Gente di Bracciano maggio 2019 - numero 24
Gente diBracciano
Maggio 2019 - Numero 24
Dedicato a Mariella nel 7° Anniversario della scomparsa
Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente: Claudio Calcaterra Direttore responsabile: Graziarosa Villani
Redazione: Francesco Mancuso, Vittoria Casotti, Biancamaria Alberi, Luigi Di Giampaolo.
Collaboratori: Massimo Giribono, Fabercross, Pierluigi Grossi, Mena Maisano. Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014
Stampa e impaginazione: FEDE 2011 srl Via dei Vignali, 60 - Anguillara Sabazia su carta riciclata al 100%
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Avanti tutta con Greta
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Oggi come ieri
elle sere di nebbia a Milano, circa settanta anni fa, si fermavano tram anonimi che giungevano dalla Stazione Centrale. Quei tram scaricavano nella piazza masse di uomini, contadini e braccianti pugliesi, calabresi, siciliani e di altre piccole regioni sempre del Meridione, scendevano davanti al portone del - Centro Orientamento Immigrati - sostando per giorni per essere sottoposti alle visite mediche e ai controlli burocratici. Venivano poi inviati nei vari posti di lavoro in Francia, Svizzera, Belgio… (i destinati alle miniere di carbone del Belgio venivano già equipaggiati al centro con casco, lanterna, scarponi e mantellina cerata). Gli immigrati per la Germania passavano per C. O. I. di Verona. “Più nessuno mi farà tornare nel mio Paese”, si dicevano quegli immigrati degli anni Cinquanta del secolo scorso, quelli che nelle fabbriche, nelle miniere o nei cantieri dell’Europa non potevano più sperare di tornare in quel Sud di povertà e di eterna sconfitta tra miseria e fame. Sarebbero poi tornati i loro figli, nei Paesi dei loro padri, tornati trionfanti dentro una Mercedes, una Volkswagen e una Renault, simboli vistosi dell’“avercela fatta”, loro, grazie ai sacrifici dei loro padri. In Piazza S. Ambrogio di Milano dove si affacciavano la caserma dei famosi “celerini” del poco amato ministro degli Interni Mario Scelba, e l’Università Cattolica Agostino Gemelli, si potevano incontrare dei meridionali “privilegiati”, nelle latterie, nei bar o nelle trattorie adiacenti, il compaesano poliziotto o il compaesano emigrante che partiva per il Belgio. Oggi l’immigrazione in Italia dei disperati provenienti dai vari Paesi africani, è cominciata nel lontano 1968. I primi tunisini che sbarcarono in Sicilia da una nave chiamata “Campania Felix”, con permessi turistici, venivano indirizzati verso Castelvetrano, dove venivano “impiegati” nell’agricoltura, e verso Mazzara del Vallo, dove venivano “impiegati” nella pesca. Sono tutti lavoratori clandestini. Sia a Castelvetrano sia a Mazzara del Vallo sono usati contro gli altri lavoratori sindacalizzati come arma di ricatto assoggettandoli allo sfruttamento duro e incontrollato. A Castelvetrano veniva assunto, con il medievale caporalato, il mercato nero delle braccia tenuto dai padroni segregato e nascosto in casolari di campagna. Purtroppo le istituzioni comunali, regionali e governative hanno sempre ignorato la presenza e lo sfruttamento di questi lavoratori stranieri, tranne poi, farne oggetto di una vera e propria persecuzione sotto la spinta di una campagna xenofoba e razzista di forze politiche di destra. Come succede oggi. Per non dimenticare con buona memoria. Claudio Calcaterra
Stati d’animo
Il sesso non prospera nella monotonia, senza sentimento, invenzioni, stati d'animo non ci sono sorprese a letto. Il sesso deve essere innaffiato di lacrime, di risate, di parole, di promesse, di scenate, di gelosia, di tutte le spezie della paura, di viaggi all'estero, di facce nuove, di romanzi, di racconti, di sogni, di fantasia, di musica, di danza, di oppio, di vino. Anais Nin
La sedicenne svedese scuote le coscienze in tutto il pianeta
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ell’era della comunicazione social c’è per assurdo un media come un semplice cartello che “spacca” e buca gli schermi. É i l cartello di Greta Eleonora Thunberg Ernman, per tutti Greta, la sedicenne svedese che sta scuotendo le coscienze del pianeta. Una protesta semplice che sta facendo di questa ragazza un vero e proprio personaggio tra i più noti a livello mondiale tanto da passare in pochi mesi dai gradini del parlamento svedese sotto il quale ha cominciato a manifestare, “scioperando” dalla scuola, a piazza San Pietro con l’incontro, il 17 aprile scorso, con Papa Francesco, passando, a dicembre scorso per la Conferenza COP 24 per il Clima a Katowice e, il 16 aprile scorso, dal Parlamento Europeo. Una “star” del clima che si muove con i treni (il giorno dell’incontro con il papà chi scrive l’ha vista mischiata ai pendolari del mattino sulle scale della metro A di Termini con l’immancabile cartello in mano), che mangia vegano, che ha deciso di lanciare un inedito sciopero scolastico per lanciare un appello globale contro le emissioni di gas serra. Appello che si è andato affiancando a quello per la messa a bando delle plastiche che inquinano ormai anche gli angoli più remoti della Terra. Nata nel terzo millennio, il 3 gennaio 2003 a Stoccolma, Greta, in base a quanto scrivono le cronache, soffre della sindrome di Asperger. Ma è stata tuttavia in grado, con la sua semplicità ed ostinazione, di creare un movimento globale che in modo del tutto trasversale ed intergenerazionale unisce popolazioni di ogni latitudine. Perché l’innalzamento della temperatura globale può davvero - rispondendo anche ai complottisti - stravolgere l’esistenza di moltissime popolazione ad ogni latitudine. Parlando alla COP 24 Greta ha ammonito: “Questa è la crisi più grave che l’umanità abbia avuto”. Confrontandosi con il Parlamento Europeo, il cui rinnovo con le prossime elezioni è imminente, Greta ha sottolineato: “la sofferenza di molte persone paga il lusso di pochi”. Greta in qualche modo è l’incarnazione dell’ambientalismo
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che è rimasto per anni ai margini e che non è riuscito, almeno in Italia, a diventare forza di governo. Dopo la battaglia per il nucleare bandito dall’Italia, pochi altri passi sono stati fatti. La sovranità sull’acqua, malgrado il referendum, resta una chimera mentre permangono le politiche energivore che inquinano rispetto alla più pulita energia solare o all’idrogeno dalle mille prospettive. Per le sue denunce Greta è da più parti attaccata e sono in molti a volerne screditare il ruolo. A sedici anni ha già i suoi biografi e lei stessa è autrice con il padre Svante Thunberg attore, con Malena Ernman, la mamma soprano lirico, e con la sorella Beata del libro La nostra casa è in fiamme che è un po’ il volume chiave di questo nuovo ambientalismo trasversale che passa sotto l’hashtag #fridaysforfuture. I negazionisti dell’ultima ora si danno un gran da fare per sminuire l’allarme ma che l’inquinamento atmosferico, sia outdoor che indoor, uccida prematuramente se non il Pianeta almeno gli uomini lo attesta l’Organizzazione Mondiale della Sanità che nell’ultimo rapporto parla di 8 milioni di morti premature all’anno imputabili alle pessime condizioni della qualità dell’aria. Quanto alla plastica è sotto gli occhi di tutti il dilagare di questo polimero sintetico, duro a morire. La famosa isola che galleggia come un continente fantasma nel Pacifico, grande quanto tre volte la Francia, ne è una prova. Papa Francesco, controcorrente come sempre, ha detto a Greta: “Vai avanti”. Una marcia che deve essere nelle coscienze di tutti. Perché è in gioco non tanto la Terra ma la sopravvivenza degli uomini su di essa ed emigrare tutti sulla Luna, anche se il plurimiliardario Jeff Besoz ha dato il via alla corsa al nostro satellite, è una prospettiva futuribile. Il futuro invece è qui ed è nelle mani di ciascuno. Lo hanno capito bene i tanti teenager che hanno preso parte al recente globalstrikeforfuture del 15 marzo scorso. Il futuro è qui, ora ed adesso. Avanti con Greta. Graziarosa Villani
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La Roscia: se a Bracciano si era in cerca di buona porchetta
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Dedizione e sacrificio nel solco della tradizione familiare
uell’angolo di Bracciano non sarà più lo stesso. Il banco de la Roscia in via Giulio Volpi non c’è più. Da quest’anno Serenella erede di una tradizione antica come quella della porchetta braccianese ha dato forfait. Ha dismesso l’azienda di famiglia. Finisce così una storia di decenni iniziata con il nonno Alfredo Starnoni che nel secondo dopoguerra diede avvio ad una azienda che poi di padre in figlio si era tramandata fino a Serenella. Tra le tre sorelle è stata lei che di recente si era assunta di buon grado l’onore e l’onore di portare avanti l’attività. Per tutti lei è La Roscia. Non tanto perché abbia avuto i capelli rossi ma perché così veniva chiamata la mamma, Ernesta Sbaffoni, “porchettara” storica anch’essa della Bracciano che fu. Con la chiusura di questo banco se ne va un altro pezzo della storia braccianese e della cultura popolare locale, perché l’identità di un territorio passa anche da un alimento genuino come un semplice panino con la porchetta preparato come si faceva all’antica. Il banco, si trovava prima in piazza I Maggio, poi all’angolo tra le stessa piazza e via Volpi. È qui che gli amanti di questa prelibatezza, tipica del Centro Italia, la si poteva trovare dalla primavera all’autunno per poter acquistare una genuinità preparata fresca tutti i giorni. Un panino da re con il buon pane del forno della Sora Lisa innaffiato da un buon bicchiere di vino di Vignanello, bianco o rosso che fosse. Dismesso il grembiule, riposti i coltelli nel cassetto, oggi Serenella è una splendida pensionata che si gode un po’ di tranquillità dopo tanto lavoro, dopo una vita che non ha conosciuto feste, che l’ha vista in strada per tante ore della giornata, che è stata scandita dai ritmi lenti di una preparazione antica come quella della porchetta. È nella sua accogliente casa dalle larghe mura di via dell’Arazzaria che la incontriamo assieme a Mena e Claudio per farci raccontare un altro pezzo di storia locale che ruota tutto attorno a quello che oggi, nel dilagante utilizzo di anglicismi, sarebbe uno street food ante litteram. Al suo fianco, come sempre, c’è Franco Bonfili, il marito che le è stato vicino, sacrificando il sonno e ritagliandosi ore della giornata impegnata prevalentemente dal lavoro a Roma di autista dell’Atac, in tutti questi anni in questa impresa dal sapore antico, ricevendo, da
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Giulio Starnoni e Ernesta Sbaffoni
“genero modello”, la formazione e l’imprimatur dal suocero Giulio Starnoni. Una affiatata coppia, unita sin dall’adolescenza. Una infanzia per entrambi nei vi-
Mamma Ernesta al banco
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coli a giocare a nascondino, a tirare vetrole, a battibeccare con i bimbi delle Cartiere, il rione rivale di sempre. Quella di Serenella e Franco è stata la Bracciano degli anni Settanta, dello “struscio” a viale Odescalchi, quella degli anni del benessere, del viaggio di nozze in Fiat 500, dei balli in casa la domenica a casa degli amici. Una coppia di monticiani doc che ha con passione portato avanti l’azienda di famiglia inserita nel solco di una tradizione, quella della porchetta braccianese, che da sempre unisce sapori e saperi di un territorio. Ma prima di essere a sua volta La Roscia, Serenella è stata una tipica ragazza braccianese. Anche lei, come tante, da bambina ha frequentato la scuola di ricamo del Convento del Divino Amore. Anche lei custodisce negli armadi lenzuola finemente ricamate con punti dei quali ormai si è persa la memoria. “Ci andavo a piedi, tutti i giorni. L’ho frequentata per un paio d’anni. Nei primi tempi si imparava letteralmente a reggere l’ago in mano. Si faceva il cosiddetto Punto Croce con i punti base. Poi si passava a lavorazioni più elaborate. Mi ricordo di Madre Palmira, di Madre Giustina”. La passione per il cucito, dopo
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le tante ore trascorse testa china ad impreziosire tele di mussola e lino, non l’ha più abbandonata. “Anche oggi mi piace cucire”. Ed è sicuramente tra le poche che sappia ancora utilizzare la vecchia Singer a pedale ereditata dalla mamma. La macchina da cucire, con il rocchetto di filo inserito, segno che è ancora pienamente operativa, fa bella mostra di sé, tirata a lucido come nuova, nonostante ormai da quasi un secolo non abbia mai smesso di funzionare. Il passaggio all’adolescenza vede Serenella tra le sorelle e le amiche e la comitiva di giovani. Oltre al marito Franco ne facevano parte anche Giuseppe Mascellino, Giulio Ambrogi e ... “Eravamo una cricca di amici”, dicono insieme. “Ai nostri tempi si andava a viale Odescalchi a fare la passeggiata non come oggi che i giovani vanno alla Sentinella”. A Franco, Serenella era subito piaciuta. “Un giorno racconta Franco - le dissi: ‘Oggi vieni con me a ballare’. E lei mi chiese: “Chi siamo?”. “‘Io e te’, risposi”. “Ricordo dice Serenella - che quella domenica pomeriggio per andare all’appuntamento che in pratica era a poca distanza da casa mia, feci un giro largo passando da sopra ed approfittando del fatto che mio padre il pomeriggio domenicale andava a riposare”. Da quel primo appuntamento Serenella e Franco non si sono più lasciati. Dopo un periodo di fidanzamento per loro arrivano le nozze nella chiesa dei Cappuccini. A celebrare la cerimonia è Don Tomasso. Serenella, raggiante, indossa un abito da sposa che oggi verrebbe definito molto castigato. Chiuso fin sul collo. In testa porta un cappello dalle larghe tese. Lui invece in velluto, come si usava a quei tempi. Subito dopo il sì il viaggio di nozze li porta a Venezia. Una avventura vera e propria visto che vanno con la Fiat 500, quella ormai storica. Entrando in famiglia Franco viene subito coinvolto dal suocero nell’azienda familiare. “Mio padre - racconta Serenella acquistava i maiali da alcuni allevatori delle campagne qui intorno, poi li portava a macellare. Quando ancora c’era il mattatoio in via Claudia qui a Bracciano, poi a Manziana. Nel laboratorio che avevamo in via dell’Arazzaria si passava poi a disossare l’animale. Quindi si procedeva al condimento. Ingredienti semplici: sale, pepe, aglio, finocchio. Una spezia quest’ultima che spesso veniva presa direttamente sui campi quando era stagione. Poi la cottura. Lenta. Con legno di castagno prevalentemente”. È Franco, sempre a fianco di sua moglie Serenella, a spiegare nel dettaglio i tempi di cottura. “Ogni 10 chili di maiale un’ora di tempo”. Un rapporto matematico diretto dietro il quale si nasconde la bontà di un prodotto. Se nell’azienda familiare era il capofamiglia ad impegnarsi per la produzione della porchetta, l’addetta alla vendita è stata per anni la mamma di Serenella. “A Bracciano non
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Serenella con un amica e la madre Ernesta. Dietro di loro Franco. Intanto papà Giulio affetta la porchetta.
eravamo i soli a lavorare la porchetta”. In molti si ricordano infatti che in paese c’erano La Roscia, la Mora e la Bionda. Venivano identificati in questo modo i tre banchi che vendevano in strada la porchetta. “Mia madre con la mamma di Clara, Vincenza, detta La Mora, erano amiche. Non si facevano concorrenza, anzi si davano aiuto l’un l’altra. Spesso, quando era ora, veniva da noi e si pranzava tutti insieme”. Dai ricordi di un tempo Serenella fa un balzo ad oggi. Ripensa a quella che è stata per tanti anni la sua attività. “È stato per tutti questi anni - sottolinea Serenella un lavoro che non ha conosciuto vacanza”. Pasquetta, Primo Maggio, Ferragosto, le giornate clou. Mentre tutti andavano a fare le scampagnata il lavoro la inchiodava sempre al banco. Anche gli orari non sono mai stati dei migliori. La lunga cottura della porchetta richiedeva infatti a tutta la
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famiglia alzatacce al mattino presto, attorno le 3, le 4 del mattino. Tutto per garantire poi che la porchetta giungesse calda, calda - come vuole la tradizione - al banco. “A quei tempi - racconta Franco - per portare fuori la porchetta dovevamo pagare il dazio in via Fausti, dove c’è ora la Farmacia Negri. Il daziere pesava la porchetta e la tassa da pagare era in proporzione al peso”. “Per un lungo periodo ci occupammo di due banchi”, racconta Serenella. “Mia madre tutte le domeniche andava a Cerveteri, dove avevamo il banco nella piazza principale, ed io e le mie sorelle Paola e Franca, a turno, davamo una mano alla mamma ad uno dei banchi”. Quando lei decise di lasciare è stata Serenella a farsi carico da sola dell’azienda. “Col tempo le regole sono cambiate”, commenta Serenella. Dalla “gabbia”, come definisce in gergo la scatola di vetro con la
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La Mora e La Roscia
quale veniva tradizionalmente esposta al pubblico la porchetta fino a qualche anno fa, è arrivato oggi l’obbligo di mantenerla in frigorifero. Una disposizione che
potrebbe far rabbrividire oggi i buongustai che sanno bene come la porchetta non vada assolutamente messa in frigorifero, un po’ come la mozzarella. Ma è il potere dell’HACCP. Al banco della Roscia, vero monumento braccianese, non si poteva acquistare solo la porchetta ma anche altre prelibatezze che la cultura contadina ha tramandato fin ad oggi. Una signora “coppa” in particolare: “si batte al coltello la testa del maiale e si condisce con sale peperoncino, aglio e buccia d’arancia e anche buccia di limone”. Quindi gli zampetti: “dopo la bollitura si condiscono con peperoncino, sale, prezzemolo, olio ed aceto”. Sapori antichi che rischiano oggi di scomparire. E la porchetta della Roscia era una delle più apprezzate del territorio. “La nostra porchetta - racconta Franco - è arrivata fino a Bologna. Una volta una signora ce la ordinò per portarla al pranzo di nozze della sorella. Gli era tanto piaciuta”. “Poi - aggiungono insieme - siamo finiti anche in Giappone. Un’amica una volta ci ha mandato una foto: in un ristorante in Giappone c’era alle pareti una fotografia che ritraeva il nostro banco di Bracciano”. Ma il selciato dove fino a qualche mese fa stazionava il banco della Roscia è ora anonimo. Chi lo frequentava passando a piedi o in auto
Palmiro Togliatti. Un padre della Costituente
Fu leader del solo Partito Comunista che abbia partecipato alla fondazione di una Repubblica democratica ispirata ai valori del costituzionalismo europeo
A Le nozze il 26 ottobre 1975
per quelle vie è assalito da un flash della memoria: c’era una volta il banco della Roscia. Un altro pezzo della storia bracciaGraziarosa Villani con la collaborazione di Mena Maisano
Le figlie della Roscia al banco in piazza I Maggio a Bracciano (1978)
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più di cinquant’anni dalla scomparsa dello storico leader comunista italiano, ricordarne il ruolo politico e istituzionale che ebbe nella rinascita democratica del nostro Paese e nella elaborazione del testo della Costituzione Repubblicana: è cosa doverosa in questo tempo di revisionismo e incancrenimento xenofobo e razzista. Il richiamo all’attenzione e alla memoria della personalità di Palmiro Togliatti, dei rapporti politici e personali che ebbe con altri prestigiosi esponenti di culture politiche democratiche diverse, dal cui confronto scaturirono i principi fondamentali della nostra convivenza civile. Per lui, come per molti altri interpreti delle diverse culture rappresentate in quell’Assemblea, la Costituzione Repubblicana rappresentò il punto di arrivo di un lungo processo di elaborazione politica, in gran parte condotto in condizione di esilio e persecuzione da parte del fascismo, e il punto di avvio di una nuova fase storica del nostro Paese, caratterizzata dalla dialettica democratica fra tutti i soggetti della vita politica e della società civile, chiamati a concorrere fattivamente alla ricostruzione e allo sviluppo in Italia di un sistema politico e istituzionale capace di garantire l’eguaglianza sostanziale e la giustizia sociale a beneficio di fasce sempre più ampie della popolazione, a partire dai ceti non privilegiati. Un sistema attivo e dinamico nella tutela dei diritti, nella consapevolezza dei doveri, nella difesa della pace e delle Istituzioni democratiche, riconquistate a prezzo di dolore, sacrifici e sofferenza individuale e collettiva. In questa prospettive, il ruolo politico di Togliatti dal suo rientro in Italia, nel marzo del 1944, all’entrata in vigore della Costituzione, mettendo in luce il suo contributo agli sviluppi della vita politica del Paese nel periodo in cui furono poste le fondamenta dell’Italia contemporanea e si esplicò il suo maggiore apporto alla Storia nazionale. Per Togliatti le matrici ideali di quel contributo d'impegno civi-
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Palmiro Togliatti
le e politico traevano origine dalle lotte operaie, nella Torino degli anni Venti, nei rapporti fra capitale e lavoro ed erano maturate nelle esperienze internazionali. Nel perorare il suo rientro in patria, Togliatti aveva messo a punto la proposta politica che avrebbe poi avanzato alle forze antifasciste non appena sbarcato a Napoli e che formò il nucleo saliente della ”Svolta di Salerno”: anteporre la lotta antifascista alla deposizione della Monarchia e costituire un secondo governo Badoglio con la partecipazione del Partito Comunista Italiano insieme agli altri partiti del Comitato di Liberazione Nazionale. Da quel momento la sua azione si sviluppò, tanto nel Governo quanto nella società, con la fondazione di un Partito Comunista di massa e l’innesto del pensiero di Antonio Gramsci nella cultura italiana. In questa prospettiva iniziò a svilupparsi la sua opera volta a inquadrare la resistenza in una guerra di liberazione nazionale, a promuovere la pacificazione del Paese in qualità di Guardasigilli e ad affermare la sua visione della politica estera dell’Italia. Con quell’azione Togliatti offrì il pro-
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prio contributo alla ricomposizione dell’unità della Nazione Italiana, divisa in due dall’occupazione nazista, e al reinserimento dell’Italia nel concerto internazionale, riscattando, sia pure in parte, le responsabilità di un Paese che, fino all’armistizio dell’8 settembre 1943, aveva combattuto la Seconda Guerra Mondiale a fianco dell’alleato nazista e subìto l’umiliazione della sconfitta e del disfacimento della compagine statale. In quell’azione emersero i fondamentali della sua visione della democrazia e dell’organizzazione dello Stato che caratterizzò i contributi più significativi di Togliatti ai lavori della Costituente. Questi contributi mettono in luce la peculiarità della figura di Togliatti nel comunismo internazionale, come leader del solo Partito Comunista che abbia partecipato alla fondazione di una Repubblica democratica ispirata ai valori del costituzionalismo europeo, non venendo mai meno, in seguito, al dovere di lealtà alla sua Costituzione. Una testimonianza della sua ispirazione che consenta di serbarne la memoria, a chi la memoria l’ha persa. A cura di Claudio Calcaterra
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La leggenda del Pagliaccetto
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Il mitico personaggio che dimorava nella Torre. Al suo comando 99 malebranche
ella tenuta di Torrimpietra all’estremità sud-ovest dell’oliveto, si eleva una torre quadrangolare, alta, all’incirca, una quindicina di metri, che poggia su quattro grandi massi calcarei; il tempo l’ha intaccata profondamente ed ora, tutta diruta e smantellata, credo che la Torre de Pajaccetto non adempia che all’ufficio di ricordare una leggenda. Vogliono adunque i nostri bisavoli che ivi fosse un tempo l’abitazione del celebre Pagliaccetto, capoccia del principe Falconieri proprietario della tenuta. Pagliaccetto aveva il dono singolare di comandare a 99 Malebranche, specie di folletti, dei quali si serviva per suo esclusivo comodo, salva la facoltà di adibirli in caso di imperiosa necessità ai servizi della tenuta stessa. Essi difatti con il loro magico potere regalarono, una bella mattina, al fattore la sorpresa dell’uliveto; e così pure, in una sola notte, costruirono i 99 fontanili di quel tenimento; una volta poi che la mésse cadeva in terra per deficienza dei mietitori supplirono i sullodati diavoli alla bisogna e tutto andò per il meglio! Un bel giorno però il Signor Principe - già, questi principi sono sempre gli stessi! - dimenticò le tante obbligazioni che aveva con Pagliaccetto e, su due piedi, lo licenziò. L’amico, senza scomporsi punto, mormorò due parole ai suoi servitori ed allora, incamminandosi egli per andarsene, i buoi, i cavalli, i muli e gli asini, e tutto il bestiame della tenuta gli tenne dietro in una strana mirabolante processione; e man mano che procedeva le lepri, i tassi, gli uccelli e tutti i rettili ed insetti di quella campagna si univano a fargli scorta di onore. È inutile dire che Sua Eccellenza, informato del fatto, si affrettò a revocare l’ordine di licenziamento. In appresso fu un porcaro a dargli fastidio, con lo sfidarlo a tracciare un solco sempre diritto e per la lunghezza maggiore possibile. Pagliaccetto, sicuro del fatto suo, accettò subitamente. Detto e fatto: entrano in una mandra di bovini, aggiogano quattro tori selvatici per ciascuno, come se fossero agnelli, e via con l’aratro per la deserta landa, in direzione del mare.
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Non esistono ostacoli per la loro bravura; i torrenti sono valicati, sfondano le macchie più inaccessibili e, ad un tratto, eccoli addirittura al mare! ...E via così per l’immensa pianura dell’Oceano, dove un altro Mosè - e questo con tanto di autentiche corna! - aveva cura di tenere indietro le acque per far distinguere i solchi. Giunti avanti parecchio i tori di Pagliaccetto si ricusarono di proseguire mentre quelli del porcaro tracciavano sempre innanzi. Allora fu che Pagliaccetto mangiò la foglia, come suol dirsi, e fece al rivale: Di’ un po’ tu. Quanti ne comandi?! - Io? ...Cento! ...e tu?!... - Io? Novantanove! ... - E, allora, t’ho vinto! Gridò il porcaro: e Pagliaccetto perdé la scommessa.
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Cantò poi il Pasquino di quei tempi: “Pagliaccetto co’ la mente fresca Fece chiede perdono alla ventresca: Pagliaccetto co’ la mente dotta Fece chiede perdono a la ricotta”. L’episodio di Pagliaccetto che “fece chiede perdono alla ventresca” si vede dipinto in una bella sala del massiccio casale di Torrimpietra, ove sono anche cardinali e altri personaggi nonché un mezzo busto raffigurante l’effige di Benedetto XIII con sotto questa iscrizione
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Questo papa, Vincenzo Maria Orsini, dalla cui famiglia sono usciti ben altri cinque papi e quaranta cardinali, salì sulla Cattedra di Pietro il 19 maggio 1724 e morì il 21 febbraio 1730. Ma diceva pure il poeta: “Pagliaccetto che stai co’ Farconiere Nun durerà in eterna la tu’ vita Ché all’inferno ciai fatto un ber quartiere Pe’ quanno da sto’ monno fai partito!”. Ed il fatto è questo che, dopo tante prodezze, il povero Pagliaccetto tirò le cuoia come un mortale qualunque. Vuole la leggenda che il suo spirito continuasse a comandare per tre anni successivi alla sua morte e che ancora esista a Torrimpietra, guardata dai diavoli, la bardatura del cavallo di Pagliaccetto. Non so, perché non mi ci trovai, se il famoso capoccia sia tornato in ispirito alla sua tenuta, ma in quanto alla bardatura, posso asserire che, se vedono i miei occhi, là non v’è proprio nulla. Tratto da Usi e costumi della campagna romana di Ercole Metalli (illustrazioni Duilio Cambellotti)
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Scritto a Bracciano da Antony Bergess il sequel di Arancia Meccanica
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Lo scrittore viveva con la moglie Liana in una casa affacciata su piazza Padella stato scritto in una casa che si affaccia su piazza Padella, in pieno centro storico di Bracciano quello che potrebbe essere il sequel più atteso dei prossimi anni. È qui infatti che Anthony Burgess, autore di A Clockwork Orange conosciuto in Italia con il titolo di Arancia Meccanica, ha scritto il seguito del libro dal quale il regista Stanley Kubrick ha tratto spunto per girare il discusso film Arancia Meccanica (1971), una pellicola cult che ha fatto discutere ogni generazione, si è detto, dagli anni Settanta in poi. In questa casa di Bracciano dove Burgess viveva è stato rivenuto un dattiloscritto, chiosato da numerose note scritte a mano dallo stesso scrittore, di 200 pagine nel quale l’autore elabora, sulla scia del primo, nuove importanti riflessioni indirizzandosi soprattutto al condizionamento dei mass media sull’individuo. Il manoscritto, assieme ad altre cose appartenute a Burgess, dopo la vendita della casa è stato inviato a Londra dove ora è custodito dalla Interna-tional Anthony Burgess Foundation. La notizia dell’esistenza di un seguito di Arancia Meccanica ha fatto molto scalpore ed è stata data dallo stesso direttore della Fondazione Andrew Biswell, professore di Letteratura Moderna alla Manchester Metropolitan University a margine dell’apertura della mostra “Stanley Kubrick: The Exhibition” al Design Museum, perché Kubrick innovò anche in fatto di design, in programma a Londra fino al prossimo 15 settembre. “Il lavoro non è concluso ma c’è molto materiale. Se si mette insieme si capisce che cosa avrebbe potuto essere - ha dichiarato Biswell - ulteriori dettagli sull’intero spettro dei pensieri e della concezione che Burgess aveva della cultura, nel periodo immediatamente successivo all’uscita del film”. A fornire i dettagli sul soggiorno braccianese di Burgess è ancora la Fondazione a lui dedicata. “In 1970, Burgess - scrive la Fondazione in una specifica nota - moved with his family from Malta to Italy. They settled in the town of Bracciano, where they bought a fifteenth-century house on the cobbled Piazza Padella. This house would be the centre of Burgess’s creative life until he moved to Monaco in 1975, despite frequent trips to Malta and the United States”. Vengono riportati anche particolari sull’acquisto e sui lavori che lo scrittore, assieme alla moglie Liana, fecero unendo due proprietà contigue, entrambe affacciate
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La casa di Bracciano in Piazza Padella
Antony Bergess nella sua casa di Bracciano
su piazza Padella. “Burgess bought his house on Piazza Padella from the American artist Milton Hebald, who sculpted the bust of Burgess which later appeared on the front cover of his autobiography. Burgess and his wife Liana acquired numbers 1 and 2 Piazza Padella, demolished the dividing walls, and renovated the two newly conjoined properties”. Secondo la Fondazione inoltre Brac-
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ciano “catturò” l’immaginazione dello scrittore tanto da farne un luogo per una sua novella scritta nel 1971. “The town commenta ancora la Fondazione - immediately captured Burgess’s imagination, and it appears in the final chapter of M/F (1971), the novel he began in Malta and finished in his new house. The hero of the novel, Miles Faber has escaped from the island of Castita (loosely based on Malta)
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and has washed up on the shores of Lake Bracciano”. Appassionati di letteratura e di cinema si sono in queste ultime settimane entusiasmati per la scoperta dell’inedito manoscritto tanto che già ci sono trattative in corso per gli acquisti cinematografici. Per gli addetti ai lavori in questa nuova opera, il cui titolo è The Clockwork Condition, l’autore si interroga proprio sul successo avuto dal film. “Riconosco - ebbe a scrivere Burgess di essere stato responsabile, come chiunque altro, del culto della violenza che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni. Nel 1962 pubblicai un romanzo intitolato Arancia Meccanica in cui l’interesse era rivolto ai metodi di repressione della violenza giovanile piuttosto che alla glorificazione dell’atto aggressivo. Dieci anni dopo la pubblicazione - anni caratterizzati da critiche perplesse e da un esiguo numero di lettori - Stanley Kubrick adattò il libro al grande schermo piuttosto brillantemente. La sua versione - spiegò ancora lo scrittore - differiva dall’originale in quanto il regista enfatizzava l’aspetto visivo mentre io ero stato particolarmente attento a con-
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vertire in sonorità - nello specifico, i suoni di una lingua inventata - i cliché della confusione e del delitto. Sia nel libro sia nel film il protagonista, attraverso il lavaggio del cervello, veniva trasformato da un individuo amante della violenza in un automa che vomita al solo comparire di un pensiero violento. La domanda era questa: è ammissibile sopprimere la libera volontà per assicurare la stabilità della società? Tra gli spettatori del film non furono in molti che si resero conto dell’interrogativo: la maggior parte era troppo eccitata dalla violenza per riflettere sulla filosofia del concetto. Come sappiamo, Kubrick e incidentalmente io stesso - osservò Burgess fummo accusati di aver raffazzonato qualcosa che assomiglia alla pornografia violenta. Kubrick ricevette dure minacce da alcuni nemici della violenza. In Gran Bretagna, diversamente dagli altri Paesi, il film venne ritirato e, non essendo stato possibile vederlo, Arancia Meccanica si è guadagnato una reputazione ancor peggiore di quella che merita. Ma, soprattutto, un grande artista cinematografico ha ammesso dinnanzi al mondo che l’arte può essere dannosa. Se Arancia Meccanica può cor-
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rompere, perché non lo possono fare la Bibbia e Shakespeare? E, invero, perché no?”. L’ultra-violenza, teorizzata da Burgess-Kubrick - è stato il concetto che, malgrado le loro intenzioni, ha sopravanzato quello del libero arbitrio che Burgess metteva al centro del suo Arancia Meccanica. Il libro, e con esso il film, hanno avuto molte interpretazioni e non è raro leggere ancora oggi nelle pagine di cronaca nera - “Arancia Meccanica, banda violenta…” - alludendo a rapine e violenze efferate. Il nuovo manoscritto, visti i precedenti, non poteva che suscitare grande interesse. Si tratta di riflessioni probabilmente sentite e sofferte da Burgess guardando il mondo e la società di allora da Bracciano, chiuso tra le mura di una casa lontana dai clamori, all’ombra di un castello. La vicenda mette in risalto inoltre il ruolo che Bracciano ha saputo svolgere in un recente passato, attirando intellettuali da tutto il mondo e che hanno vissuto e apprezzato il paese come un buon retiro dove raccogliersi con sé stessi. Ed anche questa, nel vuoto culturale di questi tempi, per Bracciano resta una epoca che fu. Graziarosa Villani
Gente di Bracciano
La Macchia del Comune di Bracciano
Elezioni europee, queste sconosciute!
Storia e archeologia
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a Macchia del Comune di Bracciano si trova nel settore meridionale del territorio braccianese, in posizione intermedia ravvicinata tra il lago di Bracciano e il mar Tirreno, ad una distanza di circa sette chilometri, in linea d’aria, dall’area archeologica di Cerveteri, che comprende la necropoli della Banditaccia iscritta, insieme alla necropoli dei Monterozzi di Tarquinia, alla Lista del Patrimonio Mondiale Unesco. La morfologia del territorio si presenta come un sistema di pianori e colline alternate da profonde valli boscose, fossi e torrenti che attualmente hanno una scarsa portata di acqua. Si tratta di un’area fertile ricca di risorse naturali. Ad oggi essa è proprietà dell’Università Agraria ed è soggetta, soprattutto, ad attività agricole e pastorali. L’intera zona appare pressoché integra dal punto di vista ambientale, poiché interessata da attività agro-pastorali praticamente da sempre e sono poche e marginali le opere edilizie invasive, quindi è facile scorgere sulla superficie resti della frequentazione umana del passato. Sembra che lo stanziamento umano sia stato particolarmente intenso durante l’epoca etrusca, come anche in epoca romana a partire dal tardo-repubblicano fino ai primi due secoli dell’età imperiale. Diminuiscono le testimonianze relative al tardo impero e sono rare le presenze medioevali. Dopo di che, non si hanno tracce dell’esistenza di insediamenti stabili, ma solo riferimenti ad attività di semina e pascolo. È un territorio fertile per la ricerca archeologica, se non fosse per gli scavi clandestini che nei decenni passati hanno interessato sia tombe che abitati, comportando la perdita irrimediabile di una serie di reperti, quindi di dati storici e cronologici. Sono numerose le vestigia del passato visibili sulla superficie in tutta la zona dell’area, talvolta sono piuttosto ravvicinate tra loro. Da ciò si deduce l’interesse archeologico da considerare anche in funzione dell’importanza e dell’interesse archeologico, storico e paesaggistico dell’intera area circostante. Sporadici ritrovamenti, scavi archeologici limitati, depredazioni, scarse segnalazioni alle autorità, questa zona sembra non essere mai stata sottoposta ad una approfondita attività di ricerca territoriale archeologica e storica. Durante una serie di perlustrazioni di superficie sono stati individuati numerosi siti di epoca etrusca e di epoca romana: tombe sparse, piccole necropoli, brevi tratti di sentieri battuti, resti di ponti di attraversamento di fossi, edifici di epoca romana interpretabili come ville o terme, frammenti di ceramica antica sparsi sulla superficie della campagna, cavità artificiali, presunte opere difensive, sistemi di raccolta delle acque e opere di drenaggio. La presenza di piccoli nuclei, databili tra il VII e il IV secolo a.C., a 200-300 metri di distanza tra loro, lascia supporre l’esistenza di piccoli insediamenti familiari dediti verosimilmente ad attività agricole e pastorali. Ciò sarebbe in linea con lo sviluppo agricolo che, a quanto sembra, in Etruria meridionale toccò il massimo splendore nel VI secolo a.C. e si mantenne apparentemente costante fino al III secolo a.C. Troviamo resti di tombe e di strutture, ville e impianti termali, risalenti al tardo-repubblicano e alla prima età imperiale. Il fatto che una delle principali città etrusche, l’antica Caere, si trovi a poca distanza, fa supporre che il settore in questione fosse sottoposto al suo controllo e che fosse occupato da insediamenti con prevalente vocazione agro-pastorale collegati tra loro da assi viari di comunicazione, sebbene non si possa escludere la loro dipendenza ad un altro importante centro etrusco limitrofo di cui si sono perse le tracce. Il territorio di Cerveteri ha restituito considerevoli testimo-
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Particolare opera di drenaggio di epoca etrusca, Macchia del Comune di Bracciano.
nianze a partire dalla tarda Età del Bronzo e la prima Età del Ferro, periodo in cui si registrano delle modifiche nell’assetto insediativo: sembra, infatti, che si passò progressivamente da un territorio caratterizzato da una fitta rete di villaggi di piccole dimensioni, con necropoli distinte, a pochi centri posti su ampi rilievi naturalmente muniti in aree propizie e favorevoli per l’agricoltura e l’allevamento ove erano anche ampi boschi, fino al formarsi delle città. Accanto ad esse si svilupparono agglomerati sparsi di varia grandezza con peculiari funzioni abitative e produttive: nel caso di Caere vi sono, ad esempio, centri dediti allo sfruttamento dei giacimenti minerari dei Monti della Tolfa; oppure ai piedi dei colli ove c’era la possibilità di controllare i corsi d’acqua e sfruttarne le potenzialità; vi erano anche santuari pressoché isolati costruiti al di fuori dell’area urbana, come testimonia Monte Tosto sulla via di collegamento tra Caere e Pyrgi, come anche insediamenti dediti prevalentemente ad attività di carattere commerciale quali i tre porti di Alsium, Pyrgi, Punicum. Si svilupparono tipi differenti di centri, ciascuno con una funzione ben specifica: città, piccoli agglomerati sparsi simili alle fattorie, villaggi nei pressi di cave, opere difensive come fortezze, poi vi erano le relative necropoli e le strade che li mettevano in collegamento. Dal VII secolo a. C. Caere crebbe di importanza, arrivò a controllare una ampia fascia di territorio di cui non sono ben noti i confini, divenne un crocevia del Mediterraneo centrale ed ebbe rapporti anche con lentroterra. Per gran parte della sua esistenza la città giocò un ruolo fondamentale nella rete di scambi commerciali e culturali con i greci, i fenici, i popoli italici e anche con Roma. Nel panorama di sviluppo della città etrusca, la Macchia del Comune poteva essere una area rurale ove vivevano piccoli nuclei familiari che gestivano in modo autonomo medie o piccole fattorie dedite ad attività agro-pastorali. Si può supporre una capillare occupazione del territorio a partire dal VII secolo a.C., presumibilmente in nuclei organizzati da una autorità centrale che gestiva il territorio secondo una strategia economico-amministrativa incentrata sullo sfruttamento agricolo e pastorale, basata sul sistema economico gentilizio. Dal IV secolo a.C. cominciò un periodo di crisi delle città etrusche culminato nella conquista di Veio da parte di Roma, Caere continuò a vivere mantenendo la sua autonomia fino alla sottomissione a Roma nel III secolo a.C., quando gli stessi insediamenti etruschi vennero poco a poco romanizzati. Lo stesso destino toccò ai piccoli nuclei abitativi della zona circostante. Elena Felluca
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tutto la conoscenza del sistema di governance europea e su questo aspetto si innesta il riscoperto “sovranismo” di tante posizioni politiche che rivendicano mancati be-nefici e una sperequazione (più percepita che non fondata su dati oggettivi) tra il contributo finanziario che l’Italia fornisce all’Unione europea e l’assegnazione dei fondi comunitari. In realtà, prescindendo dalle dichiarazioni elettorali dei vari esponenti politici, il trasferimento fatto da ogni paese europeo è stabilito in rapporto al Pil e l’Italia non è tra i contributori più generosi. L’osservatorio sui Conti Pubblici diretto da Carlo Cottarelli mette in chiaro la differenza tra quanto versato e quanto ricevuto rilevando che, nel 2017, il versamento netto è stato vicino ai 4 miliardi (0,23 per cento del Pil). Secondo i dati pubblicati, l’Italia, in termini assoluti, è stata il quarto contributore netto dopo Germania (12,8 miliardi), Regno Unito (7,4 miliardi) e Francia (4,4 miliardi); mentre, se si fa riferimento alla dimensione del Pil si scende al settimo posto. Sul versante opposto, il contributo netto medio ricevuto nel periodo 2014-2017 è stato di 4,5 miliardi per ogni anno. Un altro aspetto da considerare riguarda la presunta incapacità dell’Italia di riuscire ad utilizzare l’intero ammontare dei fondi stanziati, ricevendo quindi meno risorse di quanto sarebbe stato possibile. Anche in questo caso è bene dare un’occhiata ai dati reali per avere una visione lucida sulla fondatezza dell’affermazione. Sempre sul sito dell’Osservatorio sui Conti Pubblici si legge che l’Italia per ora ha utilizzato solo il 22 per cento dei 73 miliardi stanziati a suo favore nell’intero periodo 2014-2020, più di tre quarti del totale devono ancora essere spesi. Rispetto agli altri Paesi, siamo al 26esimo posto per quota di fondi spesi (solo Croazia e Spagna fanno peggio). A controbilanciare il dato va considerato che l’Italia ha una quota di finanziamenti tra le più alte di tutta l’Europa e l’allocazione e la gestione dell’intera somma non è facile soprattutto perché le difficoltà in cui si dibatte da anni la Pubblica Amministrazione italiana sono un’aggravante che pesa, oltre che sull’intera vita del Paese, anche ed inevitabilmente sulla sua capacità di gestire i fondi comunitari, ostacolata dalla lentezza nella pubblicazione dei bandi per presentare i progetti, dalla complessità di alcune regole burocratiche (per esempio in materia di appalti pubblici), dalla mancanza di competenze di euro-progettazione all’interno del personale di alcune regioni, dall’assenza di liquidità degli enti locali che dovrebbero cofinanziare gli interventi. Che l’Europa sia un’occasione di crescita è chiaro a tutti quei ragazzi e quelle ragazze che hanno partecipato al progetto Erasmus ed hanno passato un periodo della loro vita da studenti in altri Paesi ampliando le loro relazioni ed i loro orizzonti. È chiaro a tutte le giovani imprese che hanno trovato incentivi economici per lanciare un’idea e sperimentarsi nel mondo del mercato. È molto meno chiaro, purtroppo alla nostra classe politica che, anche in questa fase, non trova di meglio che riproporre scontri muscolari con fantomatici nemici della patria senza riuscire a sviluppare proposte e idee su nessuno dei temi che dovrebbero fare la differenza per un futuro europeo. Un’altra occasione persa, anche se ormai dovremmo esserci abituati. Biancamaria Alberi
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i avvicina il 26 maggio, la data delle prossime elezioni europee, eppure non si sentono ancora i clamori delle solite campagne elettorali generalmente molto rumorose e agguerrite. In realtà non sembra che il tema rivesta particolare interesse sia a livello nazionale che, ancora di più, locale. L’unico tema sul quale si sta giocando la ricerca del consenso alle europee è il dibattito infervorato sul sovranismo contro l’europeismo che ben si presta alle solite contrapposizioni e scontri tra leader politici. Non si tratta di un fenomeno solo italiano perché il confronto pubblico sta inesorabilmente peggiorando in tutta l’Europa al punto di mettere a rischio la tenuta stessa dell’Unione Europea che, vale la pena sottolinearlo, è nata all’insegna della solidarietà, dell’unità, della pace e della libertà, con l’intento esplicito di allargare i diritti sociali e civili, il progresso e lo sviluppo, l’uguaglianza tra donne e uomini. Lo stile adottato dalla politica del nuovo millennio con il suo linguaggio violento e sensazionalistico, di fatto, ha trasmesso un senso di vulnerabilità e di insicurezza che di certo non aiuta la fiducia nel futuro e fa gioco solo a politici affamati di consenso ma a corto di idee e senso di responsabilità. Eppure i temi all’ordine del giorno non mancano dal momento che la crisi economica del 2008 ha profondamente cambiato la condizione di vita di milioni di europei pregiudicando la crescita economica, la produttività e l’inclusione sociale in tutta l’Unione. Quale migliore occasione delle elezioni europee per mettere al centro dell’attenzione di tutti i governi le esigenze concrete e sempre più urgenti delle persone che nelle istituzioni cercano un sostegno? Servono dei programmi politici credibili per contrastare le disuguaglianze sociali, per garantire pari opportunità di lavoro a tutti i cittadini europei, per far in modo che i benefici del progresso tecnologico e scientifico siano alla portata di tutti e soprattutto per promuovere lo sviluppo di un’economia sostenibile ed inclusiva. Purtroppo non è questo il panorama che si delinea sul fronte elettorale, al contrario, anche sul piano europeo si afferma un atteggiamento generalizzato fortemente oppositivo. Tanto per rendere l’idea basta citare lo Slogan adottato da “Fratelli d’Italia” per promuovere i suoi candidati europei che è “l’Italia sfida l’Europa”, esplicitamente lontano da qualunque possibile atteggiamento collaborativo. Ancora una volta vincono i toni forti e si allontana la prospettiva di una possibile conciliazione dei conflitti scoppiati tra gli Stati che, dal tema dell’immigrazione a quello dell’economia, non sembrano trovare nessuna soluzione. La Brexit è un indicatore esplicito dello stato di estrema confusione che regna nei Paesi Europei. Manca sicuramente una visione d’insieme, manca soprat-
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Il mondo è un gran bel posto per nascerci
l Mondo è un gran bel posto per nascerci, se non date tanta importanza al fatto che esiste l’inferno per molta umanità, e se non date molta importanza alla gente che muore continuamente affamata, malata, in terra e in fondo al mare. Però fa meno male quando non si tratta di noi (voi)… Il Mondo è un gran bel posto per nascerci… Milioni di essere umani sono condannati a un destino tragico, e milioni si ribellano contro la loro sorte. Il Mondo è un gran bel posto per nascere. Per il bene, la stupidità è un
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nemico più pericoloso della malvagità…Il fatto che lo stupido sia spesso testardo non deve ingannare sulla sua mancanza di indipendenza. Parlandogli, ci si accorge addirittura che non si ha a che fare direttamente con lui, con lui personalmente, ma con slogan, spot, propaganda, bugie, ecc. da cui è dominato. La verità esiste, il resto non è che questione di punti di vista. L’uomo è l’unico animale che non apprende nulla senza un insegnamento: non sa parlare, né camminare, né mangiare, insomma non sa far nulla allo
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stato di natura tranne che piangere… La parola più alta della nostra lingua, la parola per la quale tanta gioventù sotto il fascismo morì è “Libertà”. Il triste giorno che il fascismo prese il potere in Italia a rimetterci più di ogni altro sono stati gli ingenui, gli ignoranti, i semplici, mentre gli opportunisti e i farabutti arsi dall’ambizione di potere e prevaricatori delle libertà di tanti che non la pensavano come loro, hanno permesso che nascesse un regime dittatoriale e funesto. Claudio Calcaterra
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Diario Romano
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Piaga delle cavallette: il papa le scomunica
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e Genti della Terra di Formello, et altri convicini della campagna di Roma vennero a supplicare al papa, che volesse scommunicare et maledire una infinita quantità di Grilli, o Cavallette, le quali distruggevano li Grani ed biade di quel paese. Il Papà le scommunicò, et maledisse, et mandò tre vescovi di quelle parti a scommunicarle et maladirle, et a commandarli, che se ne
Fiat Lux per opera dell’Elimosiniere del Papa, Cardinale Konrad Krajewski
n data 11 maggio 2019 sul far della sera l’Elemosiniere del Papa Francesco, cardinale Konrad Krajewski, si calò nel vano elettrico di un palazzo in via Santa Croce in Gerusalemme togliendo il sigillo apposto per morosità al contatore della luce di uno stabile che era stato occupato sei anni prima da famiglie con disagio abitativo. Prima di riattaccare la corrente l’elemosiniere chiamò la Prefettura e il Campidoglio avvisando di quello che stava per fare. E, dopo aver ripristinato la luce, lasciò sui contatori il suo biglietto da visita perché fosse chiaro chi avesse compiuto il gesto. Nello stabile di proprietà di una società vivevano oltre 400 persone tra i quali cento bambini. Tra gli abitanti anche persone malate che necessitavano di dispositivi medici alimentati a corrente elettrica. L’ammontare dell’insoluto era di 300mila euro. “Dal Vaticano ebbe a dire il Cardinale - mandavamo l’ambulanza, i medici, i viveri. Stiamo parlando di vite umane. La cosa assurda è che siamo nel cuore di Roma. Quasi cinquecento persone abbandonate a sé stesse. Sono famiglie che non hanno un posto dove andare, gente che fatica a sopravvivere”. La riattivazione della corrente, gesto del quale il Cardinale si assunse ogni responsabilità, venne accolto da un gran giubilo e da gran clamore. Il Palazzo Inpdap, all’incrocio tra via Statilia e via di Santa Croce in Gerusalemme ed esteso per oltre 21mila metri quadrati di stanze, era una proprietà del fondo Fip di InvestiRe sgr, il ramo immobiliare del Gruppo Banca Finnat, che ebbe a gestire in quegli anni un patrimonio di oltre 7 miliardi di euro distribuito su 44 fondi immobiliari. Solo a Roma, possedeva 123 immobili. Il palazzo era stato occupato il 12 ottobre 2013 da circa 150 famiglie in disagio abitativo. “Il Cardinale - ebbe a raccontare un occupante al giornale del Vaticano Avvenire - è arrivato nel pomeriggio di ieri, verso le 17, a bordo di un furgone carico di regali per i più piccoli. Sapeva che eravamo da tre giorni senza corrente. Appena giunto ha chiamato al telefono in prefettura e al Comune di Roma chiedendo di riattivare, entro le otto di sera, l’energia elettrica altrimenti lo avrebbe fatto lui stesso. E così è stato. Un quarto d’ora dopo il cardinale è tornato, ci ha spiegato che era competente di energia elettrica perché prima di prendere i voti, in Polonia, aveva lavorato nel settore. Ha di nuovo chiamato le autorità cittadine per esplicitare il suo intento, poi si è calato nella buca dove c’è il nostro impianto di media tensione, ha attuato una serie di manovre, come si usa nel gergo tecnico, e la luce è tornata. Non so bene come abbia fatto, ma lo ha fatto”. Grande l’attenzione del pontificato di Papa Francesco, che non a caso fu il primo a scegliere il nome del Poverello di Assisi, per le persone in difficoltà economica. Tra le azioni che mise in atto anche la predisposizione di docce per i senza dimora presso una struttura allestita a pochi passi da piazza San Pietro. Furono anni di grande crisi economica, segnati da forti diseguaglianze tra i più ricchi e i più poveri. Pesantissime in quel periodo anche le tasse che venivano escusse da Equitalia, che di equo non ebbe nulla, prima e poi dall’Agenzie delle Entrate. (Maggio 2019)
“È la fine...!!!”
Il Cardinale tra gli abitanti del palazzo di via Santa Croce in Gerusalemme
padrone della Casa per la puzza, che si sentiva fece aprire la porta, et trovatavi quella cassa con quel morto, fu riconosciuto, et nell’istesso giorno l’homicida fu fatto prigione. (Maggio 1635)
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Amore tragico tra una monaca ed un giovane ferrarese
n giovane ferrarese essendo innamorato di una monica di Casa Alaleona nel Monastero di S. Croce a Monte Citorio; essendo tra di loro d’accordo di ciò, che pensavano di fare, il giovane andatonese a casa disse al suo Servitore, che lui voleva andare per alcuni giorni fuori Roma, et però d.o servitore portasse a quella Monica di Monte Citorio quel giorno stesso una cassa, pregandola a tenerla in custodia per alcune Robbe d’importanza, che dentro vi erano, finché lui tornasse di fuora. Dopo questo egli si serrò in quella cassa, ma il Servitore, non sapendo, che dentro vi fusse il padrone, trascurò di portarla subit, di modo che quando la portò, il padrone vi si era dentro soffocato. La Monica, che haveva la chiave, ricevuta, che hebbe la cassa, et portatesela in camera l’aperse et trovatovi dentro quel giovane morto, o come dicono alcuni, che spirava allora, dopo di essere stata un pezzo afflitta sopra modo, finalmente fu forzata di scoprire il tutto all’abbadessa, dalla quale ne fu avvisato il Vicario del Papa, et finalmente la Monica fu nel detto Monasterio murata, la quale era molto, bella, et giovane di dicidotto anni.
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Monsignore uccide Mercante suo creditore
onsignor Amodei Venetiano, che habitava vicino a S. Andrea della Valle mandò a chiamare un Mercante suo Creditore, dicendo che voleva fare li conti seco, quando il Mercante arrivò, Monsignor fece serrare le porte, et poi egli stesso insieme con un altro Servitore lo ammazzorno, il Servitore fuggì subito, ma il Prelato se n’uscì di casa, et si ritirò a S. Andrea, dalla qual chiesa poi fu fatto uscire per opera di uno Spione, il quale travestito gli andò a parlare, e lo consigliò, che era meglio, che se ne tornasse a casa, e non temesse di cosa alcuna, et così essendo uscito di Chiesa fu subito preso dalla corte, et menato in torre di nona. (Maggio 1635). Alli 14 di luglio fu tagliata la testa in prigione a Monsig. Amodei sopradetto per l’homicidio, che haveva fatto, et altri delitti, et particolarmente per le pasquinate, che gli furono trovate. Il suo corpo stette esposto in ponte per un hora, et poi fu portato alla Chiesa di S. Salvatore del Lavoro, dove stette tutto il giorno, et poi la sera a notte fu portato a seppellire a S. Marco, perché era Venetiano. (Luglio 1635).
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Cappellano ucciso da un Monsignore
ccorsero in pochi giorni diversi homicidii fra li quali questi furno notabili. Il Mastro di Casa di Monsig. Amadio spagnolo ammazzò un Cappellano di d.o. Monsig.re, et poi lo pose in una cassa, et lo fece portare in trastevere in una casetta, che lui prese a pigione vicino al ponte di S. Maria, et quivi lo serrò dentro a chiave con intenzione di buttarlo poi in fiume. Ma il
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andassero al mare per il Tevere alla volta del Tevere. Et fu cosa meravigliosa a vedere, che quelli Animali correvano alla vola del Tevere, et lo riempirno in guisa, che l’acqua non si vedeva, et era negro come l’inchiostro, et per ‘aria se ne vedevano tanti, che parevano nuvoli, et le Genti, che stavano appresso alla ripa del Tevere bisognava che stessero di continuo scopandole, et respingendole nel’acqua, perché, se saltavano in terra, distruggevano ogni cosa; si come fecero nell’Orto de’ Frati di S. Bartolomeo nell’Isola a Ponte quattro Capi, che rosicorno sino alle scorze delli Alberi, et durò il Tevere a scorre in tal modo per molti giorni. (Maggio 1653).
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borze, la borza nostra com’annata? Quanto avemo guadagnato? E Alfonso, triste, triste, “semo annati pe stracci!”, E Giuseppe “E l’investimento?”, “Sotto un treno”. Alfonso e Giuseppe si guardano, poi, insieme, “È proprio la fine…!!!”. Qualcuno impietosito: “Coraggio”. La risposta: “È ‘na parola!!”. Davanti alla banca una fila di persone discute animatamente, chiedo, “Ch’è successo?”. Mi rispondono in coro: “I bancomat non funzionano”, uno, “saranno bloccati”. Mi scappa un “la banca avrà finito i soldi”, si alza un coro di “nooo”. Due anziani, “mo’ ce toccherà rompe er sarvadanaio der nipote”: “È la fine…!!!”. Al supermercato sento discutere “Carmé me raccomanno ‘nu spenne troppo”, “a Francè allora che faccio, er boccione der vino nun lo compro?”. E Francesco: “A Carmé se nun se potemo permette nemmeno un boccione de vino, allora davvero è la fine”, e riprende “Carmé me toccherà ‘nbriacamme cor the”, “Sì” risponde Carmela “ma co’ quello che costa poco”, “E tu Carmé?”, “A me me toccherà famme na camomilla”. Carmelo e Francesco si guardano, poi, insieme: “È la fine…!!!”. Luigi Di Giampaolo
da un po’ di tempo che si sente dire: “È la fine…!!!”. È una esclamazione lanciata da qualcuno, forse per gioco, ma che sembra abbia avuto successo. Eh sì! È una esclamazione disgraziata, addolorata e pure, come va di moda oggi un po’ “sfigata”. Una persona inciampa e zoppicando e saltellando, guardando in alto: ahia, “È la fine…!!!”. Un’altra vedendo la fila davanti ad uno sportello: “e mo’ che è tutta sta gente?”. “È la fine…!!!”. Una vecchietta davanti al banco della frutta, di fronte al prezzo delle pere: “da na lira semo arrivati a… - e inforcando gli occhiali - a tutti sti ‘euro, ahó, manco le pere se ponno più comprà e nemmeno magnà”, “È la fine…!!!”. Al bar, poi, “Giovà, lascia perde er giornale, nun c’è na notizia bona: ammazzamenti, corna, tasse…”, e Giovanni sconsolato: “È la fine…!!!”. Alfonso, da un tavolino accanto, scorre con trepidazione la pagina dell’economia: “Vediamo la borsa di Tokyo, di Amsterdam, di New York”. “Alfò”. Lo interpella l’amico Giuseppe, con la tazzina di caffè a mezz’aria, “ma co tutte ste
CARLO
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