uno striscione e l’altro, passeggiate per San Salvador. E' quasi impossibile non incappare in posti di blocco o ronde armate dell’esercito, a piedi o in camionetta; tutte le strade del centro della città sono attraversate da gibbossità di cemento che obbligano le autovetture a procedere a passo d'uomo; le biciclette hanno la targa. All'entrata del museo nazionale Guzman, siamo stati perquisiti e controllati da un militare dall'aria davvero poco conciliante, sotto il tiro di una mitragliatrice infilata dentro un muretto di sacchi di sabbia. La città di San Salvador è molto estesa; si va dai miseri ma forse dignitosi nuovi quartieri operai, alle favelas di fango e canne, alla parte ricca e lussureggiante dei ricchi: il tutto convive in una strana sorta d'intreccio inestricabile ed inesplicabile, che genera le violenze della vita quotidiana dei salvadoregni. Non trovo le parole adatte per scrivere i sentimenti che mi hanno attraversato quando due sindacalisti salvadoregni mi hanno portato a fare un giro all’interno di una favelas: non la dimenticherò mai! 1 maggio: partiamo presto dalla sede sindacale, altri cortei provenienti dalle campagne e dalle favelas si accodano strada facendo, alla fine siamo più di ventimila persone a gridare slogan per la pace e il desarroyo. Entriamo nel centro della città, ai lati della strada, un budello quasi senza uscite, decine di carri armati in assetto di guerra e sopra elicotteri da cui si distinguono nettamente le bocche delle mitragliatrici puntate sul corteo, sulla mia testa. C’è una sproporzione evidente tra la nostra marcia pacifica e tutta quella forza, forse più esibita che minacciata. L’orgoglio per la mia partecipazione alla festa del 1° maggio a San Salvador l’ho sentito spesso rintanarsi in fondo al cuore, in compagnia di una sana paura. In piazza discorsi di rito, io ho scritto il saluto della Cgil, ho chiesto a Gaspare il duro di leggere, lui conosce bene la lingua salvadoregna. La sera tutti a festeggiare nella sede sindacale tra birre, canti, tortillas, sbornie e tutti a ballare con Ines delle meraviglie. 2 maggio: giornata libera. Via a Libertad a fare il bagno nel Pacifico, mangiando sontuosi cocktail di frutti di mare rigorosamente crudi, alla faccia del colera e della paura. Poi a visitare qualche piramide Inca, ancora bagnata dal sangue delle teste che rotolavano a valle durante i loro riti sacri. La sera a concordare il “viaggio” nelle zone occupate dalla guerriglia con Sinibaldo, il mitico autista che ci ha scarrozzato per quattro giorni. Sinibaldo ha sette figli, è cattolico praticante, rivoluzionario di professione e possiede il pullmino con cui campa: ci ha chiesto 30 dollari, gliene abbiamo dati 50, gli brillavano gli occhi. Ci ha chiesto molte cose sull'Italia, essenzialmente su come trovare lavoro, salutandoci ci ha pregato di inviargli un vocabolario italiano. Lui fa da collegamento con la zona occupata dall'esercito rivoluzionario, è uno specialista nel superare i blocchi di controllo dell'esercito. La sera ci ha portato a bere birra in un piccolo bar in cima al monte che sovrasta San Salvador, in mezzo a una vegetazione lussuriosa dove razzolano piccole e malandate galline, ogni tanto passano malandati mezzi, di ogni natura, carichi di contadini che tornano, con le ceste vuote, dal mercato. Un tramonto mozzafiato. Al ritorno ci prende una pioggia torrenziale, mai vista una cosa simile, è una pioggia che scioglie il cuore e il fango delle “case” delle favelas, mi dice Sinibaldo. Mezz’ora e ammiro un cielo terso, sicuramente con più stelle di quelle che vedo a Roma. 3/4 maggio: partenza la mattina all’alba. Sono in uno stato gassoso, indefinibile, sono consapevole dei rischi a cui vado incontro, ma sono anche consapevole che mai rinuncerei a questa esperienza. Incontriamo due blocchi. I militari sono giovanissimi nascosti da un mitra più grande di loro, che li fa probabilmente sentire dei piccoli Rambo, facce torve dietro la poca peluria del loro viso adolescenziale, paura tanta ma Sinibaldo è un maestro, ci chiede un po’ di dollari e via al prossimo blocco. Arriviamo nel pomeriggio attraversando esplosioni di colore: le piante, gli alberi, gli uccelli, il cielo mi sembrano tutti più grandi di

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