Gente di Bracciano Settembre 2016

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Gente di Bracciano Settembre 2016 numero 10


Umberto Terracini: la voce critica della sinistra

Gente diBracciano

Settembre 2016 - Numero 10

Fu tra i fondatori del Pci. Al “processone” del 1928 ebbe la condanna più dura

Dedicato a Ninetta

Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente: Claudio Calcaterra

Direttore responsabile: Graziarosa Villani

Redazione: Francesco Mancuso, Vittoria Casotti, Mena Maisano, Biancamaria Alberi, Luigi Di Giampaolo

Collaboratori: Massimo Giribono Fabercross, Pierluigi Grossi Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014

Stampa e impaginazione: FEDE 2011 srl Via dei Vignali, 60 - Anguillara Sabazia su carta riciclata Foto di controcopertina di Vinicio Ferri foto di copertina a cura di

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C Impegno, libertà e democrazia

S

cegliamo di esserci, noi cittadini di Bracciano, coll’impegno nel lavoro, nella società, nel sociale, nelle lotte necessarie per ridare fiducia e prospettive nella crescita della nostra, (vostra), bella città. Ritroviamo il coraggio di essere una comunità schierata dalla parte di chi lavora, di chi il lavoro non ce l’ha, per difendere i diritti e le tutele dei giovani e degli anziani, per vigilare sull’ambiente, sulla sanità, sul diritto di cittadinanza di chiunque si impegna a rispettare il luogo dove vive con rigore ed onestà. Quale dignità, rispetto per la persona, possibilità di condurre una vita serena e fondata sui valori condivisi si possono avere quando è l’esistenza stessa ad essere minata, nei suoi fondamenti da insicurezza e precarietà. Le campane che da tanti pulpiti suonano a lutto per partiti ed organizzazioni sociali, mai come in questo momento appaiono strumentali al potere di pochi a danno di molti. Per questo le ragioni dell’impegno costante devono prevalere sugli egoismi di parte, sul menefreghismo latente, sugli interessi personali, per essere più vicini alle persone nel rispetto delle differenze e delle rispettive storie personali e collettive. Infine, è in questa logica che vanno difese la libertà degli individui e la democrazia nella nostra (vostra) città e nel Paese Italia. Claudio Calcaterra

oerente alla sua fede comunista, sempre e comunque, Umberto Terracini, è una figura unica nel Novecento, un uomo che non è venuto mai meno alla sua coerenza di fondo, né davanti ad un tribunale politico, né davanti al suo stesso partito. Fu segretario del PCI, prigioniero, esule, partigiano, presidente dell’Assemblea costituente, senatore ed avvocato. Instancabile fino agli ultimi giorni. Nato a Genova nel 1895, nel 1911 aveva già dato la sua adesione al movimento operaio organizzato. Nel 1913 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, dove conobbe Palmiro Togliatti. Risale al 1916 il suo primo arresto. Venne accusato di propaganda antimilitarista. Dopo alcuni mesi di reclusione gli toccò ugualmente il fronte nella zona di Montebelluna combattendo tra 1916 e il 1917. Alla fine della guerra riprese gli studi laureandosi nel 1919. Nel 1920 Terracini rappresentò il gruppo dell’Ordine Nuovo di Torino nella direzione del Partito Socialista Italiano Nel 1921, al Congresso di Livorno del PSI, fu tra i protagonisti della scissione che diede vita al Partito Comunista Italiano. Nel 1923 si trasferì a Mosca, dove partecipò al dibattito che porterà all'affermazione del nuovo gruppo dirigente del partito, intorno a Antonio Gramsci. Tornato in Italia venne arrestato nuovamente ad Agrigento nel 1924. Liberato dopo pochi giorni fu ancora una volta catturato a Milano nell'agosto 1925 scontando alcuni mesi di carcere. Nel 1926 fu arrestato ancora per reati attinenti al sovvertimento delle istituzioni statali. Uno storico del Pci come Paolo Spriano scrive: “c’è un episodio che basterebbe da sé a consegnare Terracini alla storia del partito. Fu lui, nel “processone” del 1928, a ergersi da imputato ad accusatore, dinanzi al Tribunale Speciale, ad usare tutto il sarcasmo rivoluzionario di cui era capace contro un regime tirannico trionfante che pure mostrava di avere paura di quella piccola “falange d’acciaio” di comunisti fuorilegge e perseguitati. Anche per questo – commenta ancora Spriano - Umberto Terracini ebbe la condanna più dura, a ventidue anni, due più di Gramsci, di Scoccimarro e di Roveda”. Terracini scontò il primo periodo di segregazione a Santo Stefano e, dopo una mobilitazione internazionale di denuncia per le sue gravi condizioni di salute, venne condotto all'ospedale carcerario di Firenze. In seguito fu trasferito a San Gimignano, quindi a Castelfranco Emilia e infine a Civitavecchia dove soggiornò fino al 1937. Nei giorni della prigionia Terracini non mancò di criticare il partito, manifestando apertamente il proprio dissenso rispetto alle previsioni politiche formulate dalla maggioranza in linea con le tesi del Comintern, rifiutando l'identificazione della socialdemocrazia col fascismo. Nel 1937, beneficiando del decreto di amnistia e indulto, fu scarcerato, ma subito inviato al confino a Ponza. In questa fase, Terracini sostenne che il nemico da battere era il nazismo e che la vittoria delle forze franco-inglesi avrebbe comunque permesso alla classe operaia, una volta ripristinate le più elementari garanzie democratiche, di riorganizzarsi. Una posizione che lo vide oggetto nel 1942 di una risoluzione di condanna del partito, al quale seguì nel gennaio 1943 una delibera di espulsione. Nell'agosto 1943, con lo scioglimento della colonia di confino, Terracini tornò libero ma, senza l'appoggio del par-

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Umberto Terracini

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tito, fu costretto a riparare in un campo profughi in Svizzera. Deciso comunque a contribuire alla lotta in di liberazione, passò clandestinamente la frontiera e si unì alle formazioni partigiane che occuparono l'Ossola. Nel 1944 Terracini venne riammesso al Pci e nell'aprile 1945 la segreteria del partito lo invitò a raggiungere Roma. Il 2 giugno 1946 venne eletto deputato all'Assemblea costituente, per la quale ricoprì la carica di vicepresidente. L’8 febbraio 1947 subentrò poi a Giuseppe Saragat, alla carica di presidente dell'Assemblea costituente. Fu tra i protagonisti di molte battaglie parlamentari tra le quali quella, nel 1953, contro la cosiddetta "legge truffa". Per Aldo Tortorella “vi era, nella sua lealtà e fedeltà di militante e di dirigente, un altro convincimento; o, meglio, un’altra dote dell’animo. Era convinto che le idee ch’egli considerava giuste avrebbero finito con l’affermarsi, così come, in realtà, più volte era avvenuto nel corso della sua esistenza. Non si trattava, cioè, come pure può talvolta accadere, di quella fermezza che scade nell’ostinazione e che genera cosi lo scontro e la rissa. Era piuttosto il pacato convincimento sulla forza delle verità semplici, fondate sull’eloquenza delle cose”. Un Terracini privato arriva dalle parole del figlio adottivo Oreste Bisazza Terracini, anche egli avvocato (ha difeso la comunità ebraica romana nel processo al gerarca Erich Priebke). “Ho avuto da lui un grande insegnamento di vita – confida il figlio in una intervista al Corriere della Sera - che consisteva nella sua estrema semplicità di comportamento. Era un uomo che restava esattamente uguale in tutti i rapporti interpersonali, avendo in casa lo stesso comportamento che aveva all’esterno, comportandosi nello stesso modo sia con gli ‘umili’ sia con i potenti”. Terracini morì a Roma il 6 dicembre del 1983 all’età di 88 anni. All’esequie in piazza Montecitorio molti militanti comunisti salutarono il feretro a pugno chiuso. A cura di Claudio Calcaterra

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La Bracciano del monticiano Salvatore Pierini

Nella memoria del presidente della Pro Loco rivivono ricordi e personaggi d’un tempo

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ncontro Salvatore nella sede della Pro Loco (dal latino, letteralmente “a favore di un luogo”) di Bracciano, un ingresso pieno di oggetti delle attività svolte e una stanza piena di fotografie, memorie di sagre, feste, gemellaggi, sfilate in costume, dove intravedo Salvatore una volta in abito da frate, una volta da cavaliere medioevale, una volta da “presidente”. Gli chiedo come si chiami e lui di rimando…mi chiamo Salvatore Pierini, peso 66 chili, sono alto un metro e settanta circa e sono monticiano doc, di MonteTonico…e nel dirlo sprizza un’accattivante ironia dai suoi occhi vispi, ha i capelli bianchi annodati in un codino civettuolo, baffi e pizzetto risorgimentali, un braccialetto della fortuna al polso, occhialetti di un celeste antico e mi chiede cosa debba dire…quello che ti urge…gli rispondo. Ci pensa un attimo e…avevo 4 o 5 anni, ci fu un incendio nel negozio del calzolaio e rimasi affascinato da un pompiere che indirizzava il getto d’acqua contro le fiamme, lui lì impavido e tutto attorno panico, urla e strilli concitati, nacque così la mia voglia di sperimentare il lavoro di pompiere, che feci per un periodo della mia vita. Era il tempo del Dopoguerra, povero e avventuroso, ricordo che andavamo sempre a caccia di un cerchione di bicicletta per farlo “correre” con un bastone a pilotarlo…io, poi, avevo come una frenesia di arrampicarmi sugli alberi e sui muri, dove amavo guardare gli stormi di rondoni che veleggiavano in cielo…e poi, spacca picchio e le palline di vetro colorate, fermo lì con i piedi a 90° pregando che l’avversario non riuscisse a toccare la mia pallina, a portarmi via la mia pallina o a fare buchette dove indirizzarla…ricordo che Don Cesolini non voleva assolutamente che si giuocasse sotto la sua casa, c’era sempre qualche urlo, qualche parolaccia che volava, qualche baruffa, specie tra due bambini sardi e poi le ragazze che lui voleva a casa, al loro posto…una sospensione, breve e…lui era un animatore nato, fondò gli scout a Bracciano, quelli di San Celso…spesso noi, per sfuggire alla sua ira ci nascondevamo su alla Collegiata, nei portoni, ma non c’era nulla da fare, lui era sempre più furbo di noi e ci acchiappava sempre, con quella sua tonaca nera agitata ci sembrava un vam-

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Salvatore Pierini

piro pronto a colpire le sue vittime sacrificali…Mena Maisano mi ha accompagnato con Claudio all’incontro con Salvatore, anche Mena è monticiana doc e tra loro ogni tanto parte un trenino di ricordi comuni che faccio fatica a registrare, è il loro mondo antico e sento di non doverli interrompere…se fai un figlio tristo mannalo a servì Gesù Cristo…è un detto che scambia con Mena, credo lo riferisse al fatto che lui e la sua compagnia di piccoli braccianesi erano tutto tranne che “tristi”. Gli chiedo come avesse vissuto il periodo della scuola…non era fatta per me, già dalla terza elementare era più il tempo che passavo all’aria aperta che quello a scuola, la mattina facevo finta di entrare, poi via per i campi uscendo dalla porta di servizio…ricordo il maestro di matematica, Romolo Cicalè…e non so se è il cognome o uno dei tanti soprannomi che si affibbiano spesso alle persone…era bravo, insegnava la matematica attraverso il disegno pedagogico, ma non faceva per me e poi, scienze naturali, ma quali libri, l’imparavo per i campi inseguendo lucertole e farfalle, mangiando frutta succosa sull’albero del vicino, quale migliore scuola!...Mi dicevano che ero un po’ folle, ma che parola difficile da comprendere in quei tempi…si sviluppa un altro duetto con Mena, parlano del-

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l’uva e delle ciliegie che rubavano sugli alberi…io ero come Tarzan, m’arrampicavo più svelto di una scimmia e che dire delle nostre visite al casolare del castello dove tenevano i cavalli! il letame veniva buttato giù nella scarpatella e aveva formato uno strato che ci aiutava a raggiungere le bacche del lauro ceraso di cui facevamo scorpacciate e pensare che poi ho saputo che sono tossiche, ma a quei tempi non si andava troppo per il sottile…una sospensione, un refolo di tempo e…quell’anno dovetti fare la quarta e la quinta insieme, mi avevano bocciato alla terza per via delle mie “scappatelle”, la mattina a scuola e il pomeriggio a imparare un mestiere nella bottega del falegname, dar sor Antonio, a me pulire trucioli e scarti, il lavoro più professionale era quello di scartavetrare i pezzi finiti, olio di gomito e la sera braccio dolente e sonno assicurato…un lampo civettuolo e…sai ho imparato prima a nuotare che a leggere e scrivere, giù al fontanile, poi quando ci rivestivamo una mano “sotto” per vedere se eravamo bagnati, tanto per non prendere botte a casa, era proibito fare il bagno, altrimenti ad asciugarci con l’erba e ogni tanto ci scappava anche un ciuffo d’ortica, con risultati fastidiosi, molto fastidiosi…una volta salvai un amico che era caduto trascinandosi dietro un sasso dal quale non riusciva a liberarsi, mi bagnai tutto e quella notte furono botte, alleviate dal mio gesto di eroica solidarietà…ho sorriso a quella rima baciata sgorgata dai suoi ricordi, notte, botte…nuova sospensione, un po’ più lunga e…a 18 anni ho avuto il mio primo libretto di lavoro, lavoravo in un mobilificio a Due Ponti, sveglia alle 5.30, arrivo alle 8, uscita alle 17, arrivo a casa alle 20.30, una zuppa, carosello e via a crollare nel sonno. Prendevo 3.500 lire a settimana, a me spiccioli, il resto a casa, per mandare avanti la famiglia…un sospiro e ne viene fuori un momento denso di emozione…sai fino ai dodici anni sono stato un “teppistello”, poi sono diventato saggio…si ferma, mi guarda, quasi volesse ritirare quelle sue belle parole e…in quel periodo fu indetto uno sciopero generale dai sindacati perché i soldi erano pochi…gli chiedo come visse quella giornata…non avevamo consapevolezza ma c’era curiosità, entusiasmo, ma anche paura quando la

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celere attaccò la manifestazione con i manganelli spianati, io cercai riparo in via del Corso, lontano dalla bolgia che s’era creata…una sospensione e…poi andai a lavorare nei cantieri di Vigna Clara dove si fabbricavano caldaie, io dovevo tagliare con la fiamma ossidrica dei gomiti del circuito delle caldaie, il lavoro era sempre pesante ma guadagnavo 1.500 lire al giorno, il doppio di prima, il 70 per cento a casa, il restante a me per le mie spese…ricordo ancora la badenia, quella campanella che indicava l’inizio del lavoro, ma anche la sua fine, gioia e dolore della vita di un giovane braccianese…non so per quale filo della sua memoria Salvatore ricorda a sé e a noi la scuola professionale di Trevignano, la Casa del Fanciullo, poi riparte…a 19 anni sono andato a fare il militare, arrivai a Pisa, volevo fare il paracadutista, con tre giorni di ritardo causa del torneo di rione, già rischiai brutto, poi mi mandarono via, sai, il tenente della folgore era un dux in pectore e venne a sapere che mio zio Renato era nella segreteria del PCI di Bracciano, un parà non poteva avere simili parenti, così mi ritrovai in fanteria a Pesaro…vedo che Salvatore sta rincorrendo un pensiero e…mio padre ha avuto meno fortuna di me, lui è stato nella campagna d’Africa quando Mussolini mandò a morire tanti giovani per il suo sogno di un’Italia imperiale, da lì nei Balcani e poi in Grecia e poi in Albania e infine in Russia, si salvò perché fu ferito e quindi rimpatriato…gli chiedo di parlare di sua moglie e…sai ricordo ancora quando la conobbi, 26 gennaio del 1969, a quei tempi lavoravo nell’impiantistica termica, ero uno specialista nel saldare plastica e piombo…ero andato al circolo dove suonava la band di Franchino Puzzetta che doveva quel suo soprannome al fatto che andava sempre in “puzza”, famose le sue incazzature, e lì incontrai Marcella che era venuta al circolo con sua cugina, mi apparve come la Madonna di Medjugorje, aveva un cappottino tutto bianco e poi, quel suo viso intrigante, un po’ spavaldo, era bellissima, così, io che me ne intendevo, feci un attacco di sponda, mi intromisi tra lei e la cugina e quattro anni dopo ci sposammo…nel frattempo fui assunto in un’azienda che riceveva commesse di lavoro dall’ENEA, ero ormai un saldatore super specializzato, avevo un capo che “zagajava” vistosamente, ci metteva mezz’ora a dirmi che io facevo i lavori sempre di testa mia, ma quasi sempre a ragione…sai abbiamo realizzato noi i misuratori di polvere nucleare ai tempi di Chernobyl per stimare il livello delle radiazioni in Italia…una piroetta e…sai, nel 1976 e nel 1992 sono nati PierGiorgio e Gianmarco, i miei cari figliuoli…gli chiedo

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come mai tanto tempo fra l’uno e l’altro, e lui, divertito, chissà quanti gli hanno fatto la stessa domanda, mi dice…guarda che non fu un incidente di “lavoro”, a un certo punto abbiamo desiderato un secondo figlio ed è stato come se li avessimo cresciuti in due vite diverse…si ferma, quasi fosse arrivato al capolinea del suo racconto, io insisto e gli chiedo di proseguire, ma Salvatore si trincea nella Pro Loco…sono quattordici anni che faccio il presidente della Pro Loco, una sana voglia e una sana necessità per la mia vita…sempre all’erta per ricucire i problemi che a volte nascono nel rapporto con le contrade…poi tira fuori album e album di fotografie e scorrono le immagini delle attività che ha contribuito a far nascere e vivere: il “gemellaggio” con Lugo di Romagna con scambi culinari e dei mercatini artigianali, la sottoscrizione per rifare il campanile di Santo Stefano,

la sagra del latterino che ha funzionato solo per pochi anni, la processione del Santissimo Salvatore con tanto di buoi a trascinare l’aratro, gioia e dolore dei vecchi contadini, l’esperienza sfortunata della mongolfiera che non riuscì a decollare per i venti fortissimi che ne sconsigliarono la partenza. Abbiamo passato più di mezz’ora tra foto e lampi di racconto, Salvatore ha un sorriso antico per ogni foto che ci mostra, con guizzi ironici e occhi birichini, poi avverto che la nostra chiacchierata è all’epilogo, cerchiamo tra le foto quelle da inserire nel giornale, Claudio e Mena ne portano via altre, molto belle, utili per la copertina del giornale, poi ci salutiamo, con allegria e riconoscenza, quasi che quel narrare di sé avesse creato un’atmosfera amicale. Grazie Salvatore. Francesco Mancuso

Alcuni componenti della Pro Loco di Bracciano posano in abiti rinascimentali al Castello Odescalchi

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Da millenni la meraviglia del lago

Mosaico a tessere litiche bianche e nere riferibile al II/III secolo d.C. rinvenuto negli anni Sessanta del Novecento nell'area del centro "urbano" di Forum Clodii

Geologia e storia sulle sponde del bacino lacustre

È

pressoché impossibile immaginare Bracciano al di fuori del contesto del lago e senza legami con esso. Il lago ha costituito, infatti, l’elemento caratterizzante dell’assetto e dello sviluppo del territorio a partire da circa 200.000 anni fa, cioè da quando si è formato a seguito delle eruzioni vulcaniche. Più precisamente, la sua formazione è avvenuta nell’arco di circa 100.000 anni, nel periodo che intercorre dai 280.000 ai 170.000 anni. È un tempo, quindi, abbastanza recente rispetto alla emersione dal mare di queste terre, avvenuta per la prima volta circa 20 milioni di anni fa. L’emersione non fu costante e definitiva, bensì fu soggetta a fenomeni di sollevamento ed abbassamento della crosta terrestre, chiamati “bradisismo”, che comportavano il continuo andirivieni del mare, alternando periodi di emersione ad altri nei quali la terra rimaneva coperta dalle acque, con conseguente formazione di depositi sedimentari. In questo periodo, infatti, tutta la zona, che attualmente è occupata dal lago, era ancora solo una grande pianura ricoperta da sedimenti marini ed arrivava fino al Monte Soratte. Successivamente cominciarono a

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manifestarsi le prime attività vulcaniche che interessarono, a partire da circa 2 milioni di anni fa, dapprima il territorio tra Tolfa e Manziana a cui seguirono, circa 450.000 anni fa, quelle riferite proprio alla zona del futuro lago. Tutta questa attività eruttiva aveva provocato il parziale svuotamento del sotterraneo bacino magmatico di alimentazione comune ai vari vulcani causando uno sprofondamento che ha dato origine alla conca che ha poi ospitato l’attuale lago. La sede occupata oggi dal lago, quindi, nella parte centrale non è stata mai una bocca eruttiva ed i vari crateri erano posti nei dintorni.Si tratta di una cavità di grosse dimensioni, di forma pressoché circolare, che in geologia viene denominata “caldera”, o anche “caldara”, termine preso dalla lingua spagnola, che letteralmente significa caldaia e che si forma per cedimento e sprofondamento degli strati di roccia e terreno sovrastanti a seguito di una forte eruzione. Il termine “caldara” è rimasto come toponimo per indicare quella zona di Manziana dove sono presenti, e tuttora attivi, residui di quello che viene definito vulcanismo secondario, cioè esalazioni di gas che conten-

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gono anidride solforosa e determinano la formazione di polle d’acqua gorgoglianti. Tali manifestazioni possono essere osservate, inoltre, sia presso la “Mola” di Oriolo che presso il torrente “Bicione” sottostante le rovine di Monterano. Per molto tempo le popolazioni locali hanno ritenuto erroneamente che al centro del lago fosse presente un enorme cratere, ma già all’inizio del 1800 Saverio Barlocci, professore di fisica alla Sapienza, così ipotizzava: “…la grande estensione che occupano in oggi le acque di questo lago, devesi piuttosto attribuire ai successivi avvallamenti del piano...”. Bisogna attendere però alcuni millenni, rispetto a quando si era formato, per vedere popolarsi le rive del lago da parte dell’uomo, che iniziò a costruire le proprie dimore in prossimità di fonti d’acqua. Il lago rappresentava pertanto il luogo ideale dove raggruppare le capanne o palafitte. Il primo insediamento umano di cui si hanno testimonianze certe è quello ubicato in prossimità di Anguillara, località “La Marmotta”, ed i cui ritrovamenti più significativi sono custoditi nel Museo Pigorini di Roma. Il villaggio è stato attivo per almeno

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400 anni: l’esame dei tronchi che sostenevano le capanne ha infatti consentito di datare l’evoluzione del villaggio che appare fondato circa nell’anno 5.750 a.C. ed abbandonato all’improvviso intorno al 5.260, presumibilmente per un repentino innalzamento dei livelli del lago. Gli oggetti sono stati infatti rinvenuti in ottimo stato e nelle posizioni di utilizzo, perfino con recipienti pieni di cibo, il che lascia presupporre il verificarsi di un evento straordinario. Le prime testimonianze scritte sul lago risalgono al periodo romano, quando gli fu attribuito il nome di “lacus Sabatinus”, in relazione alla mitica città di Sabate, o Sabazia, che la tradizione voleva fosse stata distrutta in tempi passati. Con la conquista romana, infatti, tutta la zona fece riferimento al termine “sabatino” che, oltre al lago, classificò pure i “colli sabatini”. Dopo la sconfitta di Veio fu creata la “tribù sabatina” come ricordato anche da Tito Livio. Un altro storico latino del I secolo d.C., Sirio Italico, cita la popolazione che abitava nei pressi del lago. Passando in rassegna i contingenti spediti dalle varie città d’Italia per combattere Annibale a Canne (216 a.C.), lo scrittore annovera tra questi “Sabatia quique stagna tenent”, cioè coloro che abitavano sulle sponde del lago Sabatino. Al momento della seconda guerra punica, quindi, le popolazioni del lago erano ormai completamente integrate nel tessuto sociale di Roma e combattevano a difesa della città. Strabone, vissuto a Roma tra il 40 ed il 10 a.C., nella sua opera “Geografia” afferma che il lago costituiva una vera fonte di ricchezza per la sua popolazione in quanto vi si praticava molta pesca e anche molta caccia nei dintorni. Sempre Strabone narra che sul lago veniva coltivato il papiro, tanto che il lago di Martignano aveva assunto in questo periodo il nome di Papyrianus e che dal materiale vegetale palustre si ricavava la paglia per le sedie. Lucio Giunio Modesto Columella, famoso agronomo del I secolo d.C., ricorda il lago Sabatino nel sua libro “De Rustica” e ne loda i pesci, particolarmente i lucci e i lupetti. La popolazione del lago subì un forte incremento dopo la costruzione della via Clodia, la cui realizzazione si rese necessaria per consentire la penetrazione romana in Etruria, con il conseguente insediamento dei primi stabili coloni romani a“Forum Clodii”, località posta nei pressi di San Liberato, tra Bracciano e Trevignano. Questo nuovo centro, come tutti i forum dislocati ai confini, attirò subito genti dedite allo scambio delle merci con le popolazioni limitrofe. Era il centro più importante immediatamente a nord di Roma. Si conosce poco della sua storia ma si sa da Plinio il Vecchio che era una delle città più note dell’Italia centrale. Nel III libro della sua “Naturalis Historia”, allorché descrive la geografia dell’Italia, egli annovera Forum Clodii tra le città di una certa rilevanza, citandolo insieme a Perugia, Arezzo e Firenze. A partire dal 313 d.C., con l’affermarsi del Cristianesimo, fu sede episcopale. Dopo essere stata saccheggiata a seguito delle invasioni barbariche, per la sua collocazione aperta non facilmente difendibile, fu definitivamente abbandonata. Durante il periodo roma-

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no, come peraltro anche nel periodo più antico, la superficie ricoperta dal lago era più piccola rispetto ad oggi, come è dimostrato dalla strada romana che ora è in parte sommersa, nonché dal villaggio de “La Marmotta” che sono distanti oltre 300 metri dall’attuale sponda. C’è anche una testimonianza riportata dal geografo tedesco Philip Cluver, nella sua opera “Italia antiqua”, edita nel 1624, che cita un passo di Sozione, filosofo del I secolo d.C., dove si afferma che, nei pressi dell’attuale Trevignano, quando le acque sono limpide e trasparenti, sul fondo del lago si possono intravedere i resti di una città distrutta, forse la mitica Sabazia, e sono ben visibili le fondamenta, i templi e le statue. Restano perplessità sulla reale identità di questi resti, ma certamente si ha una ulteriore conferma che in precedenza il lago era ancora più piccolo. Una curiosità: l’attuale profondità del lago è di 164 metri, come pure di 164 metri è la sua superficie rispetto al livello del mare: il fondo del lago, quindi, corrisponde al livello del mare. Le invasioni barbariche distrussero completamente Forum Clodii e colpirono anche le numerose ville che erano sorte tutto intorno al lago per cui il territorio praticamente si spopolò e la popolazione si rifugiò nei centri arroccati sulle alture, abbandonando le rive lacustri. Trascorrono circa 700 anni nei quali non sono presenti nuclei di insediamenti umani e si arriva a dopo l’anno 1.000. L’inizio del nuovo millennio riporta un po’ di movimento e avvia la ripopolazione della zona. Come già avvenuto nel periodo neolitico con il villaggio de “La Marmotta”, il primo centro che inizia a formarsi è Anguillara, località così chiamata dal nome di una villa romana che era sorta in loco. Anche la famiglia che ne entra in possesso assume lo stesso nome e, in un documento del 1020, concede il diritto di pesca sul lago ad alcuni personaggi locali dietro corresponsione di un canone. La pesca, pertanto, non era consentita a tutti i residenti, bensì era una prerogativa riservata solo a pochi soggetti e a pagamento. Poco dopo inizia pure la costruzione delle rocche fortificate di Trevignano e Bracciano ad opera dei Prefetti di Vico, signori del Viterbese, che segnano il confine tra Roma e la Tuscia. Intorno a queste rocche sorgeranno gradualmente i nuovi moderni centri. Con la costruzione del castello, Bracciano assume definitivamente la supremazia del territorio e, con la costituzione del ducato nel 1560, trasferisce il nome anche al lago che, pertanto, diventa conosciuto come lago di Bracciano e non più come Sabatino, appellativo che aveva mantenuto per quasi 2.000 anni. In quel periodo la funzione del lago, per la popolazione locale, rimane prettamente quella alimentare, connessa alla pesca, ma le esigenze di Roma portano a sfruttare le acque con interventi di natura più industriale. Già nel periodo romano le colline intorno al lago avevano fornito l’acqua a Roma tramite l’acquedotto Traiano, semi abbandonato nel medioevo e conosciuto poi come acquedotto Paolo a seguito dei lavori di ripristino effettuati da papa Paolo V. Successivamente si intervenne anche sulle acque del lago tramite la costruzione di una diga, posta all’imbocco del-

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l’emissario Arrone, per alimentare ulteriormente la portata dell’acquedotto. A partire dall’inizio del secolo scorso il lago assume anche un aspetto ludico ed economico che prevarrà su quello della pesca. In questo periodo c’è la scoperta delle spiagge come luoghi di soggiorno e di cura. Le barche dei pescatori vengono sostituite gradualmente da quelle a vela e l’aspetto turistico determina la creazione di un indotto, prevalentemente di soggiorno e di ristorazione, che rende il lago anche fonte di ritorni economici. Il lago diventa una attraente zona di “villeggiatura” che influisce pure sull’espansione demografica dei centri abitati. L’insediamento di un idroscalo militare a Vigna di Valle con i suoi cantieri, sia pur volti alla costruzione di mezzi d’aria come gli idrovolanti, spinge però anche l’iniziativa privata nel settore nautico. Nella seconda metà del secolo scorso nascono i cantieri navali della Italcraft di Bracciano dove vengono realizzate imbarcazioni di livello elevato, veri gioielli tecnologici, motoscafi apprezzati e venduti in tutto il mondo. Purtroppo questa affascinante esperienza è testimoniata oggi solo da un grande rudere di un capannone industriale, con i suoi ferri vecchi che si allungano fin dentro le acque del lago. Un odierno desolante spettacolo che fa rimpiangere le eccellenze di una volta. Ma se l’attività di questi cantieri è cessata, rimane sempre la possibilità di vivere momenti stimolanti a bordo della motonave Sabazia II che consente ai residenti ed ai turisti di fare il periplo del lago, godendo di uno spettacolo naturale veramente unico ed indimenticabile. Pierluigi Grossi

Statuina in pietra di Dea Madre raffigurante una florida figura femminile, nuda, è stata scoperta nell’ottobre del 2000, durante l’annuale campagna di scavo subacqueo nel grande abitato perilacustre, del VI millennio a.C., scoperto nel 1989 in località "La Marmotta", nell’insenatura tra l’abitato di Anguillara Sabazia, e Pizzo Prato.

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I Monti alla luce della storia, della cultura e della fantasia

Presentato il Progetto Vie Centro di Bracciano per valorizzare il borgo all’ombra del castello

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ia del Pescino, via dell’Arazzaria, vicolo del Moretto, La Sentinella, piazza Padella. Il luogo è Bracciano. Quello che si stringe tortuoso attorno al castello. Per “i monticiani” è la loro casa, la loro fanciullezza, la loro vita, un luogo dell’anima insomma. Per tutti gli altri queste vie costituiscono una passeggiata in uno splendido borgo, certamente da valorizzare, da accudire, da restaurare. Perché Bracciano nella mente di tanti è soprattutto questo. Sono le case, i palazzetti, le scalinate salutate ad ogni quarto d’ora dalle campane che incessanti non smettono di scandire il tempo, di dare il ritmo ad uno spazio che passata piazza I maggio, laddove un tempo sorgeva il ponte levatoio, assume un andamento più lento. E’ senz’altro un luogo da vivere e da riscoprire. Ed è propria una riscoperta quella che viene proposta con il Progetto Vie Centro di Bracciano, ideato e messo a punto, in un lavoro collettivo da Filomena Maisano, monticiana doc, Claudio Calcaterra e Francesco Mancuso. Un progetto senz’altro innovativo ed evocativo mirato a individuare il “genius loci” degli spazi che un tempo erano il vissuto dei braccianesi e che ora sono meta di turisti. Il Progetto Vie Centro di Bracciano, che costituisce un po’ una costola del progetto editoriale Gente di Bracciano, dopo un periodo di ideazione ed incubazione sta prendendo via via forma ed è stato presentato ufficialmente il 29 luglio a Bracciano in una serata organizzata presso lo stabilimento balneare “Il Delfino 2” adiacente il ristorante Alfredo. Un incontro di successo, grazie anche alla splendida collaborazione di Bruno Cresca, al quale sono stati invitati amici ed amministratori dei tre comuni rivieraschi, perché il Progetto Vie Centro di Bracciano costituisce in primo luogo un progetto di valorizzazione dei centri storici. A fare da padrone di casa, in questa serata che sostanzialmente ha invitato tutti a vivere il borgo di Bracciano con nuovi sentimenti, è stato Claudio Calcaterra, presidente dell’Associazione Gente di Bracciano che edita la presente rivista. Calcaterra ha illustrato con chiarezza l’obiettivo del progetto portato avanti in modo completamente disinteressato con il solo scopo di valorizzare il territorio, di promuovere un antico borgo. Madrina senz’altro dell’evento Filomena Maisano, archivista, che i Monti li ha nel cuore. Da lei un saluto, un invito ad aderire ad un progetto di riscoperta. Un discorso breve e diretto caratterizzato dall’emozione tradita dalla lucidità degli occhi. A Francesco Mancuso, eminente firma di questa rivista, personaggio istrionico dalla fervida immaginazione, il compito di illustrare i dettagli del progetto. Si danno in sostanza gli strumenti ad ogni visitatore per godere del centro storico facendosi accompagnare passo passo dalla fantasia, dall’immagine evocativa, alla riscoperta del perché quel vicolo, quel luogo porta una denominazione piuttosto che un'altra. La toponomastica rivista con gli occhi della cultura e della storia, perché dalle denominazione derivano le origini delle cose. Mancuso con la sua affabile eloquio ha dato un piccolo saggio di quanto si propone. Una idea semplice che tuttavia, semplice che sia, richiede per essere attuata una fattiva collaborazione delle isti-

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tuzioni. Si tratta infatti di dotare gli spazi di piccole stele o targhe poste accanto alla denominazione delle vie e dei vicoli diano spunti evocativi che si richiamano alla storia e al vissuto di Bracciano. Così via del Moretto porterà un supporto che ricorda l’opera di Alessandro Bonvicino (1498-1554) detto “Moretto”, pittore nato a Brescia, artista al quale Flavio Orsini affidò alcuni lavori di restauro del castello, considerato, assieme al Romanino e

Fiorella Mannoia – Getta le tue reti/buona pesca ci sarà/e canta le tue canzoni/che burrasca calmerà/pensa pensa al tuo bambino/ al saluto che ti mandò/e tua moglie sveglia di buon mattino… (Il Pescatore) – può aprire, camminando per le vie di Bracciano, nuovi spazi alla fantasia. Ed ancora via dell’Arazzaria e la riscoperta alla operosa Bracciano che fu, ricca di ferriere, arazzarie appunto, cartiere e tipografie. Un progetto che non richiede ingen-

al Savoldo, uno dei tre grandi maestri del primo Rinascimento bresciano. Ma l’idea va oltre la semplice indicazione didascalica e così il tema pittura potrà essere coniugato in altre forme citando, ad esempio, Leonardo da Vinci – La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede (Trattato della Pittura) – o Michelangelo Buonarroti – Si dipinge col cervello e non con le mani (Lettere) -. Ed ancora via del Pescino recherà nelle indicazioni riferimenti all’arte della pesca. Così anche il testo di Pierangelo Bertoli, interpretato da

ti somme, ma buona volontà (all’incontro di presentazione l’assessore alla Cultura di Bracciano Elena Felluca, accompagnata dal consigliere delegato al centro storico Massimo Calpicchi ha dato la propria disponibilità a valutare il progetto) e che in una fase operativa potrebbe richiedere anche una formazione ad hoc di guide turistiche che sappiano, oltre che raccontare la storia viva, anche il sottotesto che c’è dietro in una sorta di iperlink che apre la mente e fa spaziare lo sguardo oltre, guardando il mondo, da Bracciano, con altri occhi. Graziarosa Villani

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Bracciano: il piccolo grande mondo della piazza

Dialoghi della panchina: “l’amore è...” e non solo

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Reparto chiuso per carenza di medici. Parla la rappresentante sindacale Maria Grazia Ribauti

Ancora a rischio l’ospedale di Bracciano. Al momento in cui andiamo in stampa mancano all’appello 16 posti letto. Sono quelli del reparto di Ortopedia del terzo piano, chiuso da giorni per carenza di medici. Sono 6 in tutto e tre sono interessati da pensionamenti ed aspettative. Se nuovi ortopedici non dovessero arrivare il reparto potrebbe rimanere chiuso. Stessa sorta e per analoghe ragioni potrebbero riguardare a breve anche il reparto di chirurgia. L’ospedale Padre Pio di Bracciano è salvo perché il Consiglio di Stato al quale molti Comuni sono ricorsi contro il decreto 80/2010 taglia ospedali ha riconosciuto che si tratta di un presidio “salvavita”. Riportiamo sull’argomento una nota della rappresentante sindacale Maria Grazia Ribauti.

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i sa, la piazza o la piazzetta, in tutte le città, paesi o paesini, è il cuore pulsante, è il luogo dove si ritrovano i giovani e i meno giovani; è il luogo dove ognuno trascorre momenti in cui le preoccupazioni e gli affanni della vita quotidiana, per un po’, vengono messi da parte. È il luogo dove i discorsi, le “battute” e i ricordi nascono quasi per caso, un giretto per la piazzetta, per me, come per tanti altri, è immancabile; vedendomi gironzolare, un vecchio amico mi chiama: è Salvatore, con un cenno mi invita alla “sua” panchina dove discute con i soliti amici. Mi avvicino, si stringono, mi siedo tra loro. “Eh sì”, dice uno “un tempo l’amore era una cosa seria, oggi invece…” e fa un gesto con la mano, come se fosse qualcosa da buttare via. “Antò”, ribatte il vicino “ammazza, hai fatto na’ bella scoperta!”, interviene Salvatore. “Amici miei, l’amore è sempre quello, cambiano solo i modi per esprimerlo. Ti ricordi quando si facevano le serenate?”, “Mo’, si fai la serenata arimedi na’ scoppiettata, aho’ c’ho fatto pure la rima…”. Salvatore: “non scherziamo, fateci caso: dietro la spavalderia di molti, non notate tanta timidezza?”. “Salvatore sei grande” gli dico, stringendogli la mano. Quello seduto dall’altro lato “sentite a me: dell’amore sono interessanti solo gli inizi, ecco perché molti vogliono ricominciare…”. Da dietro la panchina una voce dallo spiccato accento napoletano “Uhé, avimmo trovato nu’ filosofo! Ma vattenne…” e così una risata seppellisce l’amore e la sua filosofia. Con la scusa di sgranchirmi mi alzo, faccio un giretto e mi avvicino ad un’altra panchina dove vedo due anziane signore discutere animatamente…mi avvicino piano piano… “Cummà avite visto che partita? L’Italia avesse potuto vince, si chillo scurnacchiato de iocatore avesse tirato lu rigore, comme se tira lu rigore”, “Commà e comme se dovesse tirà lu’ rigore?”. “Mo’ ve facesse vedè comme se tira; accussì” e la comare sferra un potente calcio che la colpisce ad una gamba…”aia, cumma’ m’avesse rotto la gamba” “sì, ma avesse segnato lu’ rigore!!”, “a cumma’ te mannasse a fa…”, “ihh, cummà’ comme site permalosa”, “sarò pure permalosa, cummà, ma oltre la gamba m’avite rotto pure la carzetta, cumma’ mo’ ve c’arimannasse a fa’…”. Mi allontano, mentre a stento trattengo una risata. Sempre con l’intenzione di sgranchirmi, mi avvicino ad un’altra panchina. Mi guardo intorno: il Sole adesso illumina la parte più alta delle torri, il castello sembra ancora più bello.

Ospedale: Ortopedia deve riaprire subito

Salviamo il Padre Pio di Bracciano

N Bracciano: la piazza

La piazzetta ora è piena di gente, è un via vai di grandi e piccoli; ecco vedo una panchina “piena” di signore, chissà di che cosa staranno discutendo, mi chiedo. E’ vero che la curiosità è donna ma qualche volta anche di noi ometti; con fare indifferente mi avvicino, però senza fischiettare, perché, accidenti, non ho mai imparato! Metto allora le mani in tasca e faccio finta di guardare a destra e a sinistra… “Il sale” dice una, “si mette quando l’acqua bolle, ma poco”, “il poco tuo lo sappiamo quant’è: vorresti dire mezzo chilo” rispondono in coro tutte le altre. La signora del “poco sale” rivolgendosi alla vicina, con il tono di una che la sa lunga, “tu che non hai mai imparato a cucina’, che ne sai del sale”, “sì, però” risponde piccata la vicina “io de sale ce ne metterò troppo, ma tu sciapa eri e sciapa sei rimasta. Tie’”. Tipico battibecco femminile: a colpi di fioretto, ma mica tanto. Il Sole intan-

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to, lentamente abbandona l’ultimo spicchio di torre, mi avvicino al centro della piazza, sotto la fontana ci sono dei gradini circolari dove i più piccoli giocano, saltano, si rincorrono, si bagnano tentando di bere dalla piccola fontanella. Lì è tutto un vociare, un “attento, non ti bagnare”, “attento, guarda che cadi”, “non correre sei tutto sudato”, quasi mi commuovo nel vedere i piccolissimi che iniziano, esitando e cercando di mantenersi in equilibrio, a muovere i primi passi. Già è la vita che scorre. Sento dietro di me una voce. “Vieni amore di nonno”, una bimbetta corre. Il nonno la solleva e la stringe forte a sé. “Hai fatto la brava?”, “Sì, nonno, ho mangiato tutto-tutto”. Il Sole, forse stanco, se n’è andato al di là delle torri, piano piano si allungano le prime ombre della sera, le panchine, una alla volta, si svuotano. Eh sì! La piazza: un piccolo mondo! Luigi Di Giampaolo

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el 2012 la Sentenza del Consiglio di Stato relativa all’assetto dell’Ospedale Padre Pio di Bracciano stabilisce che tale Presidio Ospedaliero debba essere sede di Pronto Soccorso, poiché in caso di eventi acuti quali incidenti stradali, ictus, infarti ecc… i Pazienti devono poter avere accesso entro 45 minuti (la cosiddetta “golden hour”) alle cure fondamentali per la sopravvivenza o meno del Paziente stesso. Si ricorda che un ospedale sede di Pronto Soccorso ha una struttura base che comprende un reparto di Medicina, uno di Chirurgia ed uno di Ortopedia, e che nella rettifica al DCA U00197/2015 emanato dal Commissario ad Acta della Regione Lazio, datato 08 giugno 2015, è previsto per l’Ospedale Padre Pio la presenza di 57 posti letto di cui: 25 posti letto ordinari di area Chirurgica indistinta (Chirurgia e Ortopedia), 20 posti letto di Medicina, 10 posti di Day Surgery, 2 posti letto di terapia intensiva post operatoria. Ad oggi mancano 4 dei 10 posti previsti per la Day Surgery ed i letti previsti nel reparto di Ortopedia. Si rammenta inoltre che i 57 letto previsti per il nosocomio di Bracciano sommati ai posti letto presenti nell’Ospedale San Paolo di Civitavecchia, non raggiungono complessivamente il numero di posti letto previsti per legge in relazione al numero di abitanti residenti nel territorio gestito dalla ASLRM4. Da un comunicato stampa del 19 luglio 2016 si apprende che il Direttore Generale dell’ASL RM4 decide di “…bloccare i ricoveri ordinari per interventi di elezione nei reparti di Ortopedia e Chirurgia dell’Ospedale Padre Pio di Bracciano, concentrandoli nel presidio ospedaliero di Civitavecchia in quanto sede del dipartimento di Emergenza e Accettazione di primo livello, assicurando comunque sia a Bracciano che a Civitavecchia tutte le attività di guardia attiva, di Pronto Soccorso e in urgenza…”. L’impegno a garantire nel nosocomio di Bracciano le prestazioni in urgenza viene di fatto smentito il giorno seguente con la nota prot. Num. 0042065 datata 20 luglio 2016, nella quale il

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Manifestazione di protesta contro il decreto regionale 80/2010 tagliaospedali

Direttore Sanitario Ospedaliero, su nota del Primario unico di Ortopedia, comunica l’interruzione dell’attività chirurgica ortopedica in urgenza/emergenza ed elezione, bloccando e di fatto chiudendo il Reparto di Ortopedia nell’Ospedale di Bracciano. L’avviso pubblico indetto dal Direttore Generale per l’assunzione dei Medici Ortopedici, pubblicato sul sito aziendale il 29 agosto 2016, è pressoché inutile, essendo prevista per la copertura di un mese soltanto, con attività chirurgica relegata solamente al trattamento delle fratture di femore nei Pazienti anziani, e con remunerazione degli operatori solo al raggiungimento di un determinato numero di prestazioni (!). La ASL ha inoltre disposto di poter modificare, sospendere o revocare tali termini contrattuali in qualsiasi momento, mettendo di fatto nessun medico nella condizione di poter accettare tale incarico e non risolvendo alla radice il problema dell’assenza di personale medico nel reparto di Ortopedia. La condizione di carenza cronica di personale medico dietro la quale negli ultimi anni più volte ci si è sistematicamente nascosti giustificando di volta in volta la

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chiusura a Bracciano prima di un reparto e poi di un altro a favore di Civitavecchia, e la conseguente drastica contrazione dei servizi di assistenza medica sia ospedaliera che non, sono il risultato dell’immobilità del Direttore Generale, il quale insiste nel non attivare le procedure necessarie all’assunzione del personale sanitario ed in particolare di quello medico, rimpallando sui tavoli sindacali la responsabilità alla Regione Lazio. Per quanto di nostra conoscenza la Regione ha invero autorizzato tutte le ASL all’assunzione del personale necessario al mantenimento dei Livelli Essenziali di Assistenza. Rivolgiamo un appello a tutte le autorità locali, Sindaci dei Comuni del territorio, forze politiche ed all’autorità giudiziaria affinché intervengano a garanzia della tutela della salute pubblica di tutti! Chiedendo il rispetto e l’attuazione di quanto decretato dal Consiglio di Stato prima e dal Commissario ad Acta Nicola Zingaretti poi relativamente alle funzioni dell’Ospedale Padre Pio. RSU FIASL per l’Ospedale Padre Pio di Bracciano

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Sologon Keidu ha gli occhi neri accesi

parenti, della gente del villaggio. Keidu, stremata, si accoccolò sulla piazza del villaggio e sentì sgorgare dal suo ventre un urlo spaventoso, lungo e acuto; da quelle parti si narra di leoni ed elefanti che fuggirono impazziti sentendo quell’urlo di morte, mai conosciuto; a quell’urlo risposero Diamaru e Sanu, con Amadu’ e Malunga, i suoi due figli più piccoli, che le apparvero dinanzi, mute/i degli orrori che era stato loro consegnato. Keidu, aveva sentito dire che una colonna di Wa Tutsi era in marcia verso un campo profughi, protetti da forze internazionali, bianche. Raggiunse la colonna stremata dall’orrore e dalla fame,

Racconti dal mondo 1

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ologon Keidu ha gli occhi neri accesi, un naso piccolo, dolcemente schiacciato sulle narici, una bocca turgida, una carnagione marrone scura, il colore della savana, un portamento fiero, un passo regale; il suo corpo reca evidenti i segni delle mutilazioni corporali inflittele per la sua condizione di donna. Sologon Keidu è nata da padre Zulu e madre Wa Tutsi, che erano antichi pastori che rifuggivano dal lavorare la terra, dedicando la maggior parte del loro tempo a sviluppare l’eloquenza, la poesia, i giuochi sottili dello spirito sorseggiando idromele con gli amici, a differenza degli Ba Hutu, antichi contadini che subivano la superiorità e l’arbitrio degli aristocratici Wa Tutsi. Nel villaggio dove Keidu è nata, i griot, i cantastorie africani, narrano spesso di quel tempo in cui l’impero costruito da Chaka Zulu, l’eroe che sconfisse l’esercito inglese, iniziò il suo declino e la fuga degli zulu, per sfuggire alla vendetta degli inglesi ritornati in forza, verso il lago Vittoria dove si scontrarono con i popoli dei regni interlacustri, alla fine lì si stabilirono abbandonando molte loro usanze, così, da orgogliosi e feroci guerrieri come li aveva voluti Chaka, tornarono alla loro tradizionale attività agro-pastorale. Il padre di Keidu, superando le rigide barriere delle tradizioni locali che impedivano matrimoni tra etnie diverse, sposò una Wa Tutsi. Strano villaggio quello di Keidu, pieno di storia, di incroci e così isolato dal resto dei villaggi del territorio attorno a Bujumbura! Namandiè, la madre di Keidu, nacque in un campo arso dalla sete e dai solchi inferti dai legni aguzzi per scavare i solchi dove piantare un po’ di legumi per sopravvivere. Un colpo di coltello recise il cordone che la teneva legata alla figlia, una stuoia accolse il suo urlo, una ciotola d’acqua sporcò il suo corpicino tremante. Sologon visse, e non fu poco. Zwide il padre di Keidu ebbe guai con i bianchi. Sapeva leggere e scrivere, e fu subito “precettato” per dirigere lo spaccio dove i contadini dovevano versare le tasse al governo belga sotto forma dei prodotti del loro lavoro: cotone, sorgo, manioca; e quel che rimaneva non bastava mai a sfamare le tante bocche del villaggio. Un giorno arrivò il signor Dufeaux, nuovo console in Burundi; parlava con un giovanotto pallido, emaciato, quasi che la febbre lo stesse divorando, alto, occhi celesti, gesti di preghiera ed una lunga tunica a coprirlo. Dufeaux narrava al prete dell’indolenza di quei neri, senza bisogni, senza desideri, sempre pronti a truffare sul peso e sulle rese, bugiardi, pieni di strane credenze, di dei selvaggi e sanguinari. Ricevette dal volto sofferente del giovanotto ambigui segnali di complicità e qualche timido tentativo di opposizione. Un giorno il padre di Keidu ebbe il “torto” di reagire a un sopruso. Fu severamente punito, con giorni di prigione ed una sostanziosa razione di frustate. Zwide sparì da Bujumbura e nessuno lo vide più al villaggio. Keidu sogna spesso il padre e sa che lui è ancora vivo in qualche angolo della foresta attorno al lago Vittoria e sa che un giorno lo incontrerà, tenero ribelle africano. Dufeaux mise una taglia sulla testa del padre di Keidu. Sologon Keidu partorì sei figli maschi e due femmine Diamaru e Sanu, che scruta sempre con qualche preoccupazione. Keidu ha imparato a leggere e scrivere, sbircia, nei rari momenti di pausa dal lavoro, i libri della signora dove presta servizio; a volte azzarda l’accensione del televisore, ma non riesce neanche a pensare il futuro per sé e le sue figlie; i maschi potranno almeno lottare o morire sotto il peso della miseria e dell’inutilità. Bryanna, moglie del console, l’aveva voluta a servizio da lei, un po' per riparare alla

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grettezza di suo marito, con cui aveva spesso alterchi violentissimi, un po' perchè Keidu le dava affidamenti e garanzie quasi impossibili in questa terra aspra, dura, cocente. Bryanna, sposa giovanissima di un brillante diplomatico, piena di giovani e fragili ideali umanitari, accettò con entusiasmo l’assegnazione di ambasciatore a Bujumbura di suo marito, primo gradino di una brillante carriera. Non s’aspettava un tirocinio così duro, però, né quei tratti violenti di suo marito, così il caldo torrido di quelle zone aprì le chiuse più profonde delle loro ignavie, delle loro crudeltà, dei loro odi; senza freni non risparmiarono nulla l’uno all’altra, ricomponendosi per convenzione nell’ufficialità del loro servizio. Ma questo stato di perenne tensione minò Bryanna che ripiegò la sua vita su una poltrona, tra libri, coperta dall’aria condizionata, proteggendo oltre ogni lume Keidu, sua schiava e sua salvezza Quella mattina Keidu stava passando lo spolverino sui fini broccati di casa Dufeaux, quando un uragano attraversò la sua vita. Il vecchio griot, il cantastorie africano del suo villaggio, quando era giovane, gli aveva narrato la storia del popolo Wa Tutsi e di quello Ba Hutu. Storie di odio e di massacri. E Keidu sapeva anche come i bianchi avessero lavorato perchè questo potente veleno rafforzasse la sua violenta azione di morte, per i loro affari e per le loro ricchezze. Quel giorno tutto fu travolto e la violenza più cieca si scatenò in quelle terre povere ed arse da un sole crudele. La regione dei grandi laghi africani si candidava ad essere teatro di nuove diaspore e di infiniti massacri. Keidu si salvò per quella sua corsa potente e perchè conosceva a menadito ogni anfratto, ogni nascondiglio della zona. Ma l’orrore che vide la segnò senza speranza, ora conosceva il sapore dell’odio, colorato dal fiume di sangue che rapprese ogni suo istinto materno. C’erano Hutu che tagliavano teste e arti, che squartavano ventri fertili e pance obese, orrore, senza aggettivi, in memoria di massacri passati, per preparare i massacri futuri. Corse al suo villaggio e trovò ceneri ancora calde e sangue dei suoi figli, dei suoi

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Fu quando, in un momento in cui la fatica le fu insopportabile, le accadde di ricordare immagini strappate al televisore di Bryanna, così la chiamava nel suo cuore: una grande piscina, in una grande villa, in un grande parco e quei colori verde tenero dei prati e degli alberi e quelle donne con abiti di favola e quegli uomini alti, biondi, in carne....e lei seduta sotto lo shimbeck, quel dannato albero che non potendo fare radici s’imbasa e si sviluppa solo su, su, dove non si arriva, con un pugno di farina nelle mani da impastare col sangue, non si trovava più acqua, con i quattro figli sopravvissuti destinati a morire, consumandosi. Così sentì ancora quella sua strana calma attraversarle il sangue, fredda, lucida, feroce. Passò un anno nel campo profughi dove arrivarono. Diamaru morì di peste quando scoppiò una terribile epidemia al loro arrivo. Sanu fu trovata con gli occhi rivoltati all’insù, mentre urlava frasi incomprensibili alla Luna. Si narra che quella notte Sanu si accompagnò con il caporale che le aveva offerto cioccolatini. Poi la follia. Quel giorno arrivò un ordine improvviso, dovevano ripartire, la guerra era di nuovo vicina. Lei avrebbe voluto chiedere a padre Giuseppe di trovare in Italia una sistemazione ai suoi due figlioli ancora vivi, a Sanu avrebbe pensato lei, conosceva uno sciamano che sapeva parlare con i demoni e scacciarli dai cuori che riuscivano ad occupare. Fu una giornata convulsa, tutti cominciarono a raccogliere le povere cose della loro vita quotidiana per rimettersi in viaggio verso un altro inferno. Keidu sentì la calma invaderle ogni angolo dell’esistenza, sempre più dura, sempre più feroce. Quella notte, prima della partenza, pregò il nonno-leone di venirla a trovare, aveva bisogno di conforto per la decisione che aveva preso. Tardò, spossata, a prendere sonno, ma quando s’addormentò fece un sogno, e quando la mattina si svegliò seppe che la sua decisione era la stessa consigliata dal nonno-leone. Prese Sanu la portò al Lago Vittoria, si inginocchiò e chiese a tutti i serpenti dell’Africa di accogliere la sua amata figlia e l’affogò, Sanu non emise un grido, non si divincolò, ci volle poca acqua per riempire i suoi polmoncini di niente, ma prima di essere afferrata dalla madre la guardò dritta negli occhi ed emise un ruggito d’amore. Keidu tornò al campo, prese Amadù e Malunga e li portò a padre Giuseppe che non fece neanche a tempo a dire“ma”, Keidu era sparita inghiottita dall’odio che le aveva costruito un’anima di pietra. Passarono due anni precisi da quel giorno, quando a Bruxelles una donna dagli occhi neri accesi, dal naso dolcemente schiacciato sulle narici, dalla bocca turgida, dalla carnagione marrone scura del colore della savana, dal portamento fiero, camminava trafelata per le vie del centro. La sua lunga tunica, che esaltava la sua bellezza, svolazzava fremente tra le sue lunghe gambe. Lampi di ferocia le percorrevano i lineamenti del volto. La memoria della sua terra aspra e cara le diede fitte inaudite al cuore e il senso del gesto compiuto sciolse la fredda pace che si era impossessata di lei nell’orrore passato. Nella mano un coltellaccio furente sul cui manico aveva segnato il nome di ogni sua vittima: il primo nome era di Mister Dufeaux. Fu trovato riverso sul suo letto disfatto, in un bagno di sangue. I giornali furono, per un mese, pieni di inutili e improbabili fantasie sui motivi della morte di Mister Dufeaux. Nessuno seppe più nulla di Keidu, ma furono trovati morti molti diplomatici europei negli anni a seguire: a Parigi, a Berlino, ad Amsterdam, a Londra, a Lisbona, a Madrid, a Roma. Nessuna polizia seppe intuire la relazione che accomunava quelle strane morti diplomatiche; anzi, si tese a minimizzare, a far scordare, a depistare, nell’impotenza e nella cattiva coscienza. Intanto nelle savane africane gira una leonessa dagli occhi neri, dal naso dolcemente schiacciato sulle narici che fa strage di uomini bianchi; nessun leone sa da dove è venuta e nessun leone si accoppia con lei se lei non vuole. E la savana intera atterrisce quando lancia alla Luna uno strano ruggito che nessun animale sa tradurre; solo un vecchio leone sdentato, quando sente il ruggito, si rimette i denti e va in cerca di uomini bianchi. Francesco Mancuso

dalla paura e dalla sete. Decine di migliaia di stracci colorati, laceri, strappati, marciavano verso una meta mai cercata, senza una speranza, senza un sogno. Raggiunse la colonna e chiese subito un po' di pane e di farina per i suoi figlioli e scoprì subito che anche in quell’inferno bisognava “sgomitare” per avere accesso ai pochi beni esistenti per sopravvivere. Un inferno nell’inferno. Vide, lontano, la sagoma di padre Giuseppe correre da un luogo all’altro della carovana, laddove, come mosche, cadevano i più deboli, già senza più acqua né sangue nel corpo. Ed in fondo strani automezzi, con strane bandiere, con paffuti autisti bianchi e qualche militare armato bianco, che scortavano quel trapestio di piedi sfiniti. Keidu si mosse senza incertezze: si avvicinò ad un miliziano nero, armato di un terribile coltello e di un mitra più grande di lui, sembrava un capo, e gli fece immaginare malizie inaudite, andò da padre Giuseppe e cominciò a pregare il suo dio, si avvicinò alle jeep e chiese ad una crocerossina, in un discreto francese, se avevano bisogno di aiuti, essendo lei una buona infermiera. Quella sera i suoi figlioli poterono mangiare qualcosa, ma fu uno strazio per Keidu attraversare i loro sguardi, vuoti, smarriti, osservare indiscreta le crepe della loro pelle, ormai unica difesa dei loro cuoricini devastati. Ed una strana resa, una pace mai provata attraversò il suo sangue, una pace di cui non riusciva ad indagare l’origine. Il giorno dopo vide un militare della forza di pace dell’ONU carezzare con qualche eccesso di tenerezza Diamaru, di cui già si intravedeva la straordinaria bellezza, pure con quelle sue gambe troppo magre, quelle sue ossa sporgenti, quei suoi occhi devastati dal terrore. Uno sguardo di fuoco incenerì il caporale mentre Keidu strappò l’ignara Diamaru dalle sue mani, ormai di spalle urlò, in uno splendido francese, minacce che fecero gelare il sangue al caporale. E Keidu sapeva che quegli atti, che aveva a volte anche dolcemente istigato, erano una delle leggi di sopravvivenza di quell’inferno. Quella notte Keidu fu visitata dal suo caro, vecchio, nonnoleone e pianse disperatamente, avvolta da una rabbia senza resa. In quell’inferno ci fu un solo attimo di smarrimento di Keidu.

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Fotografia: Vinicio Ferri tra sconforto e fiducia

La Buona Scuola di Bracciano

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Dal furto di un armadio in ferro alla nascita del progetto Il Volto della Solidarietà per un unico grande ritratto collettivo

“Capita che qualcuno entri a gamba tesa nella nostra quotidianità, scombinando tutti i nostri progetti e lasciandoci superstiti, sopravvissuti a un terremoto interiore. Una sera di luglio qualcuno ha fatto irruzione nella mia vita, nella mia casa e nel mio lavoro. Che poi per me queste parole sono sinonimi: tutto si svolge nello stesso luogo fisico. Mi hanno rubato il cuore della casa. Io sono un fotografo e il grosso armadio blindato che mi hanno portato via conteneva i miei strumenti di lavoro, la mia storia professionale e molte altre storie: quelle dei matrimoni, dei ritratti, dei progetti artistici. E insomma una sera di luglio arriva un uragano di sorpresa, rabbia, dolore e sconforto. Il lavoro di una vita è sparito. Mi sento svanire insieme a lui. Tocca rialzarsi, salvare e rendere luminoso quello che resta. Ci sono le persone, tante voci che in questi giorni mi hanno dato sostegno e affetto. E allora penso che per non darmi sconfitto in questa partita dovrò rilanciare. Prende forma così “Il Volto della Solidarietà”. Non solo una raccolta fondi, ma uno scambio. Vorrei fotografare i volti di chi sta unendo pensieri e atti concreti, parole e gesti. Una massa solidale. Che bello sarebbe armonizzare queste voci, modularle fino ad ottenere un coro d’immagini. E così, a chiunque vorrà dare un contributo, ricambierò con un ritratto e la solidarietà avrà un volto, fatto di tante facce ma poi una sola, l’umanità. Cari Amici, questo progetto nasce dall’esigenza di riacquistare l’attrezzatura fotografica (almeno quanto necessario) che mi è stata sottratta con il furto dell’intero armadio blindato. Il progetto intende dare visibilità alla solidarietà. In che modo? Ritraendo nello studio di Roma i vostri volti, in maniera semplice con uno stile univoco che dia omogeneità al racconto al fine di ottenere un unico ritratto complessivo composto da tutti. Testimonianza che insieme si può fare davvero molto più che come singoli individui e che non c’è solo il furto arbitrario, lo sconquasso della tua vita, del tuo lavoro, ma la solidarietà che molti di noi sanno testimoniare in momenti così difficili. Sarà bellissimo, vedrete!”. Graziarosa Villani

n armadio in ferro. Un oggetto che evoca scenari oscuri. Torna alla mente l’armadio della vergogna che custodiva le carte degli eccidi nazisti trovato al Celio con le ante rivolte verso la parete. Un armadio metallico è stato protagonista questa estate di una storia. Anziché fascicoli scabrosi, la vicenda in questo caso ha riguardato scatti di un fotografo di razza come Vinicio Ferri. Pellicole, hard disk di una storia fotografica che inizia presto, fin dalla gioventù di questo artista che ha fatto della sua passione fotografica la sua professione. Una sera di luglio i ladri (visitatori incomodi frequentemente molesti) fanno irruzione nella sua casa di Bracciano, portano via il grande armadio metallico non potendolo aprire sul posto. Alla scoperta del furto, Vinicio è colto da un grandissimo sconforto. Non tanto perché l’armadio custodisce anche Autoritratto - Vinicio Ferri del denaro, ma soprattutto perché in quel mobile c’è tutta la sua memoria fotografica, i suoi lavori, le sue immagini, i suoi servizi. Insomma il suo modo di guardare il mondo. Vinicio affida tutto il suo dolore a facebook, arrivando ad appellarsi direttamente ai ladri. “È chiaro – ha scritto il 22 luglio - che non vi rendete conto che rubare non è solo una questione di valore economico. Nella mia cassaforte c'era il mio sudore la mia storia di fotografo di persona seria onesta che con anni di sacrifici aveva sperato che quell'armadio blindato pesantissimo e intrasportabile potesse ripararmi da ciò che avete fatto ieri sera in un piccolo momento di assenza. C'era il mio storico fotografico... Vi prego i miei hard disk fate in modo che io li possa ritrovare. Il resto tenetelo pure! A tutti coloro che possano contribuire a ritrovare abbandonato chissà dove un armadio di ferro grigio alto 1,60x80 dalle parti di Bracciano va il mio ringraziamento di cuore”. E subito, a questa nota, sono seguiti attestati di stima e di solidarietà. Un archivio perduto è sempre la scomparsa di pezzi di vita, singola e collettiva. Vinicio però non si è dato per vinto. Ha continuato a lanciare appelli. Ha anche raccontato passo passo le tappe delle indagini. “Cari amici, purtroppo - racconta il 27 luglio - nessuna novità in merito al ritrovamento di almeno di parte della refurtiva”. Ma la svolta è arrivata il tre giorni dopo, il 30 luglio. Vinicio scrive “Cari amici aggiornamento... Hanno rinvenuto la cassaforte a Cerveteri nelle campagne forse con qualche hard disk... Speriamo! Lunedì saprò. Vi ringrazio moltissimo”. Un rinvenimento in un certo qual modo incredibile. Forse non tutto è andato perduto. E così è. “Cari Amici...ieri - scrive Vinicio il 4 agosto - ho ritirato il materiale e preso credo tutti gli hard disk e con mia sorpresa trovato una busta con una parte importante del denaro che vi era custodito. La vita ci sorprende sempre. Non solo nel dramma! Il progetto "Il volto della solidarietà" è stato ultimato e domani sarà pubblicato. Grazie a tutti! Va già un po' meglio... grazie davvero!!”. Una vicenda con un parziale lieto fine che sfocia in questi giorni un progetto, Il Volto della Solidarietà appunto. Un lavoro collettivo che può nascere dall’affettuosa vicinanza che in tanti hanno espresso all’artista fotografo. Così lo descrive lo stesso Vinicio.

Settembre 2016

piano straordinario di immissioni e un investimento di fondi per l'ammodernamento degli ambienti per la didattica. Si tratta di due componenti (capitale umano e fondi) sicuramente rilevanti per innovare il sistema scuola, ma ancora non bastano, anche perché l'innovazione non esiste se non esistono gli innovatori. Senza una nuova idea di cittadino che la scuola deve formare è difficile immaginare una nuova figura di insegnante, anzi di “buon insegnante”. Al momento, quindi, ciò che appare necessario è riuscire a modificare in modo sostanziale la pratica didattica di tutto il corpo docente eliminando le numerose zone d’ombra esistenti che creano una situazione a macchia di leopardo quale è quella in cui versa oggi la scuola italiana. Chi faceva innovazione continua a farla, chi contaminava i propri colleghi, coinvolgendoli in azioni di innovazione metodologica, continua a fare azione di disseminazione e, purtroppo, chi era ancorato a vecchi cliché non sembra aver avuto alcuno stimolo concreto a cambiare: gli scatti stipendiali del resto sono ancora per anzianità e non per merito. Biancamaria Alberi

“Ci roviniamo la salute lavorando come forsennati per arricchirci e poi siamo costretti a spendere ingenti somme di denaro nel tentativo di riacquistarla”

Bracciano

Via Principe di Napoli, 9/11 Tel./Fax 06 90804194 www.caffegranditalia.com

Romano Battaglia, Silenzio 2005

L’armadio rinvenuto nel fosso

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nche a Bracciano cominciano a farsi sentire i primi effetti della riforma della scuola che ha fatto tanto parlare di sé. Nella Scuola Primaria Tittoni sono previste per quest’anno quattro insegnanti di potenziamento il che, rispetto alla stagnazione degli anni precedenti, è già di per sé un risultato considerevole che potrebbe permettere un buono sviluppo di progettualità, oltre a garantire una maggiore facilità per le supplenze. Essendo questo un anno di transizione, con il concorsone ancora in corso di espletamento per le cattedre di tipo comune ed appena concluso per il sostegno, la situazione è inevitabilmente caotica anche perché, come al solito, i tempi per l’attuazione delle riforme sono estremamente ridotti e le istituzioni (purtroppo a tutti i livelli, a partire da quelli alti) sono perennemente impreparate a dare seguito alle innovazioni previste. L’arrivo di nuovo personale è comunque un fatto positivo, anche se non si può ignorare un effetto non del tutto secondario che riguarda la mobilità di questo personale, spesso precario da anni, ed improvvisamente stabilizzato in sedi dislocate in tutta Italia a prescindere dal luogo di residenza di questi nuovi insegnanti che, se vogliono lavorare, devono accettare il fatto di doversi trasferire. Questo tipo di prassi è in realtà abbastanza diffusa in tutti i Paesi Europei, ma non in Italia dove la popolazione è, nella maggior parte dei casi, fortemente stanziale e poco incline a pensare di poter vivere, anche solo per qualche periodo, lontana dal luogo di residenza originario e magari dalla propria famiglia. Si tratta di un aspetto che ha sollevato una serie di critiche accese al punto da far pensare ad un vero e proprio trauma sociale ed è difficile prevedere gli esiti finali di questo rivolgimento calato dall’alto. Un’altra criticità riguarda la qualifica specifica del personale immesso nelle scuole in quanto le richieste fatte dalle scuole non sempre sono state accolte vista la fretta di dover assegnare i nuovi insegnanti e questo crea inevitabilmente problemi di coerenza con i Piani di Offerta Formativa approvati dagli Istituti che devono servire a dare maggior qualità alla formazione. Tanto per fare un esempio molte scuole hanno avuto in assegnazione almeno un docente di diritto pur senza averlo richiesto e questo implica che, pur riconoscendo universalmente l'importanza di insegnare i fondamenti di cittadinanza e Costituzione, se una scuola volesse puntare su certificazioni linguistiche avrebbe bisogno di più docenti di

Gente di Bracciano

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Gente di Bracciano


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