Gente di bracciano n 20 giugno 2018

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Giugno 2018 - numero 20

Bentornato Lupo

Una fototrappola lo ha colto al mattino in una radura. Torna il Lupo grigio appenninico (Canis lupus italicus) nel Parco di Bracciano-martignano. Oggi il lupo è una specie particolarmente protetta. I primi dati di presenza a disposizione del Parco risalgono al 2007 quando fu recuperata una carcassa nei pressi della discarica di Cupinoro, a pochi chilometri da Bracciano. Gli individui presenti nel Parco sono giunti spontaneamente dai Monti della Tolfa area in cui la presenza del lupo è consolidata e accertata da tempo. Si tratta di un fatto di grande importanza non solo per la conservazione della specie, ma anche dal punto di vista ecologico. Potrà essere infatti ristabilita una catena alimentare completa. L’assenza di un super predatore ha nel tempo contribuito a far crescere la popolazione di cinghiale (Sus scrofa). La presenza del lupo, al contrario, contribuisce al controllo della popolazione di cinghiale, sia in senso quantitativo che qualitativo, predando per primi gli individui deboli o malati. Il lupo è animale schivo e diffidente, che ha una paura atavica dell’uomo, pertanto non costituisce assolutamente un pericolo per escursionisti, ciclisti e butteri. Costituisce anzi un fattore di incremento turistico, attirando la presenza di visitatori che sperano in un suo fugace, raro avvistamento.


Ah!...Che tempi

Q

uante volte abbiamo sentito questo “ritornello”: “Che tempi!...ai miei tempi! …”. Effettivamente questi nostri tempi sono un po’ “strani”. Basta guardarsi intorno. Qualche giorno fa osservavo un bimbetto che sgambettava vicino alla mamma, avrà avuto sì e no due anni, ma già era vestito da ometto: indossava un bel paio di pantaloncini lunghi. Due anziani, vicino a me, con un tono che lasciava trasparire una certa invidia “A Giusè come so’ cambiati li tempi, li carzoni lunghi me li so messi quanno avrò avuto diciassette o diciotto anni e mo’ manco nascono…”, “E lo dici a me” risponde l’altro, “si nun me ricordo male io me li so messi quanno so annato a fa er sordato e me ce voluto pe’ abituamme!”. Passa un gruppetto di ragazzette con le magliettine che lasciano il pancino scoperto e jeans tutti strappati. I due anziani si guardano e rimangono a bocca aperta e insieme: “che tempi!!”. “Antò, ma come so’ vestite?”, “E che ne so, saranno ‘ndate dallo stracciarolo”, “no, m’hanno detto che questa è ‘na moda nova”, “se la moda de li stracci” commenta l’altro ridendo. “’Ndo semo arrivati, mannaggia la Peppa”, “e mo’ che c’entra sta Peppa?”, “e che ne so, ‘na vorta se diceva così”, “sì, ma ‘na vorta”. I due anziani si guardano ed allargano le braccia. Passa una bella ragazza: tacchi alti e minigonna vertiginosa: “Aahhhhh”, “a Giusé, che te senti male?”, “quasi”, “e pecché?”, “m’hai visto?”. “Sì che ho visto”, “Ma pecchè te sei levato gli occhiali?”. “Pe vedecce mejo”, “Come sarebbe a dì”, “Eh ‘sto occhiali me li ha fatti l’amico mio vetraro, però senza ce vedo mejo”, “A Giusè che gambe e che curve”, “Antò ammazza ce vedi proprio bene!”. “Te ricordi: quanno mai da giovinotti, avemo visto due cosciotte così”, “e chiamale cosciotte”. Risponde l’altro sospirando. “Che tempi Giusè”, “che tempi Antò”. Riprende Giuseppe: “semo passati dai mutandoni, al bichini, al toplesse o come caspita se chiama, è ‘nantra cosa de sti tempi moderni, pensa è un costume…”, “embé”, “spetta, famme finì, vojo dì che è ‘na specie de costume, però invece de

Due amici al bar

avecce due pezzi ce n’ha uno solo”, “embé, sarà un costume ‘ntero”, “Antò, che te sei rimbecillito: vor dì che je manca er pezzo sopra”, “davvero, e ‘ndo se vede sto’ coso, sto toplesse”, “eh!” e insieme, “nu n’è robba che fa’ pe noi! Però, sti tempi!”. Osservo attentamente i due anziani che alzano gli occhi al cielo, mentre uno dei due si liscia i baffi. Questa mattina la strada è un continuo via vai. Passano dei ragazzini: tutti con il cellulare. “Antò, che ce fanno con quel coso”, “quello è un cellulare e ce poi chiamà tutto er monno, ma ce poi chiamà pure chi te sta vicino”. “A Giusè, te ricordi: quanno dovevamo chiamà quarcuno a noi ce bastava un fischio”, “e si quello stava lontano?”, “bastava un fischio più forte, che tempi!!”. “Antò, sai che te dico?”, “Dimme Giusè”, “me s’è seccata la gola”, “pure a me”, “allora vor dì che semo proprio amici”, “c’ho un vinello…”. “A Giusè, aspetta: mi nipote m’ha fatto assaggià ’na cosa moderna, c’ha è vero un colore un po’ strano: tra er giallo e l’arancione, me pare che ha chiamato sto’ bibitone spiz o sprit o sprizze”, “ma che gnente ‘na gazzosa colorata?”, “no, no, è più bbona, me so un po’ ‘mbriacato, però me sentivo tanto felice”, “allora, namo”. “Come so cambiati li tempi”. Luigi Di Giampaolo

Cupido Favola e fantasia

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era una volta un bimbo, riccio, paffuto e seminudo. In piedi, in attesa, in una stazione ferroviaria appena costruita. Aveva un arco, le frecce ed era di pietra. Gli altri bambini che aspettavano il treno, lo guardavano con curiosità vedendolo armato: “È Robin Hood quando era piccolo e andava a caccia”, diceva qualcuno. “È il figlio di Tarzan”, “È un bimbo pietrificato, vittima di un incantesimo cattivo. Qui alla stazione aspetta la fata che venga a liberarlo. Forse la fata vien col treno, con la valigia e la bacchetta magica”. Ognuno diceva la sua sul misterioso piccolo arciere il quale si chiamava Cupido era figlio di Venere, dea della bellezza che doveva arrivare in treno in quella stazione nuova per inaugurarla. Come tutte le madri, anche Venere aveva fatto mille raccomandazioni al piccolo prima che egli partisse: “Stai composto, non metterti seduto per terra, non andare in giro, non ti annoiare, e, soprattutto, non usare le frecce, aspetta che arrivi io”. Le frecce di Cupido erano magiche: scoccate dall’arco, esse diventano invisibili, e le persone colpite, che non si accorgevano di nulla, subito volevano bene a tutti o s’innamoravano. Cupido ben presto si annoiò, dimenticò le raccomandazioni ed aprì il fuoco: ebbero inizio le grandi amicizie, i grandi affetti paterni, materni e coniugali ed i colpi di fulmine a ciel sereno.

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La gente in attesa alla stazione, colpita dalle frecce magiche, cominciò ad essere diversa da prima ed a cambiare nome: gli uomini dicevano di riconoscersi, di essere stati in guerra ed in prigionia insieme, si davano la mano a lungo, si offrivano il caffè, si davano manate sulle spalle e tiravano in aria i cappelli. I padri prendevano in braccio i figli, molti dei quali più grandi di loro. Le nonnine rievocavano le loro follie giovanili, recitavano a memoria L’Orlando Furioso, l’Orlando Innamorato, parlavano delle Crociate, dei nipotini adorati e della bellezza della vita. Il capo della stazione, che era una donna, levava il cappello ai vecchietti e li baciava in testa. Ettore De Santis

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La famiglia Cervi al completo in una foto del 1931: Alcide, Genoeffa e i nove figli.

Questa è la storia dei sette fratelli Cervi

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L’umanesimo contadino ed antifascista di una famiglia emiliana tandolo per l’ultima volta, nascondono tutto. L’esecuzione, senza un regolare processo, avviene all’alba al poligono di tiro di Reggio Emilia. Cade sotto i colpi del plotone anche il compagno di lotta Quarto Camurri. Quando gli alleati nel 1944 bombardano il carcere dove è detenuto a San Tommaso, papà Alcide trova la via di fuga e torna alla sua casa a Campirossi. Qui apprende della morte dei suoi ragazzi. Si rimbocca le maniche e con le due figlie femmine, Rina e Diomira, e le vedove dei figli riprende a coltivare i campi. Ma la mamma Genoeffa non ce la fa a sopportare un dolore così grande. Muore, si può certamente dire, di crepacuore nel novembre del 1944. Solo due anni dopo dalla morte, le salme dei sette fratelli troveranno una degna sepoltura nel campo santo di Campegine. La storia dei fratelli Cervi si fa mito. Salvatore Quasimodo gli scrive un componimento. Così gli ultimi versi: Scrivo ai fratelli Cervi/non alle sette stelle dell'Orsa: ai sette emiliani/dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,/morirono tirando dadi d'amore nel silenzio./Non sapevano soldati filosofi poeti/di questo umanesimo di razza contadina./L'amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda./Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,/non per memoria, ma per i giorni che strisciano/tardi di storia, rapidi di macchine di sangue. Luigi Einaudi, autore di alcuni dei testi agrari sui quali Aldo Cervi studiava, fa visita a papà Alcide. Il film I Sette fratelli Cervi (1967) di Gianni Puccini interpretato tra gli altri da Gian Maria Volonté traduce in immagini la loro vicenda. Il partito comunista invia un proprio intellettuale comunista, il comunicatore Renato Nicolai, che insieme ad Alcide realizza un’autobiografia. Ed è da queste pagine, dal racconto semplice e ispirato di Alcide, che traspare chiara la fedeltà al socialismo, per una società migliore. “L’unico modo per non avere padroni cattivi è quello di non avere padroni”. “Dove adesso c’è verde, prima era acqua stagna e miseria”. Ma l’immagine simbolo ricordata da Alcide resta certo quella del seme. “Mi hanno detto sempre così. Tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, quelli sono stati falciati e la quercia non è morta. Va bene… la figura è bella e qualche volta piango nelle commemorazioni…ma guardate il seme, perché la quercia morirà e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia guardate il seme…il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo”. Questa è la storia dei sette fratelli Cervi. A cura di Claudio Calcaterra

e non fosse stato per la rappresaglia avventatamente decisa dai gerarchi della Repubblica Sociale Italiana, la storia dei fratelli Cervi non sarebbe diventata il mito che è oggi. Sarebbe stata ascritta per lo più alle pagine della Resistenza emiliana o di quelle di una certa cerchia contadina illuminata e votata all’innovazione nei campi. Fucilare in un sol colpo sette fratelli che non si erano resi colpevoli di atti efferati probabilmente sembrò una enormità anche a Benito Mussolini. È il 28 dicembre del 1943 quando al poligono di tiro di Reggio Emilia vengono passati per le armi i sette fratelli Cervi. Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore. Tutti gli uomini della famiglia Cervi erano stati arrestati il 25 novembre 1943 assieme al padre Alcide e a Quarto Camurri, Dante Castellucci, il russo Anatolij Tarassov, i sudafricani John David Bastiranse, John Peter De Freitas e l’irlandese Samuel Boone Conley, nel proprio cascinale, dopo un intenso conflitto a fuoco. Proprio su questo podere a Campirossi di Campegine a Reggio Emilia la famiglia Cervi aveva scommesso tutto, dopo la decisione di sottrarsi ai vincoli della mezzadria, e di divenire affittuari. Sul campo i Cervi sperimentano ed innovano. Utilissimi diventano le letture di tecnica agraria che Aldo compie. Aldo durante la leva aveva ferito un sergente ed era stato in carcere due anni, conoscendo molti detenuti anti regime e sviluppando una coscienza politica. Il livellamento del terreno con la realizzazione di canali di scolo ai quali i sette fratelli si dedicano è un’esperienza pilota che in futuro è replicata in tutta la zona. I Cervi sono al passo coi tempi. Vicini alle idee socialiste e di Cesare Prampolini e Labriola i Cervi vanno via via costituendo nella loro casa anche un primo importante nucleo di resistenza antifascista. Sono contadini partigiani. Il loro cascinale (oggi casa museo) diviene un vero e proprio laboratorio politico, una sorta di cellula dell’Internazionale, qui trovano rifugio perseguitati politici di varie nazionalità. “Capimmo che il socialismo eravamo noi e che anche noi eravamo un po’ l’Unione Sovietica” ebbe a dire il padre. Suo padre Agostino era stato uno dei capi della rivolta contro la famigerata tassa sul macinato del 1869 ed era stato in carcere per sei mesi. Campi e politica antifascista, questo il pane quotidiano della numerosa famiglia Cervi fino al giorno dell’arresto. I sette fratelli ed il padre finiscono nella stessa cella. Il 27 dicembre viene ucciso il camerata Davide Onfiani, segretario comunale, presso Bagnolo in Piano. Un “tribunale speciale” riunito in tutta fretta nella notte fa scattare la rappresaglia. Vengono scelti i sette fratelli Cervi. I fratelli sanno di andare a morire ma al padre, salu-

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7 giugno 1918: strage di lavoratrici alla polveriera di Castellazzo di Bollate Morirono 52 donne e 9 uomini. A cento anni il ricordo del dramma dimenticato. La testimonianza di Ernest Hemingway

La fabbrica in una foto del 1917 di Luca Comerio

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uò essere considerato l’8 marzo italiano. Una strage di lavoratrici in una fabbrica di armi. In una sola esplosione morirono 52 donne tra i 16 e i 30 assieme a loro 9 colleghi uomini. I loro corpi straziati furono balzati tutt’attorno alla polveriera. Circa 300 i feriti. Era il 7 giugno 1918. L’esplosione si scateno alle 13.50. Per 100 anni di questo dramma sul lavoro avvenuto alla fabbrica Sutter&Thévenot di Castellazzo di Bollate in località “Fornace Bonelli”, alle porte di Milano, si era persa traccia. Poi il ritrovamento di un drappo nero, che era stato esposto per le esequie, nella sagrestia della parrocchia. Sul posto, tra i tanti volontari accorsi, arrivò anche un giovanissimo Ernest Hemingway, di appena 19 anni. In questi giorni a Castellazzo di Bollate numerosi gli eventi per ricordare questo dramma dimenticato che racconta il lavoro delle donne nei giorni tragici della Grande Guerra. Le cause del disastro, non accertate, probabilmente sono da attribuire all’ingresso in fabbrica di una polveriera. Malgrado la gravissima tragedia il tentativo fu quello di sottacere. Il racconto di Hemingway, pubblicato prima in “Una storia naturale di morti” e poi confluito ne “I quarantanove racconti” è concentrato sulla morte, sorprendendosi allo stesso tempo sul fatto che in guerra siano morte anche molte donne. “Quanto al sesso dei defunti, è un dato di fatto che ci si abitua talmente all’idea che tutti i morti siano uomini che la vista di una donna morta risulta davvero sconvolgente. La prima volta che sperimentai quest’inversione - scrive Hemingway - fu dopo lo scoppio di una fabbrica di munizioni che sorgeva nelle campagne intorno a

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Milano, in Italia. Arrivammo sul luogo del disastro in autocarro, lungo strade ombreggiate da pioppi e fiancheggiate da fossi formicolanti di animaletti che non potei osservare chiaramente a causa delle grandi nuvole di polvere sollevate dai camion. Arrivando nel luogo dove sorgeva lo stabilimento, alcuni di noi furono messi a piantonare quei grossi depositi di munizioni che, chissà perché, non erano saltati in aria, mentre altri venivano mandati a spegnere un incendio divampato in mezzo all’erba di un campo adiacente; una volta conclusa tale operazione ci ordinarono di perlustrare gli immediati dintorni e i campi circostanti per vedere se ci fossero dei corpi. Ne trovammo parecchi e li portammo in una camera mortuaria improvvisata e, devo ammetterlo francamente, la sorpresa fu di scoprire che questi morti non erano uomini ma donne... Ricordo che dopo aver frugato molto attentamente dappertutto per trovare i corpi rimasti interi ci mettemmo a raccogliere i brandelli. Molti di questi furono staccati da un fitto recinto di filo spinato che circondava l’area dove prima sorgeva la fabbrica e dalle parti di edificio ancora esistenti, da cui raccogliemmo molti di questi pezzi staccati che illustravano fin troppo bene la tremenda energia dell’alto esplosivo. Trovammo molti di questi brandelli nei campi, a una distanza considerevole, dove erano stati portati dal loro stesso peso”. A documentare il lavoro in fabbrica resta solo il reportage commissionato dalla Sutter&Thévenot al fotografo milanese Luca Comerio del 1917. Si vedono molte giovanissime donne al lavoro. Graziarosa Villani

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Manziana. La chiamavano “Pagnottella”. Era molto attenta al denaro. Se il conto veniva, ad esempio, 1010 lire, si faceva dare prima le 10 lire e poi le mille. Non si scordava nulla, tantomeno i conti in sospeso. A 18 anni ero già istruttore nautico, ce ne volevano ventuno per avere il patentino, i tre anni me li “prestò” papà avvalendosi di una legge di allora che permetteva ai genitori di fare una dichiarazione per anticipare la maggiore età. Ero felice mentre insegnavo teoria e pratica ai clienti per permettere loro di prendere la patente nautica… Chiedo una pausa retribuita e per fortuna arriva il famoso caffè, è Ernesto che non si ferma, interloquisce con Graziarosa, con Mena, con Claudio, si rivolge al suo amico e sfotte simpaticamente il ragazzo, una straordinaria energia accompagnata da una grande fiducia in sé e nella vita… Sai, sulle nostre barche sono passati Armando Trovajoli, che preferiva quelle a vela, Gian Maria Volonté che arrivò qui che aveva appena finito di girare “Il caso Mattei” , e anche il regista Carlo Lizzani prese qui la patente nautica, chi avrebbe immaginato la sua triste fine. Io ancora oggi faccio il pasticciere e l’istruttore, le mie passioni. A 19 anni entrai in polizia, sai mi davano centomila lire al mese e tutti i mesi e in più non avrei fatto il servizio militare. Feci domanda per andare a Sabaudia al centro marina della polizia, per un errore mi sono ritrovato nel raggruppamento squadrone a cavallo di via Flaminia. Andai dal comandante e gli dissi che io non sapevo neanche quanti piedi avesse un cavallo, nulla da fare, fu così che imparai ad andare a cavallo e t’assicuro che fu una fatica per me ma anche per lui, non era facile portare in groppa i miei tanti chili, comunque sai, io fui uno degli otto, eravamo quaranta, che rimasero nello squadrone, gli altri furono tutti disarcionati. Sai, mi sono fatto tutti i capi di Stato… ci sorge una risata spontanea, detto così può indurre a pensieri maliziosi…ma che avete capito, io ero la loro scorta, la feci alla regina Elisabetta, a Nixon, a Reagan e tanti altri… ci guarda divertito e ci chiede se sappiamo perché i cavalli portano i paraocchi e perché dormono in piedi, vede che non rispondiamo, si sente risarcito della risata precedente e… perché ci vede più grandi di quello che siamo e potrebbe spaventarsi nelle corse all’ippodromo o quando fanno servizio nelle città, sai è meglio

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Un giovanissimo Ernesto

che non vedano tutte quelle macchine attorno a loro, e via dicendo, dorme in piedi perché a differenza dell’uomo scarica il peso sulle ossa e non sui muscoli. Sapete a Villa Giulia ho incontrato il re Gustavo VI Adolfo di Svezia, quello che scoprì siti etruschi a Blera, sapeva delle mie arti e ogni giorno mi chiedeva che gli portassi dei saint honoré e il millefoglie. Mi piaceva, io ero alto alto e mi divertivo a vederlo dall’alto in basso, volle ringraziarmi per la mia disponibilità così mi donò una pergamena firmata personalmente. Capite avevo una pergamena firmata da un re, la portai fiero a casa. Ricordo che mia madre la girò e rigirò tra le mani poi mi disse “ma non

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era meglio se ti dava cinquemila lire? ... Un nanosecondo di pausa e…in polizia facevo di tutto, in ufficio, di servizio ai blocchi stradali o quando c’erano rapine. Ricordo quando ci fu la prima udienza per l’affaire Valpreda, da Milano dovevano essere trasferiti i faldoni del processo, a Roma ne arrivarono solo una parte, l’altra sparita durante il tragitto… lo vedo per la prima volta farsi serio… mi chiesi chi poteva essere stato, fu doloroso capire che era stato qualche “servitore dello Stato”, allora mi interrogai a lungo e in profondità, io avevo giurato di servire la Patria, di difendere i cittadini dalla malavita, dai delinquenti, e ora? Fu una cosa molto brutta…

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Santa Francesca Romana e il suo monastero a Tor de’ Specchi

L’insostenibile pesantezza della azione amministrativa del Comune di Bracciano

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ituato in una zona centralissima di Roma, tra il Teatro di Marcello e la costa del Campidoglio, l’edificio - poco vistoso all’esterno - è monastero di clausura delle Oblate di S. Francesca Romana; per questo ne è permessa la visita solo nel giorno della morte della Santa fondatrice. Così solo pochi cittadini ben informati hanno modo di accedere ad un luogo religioso fortemente suggestivo e di vedervi affreschi di estremo interesse. Il convento infatti, pur essendo situato in una zona di intenso traffico, risulta quasi fuori dal mondo e come immutato nel tempo. Gli affreschi, poi, presentano una semplicità ed immediatezza di sentimenti, una fede popolare intensa e spontanea rare nella spiritualità sempre teologicamente elevata e nelle realizzazioni artistiche raffinate che prevalgono in genere a Roma. Ed ecco che noi della Soffitta, appassionati di cose nascoste, partiamo alla scoperta di questo piccolo tesoro. Cominciamo col ricordare per sommi capi la vita della Santa. In una Roma priva dell’autorità del Papa, esule ad Avignone, ed abbandonata a violenze intestine nacque nel 1384 Francesca Bussa, di famiglia nobile, in una casa nei dintorni della chiesa di S. Agnese in agone, dove essa fu battezzata. Sin da bambina aveva dimostrato una intensa religiosità che la portava a isolarsi dal mondo e a trascorrere il tempo in preghiere e letture devote. Sposata contro sua volontà al ricco Lorenzo Ponziani, proprietario di mandrie, ebbe una vita dolorosa. Due figli morti piccoli, il marito permanentemente infermo per una ferita riportata in uno scontro armato, le tormentate vicende politiche e anche i rovesci economici della sua famiglia le procurarono molte sofferenze che Francesca sopportò sempre con pazienza. La sua vita semplice e povera, aperta all’amore fraterno, furono il suo mezzo di raggiungere la santificazione, pur restando laica e nel secolo. Condivideva le tendenze dei poverelli francescani, sull’esempio dei quali assisteva i poveri, vivendo essa stessa una vita modesta e distribuendo ai bisognosi i suoi beni familiari. Si dedicava anche alla cura dei malati, con i mezzi semplici della medicina popolare ma con meravigliosa abilità taumaturgica, grazie alla quale divenne famosa come guaritrice. Assistette il marito fino alla morte di lui nel 1436, coniugando i suoi doveri di mater familias con le sue istanze verso una vita consacrata a Dio. Il 15 agosto 1425, Francesca, accompagnata da nove sociae, pronunziò nella benedettina basilica di S. Maria Nova la solenne

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Un affresco del Monastero

formula di oblazione. Le oblate continuarono a vivere nelle rispettive famiglie, ma nel 1433 acquistarono una casa privata nel versante occidentale del Campidoglio, dove si ritirarono per condurvi vita in comune. Francesca le raggiunse dopo la morte del marito e assunse il governo della comunità, divenuta molto simile ad un monastero. Morì quattro anni dopo, il 9 marzo 1440, debilitata dalla severa vita di privazioni e di impegno che aveva sempre condotta. La Santa presenta quindi come sue caratteristiche distintive una fede forte e una carità infaticabile verso poveri e ammalati; infine un animo ben consapevole delle umane sofferenze e che ben conosceva l’angoscia e il dolore, ma che tendeva a superarli nel misticismo e nell’ascesi. La sua biografia è riportata soprattutto dal suo confessore Giovanni Mattiotti, i cui appunti, rielaborati e riscritti (1451) in un codice pergamenaceo ora all’Archivio Vaticano, furono studiati e trascritti da M. Armellini, autore di una Vita di s. Francesca romana, pubblicata a Roma nel 1882. A quest’opera del Mattiotti si ispirano i dipinti del convento. Il monastero è ricco di opere d’arte e di begli ambienti: un chiostro cinquecentesco, cappelle, mobilio antico. Il nome bizzarro della zona è dovuto ad un’antichissima leggenda secondo cui in loco esisteva una torre dorata altissima sulla cui

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sommità uno specchio rifletteva i pericoli che nel mondo si ordivano ai danni di Roma. In una casa sbilenca, poi più volte ristrutturata nei secoli, vivono dal XV secolo le Oblate della santa, poi confluite nell’ordine benedettino. Tesoro artistico del convento sono due cicli pittorici. L’uno, del 1468, è collocato in un’ampia sala con soffitto ligneo adibita sin dai primi tempi a cappella e chiamata Chiesa vecchia: l’altro di qualche anno posteriore (1485) in un ambiente di passaggio senza nome. Gli affreschi della Chiesa vecchia presentano ventisei riquadri in due file sovrapposte, divisi da cornici floreali e illustrati da scritte in volgare in carattere gotico librario. A parte un bell’affresco con Madonna e Santi sull’altare e una apocalittica visione dell’Inferno, le altre scene si incentrano sulla Santa. Le possiamo suddividere grosso modo in due ambiti tematici: - Momenti di alto significato religioso per Francesca: le sue visioni di Cristo e della Madonna, la sua Oblazione, la protezione accordata a lei e all’Ordine da parte della Madonna, il dolce Transito. Nonostante il tono solenne si notano atteggiamenti umani teneri e figurazioni delicate; Gesù bambino che si lascia cullare tra le braccia della Santa, angeli musicanti e fiori che abbelliscono la morte di lei, la Madonna e Cristo adulto sem-

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bbiamo preso in prestito il titolo del famoso libro di Milan Kundera e parafrasandolo ne ampliamo il significato. Lo scrittore ne L’insostenibile leggerezza dell’essere ci fa prendere coscienza di uno schermo dietro cui nascondere la reale essenza della vita: la pesantezza del vivere. L’amministrazione comunale dopo quasi due anni dal suo insediamento ha mostrato il volto dell'inadeguatezza strutturale, della incomprensibile linea politica, della spregiudicatezza gestionale, dell'arroganza conclamata e ha completamente squarciato lo schermo dietro cui ha cercato invano di occultare le mancate promesse e le numerose irregolarità della propria attività amministrativa. Tutto ciò pesa appunto come un macigno su Bracciano e sulla vita di noi cittadini. Sul settore urbanistico e sulla annosa questione “la Lobbra” l'amministrazione si è rivelata capace di approvare delibere prive del parere di regolarità tecnica e contabile in contrasto con il TUEL, Testo Unico degli Enti Locali, sostenute da una relazione dell'attuale capo area urbanistica, basata su considerazioni, a nostro avviso, smaccatamente di parte, nella quale si avventura in incredibili censure nei confronti del competente ufficio della Regione Lazio e di professionisti che sono correttamente intervenuti sulle problematiche urbanistiche. I gruppi di opposizione uniti hanno invano cercato di far recedere il sindaco da una decisione suscettibile di comportare riflessi estremamente negativi sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente comune. Infatti è stato dato mandato alla citata capo area di porre in essere tutti gli adempimenti conseguenti senza nemmeno avere valutato, a quanto ci è dato sapere, l’onere delle negative conseguenze. Sono state anche adottati molteplici provvedimenti che incidono sull'intero assetto urbanistico contrastando i diritti di molti cittadini, sposando tesi indifendibili e arrivando addirittura a certificare atti a favore di interessi che tengono in stallo il comune da parecchi anni. Alcuni residenti della lottizzazione “la Lobbra” avvertendo il concreto rischio di vedere negati i propri legittimi diritti hanno inviato recentemente, tramite i propri legali una lettera con la quale “diffidano il comune ad adottare i preannunciati provvedimenti di annullamento dei permessi di costruire in quanto tali provvedimenti sono chiaramente illegittimi”.

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Tutto ciò condito dal mancato rispetto della legge 241/90 così come modificato dalla cosiddetta legge Madia e in deroga alla pronuncia n.8/2017 del Consiglio di Stato. Come risposta all’intervento dei consiglieri di opposizione il sindaco ha replicato “in questo comune la legge Madia non si applica”, come riportato nel resoconto stenotipico della seduta consiliare. Oltre all’aspetto urbanistico, è doveroso trattare tre argomenti di diretto impatto sulla cittadinanza: la scuola materna dei Pasqualetti, gli impianti sportivi e le cartelle esattoriali dell'Imu. La scuola materna dopo tutte le promesse fatte al comitato delle mamme e in sede consiliare si ritrova senza maestra di religione, con una sezione soppressa e con la prospettiva per i bambini, che eroicamente ancora la frequentano, di vedersi penalizzati, dal punto di vista della capienza delle aule, a seguito dell'arrivo delle classi provenienti da Pisciarelli. Nel frattempo spargendo la voce che in realtà la scuola è destinata a divenire “statale” e che comunque non sarebbe stata ripristinata la situazione precedente molte mamme hanno iscritto i propri figli dalle suore. A questo punto dobbiamo chiederci quali saranno i servizi erogati ancora dal comune. Infatti non sono più utilizzabili nemmeno gli impianti sportivi. Il palazzetto perché a seguito delle inadempienze dell'amministrazione, nonostante il congruo tempo concesso per i necessari interventi, i Vigili del Fuoco hanno dovuto dichiarare la inagibile la struttura. Altrettanto incredibile è la decisione di dichiarare inagibile il campo sportivo poiché, a seguito di un sopralluogo riguardante gli spogliatoi “si è potuto costatare una situazione di fatto non rispondente al grafico allegato al certificato di agibilità n.29/09”. Peccato che l'accatastamento del corpo spogliatoi, regolarmente

redatto da un ingegnere incaricato dall'amministrazione e controfirmato dal sindaco Negri, attesti che “la planimetria accatastata è perfettamente conforme alla consistenza attuale del fabbricato”. Rimando alla lettura dei relativi atti comunali chi voglia rendersi conto di come si sia potuti arrivare a questa inverosimile decisione. Un terzo tema attiene alle segnalazioni che mi sono pervenute dai cittadini concernenti l’arrivo di cartelle esattoriali comunali riguardanti la tassa Imu del 2013. Le persone interessate hanno cercato di fare presente che quella tassa la avevano pagata sulla base delle aliquote pubblicate sul sito del comune. Chi si è recato presso il competente ufficio si sarebbe sentito rispondere, relata refero, che le aliquote ufficialmente pubblicate a suo tempo erano errate e che eventuali richieste di chiarimenti dovevano essere inviate via pec poiché “non ci sarebbero soldi per poter disporre di un numero adeguato di dipendenti che possano far fronte alle domande dei cittadini”. Pensò che ogni commento risulterebbe superfluo per chi come me è rimasto senza parole. Non ci sono soldi per tenere in efficienza un ufficio di vitale importanza per tutti e si continua a immettere in altri uffici comunali personale esterno quando ci sono risorse interne in possesso dei requisiti richiesti. A questo punto non ci si può sottrarre al dovere di far sentire la propria voce, i problemi connessi all'Imu, alla scuola materna e agli impianti sportivi saranno trattati nella prossima Assemblea Popolare, a cui parteciperanno tutti i gruppi di opposizione, che sarà indetta a breve a Bracciano nuova, insieme ad altri argomenti che saranno indicati da voi cittadini. I consiglieri comunali Donato Mauro, Claudio Gentili, Chiara Mango, Marco Tellaroli, Alessandro Persiano

I consiglieri di opposizione nel corso di una recente assemblea aperta ai cittadini

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Zuzzurellopolis 6 Algoritmi vò cercando

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delle proprie preferenze e di dimostrare perfino uno sviluppo psicologico in grado di attenuare la sua solitudine. I due instaurano un legame sempre più forte, fino a parlare della vita e dell'amore. Theodore non può più fare a meno di Samantha, che, un giorno, arriva a dire, spiazzandolo totalmente, come sia meglio per lei non avere un corpo fisico, risparmiandosi cose come il dolore e la morte, e garantendole potenzialità illimitate. Poi Samantha fa a Theodore una sorpresa, chiedendogli se gli dà fastidio che lei parli regolarmente anche con qualcun altro. L'uomo acconsente, ma comincia a provare gelosia per la vita che lei vive on-line sia mentre lui dorme che mentre stanno insieme. Qualche giorno dopo ha un attacco di panico, accade quando Samantha non gli risponde all'auricolare e il dispositivo portatile risulta privo di sistema operativo. Dopo qualche minuto però tutto torna alla normalità: Samantha stava eseguendo un aggiornamento che lei ed altre intelligenze artificiali hanno progettato in completa autonomia per poter sfruttare appieno, dice, le proprie potenzialità. Theodore le chiede allora se, mentre sta parlando con lui, stia per caso interagendo anche con altri esseri umani, preoccupato di aver perso l'esclusività del loro rapporto. La risposta lo spiazza: lei confessa che sta comunicando contemporaneamente con altri 8.316 individui e, inoltre, di aver cominciato ad amare 641 di essi. Samantha cerca però di rassicurarlo di come queste relazioni non danneggino l'amore che continua a provare per lui. L'uomo, sconsolato, riallaccia un rapporto con una sua vecchia amica, Amy, a sua volta sconvolta per essere stata abbandonata dal proprio sistema operativo. Il film finisce con Theodore e Amy che si siedono sul tetto del grattacielo in cui vivono osservando serenamente le luci della metropoli. Per tranquillizzarmi mi sono detto che è solo un film, tra l’altro con esito in rosa, ma tranquillo non sono rimasto, affatto. Ho aperto Facebook e ho scritto un po’ di miei pensieri sul tema, cercavo solidarietà nella comunità degli amici, delle amiche che formano il mio gruppo. Comunità? Dolce parola antica che indica persone che si riconoscono perché agiscono valori condivisi, perché stabiliscono tra loro reti di solidarietà, come stupirsi, allora, per il fatto che nel lessico della rete “comunità” sia tra le più ricorrenti? Non c’è praticamente alcun servizio che si rivolga al singolo, e allora?, mi sono detto, che vai cercando! Nulla, se non scoprissi ogni giorno di più che tutto gira essenzialmente intorno alla pubblicità, siamo una comunità di consumatori, non una comunità sociale. Un lampo e mi sono chiesto chi è che imposta la domanda a cui l’algoritmo dovrà rispondere attraverso una sequenza ordinata e indiscutibile di passaggi per rendere la nostra vita sempre gioiosa, pronto a risolvere qualsiasi problema. Un esempio: ipotizziamo che il problema sia come gestire nel modo più razionale il caos del trasporto individuale in una città attraverso l'uso dell'automobile a chiamata (servizio taxi). Uber ha trovato un perfetto algoritmo per farlo. Ma se la domanda cambiasse, per

o gustosamente letto, e in un sol boccone, l’articolo di Biancamaria Alberi “La politica al tempo degli algoritmi”, uscito nel precedente numero di Gente di Bracciano. Il fatto è che da tempo sto cercando di capire il mondo di Gafam ( Google, Apple, Facebook, Amazon, Micorosoft), così tra lo stimolo di Biancamaria e questa mia allegra ossessione ho deciso di zuzzurellare nel magico mondo degli algoritmi, un po’ mi sono sentito come il cappellaio matto di Alice nel paese delle meraviglie perché è difficile, per uno che si è formato sul telefono coi fili e sui libri cartacei e alla caccia senza tregua di notizie oltre l’angolo del proprio giardino, afferrare la potenza del nuovo mito moderno: lo smartphone. Ma prima di chiacchierare un po’ sul mito vorrei condividere un’informazione, che mi ha un po’ “sbalordito”, attorno alle infrastrutture che permettono al mito di esistere: trecento linee di cavi posati sui fondali marini, per un milione di chilometri, in fibra ottica che collegano gli Stati Uniti al resto del mondo, e su cui viaggiano dieci miliardi di transazioni finanziarie al giorno. Per fare il gufo ho subito pensato che potrebbero anche verificarsi sabotaggi umani legati al terrorismo e alla pirateria: la mafia colombiana, ad esempio, trasporta droga sulle coste americane con sottomarini a oggi non intercettabili, poi ci sono anche gli eventi naturali come terremoti e tempeste marine che potrebbero fare al caso. I punti di maggiore densità sono: lo Stretto di Luzon a sud di Taiwan, lo Stretto di Malacca e il Mar Rosso. Nel gennaio 2008, una rottura dei cavi sottomarini ha bloccato per un po’ di tempo i collegamenti tra Europa e Stati Uniti, da una parte, Egitto, India e Paesi del Golfo Persico dall'altra. Risalendo nel tempo, a dicembre 2006, un terremoto al largo delle coste meridionali di Taiwan ha rallentato il traffico telefonico e Internet in buona parte dell'Asia orientale con effetti negativi immediati sulle borse. I signori del silicio stanno sostituendo le antiche sette sorelle del petrolio nel dominio del mondo. Mentre scrivo mi viene da smanettare sul mio smartphone. Mi segnala subito articoli a proposito di: Corea del Nord, Roma, Catalogna, Berlusconi e M5S, smog a Roma. Perché? Ecco: per lavoro mi sono spesso occupato di esteri, sono un fan dei giallorossi, amo Barcellona, ho scritto articoli sul leader di Forza Italia e i pentastellati – sono uno che segue attentamente la politica -, sono un cittadino della città eterna e sono preoccupato per l’aria che respiro. Insomma, il motore di ricerca mi conosce: in poche frazioni di secondo ha rielaborato le mie ricerche passate e ha selezionato le notizie che pensava avrei voluto leggere. Come si dice in gergo siamo tutti/e profilati/e dal “grande fratello”. Qualcuno può dire che è una straordinaria innovazione tecnologica, ed è vero, ma forse val la pena di rifletterci un po’ sopra. Tra le misteriose apparizioni che mi si sono presentate da quando mi sono incuriosito al tema c’è stato un film del 2013 che ha vinto l’oscar per la migliore sceneggiatura: Lei-Her. Theodore Twombly è un uomo solo e introverso, di professione elabora accorate lettere per conto di altri, dettandole al computer. Infelice per il divorzio con Catherine, sua compagna sin dall'infanzia, Theodore cerca di distrarsi dedicandosi al lavoro, cimentandosi in videogiochi e frequentando chat telefoniche. Attratto da uno spot pubblicitario che ha profilato la sua solitudine decide di acquistare un nuovo sistema operativo, “OS 1”, basato su un’intelligenza artificiale in grado di evolvere, adattandosi alle esigenze dell'utente. Durante l'installazione sceglie una voce di interfaccia femminile e il sistema, una volta avviato, si dà autonomamente il nome di “Samantha”. Theodore rimane affascinato dalla sua abilità di apprendere, di sviluppare intuito nei confronti

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re le tariffe per i vari clienti a seconda di dove si trovano in base alla geolocalizzazione (in centro o in periferia, in città o in provincia) e dalle fasce di reddito a cui appartengono, individuata attraverso il mezzo dal quale acquista – smartphone, pc o tablet – e addirittura del relativo sistema operativo: chi usa iOs di Apple apparterrebbe a una fascia di reddito più alta, chi utilizza Android sarebbe meno abbiente, quindi da conquistare con un prezzo più basso. Il collega Leonard Berberi ha ripetuto l’esperimento a Milano: lo stesso volo, comprato in centro o in periferia, dal telefonino o dal pc del lavoro, cambia di prezzo (9 per cento circa). Solo falle da tamponare? Facile che, vengano presentate così dai colossi del web che con questo sistema guadagnano cifre folli. E che dire dell’ultima campagna elettorale americana. Chi sta indagando afferma che siti riconducibili alla Russia avrebbero acquistato, a cifre esorbitanti, pubblicità personalizzata tramite Cambridge Analitica che ha utilizzato attraverso Facebook il profilo di gruppi di elettori potenzialmente favorevoli a Trump, soprattutto negli Stati in cui il voto era in bilico fra i due candidati: Maryland, Wisconsin e Michigan. Su Twitter, un esercito di profili fasulli e automatici (i cosiddetti “bot”) avrebbero lanciato fake news contro Hillary Clinton. Account russi avrebbero diffuso disinformazione anche attraverso Google e YouTube. «Sono atterrito dal vostro potere», ha detto il senatore repubblicano John Kennedy ai rappresentanti dei colossi del web comparsi davanti alle Commissioni di Senato e Congresso Usa che indagano sul cosiddetto Russiagate è stato commovente Zuckerberg, socio primario di Facebook, mentre chiedeva scusa, dichiarando con verginea sincerità che ci avrebbe messo una pezza. Mentre scrivo avverto di poter essere inteso come un nuovo luddista, movimento anti tecnologico che, per fortuna, è sempre rimasto sconfitto dalla storia perché una cosa, quando viene scoperta, nessuno può più farla tornare indietro. Che fare allora? Forse provare a governare l’innovazione chiedendosi come la società, la politica possano – forse debbano - porsi riguardo al bilanciamento dei poteri in uno Stato democratico: una potenza quale quella della profilazione digitale di tale impatto e pervasività può rimanere esclusivamente a disposizione di chi paga di più? E addirittura senza nemmeno essere nota a chi la subisce? Ogni legge è sempre la conseguenza di un conflitto d’interessi, di un confronto di poteri, di un negoziato sociale. Il buco nero che abbiamo dinanzi è proprio l’assenza di un’esperienza che animi queste dinamiche negoziali nella società degli algoritmi. Occorre assolutamente stabilire limiti legislativi a questo potere opaco, nato, ah! i paradossi della storia, da brillanti menti ribelli che progettarono, trent’anni fa, a Silicon Valley un’innovazione che, nei loro desiderata, avrebbe permesso al mondo di connettersi in un’unica “comunità” sociale, in testa Steve Jobs e Bill Gates. “Robba” tosta, dov’è finito lo zuzzurellone, mi sono chiesto, così, per riparare, ho preso il mio smartphone e ho mandato un hashtag rispondendo al quesito di una trasmissione televisiva su chi è la più bella del reame, un instagram con una mia foto in versione matto da legare, una mail, che condivido con altri zuzzurelloni, con un mio pensiero sull’attuale situazione politica in Italia, ho cinguettato un twitter sulla potenza del nuovo mito moderno e cliccato su Facebook un mi piace a favore della cioccolata, poi ho aperto Google e ho trovato la pubblicità della Ferrero, quella di Harmonia Mentis, un ricovero per persone disturbate, i volti postati di Di Maio e Salvini con minispot sul come stanno scrivendo “la storia”, un libro di Michele Mezza “Algoritmi di libertà (che ho subito comprato) e la foto di Uma Thurman, il mio amore segreto. Forte!!! Francesco Mancuso

esempio diventa come permettere un modo più razionale, con meno spreco di risorse, con meno inquinamento, insomma come diminuire il traffico individuale e favorire quello pubblico, allora la risposta di Uber diventerebbe massimamente irrazionale. La potenza di calcolo certamente sposta sempre più in alto il luogo della determinazione e soluzione del problema, ma non può saltare i fattori della sua definizione e della scelta dei dati di riferimento utilizzabili per la sua soluzione. Non esistono algoritmi neutri. L’algoritmo non riflette mai la realtà, ma ne propone una sua versione e sta dentro ogni applicazione pratica della tecnologia: dalla formula segreta con cui il motore di ricerca Google risponde ogni giorno a nove miliardi di richieste, ai Tunes che decidono per te quale musica ascoltare, a TripAdvisor che sceglie per te il ristorante dove andare, fino a Tinder che sceglie per te con chi andare a letto. Facile vedere tutto ciò come il primo sacramento dell’odierna fede (quasi) religiosa nella Dea Tecnologia che (quasi) tutto spiega e risolve, tranne chi progetta l’algoritmo e chi paga per usufruire delle sue potenzialità, of course. I numeri non sono opinioni, non mentono, ce l’insegnano fin da piccoli. Così ci affidiamo a loro per tantissime scelte quotidiane: selezionare l’hotel più conveniente, seguire i consigli di shopping personalizzato del sito di e-commerce, leggere un articolo di giornale suggerito dal social preferito. Lo sappiamo tutti, ormai, che è il marketing a tempestarci di proposte rielaborando i nostri dati personali. Ma questo sembra non importarci più di tanto. Convinto dell’infallibilità delle macchine un risparmiatore italiano su cinque – gli americani sono già qualcuno in più – ha abbandonato il consulente in carne ed ossa e affida i propri soldi a un “robo-advisor”. La tv in streaming Netflix usa potenti formule matematiche per indirizzare gli abbonati verso determinati show in base alle loro abitudini: funziona al punto che perfino la compassata Bbc ha avviato un progetto per imitarla e, in collaborazione con otto università britanniche, attraverso lo sfruttamento e l’apprendimento automatico dei decoder per capire le scelte dei telespettatori e anticiparle. Altro esempio: i voli aerei, quelli che sempre più spesso acquistiamo online. Ebbene, Rafi Mohammed ha appena raccontato sulla prestigiosa rivista Harvard Business Review di aver scoperto che app e siti di viaggio diversificano i prezzi di uno stesso volo a seconda dell’utente: «Per un pacchetto vacanza a New York, l’app di Orbitz mi dava un certo prezzo, ma quando ho deciso di acquistarlo dal computer, la cifra era più alta del 6,5 per cento». Colpa di chi? Semplice, dell’algoritmo e di chi lo ha disegnato. Le compagnie aeree hanno smentito, attribuendo le differenze alla fluttuazione della domanda e dell’offerta. Rafi ha insistito ed è venuto fuori che il meccanismo sarebbe così sofisticato da saper differenzia-

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Ernesto in Divisa militare

Una battuta con Graziarosa e con Claudio che ho visto sorpresi e ammirati da questa osservazione di Ernesto, un lampo e riprende con il suo sorriso ironico da popolano doc… mi sposai con Giuliana nel 1976, lo stesso giorno e mese di quando di sposò Modugno nel 1955. Lei lavorava alle dipendenze della principessa, Donna Maria Odescalchi, nella lavanderia di piazza Margana a Roma. Sua cugina me la presentò un giorno alla stazione di Bracciano ma l’occasione per invitarla ad un appuntamento arrivò un giorno in una corsi dell’ospedale Villa San Pietro dove ero andato a far visita ad una parente ricoverata. Le dissi che l’avrei accompagnata, che vuoi in polizia bisogna pure “zazzare” un po’. Il nostro primo appuntamento fu al Maniero una sala da ballo ad Oriolo… Gli chiedo dei figli e improvvisamente il suo viso si fa serio, le parole escono crinate da un grande dolore ma sempre con la testa alta, fiera di sé e della vita… Stella, oggi ha 41 anni, nacque con un cromosoma doppio che le ha procurato dei ritardi di sviluppo, il secondo morì dopo sei ore e Giancarlo a 18 anni. Ci seguiva il professor Neri, un medico eccezionale del Gemelli, che volle capire cosa ci stesse succedendo, quando lo capì ci disse che andando in America avremmo potuto risolvere il problema. Ma era tardi e con Giuliana decidemmo che

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non volevamo soffrire più… mentre dice questo entra Stella che con un bel sorriso stringe la mano a tutti, con trasporto, con simpatia, ho sentito il sangue correre più veloce nelle mie vene, felice di avere davanti a me un uomo che ha imparato che la vita offre sempre, a chi lo decide, a chi l’affronta, a chi non si chiude, un’opportunità per vivere anche i dolori più grandi con dignità, donando affetto e cura. Stella ama cucinare. Chi ha assaggiato i suoi gnocchi li ha trovati squisiti. Ottime anche le polpette preparate da Stella in modo tradizionale. Ma nel suo menù c’è anche molta pasta: al tonno, alle olive, alle zucchine e anche all’amatriciana. Ci sediamo nuovamente e vedo Ernesto riprendersi il suo sorriso…a venticinque anni me ne sono andato dalla polizia e sono stato assunto all’AGIP petroli, sai in polizia prendevo 100.000 lire al mese, all’AGIP trecentomila, mica “robba” da poco, fui assunto come “autista chilolitrico”, insomma portavo la benzina ai distributori, ero un lavoratore irreprensibile, mi

Ernesto in allenamento

arrabbiai solo una volta, avevo chiesto di fare viaggi in modo di tornare entro l’orario di lavoro, anche in rispetto della legge 104 che tutela chi cura i disabili, capisci che avevo tanto da fare a casa, un giorno il capodeposito mi voleva mandare fuori zona, a Rieti, mi rifiutai, lui mi rispose che non dipendeva da lui ma dal computer che organizzava i turni, gli risposi che non m’interessava nulla e che c’andasse il com-

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puter a fare quel viaggio e me ne andai. Nel 1998 andai in prepensionamento, sai ho “fatto fare al parlamento il decreto per andarmene”… sobbalzo un po’, mi vede e… a quei tempi l’onorevole Emilio Colombo era agli Esteri, lo conobbi quando gli facevo la scorta, mi voleva bene e conobbe anche Stella…vede che mi sono ripreso e… quando andai via presi un sacco di soldi, non me l’aspettavo, con quelli ho costruito la casa che hai visto, tutta in piano per la mia cara Stella, prima vivevo in un piccolo appartamento a Bracciano e in affitto… si ferma un nanosecondo, vedo che acchiappa una parola che gli urge… Sai io ho fatto fino alla quinta elementare, sono un autodidatta in tutto, oggi la mia passione è la musica, canto canzoni popolari dei miei anni di gioventù, appena finito te ne faccio sentire qualcuna, canto sempre alle feste e qualche volta anche in piazza, ho vissuto una vita densa, non mi manca niente… s’increspa un attimo… solo qualche nuvola per le condizioni di salute di Giuliana che non sono ottime… solito nanosecondo e…qui è arrivato anche Little Tony e quell’antipatico di Lucio Battisti, tanto antipatico quanto bravo… siamo alla fine ma non per Ernesto che se ne va al karaoke che è in fondo al locale, si siede e…”non mi dire più di no”, la bella canzone cantata da Celentano… mentre suona alla pianola Ernesto è come in trance, esprime una tensione ispirata, non ci guarda più, conquistato dalla pianola e dalla sua voce, si riprende solo quando sente battere le nostre mani e via con Claudio Villa…”Un amore così grande”, qui è come perduto- Finita questa ci dice che non possiamo andar via senza sentire il suo pezzo forte e comincia a cantare…”Mamma la mia canzone più bella sei tu”… qui è in uno stato estatico, ci vorrà un po’ perché torni tra noi. Prima di lasciarci ci fa vedere il suo laboratorio di pasticceria, l’altra sua passione, musica e dolci, niente male… Sai, avrei voluto insegnare a dei ragazzi l’arte della pasticceria, dare loro l’opportunità di trovare un lavoro, non ci sono riuscito ma chissà. Usciamo sul piazzale antistante la casa e sento Ernesto come un amico ritrovato, mi batte due pacche sulla spalla con quelle sue simpatiche manone, mi abbraccia e ci dà appuntamento davanti a un piatto di carbonara. Ciao e grazie, Ernesto, a presto! Francesco Mancuso

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Esequie di Francesca in S. Maria Nova

pre affettuosi e protettivi. - Scene dei miracoli della Santa. In genere uomini feriti accidentalmente o in seguito ad aggressioni, ragazze o bambini malati o morenti vengono sanati da Francesca con balsami miracolosi. Ci sono poi miracoli più semplici, ingenui: gli abiti della Santa che rimangono asciutti anche in acqua, la fioritura improvvisa di uva buonissima per dissetare le Oblate, vini e grano di ottima qualità o pani che, sebbene consumati, si moltiplicano e non si esauriscono. Ci ricordiamo, noi della Soffitta, del popolare miracolo delle noci di manzoniana memoria. Si riflette in queste scene il bisogno del popolo di Roma, che viveva fra violenze e pericoli, di avere una protettrice materna e potente, premurosa e salvifica, alla quale ricorrere nei momenti più difficili e alla quale guardare con speranza e meraviglia. Artisticamente le raffigurazioni sono dolci, tratteggiate con semplicità e immerse in un panorama essenziale, i personaggi sono isolati e ben caratterizzati. Nonostante che l’artista padroneggi bene la prospettiva, gli edifici sono raffigurati sommariamente. Sembra proprio che il pittore sia interessato principalmente a rendere la dolcezza della Santa, a magnificarne l’abilità taumaturgica, passata tout court come miracolosa, a risvegliare nel pubblico stupore e devozione.

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La bellezza della rappresentazione viene in seconda istanza. La serie è interrotta dall’affresco intorno all’altare, più raffinato, opera di un artista più valente. Rappresenta la Madonna in trono con corona tripartita che allude, secondo una rivelazione fatta alla Santa e riportata dal confessore, alla umiltà, verginità e gloria di Maria; ai lati, in sacra conversazione, S. Benedetto e la Santa accompagnata dal suo angelo custode. La fattura di questo affresco è decisamente più raffinata, le figure più aggraziate e ricche di chiaroscuri, il panneggio più morbido, più smaglianti i colori. Si è pensato di riportarlo a Fiorenzo di Lorenzo, un pittore fiorentino del 400. Molto efficace anche la rappresentazione dantesca di una visione che la Santa ebbe dell’Inferno, rappresentazione dominata da un enorme dragone demoniaco che massacra le anime dannate. L’attribuzione del ciclo ad Antoniazzo romano (1430? -1508) - ben noto a Bracciano per il dipinto Trionfo di Gentile Orsini che si ammira nel Castello - è ora abbastanza sicura, ma non è stato sempre così: si era anche ipotizzato un anonimo pittore umbro influenzato da Benozzo Gozzoli. Il ciclo del 1485 è di dimensioni ed impegno più ridotti: dieci riquadri monocromi, di un colore verde pallido, rappresentano la lotta che i diavoli muovono alla Santa. Nell’antichità romana si praticavano,

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nelle caverne alle falde del Campidoglio, dei riti propiziatori verso gli spiriti maligni. Forse una traccia di queste antichissime paure era rimasta nell’animo sensibile e provato dal dolore della Santa. Essa viveva spesso la sensazione angosciosa di essere aggredita, ingannata, addirittura malmenata da diavoli ed esseri mostruosi, dai quali la salvavano la sua fede in Dio e l’intervento del suo angelo custode. Rispetto ai precedenti, questi riquadri sono più immediati ma anche più ripetitivi, sono permeati da un forte senso di angoscia e di minaccia assente nei più sereni affreschi della Chiesa vecchia. Simile è invece la spiritualità sincera, l’umanità genuina, la religiosità spontanea e popolare. L’autore è ignoto, ma si può constatare che padroneggiava bene la prospettiva e la rappresentazione anatomica, mentre trascurava la descrizione dell’ambiente, ininfluente nel racconto di exempla di vita cristiana. Il pubblico che visita questo convento, così isolato dal mondo e fervido di religiosità, e che segue questa narrazione iconografica è pervaso da sentimenti forti: ammirazione e insieme indulgenza verso una fede così ingenua ma anche così intensa, commozione per le sofferenze e angosce umane, sorpresa per un’arte così spontanea e intensamente comunicativa. Al termine della visita si esce da questa esperienza artistico-spirituale con un sorriso di simpatia per l’essere umano e un po’ più di speranza. Alberto Mancini Opere consultate: - La vita di S. Francesca romana nelle pitture di Tor de’ Specchi. Roma, Monastero Oblate di S. Francesca Romana, s.d. - Tor de’ Specchi. Monastero delle Oblate di S. Francesca Romana. Sito internet - Rossi, Attilio. Le opere d’arte del Monastero di Tor de’ Specchi in Roma. Estratto da: Bollettino d’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione, Anno I (1907) N. 8-9 (agostosettembre) - Amadei, Emma Gli affreschi quattrocenteschi del Convento delle Oblate di S. Francesca Romana a Tor de’ Specchi. In: Capitolium, Anno XXVIII, n. 8 (Agosto 1953) - Fatti memorabili della vita di S. Francesca Romana tratti dalle pitture murali del Convento di Tor de’ Specchi. 1440-1940. Roma, Tipografia Marviana 1940.

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Il vulcanico Ernesto Scuderoni

Al Caffè Grand’Italia con Filumena Marturano

Istruttore di motonautica, poliziotto a cavallo, autista di camion di carburanti, pasticcere, cantante. Padre e marito. Da ragazzo in barca con l’attore Paolo Panelli. Il Re di Svezia volle omaggiare i suoi dolci con una pergamena

Ha funzionato l’esperimento di destrutturalizzazione teatrale promosso in collaborazione con la compagnia Partenope

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un pomeriggio caldo, ho appuntamento al luccio d’oro con Graziarosa, con la macchina prendiamo la parallela al lungo lago, giriamo a destra per una stradina sterrata e piombiamo in un grande cortile, un caos beneaugurante ci accoglie: cassette, legni, macchine parcheggiate in ordine sparso, oggetti indecifrabili, cani ad ogni angolo, il tutto emana però energia, è un caos attivo che indica lavoro, impegno. Ci accoglie Ernesto, un nanosecondo ed è come se lo avessi conosciuto da sempre, pacche sulle spalle, baci abbracci. Ernesto ci guarda dall’alto dei suoi quasi due metri, è un omone che trasmette energia, quella del suo caos, è strabordante, ironico, ridanciano, dà l’idea di un simpatico boss amico del popolo: un impressione che si rafforzerà durante il racconto che ha voluto donarci. Intanto ci raggiungono Mena e Claudio, così Ernesto ci invita a entrare nella sua “tenda” che emana odori antichi, da un lato un lungo tavolo che deve aver visto e vedrà ancora frizzi e lazzi, ci sediamo con lui che intanto non ha mai smesso di raccontarci e raccontarsi mentre Graziarosa, che sembra conoscerlo da tempo, gli fa da controcanto. Tiro fuori il mio quaderno acchiappaparole e so che sarà un pomeriggio spumeggiante e faticoso, Claudio e Mena inseguono le orme di Graziarosa, in fondo al tavolo ci guarda incuriosito un amico di Ernesto, più in là un ragazzo che ci porterà un fumante caffè e, per fortuna, proprio quando il mio quaderno aveva cominciato a surriscaldarsi. Ci metto un po’ a rubare Ernesto alla sua platea, allora gli chiedo di cominciare da quando arrivò a vedere il mondo attorno a sé …mi chiamo Ernesto Scuderoni e sono nato il 7 marzo del 1950, sono nato qui, al lago, mamma si chiamava Luigina Felici, era di Capranica, mentre papà Mario era di Roma, lui era pescatore e affittava barche ai tanti turisti che arrivavano, tutto andò bene fino a quando cominciarono ad arrivare quelle fatte con la plastica, sai papà era mastro d’ascia, le costruiva lui le sue barche, io a 7 anni già lavoravo nel cantiere, a me, quando si “sfornavano” le barche, toccava sistemare tutti i ribattini di rame che la tenevano insieme… credo utile dare un avviso ai naviganti: questa intervista è stata senza pause, non rientrano nella grammatica di Ernesto, per cui ho cercato di scrivere le sue parole con il suo stesso ritmo, o, almeno c’ho provato, inseguendolo anche nei

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La famiglia Scuderoni

suoi ricordi, spesso sfalsati nel tempo, senza riordinarli… sai negli anni ’60 venne qui al lago Peppino di Capri, era in viaggio di nozze, mangiava al Luccio d’oro, passeggiava sul lago sulle nostre barche e spesso si fermava per cantarci qualcuna delle sue canzoni preferite anche perché TV Sorrisi e Canzoni aveva comprato il copyright suo soggiorno braccianese, sai negli anni ’60 al Novocine di Bracciano si svolgeva la Goletta d’oro, che faceva il verso allo Zecchino d’oro, presentava Nunzio Filogamo. Nel 1949 lo vinse mio padre Mario cantando “Terra straniera” di Claudio Villa. Ernesto accenna il motivo dell’inizio della canzone con la sua voce forte e chiara…vinse il microfono d’argento. Che emozione quando Nunzio Filogamo mi chiamò sul palco!!!. Sai, a Bracciano nel castello ci giravano molti film, ricordo ancora oggi i “Cadetti di Guascogna” con Walter Chiari, Ugo Tognazzi, Ada Dondini, Billi e Riva nella cornice antica di Bracciano… con affettuosa malizia penso che Ernesto avrebbe interpretato i cadetti di Guascogna alla grande… Eravamo bambini giudiziosi io e i miei sei fratelli, tutti con nomi che cominciano con la E, non c’avevamo la furbizia di quelli d’oggi, pensa che quando era tempo andavamo a funghi, ci mettevamo per la

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strada per venderli e così contribuivamo al bilancio familiare. Ricordo che nel ’62 piovve per quaranta giorni di seguito, non si lavorò mai, il lago era impraticabile, così papà andò dal fratello che aveva una cartolibreria vicino alla scuola e da sua sorella che vendeva prodotti Borsalino e chiese loro in prestito dei soldi, ci chiamò, tutti, e, con aria grave, ci disse che se non avesse potuto restituirli lui sarebbe toccato a noi, capito che tempi, altro che marachelle… gli avevo chiesto di raccontarne qualcuna… avevo 13 anni o giù di lì quando Paolo Panelli arrivò a Bracciano, 150 lire l’ora e via con le nostre barche a solcare il lago, diceva che lo rilassava molto, cullato dalle tenere onde del lago… mi regala un nanosecondo di pausa e io ne approfitto per raffreddare un po’ la mia penna… sai, non eravamo davvero svelti come i ragazzi d’oggi, ricordo che durante la Quaresima era proibito mangiare carne, era peccato mortale, ma tanto chi ce l’aveva i soldi per comprare la carne! Sai mi sono innamorato per la prima volta a sedici anni, lei era una commessa che lavorava in una pasticceria a Manziana, anche io facevo il pasticcere, avevo il libretto del lavoro, mi sentivo grande, poi tutto finì non so come. Ricordo ancora la signora titolare della pasticceria Mariani dove lavoravo a

Gente di Bracciano

enerdì 4 maggio al Caffè Grand’Italia, con larga partecipazione di persone si è tenuto un interessante esperimento di “contaminazione” artistica. Il teatro ha lasciato i suoi luoghi deputati e si è insediato al bar, occupando uno spazio in qualche modo abusivo, dove non c’è sipario, non c’è proscenio, niente quinte e niente luci, eppure lo spettacolo messo in scena ha funzionato. La riduzione teatrale di Filumena Marturano di Eduardo De Filippo ha conquistato il pubblico fin dalle prime battute grazie alla superba interpretazione di Laura De Simone, nel ruolo di Filumena e del regista, adattatore e attore Carmine Ferrara nel ruolo di Domenico Soriato. L’idea è quella di destrutturalizzare il teatro scegliendo ambienti alternativi in cui mettere in scena opere nate per il palcoscenico, il risultato è che gli attori stanno in mezzo al pubblico, entrano in contatto diretto con le persone sedute di fronte a loro, la vicinanza fisica crea una relazione forte, tiene l’attenzione, la tradizionale “quarta parete” ed il sipario, in questa dimensione non servono più. Il pubblico è coinvolto dalla e nella performance teatrale e quanto più gli attori entrano in contatto con gli spettatori, tanto più gli spettatori condividono il pathos scenico. Un altro aspetto positivo del teatro al bar è l’opportunità di coinvolgere un pubblico vario, formato anche da gente che solitamente non frequenta il teatro e che si trova di fronte ad un prodotto artistico originale che del teatro riflette la grandezza e spinge a volerne di più, a ripetere l’esperienza, contribuendo con ciò alla diffusione di una cultura del teatro indispensabile in ogni società viva. La collaborazione tra il Caffè Grand’Italia, il Teatro Maurizio Fiorani e Partenope ha prodotto un bel risultato dove tra un gelato, un bicchiere di vino, un caffè, i clienti del bar hanno potuto seguire la storia di Filumena e di Domenico, dal matrimonio estorto a quello scelto, dalla rivelazione di Filumena di avere tre figli di cui uno solo è di Domenico, ma lei non dirà mai chi è dei tre perché “i figli sò figli

Laura De Simone e Carmine Ferrara

e devono essere tutti uguali”, all’accettazione finale di Domenico che li riconosce tutti e tre senza fare differenze. Si è trattato di un evento culturale prima che ludico, nel senso che si è assistito ad un’operazione di riscrittura dei parametri classici della fruizione teatrale in una versione salottiera in cui i personaggi interpretavano il loro dramma tra le persone del pubblico rendendole partecipi delle loro emozioni ed entravano ed uscivano di scena attraversando lo spazio comune come qualsiasi altro cliente del bar. Fa bene al cuore pensare che il territorio di Bracciano e dintorni continui ad esprimere una vitalità culturale che è anche una speranza per il futuro di questa comunità. Biancamaria Alberi

La mia anima ha fretta Ho contato i miei anni e ho scoperto che ho meno tempo per vivere da qui in poi, rispetto a quello che ho vissuto ad ora. Mi sento come quel bambino che ha vinto un pacchetto di dolci; i primi li mangiò con piacere, ma quando percepì che ce ne erano pochi, cominciò a gustarli profondamente. Non ho più tempo per riunioni interminabili in cui vengono discussi, statuti, regole, procedure e regolamenti interni, sapendo che nulla sarà raggiunto. Non ho più tempo per sostenere le persone assurde che, nonostante la loro età cronologica, non sono cresciute. Il mio tempo è troppo breve per discutere di titoli. Voglio l’essenza, la mia anima ha fretta… Senza molti dolci nel pacchetto… Voglio vivere accanto alle persone umane, molto umane. Che sanno come ridere dei loro errori. Non essere gonfio, con i tuoi trionfi. Nessuno è considerato eletto prima del tempo. Non scappare dalle tue

responsabilità. Questo difende la dignità umana. E voglio solo camminare dalla parte della verità e dell’onestà. L’essenziale è ciò che rende la vita utile. Voglio circondarmi di persone che sanno come toccare i cuori delle persone… Le persone a cui i duri colpi della vita hanno insegnato a crescere con tocchi morbidi dell’anima. Si… sono di fretta… Ho fretta di vivere con l’intensità che solo la maturità può dare. Intendo non sprecare nessuno dei dolci che ho lasciato… Sono sicuro che saranno più squisiti di quello che ho mangiato finora. Il mio obiettivo è raggiungere il fine soddisfatto e in pace con i miei cari e con la mia coscienza. Abbiamo due vite e la seconda inizia quando ti rendi conto che ne hai solo una… A cura di Claudio Calcaterra (su ispirazione dei versi del poeta Mario De Andrade 1893-1945)

La Redazione di Gente di Bracciano ricorda con affetto e simpatia la compianta Luciana Iadicicco, appassionata interprete, per molti anni, di una originale ed ironica Befana, per la gioia di tantissimi bimbi braccianesi.

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Gente Bracciano

Giugno 2018 - Numero 20 Dedicato a mia moglie Mariella nel sesto anniversario della scomparsa

Il Sessantotto: le nostre lotte, i nostri diritti

Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente: Claudio Calcaterra Direttore responsabile: Graziarosa Villani Redazione: Francesco Mancuso, Vittoria Casotti, Biancamaria Alberi, Luigi Di Giampaolo Collaboratori: Massimo Giribono Fabercross, Pierluigi Grossi, Mena Maisano Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014 Stampa e impaginazione: FEDE 2011 srl Via dei Vignali, 60 - Anguillara Sabazia su carta riciclata

O

rmai più nessuno racconta di una generazione, quella di una parte significativa maturata nel secondo Dopoguerra. La mia. Ma anche di quella assai più giovane del ’68 con la quale si incontrarono operai e studenti. La lotta è stata un momento centrale della mia crescita politica. Quella stagione di lotta, che univa operai e studenti, non durò solo una stagione, ma più di un decennio. Contrariamente alle celebrazioni per il suo quarantennale, non si trattò, o almeno non soltanto, di una rivolta antiautoritaria, della liberazione dei costumi, o delle priorità dell’individuo sulle costrizioni o regole imposte da chiesa e borghesia. Non fu, secondo l’etichetta che in seguito gli fu affibbiata, “sesso, droga e rock’n’roll”. Alla lotta e alla libertà furono date radici che consentissero di coniugarle con l’uguaglianza. Un’aspirazione primaria nei rapporti di produzione ed innanzitutto umani. Giorni fa, mi trovavo in fila al supermercato. Qui, parlando di condizioni di lavoro, di retribuzione e di pensioni, la giovane donna alla cassa apostrofava me ed un altro anziano signore di avere il “privilegio” della pensione dopo vari anni di lavoro. Cara signora/rina, la nostra pensione non ce l’ha regalata nessuno, ce la siamo conquistata con la lotta e versando lauti contributi all’Inps, manifestando e scioperando con perdite notevoli sui salari e sui diritti conquistati. L’unica risposta che ho ottenuto dalla lavoratrice: “manifestare non serve a niente”. Cari ragazzi /e ragionando così rischiate di perdere anche la libertà, che noi vecchi abbiamo conquistato con le lotte e spesso anche con il sangue, La storia, quella vera, insegna. Claudio Calcaterra

Se vuoi aderire alla nostra Associazione contatta la Redazione: gentedibracciano@tiscali.it

Ma grossi ostacoli impediscono ancora la valorizzazione di questo ameno lago Tratto da L’Unità del 9 agosto 1964

Gelateria Pasticceria Enoteca

Bracciano Via Principe di Napoli, 9/11 Tel./Fax 06 90804194 www.caffegranditalia.com

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