Gente di Bracciano Settembre 2017

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Gente di Bracciano Settembre 2017 - numero 16


Gente diBracciano

Settembre 2017- Numero 16

Dedicato a Gabriela e Giuseppe

Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente: Claudio Calcaterra

Direttore responsabile: Graziarosa Villani

Redazione: Francesco Mancuso, Vittoria Casotti, Biancamaria Alberi, Luigi Di Giampaolo

Collaboratori: Massimo Giribono Fabercross, Pierluigi Grossi, Mena Maisano Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014

Stampa e impaginazione: FEDE 2011 srl Via dei Vignali, 60 - Anguillara Sabazia su carta riciclata

Gente di Bracciano: invito a collaborare

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ente di Bracciano raggiunge quest’anno un traguardo importante per una pubblicazione di carattere culturale. La prima uscita è avvenuta nel mese di gennaio 2014. Da allora ha puntualmente raggiunto i propri affezionati lettori ed estimatori (che ringraziamo vivamente), con edizioni sempre nuove per citazioni, immagini e documentazioni. Per poter rendere il periodico sempre più ricco e documentato è importante ampliare le ricerche dei nostri collaboratori, già impegnati a renderlo sempre più interessante. Si invitano le persone interessate ad inviarci citazioni ed aneddoti legati alla curiosità e all'interesse del giornale stesso. Come nelle precedenti edizioni, il giornale presenta nomi, date, immagini e citazioni di autori di tutto il mondo: scrittori, filosofi, artisti, religiosi, uomini politici ed economisti che hanno lasciato una importante testimonianza al mondo. Inoltre, abbiamo arricchito il nostro giornale di racconti di vita di concittadini di Bracciano. Claudio Calcaterra

Gli uomini temono il pensiero più di qualsiasi cosa al mondo, più della rovina, più della morte stessa. Il pensiero è rivoluzionario e terribile.

Il pensiero non guarda ai privilegi, alle istituzioni stabilite e alle abitudini confortevoli. Il pensiero è senza legge, indipendente all'autorità, non curante dell'approvata saggezza dell’età. Il pensiero può guardare nel fondo dell'abisso e non aver timore. Bertrand Russell

Se vuoi aderire alla nostra Associazione contatta la Redazione: gentedibracciano@tiscali.it

cell. 349 1359720

Senza educazione popolare, senza cultura, seria, universale, non può sussistere governo democratico. E' vero per tutti i tempi e tanto più vero per il nostro tempo e per il nostro Paese. Luigi Credaro 1909

Nel termine anziano non c'è dignità, non c'è rispetto. è un triste eufemismo che forse illude qualche vecchio di essere meno vecchio, ma toglie il senso di nobiltà insito nel termine originale (vecchio). Se li chiamassimo diversamente intelligenti, i cretini sarebbero meno cretini?

Laura Grimaldi


Stefano Rodotà: Costituzione via maestra

Il paladino dei diritti animato da un permanente fervore costituente

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i fronte alle miserie, alle ambizioni personali e alle rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato invitiamo i cittadini a non farsi distrarre. Li invitiamo a interrogarsi sui grandi problemi della nostra società e a riscoprire la politica e la sua bussola: la Costituzione. La dignità delle persone, la giustizia sociale e la solidarietà verso i deboli e gli emarginati, la legalità e l’abolizione dei privilegi, l’equità nella distribuzione dei pesi e dei sacrifici imposti dalla crisi economica, la speranza di libertà, lavoro e cultura per le giovani generazioni, la giustizia e la democrazia in Europa, la pace: questo sta nella Costituzione”. è un passo del documento “la via maestra” (2013). In prima linea a difenderla per tutta la sua vita c’è Stefano Rodotà. Una difesa strenua, ragionata che si basa sul valore intrinseco della Carta sulla quale si fonda, dopo le macerie della seconda guerra Mondiale, il “contratto sociale”, per dirla alla Rousseau, tra gli italiani e non solo. “Chi la difende non è un nostalgico. Questa - diceva Rodotà parlando del gruppo firmatario del documento tra i quali Gustavo Zagrelbesky - non è una zattera per naufraghi, né un onorato rifugio di reduci di battaglie perdute, ma l’avvio di un nuovo percorso per ripartire dalla Costituzione”. Aveva sposato con passione ed impegno il progetto che invoca, prima di tutto, l’applicazione dei valori costituzionali. La sua è stata un’analisi partita da un dato di fatto, quello del “vuoto della politica”, se non da una “evanescenza della politica”. Il metodo scelto è stato quello dell’inclusione, della condivisione, pur nel rispetto delle singole identità. “Vogliamo uscire da una impostazione minoritaria e pessimista” diceva Rodotà e auspicava, ammonendo sugli errori passati, di uscire dall’autoreferenzialità e dai personalismi. “Se ci sono stati risultati importanti lo si deve alla Costituzione” chiosava Rodotà. Ed ancora “La Costituzione ed è un fatto ed è stata rilegittimata dai cittadini”. Un percorso di “costituzionalizzazione” che, secondo il giurista, deve proseguire non per cambiare la Costituzione ma per attuarla e per riportare i suoi valori anche in Europa. “L’Europa si è data nel 2000 una Carta dei Diritti Fondamentali. Una Carta della quale - rispondeva Rodotà in una intervista a Graziarosa Villani - è stata finora applicata solo la parte economica mentre tutto il resto è stato scartato. Questa è una forzatura. Quando si invoca il Trattato di Lisbona si deve ribadire che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati istitutivi. Rivendichiamo questo pezzo di costituzione. L’Europa non può essere amputata dei diritti fondamentali. Vogliamo far entrare nel dibattito questi grandi temi in

una nuova dimensione costituente”. Il fervore costituente lo ha pervaso per tutta la sua esistenza. Da Cosenza dove era nato nel 1933 Rodotà era approdato appieno nel dibattito politico, civile e sociale del Paese. è stato uno dei personaggi attorno ai quali, a fasi alterne, si sono coaugulate le forze di resistenza alla dismissione dei diritti. Un “indipendente”, molto a sinistra. è del 1979 la sua prima elezione, come indipendente, a deputato nelle fila del Partito Comunista Italiano. Docente ordinario di Diritto Civile in varie università è stato il primo Garante della Protezione dei Dati Personali. Ha diretto il Festival del Diritto di Piacenza. M5S, Sinistra Italiana ed alcuni indipendenti del PD lo votarono per le elezioni presidenziali che decretarono poi l’elezione di Giorgio Napolitano al suo secondo settennato. Il 23 giugno di quest’anno è morto. Ai suoi funerali sono riecheggiate le note di “Bella ciao”. Ne Il Diritto di avere diritti (Laterza - 2013 ), Rodotà aveva esteso il suo fervore costituente al resto del mondo e commentava, tra le altre cose, che “La globalizzazione [deve avvenire] attraverso i diritti, non attraverso i mercati”. Ma una sua lezione che le comprende tutte è stata certo quella in cui Rodotà spiega un principio ancora troppo disatteso: “I diritti civili spettano all’uomo come tale, non al solo cittadino”. Le sue lezioni, già ci mancano. La Costituzione italiana, senza di lui, è un po’ più sola. A cura di Claudio Calcaterra

Con Maurizio Landini

Nel suo studio

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Stefano Rodotà

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Rossana Negretti: la presidente

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Dall’infanzia alla esperienza della guida del centro anziani

ncontro Rossana a casa di Mena e Claudio. Mentre l’aspettiamo mi godo la splendida vista del lago dalla finestra del salotto, intanto penso a questo viaggio che mi ha portato a conoscere il cuore di Bracciano attraverso le tante voci dei/le suoi/e cittadini/e, un coro polifonico che dona energia. Arriva puntuale, ci sediamo e, immediatamente, lei e Mena fanno a gara nel far rivivere memorie di Bracciano: due braccianesi doc che fanno ricamo su storie, luoghi, parenti, amici, semplici conoscenti, tracciando la rete del vissuto antico di Bracciano, quasi un amarcord, narrato con l’ironia e la profondità che la memoria richiede per evitare la retorica del ricordo. La prima cosa che le viene alla mente quando le chiedo di parlare della sua infanzia, è il racconto che le faceva la madre di quei giorni amari dell’occupazione tedesca a Bracciano…mamma mi diceva che quando cominciavano a sibilare bombe mi avvolgeva in una coperta e mi portava nei granai del castello: era il nostro rifugio antiaereo…le chiedo quanti anni avesse in quei tempi…sono nata nel 1940… mi dice, calma, senza un tentennamento, Rossana rimanda un’immagine di donna solida, di una persona che ha attraversato la vita con coraggio, anche il suo sorriso sembra donare questa sensazione, né aperto, né chiuso, un sorriso di forza e di quiete, poi prosegue…papà nel 1943 fu richiamato alle armi: destinazione Jugoslavia, mamma era disperata, come tirare avanti? come sfamare le bocche dei loro figlioli? in quel periodo mi venne un febbrone da cavalla, mamma era disperata così andò dai carabinieri e riuscì a convincerli a stilare un rapporto da inviare all’esercito per fare tornare papà a casa, ma prima vollero accertarsi della veridicità dei fatti, vennero a casa, io ero avvolta nella solita coperta amica, ero bianca come un cencio, ma non bastò, vollero sentire anche la Delia Bernardini, quella che abitava sopra di noi, che confermò i fatti, fu così che papà tornò casa…le chiedo dove abitavano ma non senza aver annotato che il marito di Delia era soprannominato “Ceppetto”, ah! La forza evocativa dei soprannomi…abitavamo in via del Pozzo bianco, dove d’inverno, con la neve, venivano messi in “frigorifero” quelli che non ce la facevano a sopravvivere, in attesa di essere sotterrati…i tedeschi erano a casa nostra e doveva esserci una spia, un giorno si presentarono e dissero che dovevano requisire i maiali che papà tirava su per la sua famiglia, ero piccola ma ricordo ancora oggi la paura che m’invase quando il tedesco puntò una

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Rossana Negretti

pistola sulla tempia di nonno, s’intromise mamma che riuscì a placare gli animi, dovevano essere tedeschi “buoni”, perché alla fine si accontentarono solo di un po’ di fiaschi di vino…mio nonno Mario era anche lui mezzadro, lavorava la terra di proprietà dei Mondini, quelli delle torrefazione, aveva fatto solo la prima elementare ma aveva un’intelligenza fuori del comune, quando dovevo fare i compiti mi aiutava sempre lui, specialmente per l’aritmetica, si metteva davanti al camino, con la pipa, le gambe accavallate e mi spronava a studiare, a leggere la Divina commedia…una volta la maestra ci diede un problema di aritmetica che richiedeva una ventina di operazioni, io non ce la facevo allora ci si mise lui, pochi minuti e la soluzione era lì, scritta sul quaderno, il giorno dopo andai trionfante a scuola ma la maestra mi mise subito a posto “questa non è farina del tuo sacco” mi disse...una pausa, un altro ricamo con Mena di luoghi e persone braccianesi, poi riprende…devo parlarti di mia zia Iride, lei cuciva a casa le tomaie per i soldati, io la osservavo spesso mentre cuciva… ricordo un soldato di Ferrara che portava ogni giorno tomaie da cucire, si era innamorato di zia che però gli concedeva poco filo, allora lui cominciò a “corteggiare” me riempiendomi delle famose caramelle bucate di quel dopoguerra arrembante…gli chiedo come andò a finire,

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mi dona uno dei suoi sorrisi e…si sposarono ed andarono a vivere a Ferrara, dove lui aveva un lavoro… una piroetta e mi ritrovo ad ascoltare di suo zio Peppe che faceva il meccanico, tra loro c’erano solo otto anni di differenza, allora le chiedo di sua madre…era una casalinga doc, i soldi da parte per comprare casa e regole di ferro, a casa e fuori, papà invece voleva vivere, così s’innammorò di un’altra donna e la lasciò, io avevo dodici anni…le chiedo come visse quell’esperienza, ci pensa un po’ e…mah! Tutto sommato non male, anche perché le zie si fecero in quattro per sostenere le/i nipoti e la mamma, devo dire che comunque papà non smise mai di portare soldi a casa… le chiedo quale marachella ricordi con più forza, questa volta fa un sorriso aperto, largo, divertito e… quella volta che scappai una sera di casa per andare a ballare, mi aspettava un ragazzo con la motocicletta, era amico del mio “fidanzatino”, mi portò dove era lui, quando tornai mia madre era lì ad aspettarmi, mi presi un po’ di simpatiche cintate a memoria del mio atto di ribellione e per essere tranquilla che non potessi scappare mi legava un piede alla gamba della sedia, il fatto è che quando si arrabbiava perdeva il lume della ragione… le chiedo come ricorda sua madre, dato che Rossana racconta che di cintate ne ha prese un bel po’… era una donna dedita alla famiglia, gran lavoratrice, rigorosa, forse un po’ troppo severa, ma noi quelle punizioni ce le meritavamo tutte…le chiedo del suo primo lavoro… a quattordici anni lavoravo in un negozio di scarpe come commessa, ma curavo anche un po’ di contabilità, grazie a nonno Mario alla fine avevo imparato anch’io un po’ di aritmetica, ma prima già avevo fatto dei lavoretti, al quartiere Shangai, quello degli sfollati, oggi vista lago, vendevo ai bar i cornetti che preparava un forno di Bracciano, una lira per ogni cornetto portato ai bar… mentre sto scrivendo mi viene in mente che, sotto l’urgenza di fissare il fiume di memorie di Rossana, avrei dovuto/voluto chiederle cosa ne facesse: azzardo, un po’ in pescetti e il resto alla mamma, forse; intanto con Mena parte un nuovo amarcord braccianese, un dono per me che riesco a riordinare le parole di Rossana, sono ancora in pausa di riflessione che la sento parlare del tempo in cui accudiva i suoi cari fratelli: Gianfranco, Luigi e Anna, nell’ordine…un altro guaio lo combinai per preparare un pasto serale, avevo messo il callaro sul camino per cuocere la pasta, solo che dimenticai di mettere il coperchio così che uscì una splendida

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Con il marito Giuseppe

pasta marrone tendente al cinereo e non ti dico come andò a finire con mamma…un altro accenno di amarcord e riparte dal suo fidanzatino, Giuseppe si chiamava, quello della fuga della balera…ci sposammo nel 1962 e andammo a vivere a Ferrara dove viveva zia Iride, lui lavorava come tubista alla Edison, poi ci trasferimmo, sempre per lavoro a Porto Marghera e a Taranto, abbiamo girovagato per cinque anni, poi mamma, che aveva trovato lavoro Vigna di Valle ci pressò perché tornassimo a Bracciano, Giuseppe poteva lavorare come magazziniere all’aeroporto e così fu… le chiedo dei figli… ho quattro figli, Cinzia che è l’unica nata fuori Bracciano, Katia, con la k tiene a dirmi, Carlo e Miriam sono invece braccianesi, ricordo ancora il battesimo di Katia, Don Alfredo, con quel nome non voleva battezzarla, allora mi consigliò di portarla in chiesa entro le 24 ore dalla nascita, il tempo giusto per avere l’anima salva, così si narrava a quei tempi, fu così che Don Alfredo con quel po’ po’ di curriculum già guadagnato, non se la sentì di mettere in atto la sua minaccia… mi perdo qualcosa e mi ritrovo con la storia di sua nonna Giovina che conquistò quel nome perché il padre disse che se non si fosse chiamata così non avrebbe avuto nulla in eredità, allora le chiedo di Giuseppe, suo marito, la vedo per un momento con il viso che disegna un dolore antico…mio marito morì per un tumore quando avevo quarant’anni, mi rimboccai le maniche e cominciai a lavorare, facevo le pulizie a Vigna di Valle, mi portavo Katia per farmi aiutare,

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mentre Cinzia pensava a Carlo e Miriam, ma non mi bastava, mi serviva un cambio di passo, così, con la mia amica Tina decidemmo di aprire una trattoria, su a piazza Mazzini e che rigatoni alla pajata servivamo…nuovo duetto con Mena, un’altra benedizione per me che riesco a mettere un po’ d’ordine nel mio quaderno acchiappa parole, son lì che metto frecce per collegare fatti e persone che sento che è ripartita…Carlo è nato nel 1968, è nato ribelle, pensa che a otto anni già serviva a tavola al ristorante, un giorno un cliente gli lasciò per mancia poche lire, lui lo guardò e gli disse che non le voleva, non prendeva l’elemosina, ne combinava sempre qualcuna, le sorelle quando mi vedevano arrivare gli strillavano, a prescindere, “scappa Carlè che arriva mamma”, studiare non era per lui, allora lo mandai al seminario di Nepi per fargli prendere almeno la III media, durò poco, dopo un anno lo mandarono via, lo trovarono nascosto sotto al letto con la sua fidanzatina!...le chiedo qualche notizia sul ristorante…fu un’avventura, per fortuna che in quei tempi per fare un accordo bastava una stretta di mano, prendemmo in gestione il locale, noi a cucinare e i figli a servire… si ferma un attimo, gli urge un racconto, lo fa con qualche dolore e tanto orgoglio di madre…nel 1992 Carlo s’innamorò di Sandra, argentina di Mendoza, ribelle e globe-trotter arrivata a Bracciano per gl’insondabili misteri della vita, non si sposarono mai, nacque un figlio, in Argentina, io glielo avevo detto da subito “Carlo non è per te, moglie e buoi dei paesi tuoi”, il papà di Sandra aveva un’azienda, era ricco e quando nacque Mirko, che acquistò subito la doppia nazionalità, Carlo si trasferì per un po’ di tempo in Argentina a lavorare nell’azienda del suocero, pochi mesi e tornò a Bracciano, ricordo che gli dissi: “Carlo della tua vita fai quel che vuoi, ma se rendete infelice Mirko ti disconosco, chi c’ha mamma non piange”… poi le traiettorie della memoria trovano punti d’incontro astrali e scopro che Rossana è stata la spazzacamina di Luciana la Befana di Bracciano, il terzo racconto del libro che Claudio e Mena hanno donato ai/le braccianesi… al centro anziani, di cui sono la presidente, ci arrivai perché me lo chiese proprio Luciana, l’avevo conosciuta andando a ballare da Grimaldello, al bar Grand’Italia, e quando fui eletta, non me lo aspettavo davvero, ci fu un’ovazione, il che mi rese felice, il primo mandato è stata un’esperienza splendida, il secondo è invece stato faticoso, la più grande soddisfazione fu quando

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Con la figlia Cinzia

rimisi a posto il bilancio che era in rosso…le chiedo quali siano le attività promosse dal centro di cui è più orgogliosa… certamente quelle di anziani all’opera, concerti importanti per i soci e i/le cittadini/e di Bracciano: quello con la soprano Fujiko Hirai che ha cantato romanze della Madama Butterfly e della Boheme, quello con la soprano Fiammettta Bona che ha cantato Summer Time, il famosissimo brano vocalizzato di Ennio Morricone, l’Ave Maria di Schubert e il Valzer di Musetta e quello di musica pop con chitarra, tastiera, arpa, flauto e corno: momenti importanti per dare aria e respiro alla mente. Per ultimo la serata in onore della mamma di Mena, assidua frequentatrice del centro anziani, che ci ha permesso di dotarci di una struttura importante per le sue attività… ho finito il quaderno, vedo che Rossana sta abbozzando il suo sorriso lento e solido, temo che stia per sfornare altre memorie, allora mi alzo e, sommessamente, le dico “alla prossima, Rossana e grazie”. Le avevo chiesto un po’ di foto per aiutare me e la sua memoria, mi ha portato un cd pieno di foto antiche che meriterebbero quel museo della memoria di cui abbiamo parlato con l’allora assessora alla cultura il giorno della presentazione del libro “Gente di Bracciano” al “Vian”. Prima di cominciare a scrivere ho voluto tuffarmi in quelle foto, due ore splendide che mi hanno aiutato a stendere queste pagine, grazie Rossana! Francesco Mancuso

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PAVLVS QVINTVS PONTIFEX MAXIMVS AQVAM IN AGRO BRACCIANENSIS SALVBERRIMIS E FONTIBVS COLLECTAM VETERIBVS AQVAE ALSIETINAE DVCTIBVS RESTITVTIS NOVISQVE ADDITIS XXXV AB MILLIARIO DVXIT ANNO DOMINI MDCXII PONTIFICATVS SVI SEPTIMO

Il Lago di Bracciano e le “mille once” della discordia

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iaggiatori stranieri, letterati ed archeologi ammirarono fin dal XVII secolo la bellezza del lago di Bracciano e la ricchezza del patrimonio archeologico e ambientale della Campagna romana, tanto da farne una tappa significativa del “Grand Tour” per l’Italia e da lasciarne testimonianza nei loro scritti. Numerosi pittori e disegnatori ne immortalarono il profilo con i piccoli paesi che lo circondano e “il monumentale castello” che lo domina. Sulle sue rive nel lontano 14 agosto 1898 si disputò, quando ancora il nuoto non era una disciplina sportiva, un importante campionato di nuoto indetto dalla società RN (Rari Nantes) di Roma “scegliendo per la competizione proprio il lago di Bracciano, bellissimo per la sua posizione a circa 170 metri sul livello del mare a meno di 30 km dalla capitale con acque limpidissime ed abbondanti”. Numerosi turisti e giornalisti vennero in visita ad Anguillara Sabazia, anche grazie alla ferrovia Roma-Viterbo realizzata pochi anni prima, per assistere alla gara patrocinata dal Re in persona, Umberto I, che farà dono al primo classificato di una medaglia d’oro. La disponibilità di acqua insieme alla fertilità delle terre, dovette attrarre sul lago diverse popolazioni, probabilmente provenienti da Oriente, che scelsero le sue sponde per stabilire fin dall’epoca neolitica una vera e propria colonia percorrendo a bordo di grandi piroghe, controcorrente, le acque del suo unico emissario Arrone e portando con sé piante, oggetti e animali domestici. E in effetti ben varie piroghe monossili, furono trovate nei suoi fondali, precisamente in località la Marmotta sotto il promontorio di Anguillara, non lontano dalla presa dell’antico acquedotto paolino, in occasione dei lavori per la costruzione del nuovo grande condotto da parte della Azienda pubblica Acea: allora i lavori si fermarono e sotto la direzione della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale e dell’Archeologa Maria Antonietta Fugazzola Delpino, a partire dagli anni ’90, iniziarono campagne di scavo che portarono alla scoperta del più importante e documentato villaggio perilacustre del primo Neolitico del Mediterraneo. Etruschi e Romani, trassero benessere dalle proprietà dalle sorgenti termali denominate Aquae Apollinares Novae (località Vicarello) scegliendo il lago come luogo di riposo lontano da fasti e campi di battaglia, amena destinazione delle loro splendide ville, di cui alcune riedificate in età imperiale quando il livello delle acque si alzò tanto da far lamentare attorno al 60 d.C. una ricca matrona romana, Rutilia Polla, che sulle pendici del lago possedeva una “villa rustica”, con moli e diritti di pesca acquisiti sulla porzione orientale del lago, contraddistinta, ancora nel Cinquecento, come riserva o “lago di pesca”. Sui resti di quella villa denominata “Angularia”, sorge ora Anguillara. Solo a partire dal Rinascimento, con lo strutturarsi del feudo degli Orsini che ebbe come “capitale” Bracciano, difesa dalle alte mura del castello, si tornò a sfruttare sia per uso potabile che industriale i fossi e le grandi sorgenti che in parte circondano il lago tra le quali Fiora, Carestia, Matrice e molte altre. In età moderna sovrani, pontefici e importanti famiglie signorili restaurarono gli antichi acquedotti romani e ne costruirono di nuovi “facendo dono alla popolazione” dell’acqua, un bene così prezioso, ma ancora non disponibile alla gran parte del popolo. Questa bella storia è raccontata da numerosi documenti conservati negli archivi delle comunità rivierasche del lago: Bracciano, Anguillara Sabazia, Trevignano Ro-

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mano, che dall’acqua del loro territorio hanno tratto bellezza e sviluppo. Uno di questi archivi, come l’archivio storico comunale di Anguillara Sabazia, per uno strano scherzo del destino, finì “nell’acqua” qualche anno fa durante un nubifragio, ma dalla popolazione fu tratto in salvo in modo da conservare “a futura memoria” questa “storia sull’acqua”. Nella bella pergamena custodita con cura nell’archivio storico di Bracciano leggiamo come il Duca di Bracciano, Paolo Giordano Orsini, nel dicembre del 1578 avesse preso formale impegno con la sua comunità nel far costruire una “fontana nuova” che voleva alimentare con l’acqua della sorgente della Fiora di sua proprietà, ottenendo in cambio dai braccianesi il possesso della Bandita (terre comuni) e di 350 rubbie di grano per cinque anni. Gli statuti concessi dal Duca alle comunità del feudo alla metà del Cinquecento, insieme alla regolamentazione dei bandi, confermano un’attenzione data dai Signori per la pulizia e la cura delle fonti e dei fossi attraverso la descrizione puntuale dei compiti di alcuni “magistrati” addetti come i “Vallanos et custodes segetum”. All’inizio del secolo XVIII agli Orsini subentrarono gli Odescalchi e Livio I si cimentò nella costruzione di un acquedotto che fu impiegato anche per l’azionamento di alcuni opifici (ferriere, mulini) e di una grande cartiera. Sulle acque del feudo di Bracciano, comunità mediata subjecta all’interno dello Stato pontificio, cominciarono ad interessarsi sempre di più i pontefici. Sarà papa Paolo V, Camillo Borghese, a restaurare l’acquedotto Traiano risalente al 109 d.C. che in parte ricalcava il tracciato del vecchio Alseatino e che, ormai in rovina, non riusciva a soddisfare le nuove esigenze di approvvigionamento idrico di Roma. Il papa così si accordò nel 1608 con il Duca di Bracciano Virginio II Orsini, proprietario del lago, acquistando alcune sorgenti presenti nel suo ducato e per la costruzione della nuova conduttura si affidò ad alcuni importanti ingegneriarchitetti dell’epoca tra i quali Giovanni Fontana, Flaminio Ponzio, Carlo Maderno e Domenico Castelli: la sistemazione dell’acquedotto, chiamatosi da quel momento Paolo, si completò nel 1612 come dimostra la mostra fatta costruire dall’architetto Giovanni Fontana sul Gianicolo con la quale l’acquedotto terminava il suo percorso (nel 1690, il nipote Carlo Fontana modificherà ed amplierà l’opera con la costruzione di una grande vasca centrale). L’acqua di ottima qualità non sembrò però ancora sufficiente per le esigenze della città di Roma tanto che il nuovo papa Clemente X, anche sulla base dei precedenti studi condotti dall’architetto-ingegnere Pompeo Targone (Discorso sopra i profitti da cavarsi dall’acqua di Bracciano, 1609), si convinse della necessità di aumentare la portata dell’acquedotto “per la pubblica utilità di Roma”, “per il decoro” di alcune fontane (quella di San Pietro in Montorio e la seconda di San Pietro) e per far funzionare alcuni mulini sul Gianicolo, ricavandone così dei profitti. Nel 1672 venne di fatto verificata la bontà dell’acqua del lago da alcuni Medici ed Intendenti e con Sovrano Chirografo del 3 giugno 1673, conservato presso l’Archivio di Stato di Roma, ratificato con Istromento del 6 agosto 1675, il Pontefice Clemente X accorda al duca Flavio Orsini la facoltà di immettere mille once d’acqua dal lago di sua proprietà nell’acquedotto Paolo appartenente alla Camera Apostolica. Il Duca riceveva in cambio la somma di venticinquemila scudi e la metà dell’acqua dell’acquedotto, che mescolandosi con quella del lago, perse così l’originaria purezza tanto che a Roma si diffuse il detto popolare “valere quanto

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l’acqua Paola”. Il patto, a vedere bene, si profilò come una vera servitù alla quale si obbligava il Duca di Bracciano nel cedere perennemente l’acqua nella quantità stabilita e prevedeva “che le dette mille once di acqua, giunta che sarà in Roma e misurata, debba dividersi la metà per ciascuno, cioè once cinquecento per servizio della Rev. Camera Apostolica, a libera nostra disposizione…, e le altre once cinquecento a libera disposizione e dominio del duca con facoltà di venderla dentro e fuori. Giunta alla mostra di San Pietro in Montorio le mille once effettive, e quelle divise vendute e ripartite siano obbligati detto duca e i suoi eredi e successori mantenerle sempre in tale quantità di mille once e possa a ciò essere costretto per l’effettuazione di detto obbligo con i rimedi che pareranno opportuni”. In realtà come ci descrive il memoriale allegato alla causa del 1899 di fronte al Tribunale di Roma indirizzato al Prefetto e conservato nell’Archivio Storico Comunale di Anguillara “l’introduzione dell’acqua del lago nell’acquedotto Paolo, riuscì più malagevole che non fosse sembrato da principio… per essere il lago di troppo basso livello, nonostante tutti gli sforzi di venti anni di lavoro che si fecero, l’acqua condotta a Roma superò di poco le once 700” tanto che l’Istromento del 1694 stabilì che al Duca spettassero solo la metà di 700 once e cioè 350, furono inoltre minuziosamente regolate le condizioni dell’imbocco dell’acqua del lago nell’acquedotto precisando che le “fabbriche” costruite per l’acquedotto non dovessero essere modificate: il “muro traversante” l’emissario Arrone, “il castello dell’acqua”, cioè l’edificio di forma quadrata dentro il lago nel quale passava l’acqua e lo “stato della fistola posta nel condotto nuovo del lago sotto l’acqua palmo 1 e ¼”. Il livello del lago infatti a causa dei periodi di siccità o di piovosità tendeva ad abbassarsi e ad alzarsi di livello, inoltre c’era il problema del vento che rendeva difficoltosa l’introduzione dell’acqua nel condotto tanto che il famoso architetto Carlo Fontana escogitò alcuni stratagemmi innalzando dei ripari sulle sponde del lago per aumentarne il livello e studiò per moltissimi anni come risolvere il problema. Alla complessa questione il Fontana tanto ci studiò che alla fine scrisse un’opera in tre libri pubblicata nel 1696 per i tipi di Giovanni Francesco Buagni, dal titolo: Utilissimo trattato sulle acque correnti. Nel 1752 sotto il Pontificato di Benedetto XIV le cose non migliorarono: l’acqua o giungeva a Roma con scarsità o straripava causando danni e lagnanze da parte degli interessati, tanto che anche questa volta un altro architetto, Carlo Marchionne, incaricato dal Presidente dell’Acqua Paola, esaminò i muri giudicandoli rotti e non diligentemente mantenuti in maniera tale da irreggimentare bene l’acqua che così straripando, osservava, non arrivava in città nella quantità stabilita. Venne così abbattuta la vecchia muraglia e sotto il pontificato di un altro papa, Pio VI, venne innalzato un nuovo muro collocandolo di fronte all’edificio di presa per evitare l’accumulo di immondezze ed arene, inoltre furono eseguiti nuovi lavori per togliere degli innalzamenti abusivamente fatti ai ripari dai possessori delle mole per portare più acqua al Gianicolo, perché nel 1759 c’era stata l’escrescenza del lago che debordando aveva causato danni a fontanili, terreni seminati, alberi e ponti, posti intorno al lago e al fiume Arrone. Ci si pose anche il problema degli effetti causati dalla mancata pulizia del fosso dell’emissario e a chi spettasse la sua manutenzione. I lavori di restauro furono condotti dall’architetto Andrea Vici per conto di Monsignor Giuseppe Vai, Presidente dell’Acqua Paola, dopo aver redatto nel 1789 un’accurata relazione sullo stato dell’acquedotto nella quale indicava gli interventi necessari per la sua manutenzione. Nel 1830 per una nuova siccità, si decise la chiusura delle bocchette di sfioro dell’Arrone, causando il mancato funzionamento della vecchia mola a grano di proprietà della famiglia GrilloMondragone collocata in prossimità del fiume. La Reverenda Camera

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Apostolica fu perciò costretta a costruire a sue spese una mola “nuova” che posizionò questa volta all’imbocco dell’acquedotto in modo da garantirne il funzionamento e la necessaria portata d’acqua. Così l’Istromento del 1832 fra la Duchessa Grillo-Mondragone di Anguillara e il Tribunale dell’Acqua Paola stabilì che le due bocchette scaricatore nell’emissario poste lungo il muro di contenimento del lago rimanessero aperte a piacimento della Presidenza dell’acqua Paola quando il livello dell’acqua fosse troppo alto e che la pesca al Cannarone consentita unicamente nell’alveo dell’Arrone e l’irrigazione dei prati e l’alimentazione degli abbeveratoi non fosse mai pregiudicata. Si ben comprese che il lago doveva avere due sfoghi: l’Arrone e le bocchette. Nel 1829 il livello del lago fu innanzato artificialmente grazie ai condotti che portarono l’acqua dai laghi di Martignano e di Stracciacappe, causando però l’accumulo di detriti, piante ed insetti, ma già in passato si era ricorso per diversi scopi allo sfruttamento dell’acqua dei laghi circostanti il lago di Bracciano, tanto da causare il prosciugamento di alcuni, come il Lagusiello nel secolo XVIII e, ancor prima apprendiamo dagli autori latini, come i Romani, avessero apprezzato ed utilizzato questi bacini tanto da identificare questo territorio con l’appellativo di “Sabatia Stagna”. Si collocano in quegli anni, la pubblicazione di due importanti opere riguardanti l’Acqua Paola e gli acquedotti dell’avvocato e Commissario alle Antichità Carlo Fea: Esame storico legale idraulico dei sifoni impiegati nei condotti dell’acqua Paola (Roma, 1830) e Storia delle acque antiche sorgenti in Roma perdute, e modo di ristabilirle. Dei condotti antichi e moderni delle acque Vergine, Felice e Paola e loro autori (Roma, 1832). Nel 1870 si verificò un nuovo eccesso del lago e si scoprì che le bocchette di sfogo erano rimaste arbitrariamente chiuse causando nuove inondazioni e pantani malarici. Come racconta un altro memoriale del 1877, il Comune di Roma, subentrato ormai nel Governo dell’acquedotto alla Reverenda Camera, cominciò a tormentare il lago e decise attraverso l’Ufficio edilizio di sostituire le bocchette ed introdurre uno sfiatatore posto ad un livello più alto di esse con l’intento molto probabile di trarre dal lago e immettere nell’acquedotto maggiore abbondanza di acqua. Di conseguenza nel 1899 si arrivò di fronte al Tribunale di Roma che condannò il Comune di Roma ad una severa multa sulla base di tre considerazioni: la misura stabilita dal Chirografo pontificio di circa 1.000 once per la quantità di acqua prelevata, la natura di fatto privata del lago e l’osservata mancanza di modifiche apportate “ai meccanismi per il prelievo”, osservando che la regolamentazione dell’apertura e chiusura delle bocchette doveva avvenire per consentire acqua a sufficienza per la capitale senza pregiudicare il “libero sfogo del lago”, i diritti delle famiglie feudali proprietarie del lago e gli interessi economici dei privati (agricoltori, allevatori e pescatori). Per tutto il corso del Novecento, parallelamente allo sviluppo demografico e industriale (in particolare idroelettrico) e all’affermazione del carattere demaniale dei laghi, la legislazione statale sulle acque pubbliche consentirà l’aumento dei “moduli d’acqua introdotti nell’acquedotto Paolo”, mentre la normativa sugli acquedotti andrà a regolamentare la costruzione di nuove importanti condutture tra cui il lunghissimo acquedotto del Peschiera, che ha origine nella provincia di Rieti e oggi rifornisce circa il 70 per cento dell’acqua potabile della capitale. L’opera di presa fatta costruire alla metà degli anni ’90 all’interno dei bacino lacustre dall’allora Azienda municipalizzata Acea, ha invece sostituito, come già in precedenza accennato, il vecchio acquedotto paolino soddisfacendo le rimanenti esigenze potabili della capitale e in parte di numerosi Comuni della provincia di Roma, mettendo però a dura prova la sostenibilità dell’ecosistema lacustre. Lucia Buonadonna Archivista dell’Associazione Arca sul Lago di Anguillara Sabazia

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Zuzzurellopolis 2 Libertà

el bellissimo romanzo di Federico di Roberto i “Vicerè”, il principe Giacomo Uzeda, all’arrivo dei garibaldini giunti per restituire ai siciliani la libertà dall’oppressione della no-biltà , dice alla sorella “tranquilla, libertà è una parola che non significa niente, per questo piace a tutti”. Cinico, ma grande conoscitore dell’animo umano, il principe sa che la storia rimetterà presto le cose a posto, finito l’entusiasmo tutto tornerà come prima: chi comanda e chi obbedisce. C’è una frase che almeno una volta ognuno di noi ha pronunciato per dichiarare la propria adesione a un modo di intendere la vita aperto, senza costrizioni: “la libertà finisce dove comincia quella dell’altro”. E, spesso, abbiamo sentito il nostro cuore strombazzare amore per l’umanità e i suoi destini. Poi uno ci riflette meglio e le cose si complicano terribilmente, forse perchè siamo in presenza di una semplice risonanza sentimentale, l’effetto che fa la frase ci riempie di effluvi di rose, ma quando proviamo ad argomentarla cominciamo a balbettare. Allora sono andato a cercarmi la sua definizione: condizione di chi può agire senza costrizioni di qualsiasi genere, bellissima, ma con un punto oscuro, almeno per me: se la mia idea di costrizione interferisce sulla libertà del mio vicino come si sistema la faccenda? Io, ad esempio, mi sento libero solo quando il mio lavoro mi restituisce dignità, possibilità di una vita serena, il vicino, magari, si sente libero e realizzato solo quando offre contratti precari e mal pagati. Ed è per questo, per evitare scontri insanabili, che si scrivono leggi che definiscono le regole entro cui muoversi, anch’esse esposte ai venti, se persone o gruppi di persone avvertono che una legge limita la sua idea di libertà, insorgono, per modificare quello che loro ritengono ingiusto. La libertà ha quindi bisogno di regole? E le regole hanno bisogno di essere continuamente sottoposte a tensioni per definire i confini del vivere civile? e sono questi confini il luogo mobile, volatile in cui agisce l’interpretazione che ciascuno di noi ha della libertà? cosa ci rende, allora, tanto sicuri di essere liberi, dato che ad un’analisi approfondita la quaestio sembrerebbe almeno complicata. Andiamo avanti. Se è vero che la libertà è una proprietà di un singolo soggetto dotato di volontà e che la condizione di questa è che “possa agire qualunque atto che lo faccia sentire libero”, allora è proprio nella coscienza del soggetto che, forse, si può trovare una risposta al problema. Quando, in nottate agitate, mi chiedo se sono libero o no mi dico che la libertà è scelta, è possibilità, è calcolo della volontà per raggiungere un obiettivo e che sono libero quando sono cosciente della mia libertà. Poi, per ingarbugliare il mio sonno, mi chiedo spesso se ero “libero” quando chiudemmo con un lucchetto il cancello d’entrata al lavoro per impedire ai crumiri di entrare, la nostra lotta era per ottenere condizioni di lavoro migliori, per ottenere più libertà. Poi, per allontanare definitivamente da me il sonno, mi chiedo se non fosse libertà anche la decisione dell’altro di voler lavorare, lui stava bene così. E quella benedetta frase dei confini diventa una spina conficcata nel pensiero. Per prendere sonno mi affido allora a un pensiero semplice: è veroi, si deve essere coscienti della propria volontà ma si deve essere anche consapevoli di quelle che sono le ripercussioni che la mia azione può provocare in chi mi sta vicino. E mi addormento serafico quando mi dico che forse è meglio invertire l’ordine dei fattori e dire che “la mia libertà inizia dove inizia quella degli altri” ma, mentre Morfeo mi rapisce, sogno che cambiando l’or-

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dine dei fattori il risultato non cambia. La mattina dopo so che nessuno mi sveglierà, so che domani non aspetto nessuno, so che farò quello che vorrò, ma non so se questa è Libertà o Solitudine. Travolto da questo insolito destino mi sono messo allora a cercare di smatassare il garbuglio e sono andato a leggermi cosa ne pensavano persone che hanno dedicato la loro vita a cercare di acchiappare la fenice. Ho cominciato sfogliando un libro sulla mitologia dell’antica Roma, che pure avendo tratto da quella greca molte divinità e miti, ne possedeva alcuni che appartenevano solo ai loro riti come quello della dea Libertà che rappresentava simbolicamente la libertà personale di coloro che godevano della cittadinanza romana. La libertà di chi vince. Per i greci la libertà era connaturata alla potenza e all’autonomia dello stato piuttosto che agli individui sottoposti a leggi restrittive della libertà al fine di vivere in un modo ordinato, da cui erano esclusi gli schiavi, gli stranieri e spesso le donne, con l'eccezione, per queste ultime, di quelle che fossero di estrazione elevata. La libertà dei più forti. Cicerone diceva che la libertà in senso religioso era implicitamente negata in quanto riferita alla ineluttabilità del destino che era nella mano degli dei. La libertà dell'uomo consisteva semplicemente nella libera accettazione di quello che gli succedeva. La libertà di addebitare ad altri gioie e sventure. Socrate diceva che l'uomo, per sua natura, è orientato a scegliere necessariamente il bene, se invece l'individuo opera il male questo accade per la mancata conoscenza di ciò che è il vero bene: il male non è mai volontariamente libero ma è la conseguenza dell'ignoranza umana che scambia il male per bene. Anche per Aristotele un’azione volontaria e libera è quella che nasce dall'individuo e non da fattori esterni, a condizione che sia predisposta dal soggetto con un'adeguata conoscenza di tutte le circostanze particolari che contornano la scelta: tanto più accurata sarà questa indagine tanto più libera sarà la scelta corrispondente. La libertà che nasce dal sapere. Quando ho letto di Aristotele ho stappato una bottiglia di champagne, avevo trovato il senso della libertà! Ma ormai ero in pieno trip e ho continuato a leggere. Non lo avessi mai fatto, per-

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ro irriverente: Kant sta tirando la volata alla sua “professione”, ah! mariuolo, conflitto d’interessi. Ma ora bando alle zuzzurellonate, perché devo raccontarvi il mio incontro con Sartre e il suo libro più “potente”: La nausea. è stato a pagina 56 o 94, non ricordo bene, che ho smesso di cercare i capi del garbuglio. Per Sartre la libertà è il segno dell'assurdità della vita dell'uomo «condannato a essere libero»: quando arriva al mondo molti pensieri e opere sono già realizzate, mentre lui è condannato ad inventare sempre se stesso, ad inventarsi, tra l'altro, senza punti di riferimento. La nausea esistenzialista dialoga con la libertà, uno spasso. Non ho dormito tre giorni di seguito dopo questa full-immersion alla conquista dell’idea di libertà. Poi ho provato a riannodare le fila delle cose lette, di quelle capite e di quelle non capite, e ho pensato che la libertà sia una meta raggiungibile solo attraverso scienza e coscienza. Rassicurante per me, intanto la televisione mandava in onda le terribili immagini dell’attentato che ha seminato morte a Barcellona e la mia scienza e coscienza è di nuovo rimasta appesa al pero. Ma non mi arrendo, so di essere libero di zuzzerellare attorno e contro lei. Aiuto!!!!!!!!!!! Francesco Mancuso

ché il garbuglio è tornato, più ammatassato di prima. Eh sì, perché Sant’Agostino affermava che la concezione della libertà non può fare riferimento alla libertà personale, ma a quella schiavitù interiore derivante dal peccato originale da cui emendarsi con la fede. La buona volontà, e non più la razionalità, è quella che origina la libertà, diceva: non è possibile incontrare la “libertà” senza l'intervento divino procacciatore della grazia. Aiuto! Per fortuna arriva Cartesio a dirmi che la libertà è la scelta concreta di cercare la verità attraverso il dubbio. Ci penso un po’ e mi sento tanto male: la verità ricercata col dubbio? Per dove sono arrivato con i miei pensamenti stranulati o c’è la verità o c’è il dubbio, poi penso, però, che il dubbio necessita di un approdo, è una ricerca…trovo una verità e la sottopongo subito al dubbio, alla ricerca di una più profonda o di un’altra verità…allora sono andato a cercare la definizione di verità sulla Treccani: rispondenza piena e assoluta con la realtà effettiva, è stata la risposta…e mi sono chiesto se una rosa è un meraviglioso fiore profumato o una maledetta pianta piena di spine. Mi fermo un istante. Credo che il mio zuzzerellare mi abbia portato su terreni infidi, destinati ai filosofi, ai teologi, ma che volete, spesso non ce la faccio a fermare la mia curiosità antropofaga, pur sapendo che corro continuamente il rischio di essere divorato io stesso e dopo essere stato bollito lesso! Ma finalmente approdo a uno che mi piace un sacco, con una vita piena di primati, è l’unico ad essere stato scomunicato sia dagli ebrei che dai cristiani: Spinoza. Per Spinoza non esiste alcuna libertà per l'uomo: «Tale è questa libertà umana, che tutti si vantano di possedere, che in effetti consiste soltanto in questo: che gli uomini sono coscienti delle loro passioni e appetiti e invece non conoscono le cause che li determinano.». Poi m’inguaia nuovamente quando afferma che l’uomo, se vuole essere libero, deve convincersi della sua assoluta limitazione, la libertà dell'uomo non è altro che la capacità di accettare la legge della necessità che domina l'universo. Allora mi prendo una pausa, faccio una strepitosa mangiata di cioccolata, così tanto per coccolare la mia anima in subbuglio, e approdo a Jean Jacques Rousseau che mi dice che l’uomo è nato libero ma ovunque è in catene. Aiuto… al cubooooo! Al colmo della disperazione m’imbatto in Kant, che cambia radicalmente la prospettiva della concezione di libertà. Lui riesce a coniugare libertà e necessità nel senso che l’uomo obbedisce ad una legge che egli stesso liberamente si è dato. Bella, se non fosse che le leggi le fanno i vincitori. La libertà dei forti. M’infilo nella sua critica della ragion pura e riesco a capire solo che sono troppo pieno dei miei pregiudizi, spesso corrosivi, perché solo così riesco a sentirmi “vivo”. Usa un’espressione che mi ha colpito: “l’astuzia della ragione”, per dire con quale strumento l’uomo ha affrontato e dovrà affrontare il lungo viaggio per raggiungere la libertà, quella che si sviluppa iniziando dall’arte, attraverso la religione per giungere alla suprema sintesi filosofica. Devo dire che quando ho letto questo passaggio sono stato attraversato da un pensie-

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Aforismi sulla libertà L’uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni comportano rischi. (Erich Fromm) Gli uomini, per essere liberi, è necessario prima di tutto che siano liberati dall’incubo del bisogno. (Sandro Pertini) Più libertà? Allarghiamo la gabbia.

(Jan Sobotka)

Pochissimi sanno essere liberi e pochissimi sanno cosa vuol dire esserlo. (Marguerite Yourcenar)

La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta. (Theodor Adorno) La libertà è la possibilità d’essere e non l’obbligo d’essere. (René Magritte)

Non so se ho zuzzerellato o pazziato, se sono riuscito a dire qualcosa o se ho solo pestato acqua già sporca nel mortaio. Allora ho provato a pensare al film che più mi ha fatto sentire libero e ho rivisto gli studenti di Robin Williams ballare sui banchi nell’ “Attimo fuggente”. Carpe diem, amato zuzzurellone!

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Bagni di Stigliano: cronache di un rilancio

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Un progetto che vide impegnato anche Matteo Franco, attendente di Lorenzo il Magnifico l territorio Sabatino, oltre a Vicarello, può vantare un altro centro termale importante: i Bagni di Stigliano. Entrambi utilizzati fin dal tempo degli Etruschi, hanno goduto di una meritata fama nel periodo romano, mentre assistiamo al loro declino nel medioevo. Bisognerà poi attendere il 1700/1800 per un loro rilancio. Le terme di Stigliano hanno assunto il loro attuale nome già a partire dal 1300, derivandolo da “balnea Stigianae”, appellativo ancora usato da diversi autori nel 1500, i quali ricordano anche che negli anni immediatamente precedenti erano note pure con il nome di “Sabatine” o di “Barcenno” (nome contraffatto di Bracciano). Durante il periodo romano, invece, erano conosciute come “aquae Apollinares” e con questo nome sono state riportate nella “tabula peutingheriana”, cartina geografica medioevale, copia di una carta di epoca romana. Quello che si vuole narrare in questa sede sono i tentativi di rivitalizzazione delle terme di Stigliano effettuati già a partire da fine 1400 per interessamento di Francesco Cibo, detto “Franceschetto”. Figlio naturale di papa Innocenzo VIII, nel 1487 aveva acquistato dai Della Rovere le terre dei Bagni unitamente a Monterano e Cerveteri, appartenute in precedenza agli Anguillara. Il Cibo, però, ne rimase proprietario per soli sei anni perché nel 1493 vendette tutto il feudo agli Orsini che avevano terminato da poco la costruzione del castello di Bracciano. In questa prima fase il protagonista al centro della narrazione degli eventi è tal Matteo Franco, eclettico ecclesiastico vissuto, dapprima, alla corte fiorentina di Lorenzo il Magnifico per poi passare a mezzo servizio nell’entourage papale di Innocenzo VIII. Le notizie su Stigliano sono contenute in una lettera, datata 6 maggio 1488, indirizzata a Piero Dovizi da Bibbiena, cancelliere e factotum di fiducia di Lorenzo il Magnifico. La lettera è stata pubblicata sull’Archivio Storico Italiano nel 1869 e commentata a cura del professor Isidoro Del Lungo, studioso amico del Carducci e presidente dell’Accademia della Crusca. Prima di riportare il testo della lettera, è opportuno ricordare le circostanze dalle quali sono scaturiti gli eventi, tutti connessi ad un viaggio svoltosi tra il 1487 ed il 1488 da parte di Clarice Orsini, moglie di Lorenzo dei Medici. A febbraio del 1487 viene celebrato, per procura, il matrimonio tra Franceschetto Cibo e Maddalena, figlia di Lorenzo e Clarice. A novembre dello stesso anno Clarice inizia il viaggio verso Roma con un duplice scopo:

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condurre dal marito la figlia Maddalena (le cui solenni nozze rituali verranno poi celebrate nel castello di Bracciano nel gennaio 1488) e portare a Firenze Alfonsina Orsini, promessa sposa di Piero dei Medici, altro figlio di Lorenzo e Clarice. Il matrimonio di Alfonsina con Piero viene dapprima celebrato per procura nel febbraio, mentre ad aprile avvengono le solenni nozze di rito sempre nel castello di Bracciano, dove Piero aveva raggiunto la madre e la moglie. A maggio avviene il viaggio di ritorno a Firenze. Nel ritorno, però, la comitiva del viaggio perde un pezzo: è il nostro messer Matteo Franco (al secolo Matteo di Franco di Brando Della Badessa), divenuto elemento di collegamento tra i Medici ed il papa, al quale Franceschetto aveva affidato l’incarico di rimettere in sesto i Bagni di Stigliano ridotti in uno stato deprimente. Messer Franco viene così relegato a Stigliano e lui poco gradisce questo allontanamento dalla comitiva, sia pur con un incarico importante e di fiducia. Ma i Cibo vogliono mostrare agli imparentati Medici le loro capacità imprenditoriali e le disponibilità finanziarie per cui decidono di valorizzare i Bagni puntando sulle capacità organizzative di Matteo Franco. Bastano però due mesi di lontananza dai fasti di “corte” per fiaccare lo spirito di Matteo Franco, che nell’isolamento di Stigliano si sentiva come scaraventato in guerra. Questo è lo sfogo contenuto nella già citata lettera indirizzata a Piero Dovizi, nella speranza di un suo intervento presso il Magnifico per richiamarlo a Firenze. “Io sono di già stato qui ai Bagni a Stigliano da’ dodici dì marzo in qua fermo … et òcci di già fatti ponti chiese e spedali, che nulla non ci era; e dipoi ridotti tutti questi Bagni alla toscana, che vi venga cacasangue. La stanza schifa, che il “Bagno a Morbo” (terme presso Volterra) è un Careggi (fastosa villa dei Medici) a comparazione; aria maledetta; uomini turchi; cose pessime; e dì e notte a combattere con bravi, con soldati, con barii, con cani velenosi, con lebrosi, con ebri, con pazi, con tristi, e con romaneschi: quando sto al cuoco, quando al fornaio, quando alla taverna, quando all'oste degli albergatori , quando fra gli argomenti e' capirotti e malati allo spedale, quando al merciaio, quando al pezicagnolo, quando allo speziale, quando alla lavandaia, quando al cavallaro, quando al corriere, quando al medico, quando al prete e quando, anzi non quando , nella merda a gola. Perché tutti questi uffici e cose ho condotto qua, che non c'era se non le mura, e quelle mezze: in somma ho avuto a condurre in que-

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sto bosco dalla piccola cosa alla grande, di ciò che bisogna per forse dieci mila persone, che verranno questi due mesi a questi Bagni, acciò che ogn'uomo, d’ogni comodità che gli potessi venir voglia, si possa servire qui pe' sua danari. E sonci solo sopra tutte queste cose: che, poi che gli è ‘sto maggio, mai è stato giorno che non ci sia stato 100 o 150 persone, piene le camere e letta e piaza e tutto, che è stato tal dì che ce ne sono stati più di 300. E i più ci stanno tre giorni e vanno via: io gli ho a raccattare tutti, e dare le spese, e servirgli di ciò elle volessino che da loro non avessino recato, di erba biade e strami, e insomma d'ogni cosa; e di tutto m’anno a pagare, che credo in questo anno avanzarne per madonna Magdalena più di quattrocento ducati, se Iddio mi ci tiene sano. Òcci condotto, tra cuochi tavernai fornaio e molti altri ufici che ci accaggiono, circa a venticinque ministri a salario: che se vedessi el vostro Franco in queste tempeste e inferno e mechancheria, oste di questa grande osteria di diavoli, per Dio ve ne increscerebbe; che ognuno mi conforta con dire che Cristo sarà ben dal mio, se io non ne cavo o qualche mazata coltellata briga o infermità, e che mai uomo ci stette che n'uscissi netto, che sia ringraziato Iddio di tutto. Pure io sono di franco animo; e ho tanta fede in nel mio ben fare, che spero averne onore, che a Dio piaccia. Inflno a qui ho forse preso cento ducati; e sonci venuti d'ogni regione gente. Se co' tristi non ho guadagnato, non ho anco perduto; che la maggior parte se ne sono partiti contenti; e cogli uomini da bene, cortigiani, signori e altri, me ne pare avere guadagnato assai d'amore e grazia, che poi che son ritornati a Roma, mi hanno scritto e presentato anco. Spero trovare un dì qualche preziosa gioia; che in culo al Lucifero Maggiore spererei, servendo el mio amore et Iddio Lorenzo o le sua cose. Vale. Addì 6 di maggio 1488. Vostro Franco in battaglia ai Bagni a Stigliano.”

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introduceva al piccolo spiazzo, dove si osserDalle osservazioni riportate emergono va da un lato la cappella rurale isolata dagli alcuni particolari: Stigliano versava in una altri fabbricati; dall'altro il locale destinato situazione disastrata ma comunque era già in ai bagni ed agli alloggiamenti. I restauri fatti grado di accogliere in un sol giorno anche alla chiesa, fornita non ha guari anche di 300 e più persone, dal momento che si riteuna campana, non che i lavori murari già nevano possibili 10.000 frequentatori per ultimati e gli altri che restano a compiersi, tutta la stagione. Sono numeri davvero ragoffriranno in breve un numero di stanze e di guardevoli per quei tempi, se si pensa che locali sufficienti al maggior comodo ed al più Bracciano non arrivava a 1.000 abitanti e esteso numero de' bagnanti. tutto il circondario poteva contare su non Il locale del Bagnarello, che dista circa oltre 4.000 individui, per cui si deduce che, dugento passi dallo stabilimento, è stato per certamente, parecchi avventori giungevano intiero costruito. Sono stati egualmente da Roma. costruiti due comodi ponti con ripari, transiLa fruizione delle terme era temporaltabili anco dai legni: e ciò per facilitare col mente limitata e compresa tra maggio e primo l'accesso da Roma allo stabilimento, e luglio. Il soggiorno medio dei pazienti era di per agevolare coll'altro il passaggio dallo 3 giorni e quindi le cure erano spalmate in questo lasso di tempo, assistiti da un personale composto da circa 25 persone. Il rilancio commerciale delle terme durò poco perché, con la vendita del feudo agli Orsini nel 1493, venne meno l’impegno dei Cibo con il conseguente declino delle strutture. Trascorsero oltre 300 anni di pressoché abbandono e solo verso la fine del 1700 gli Altieri, nuovi proprietari dal 1671, si dedicarono ad una nuova restaurazione. Si trascrive la descrizione del luogo effettuata nel 1853 dal pubblicista romano Scipione Cappello, riportata anche nelle osservazioni di Del Lungo. “La concessione in enfiteusi da essa (casa Altieri) Grotta sudatoria fatta di recente ai signori stabilimento al locale del Bagnarello, ed eviTittoni (trattasi di Angelo, zio di Tommaso) e tare i rischi che s’incontrerebbero nel tranZenitter, ha restituito a quelle acque la vitasito di due torrenti, che attraversando la lità, la rinomanza e il credito. strada circondano interamente il fabbricato Abbandonato quel locale alla cura di un grande dei bagni.” custode che vi risiedeva durante la stagione Dopo i restauri del 1800 le terme hanno propizia all’uso de’ bagni termali, vi convecontinuato a svolgere la loro funzione, semnivano soltanto le genti de’ paesi vicini. pre frequentate per le loro proprietà terapeuEra un vecchio castello, sfornito di tutto tiche. Sul finire del secolo Plinio Schinardi, per servire ad uso di alloggio ai bagnanti. medico divulgatore, si occupa di Stigliano Questi erano al coperto dal sole e dalle nella sua “Guida descrittiva e medica alle intemperie dell’aria mercè le nude muraglie, acque minerali ed ai bagni d’Italia” edita a che servivano di sostegno a quel mal sicuro Milano nel 1886 e così lo descrive. edifizio mancante di tutte le comodità. “Efficacia curativa. - L’archeologia ha Recavano il letto, le imbiancherie, gli ivi scoperto, da tempo immemorabile, rudeattrezzi di cucina, «e persino le provviste dei ri di antiche terme etrusco-romane e commestibili, riunendosi più famiglie per medioevali. Gli avanzi di un ponte romano e avere in comune la stanza, la tavola ed il di una via consolare additano ancora più la bagno. Dovevano i bagnanti far uso delle frequenza e la celebrità che tali acque hanno acque ristrette in una sola ed ampia vasca in ogni epoca goduto. E sarebbero cadute dove tutti correvano ad immergersi mercè lo completamente nell’oblìo, stante l'abbandozelo e i dispendi fatti senza risparmio, poté no in cui furono lasciate fin quasi ai nostri ottenersi la suddivisione del Bagno grande giorni, se continui risultati di guarigione in dodici camere balnearie ben custodite e non si fossero avvicendati ad accreditarle. difese dalle intemperie dell’aria. Si riuscì Stabilimento. - Ve ne sono due, uno detto pure ad approntare un discreto numero di Bagno grande, l’altro Bagnarello. stanze e di sale per alloggiarvi gli inferi, Il primo è un fabbricato abbastanza Il fabbricato di Stigliano non presentava, vasto nel cui pianterreno scaturisce la sorcome dissi, che il lugubre aspetto di un vecgente allacciata e si distribuisce ai 20 gabichio rudere, e l’avanzo di nude muraglie. netti, dove sono le vasche, talora doppie. Un cadente muro di cinta lo circondava: Vi è una camera sudatoria, o bagno a a guisa d’un vecchio castello del medio evo, vapore, dove penetra la calda evaporazione offriva l'apertura di un arco senza porta che

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dell'acqua. Questo decente Stabilimento fu aperto col 1852. Il piccolo detto Bagnarello è una fabbrica quadrilatera, che a pian terreno contiene camere sudorifere, 6 gabinetti per bagno, oltre una vasca grande o bagno comune, ed altro chiuso al luogo della sorgente per prendere il bagno a vapore. Tariffe. - Una camera con letto costa L. 2. Il pranzo e cena in comune L. 7. - Un bagno L. 1,50. Fangatura L. 2. - Servizio cent. 50. Uso. - La diversa temperatura e costituzione fisicochimica di queste acque fanno sì, che si prestino per la cura minerale su vastissima scala; cioè per bagno da immersione, bagno a vapore naturale, e bagno a vapore con massaggio, docciatura di ogni genere, sia per uomini che per signore, bevanda ed applicazione dei fanghi. Il soggiorno. - Potrebbe essere abbastanza aggradevole, ma vi si soffre la febbre. Durante la stagione le variazioni di temperatura sono gravi, e nei giorni freddi e piovosi, non si può uscire, perché si incorre facilmente in malattie reumatiche e catarrali. Il dottor Luigi Gualdi, medico primario dell’ospedale Santo Spirito a Roma, nel suo libro su Chianciano (Roma 1891) dice: Pestifere ed orride sono le plaghe delle Terme di Stigliano malgrado le sinistre condizioni esteriori avverse alla nostra salute, non vengono meno ai salutari loro effetti. I morbi cronici della pelle, siano essi discrasici o parassitari, le piaghe croniche, il reumatismo cronico, la gotta e le artriti ribelli di qualunque indole, le contratture muscolari, le nevralgie ed in special modo la sciatica, i catarri in genere ed in ispecie quello dell'apparato genito-urinario, le manifestazioni scrofolose, gli ingorghi glandolari, ecc., ecc., vi si trovano bene. Questi bagni sono poco frequentati, perché per quanto le sorgenti sieno così copiose, così calde, così sature e posseggano le tre grandi doti naturali della quantità, qualità e termalità, pure, come si disse, la località è malsana”. Le terme vengono citate in varie pubblicazioni, soprattutto nel corso del 1800, notizie che sono state raccolte in un opuscolo intitolato “I Bagni di Stigliano” scritto da Giuseppe Ceccacci Casali ed edito nel 1908 dalla tipografia I. Artero di Roma, Piazza Montecitorio. Ma il vero salto di qualità è avvenuto intorno all’anno 2000 quando tutto il complesso, albergo e piscine compresi, è stato completamente ristrutturato ed ampliato con la creazione di una Spa benessere (salus per aquam), assicurando quelle prestazioni che hanno consentito di superare le problematiche climatiche riscontrate nel passato e dotando il territorio di un resort in grado di fornire servizi di livello elevato.

Pierluigi Grossi

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Enigma: la macchina che ha fatto la storia

Un esemplare è custodito al Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle

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ggi nessuno la nota ma questa macchina ha fatto la storia. Si chiama Enigma, somiglia molto ad una macchina da scrivere. Venne inventata dal tedesco Arthur Scherbius nel 1918 per contrastare, all’epoca, il crescente spionaggio industriale. Un esemplare di questa macchina crittografica, inspirata al disco cifrante di Leon Battista Alberti, che ha “scritto” in parte la storia della seconda guerra mondiale, è uno dei tesori del Museo Storico dell’Aeronautica che il 27 maggio scorso ha celebrato i suoi 40 anni di attività con varie iniziative. Nessun incontro di approfondimento, tuttavia, è stato finora dedicato a questo piccolo apparecchio che La macchina Enigma custodita al Museo conserva ancora tanti misteri. Solo negli anni Settanta infatti, come ricorda Paolo Bonavoglia in La Crittografia da Atbash a RSA, è stata svelata l’esistenza di un gruppo di lavoro denominato Ultra che nel 1939 dai polacchi, alla vigilia dell’invasione tedesca della Polonia, aveva ricevuto le chiavi di decrittazione e che dal piccolo villaggio di Bletchley Park tra Oxford e Cambridge lavorava al decrittaggio dei messaggi segreti che i tedeschi trasmettevano durante la guerra con una macchina Enigma potenziata. Tra i protagonisti di Ultra compariva anche Alan Turing, padre dell’informatica teorica e ideatore di una macchina che porta il suo nome che guardava già ai computer. Furono Turing e gli altri del gruppo Ultra a riuscire a forzare nuovamente Enigma e a interpretare con tempestività i messaggi con dispositivi meccanici come il ciclometro, i fogli perforati e le bombe crittologiche già sperimentati dai polacchi. Fondamentale in questa operazione di controspionaggio fu l’entrata in possesso di un esemplare di Enigma e dei cifrari mensili stampati con inchiostro solubile in dotazione al sottomarino tedesco U-110 abbordato, dopo un bombardamento, dagli uomini di un cacciatorpediniere inglese Bulldog a largo dell’Islanda il 9 maggio del 1941. La decrittazione di messaggi tedeschi grazie anche agli indizi, i cosiddetti cribs, da loro forniti con il ricorso a continue frasi di routine, permisero a Churchill d acquisire importanti informazioni. Ma non svelare ai tedeschi il possesso dei cifrari di Enigma determinò scelte ancora oggi discusse tra gli storici. Se Churchill

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sapeva, perché Coventry, rasa al suolo da un bombardamento tedesco - episodio di tale portata che sia nella lingua inglese che in quella tedesca nacque il nuovo verbo coventrizzare - non è stata evacuata? Se Churchill sapeva perchè non ha informato gli Usa dell’attacco nipponico di Pearl Harbour. Rimane in parte non del tutto chiarita poi la scomparsa di Turing, condannato per la sua omosessualità nel 1952, che ufficialmente morì suicida avvelenandosi con una mela intrisa di cianuro, mela morsicata alla quale si sarebbe ispirata la Apple. Forse Turing sapeva troppe cose? Quello che è certo è che con grande ritardo gli Inglesi hanno riconosciuto il suo ruolo fondamentale dedicandogli una scultura a Manchester e delle scuse reali. Tutti coloro che hanno avuto a che fare con Enigma sono stati costretti al silenzio e qualcosa è cominciato a trapelare solo dagli anni Settanta. Solo nel 1989 in un discorso a Danzica il presidente Usa Bush padre ha riconosciuto il ruolo dei polacchi che, per primi nel 1932, con i matematici Marian Rejewski, Jerzy Różycki e Henryk Zygalski, forzarono Enigma e che, messi alle strette dalla minaccia nazista, si convinsero a passare le informazioni in loro possesso. Gli analisti non escludono che non tutto ciò che riguarda Enigma sia stato svelato, né appare oggi conosciuto il numero degli esemplari esistenti al mondo. Un esemplare venne persino rubato per chiedere un riscatto in denaro nel corso di una mostra a Bletchley Park e poi fatto recapitare ad un giornalista l’anno dopo. E così Enigma resta per molti versi un enigma. Come restano enigmatici i messaggi segreti trasmessi e ricevuti da quell’esemplare, oggi quasi dimenticato, custodito a Bracciano. Graziarosa Villani

Vocabolario per sole persone colte ABBECEDARIO: Espressione di sollievo di chi s’è accorto che c’è anche Dario. CERBOTTANA: Cervo femmina di facili costumi. FAHRENHEIT: Tirar tardi la notte. GIULIVA: Slogan di chi è vessato dalle imposte. MELODIA: Preghiera di una vergine. SCIMUNITO: Attrezzato per gli sport invernali. SCORFANO: Pesce che ha perduto i genitori.

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Quello stretto legame tra usi civici e storiografie

“La corsa alle scritture” di metà ’800

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on sappiamo esattamente il momento in cui gli usi civici si siano formati: quando i documenti ne parlano, le servitù agrarie esistono già da tempo immemorabile. Statuti, codici, atti notarili, anche i più precoci, intervengono per fissare diritti che già esistono per consuetudine, man mano che le comunità avvertono il bisogno di fissare in termini certi doveri e prerogative. Una cronologia più puntuale ha il processo inverso di liquidazione dei diritti di godimento sui terreni di proprietà altrui: l’eversione dal regime degli usi civici avviene in tempi diversi nelle varie parti d’Europa e d’Italia, a partire dall’Inghilterra, che con grande precocità completa il processo di erosione degli spazi collettivi già alla metà del XVI secolo. Quando Thomas Moore parla delle “pecore carnivore” che “ingoiano campi, case, città” e “perfino gli uomini” si riferisce agli effetti delle enclosures: la privatizzazione delle terre collettive a vantaggio dei redditizi allevamenti di ovini, con danno delle popolazioni rurali alle quali vengono sottratti i mezzi di sussistenza. Nel resto d’Europa il ridimensionamento degli usi civici è un fenomeno per lo più settecentesco, a volte accelerato o portato a compimento dai regimi filonapoleonici. La genesi degli usi civici nella campagna romana, come altrove, si perde nei secoli bui, ma è in parte legata alla grande stagione di ricolonizzazione dello spazio agrario circostante i tre poli di Roma, Tivoli e Viterbo: l’epoca dell’incastellamento tra XI e XIV secolo. Durante questa fase, in seguito all’esperienza delle scorrerie saracene, si cerca di riconquistare il controllo degli spazi agrari suburbani attraverso la fondazione (non sempre regolata dall’amministrazione centrale) di castelli, castellari e casali. Perché queste unità insediative fossero demograficamente sostenibili, al loro interno dovevano risiedere un numero adeguato di individui, la sussistenza dei quali ai quali era garantita dal sistema degli usi civici, la cui origine coincideva con quella delle comunità di riferimento. La fine (o l’inizio della fine) di questo sistema di possesso agrario nello Stato della Chiesa porta la data 29 dicembre 1849, giorno di emanazione della Notificazione Pontificia che

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autorizza i proprietari dei terreni a liquidare i diritti di pascolo in cambio di un indennizzo da riconoscere agli ex beneficiari della servitù. Nelle legazioni e delegazioni del centro Italia e nella Provincia di Patrimonio, per la verità, la questione dell’abolizione degli usi civici era pressoché risolta: la prima legge generale di eversione dello Stato Pontificio, nei fatti, riguardò principalmente la Comarca di Roma. La nuova legge era il timido prodotto di un dibattito che, tra la classe dirigente pontificia, perdurava da 50 anni. Fu emanata dal triumvirato reggente appena terminata la breve esperienza della Repubblica Romana, con Pio IX ancora prudentemente residente a Gaeta. La nuova legge edittale incontrò subito l’interesse dei proprietari terrieri, che ora si trovavano a disporre di uno strumento per liberare i loro fondi, almeno parzialmente (lo ius serendi e altri usi civici minori restavano inviolabili), dalle servitù agrarie. A Bracciano fu Livio III Odescalchi, recentemente tornato in possesso del feudo, ad azionare il nuovo dispositivo legislativo, nel settembre del 1853. Ne seguì, a Bracciano come ovunque nella campagna romana, una lunga stagione di vertenze, attraverso tutti i gradi della giustizia civile e amministrativa previsti dall’ordinamento pontificio, che si sarebbe esaurita soltanto alla metà degli anni ’70 del XIX secolo. La necessità di portare in tribunale documenti e argomentazioni che attestassero (o contraddicessero) l’esistenza degli usi civici e le loro modalità di fruizione, e conseguentemente permettessero di accrescere (o diminuire) la stima delle indennità da erogarsi ai rei convenuti, alimentarono la “corsa alle scritture” e un “gran frugare negli archivi”. La riscoperta degli archivi e la stesura di memorie processuali che ne riprendessero il contenuto più significativo e vantaggioso per l’estensore, stimolarono, a margine, la nascita di veri e propri progetti di storia patria. Chi poteva permettersi storiografi professionisti, vi ricorreva: Baldassarre III Odescalchi ingaggerà, negli anni delle vertenze sul diritto di semina, lo storico Luigi Borsari, colui che successivamente, insieme all’architetto Raffaele Ojetti, pubblicò la prima guida del castello di Bracciano. Le comunità affidavano le ricerche storiche al clero o ai canonici, spesso gli unici in grado di leggere il latino. Nella prima metà degli anni ’60 dell’800 il braccianese Domenico Nardini raccolse e organizzò in quaderni centinaia di trascrizioni di documenti originali per conto del Comune, in causa contro Livio III Odescalchi. Ne sarebbe dovuta nascere una pubblicazione di storia patria, ma la morte dell’autore lasciò l’opera a livello di bozza: Giuseppe Tomas-setti, che ebbe a leggere gli appunti e ne stimò il valore economico per conto del Comune di Bracciano, che intendeva acquistarli dagli eredi, cita il Nardini due volte

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Baldassarre III Odescalchi

all’interno della monumentale opera dedicata alla campagna romana. I documenti giudiziari prodotti al tempo delle affrancazioni a loro volta sono diventati fonti storiche utili per ricostruire il passato prossimo dei territori. Figlio delle vertenze sull’affrancazione del diritto di pascolo è il “Tipo dimostrativo dei Quarti di Lago Morto, Prato Igliolo, Prato Capanna, e Santa Lucia desunti dalla Pianta Sala, non che di una porzione del Quarto della Doganella, e Doganaccia desunta dalla Mappa Censuale, nel quale si riportano tutti i Fondi di Sua Altezza il Signor Principe Odescalchi compresi nell’affrancazione de’ diversi diritti di pascolo spettanti alla Comunità di Brac-ciano, e Possidenti de’ Bovi Aratori, annessa al rapporto del giorno 16 Aprile 1857”. L’anno precedente il Consiglio di Stato aveva riconosciuto in via definitiva il diritto dell’Odescalchi ad affrancare la servitù di pascolo, disponendo che l’entità dell’indennizzo fosse stimata sulla base di una perizia da effettuarsi da tre agrimensori: uno scelto dalla comunità di Bracciano, uno dal barone e il terzo dal tribunale. La perizia giudiziale così prodotta stimò per il pascolo un prezzo troppo modesto, a detta dei rappresentanti della comunità: l’elemento che più fece propendere i periti per tale valutazione fu la scarsità di punti di abbeveraggio riscontrata. Per ribaltare la situazione i rappresentanti della comunità ingaggiano altri tre periti per redigere una controperizia che, al contrario della prima, evidenziasse la copiosa disponibilità di acqua del territorio. La pianta a firma Corini, Mazzoni e Poggioli (in essa si riconosce chiaramente il convento dei cappuccini, mentre il ponte alla sua sinistra corrisponde all’attuale rotatoria della Rinascente mentre molte dei fontanili e delle sorgenti indicati sono andati perduti) è un allegato di questa perizia stragiudiziale. In sede processuale le controdeduzioni così raccolte non verranno giudicate valide, e le tariffe di affrancazione rimarranno quelle fissate nella prima perizia, ma dovrà passare ancora un decennio prima che tutte le questioni troveranno risposta. Enzo Ramella

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Fake News e Post Verità: tutti amiamo le bugie

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Lato oscuro della comunicazione digitale

colosamente di tramandare un’intera cultura anch’essa fake. “Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”, scriveva George Orwell in “1984”. L’esperienza fatta a Bracciano in questo campo è un caso da manuale: l’uso del social network, in pochi mesi, è diventato importante nella vita della comunità e in breve si sono sviluppate infiammate discussioni in rete fino ad arrivare a vere e proprie liti condite da insulti di tutti i tipi in cui si sono mescolate verità e calunnie senza più nessuna possibilità di distinguerle, né di ritrovare un modo più equilibrato di stabilire un confronto. Il risultato è stato la distruzione dello spirito stesso della comunità che non riesce più a riconoscersi come tale. In piccolo o in grande, il fenomeno ha in sé un grande potere di condizionamento sull’atteggiamento mentale delle persone ed è ovvio che si debbano trovare delle contromisure. Probabilmente si dovrà insegnare ai giovani, a partire dalla scuola dell’obbligo, a valutare le fonti delle notizie. Stando ad alcune ricerche, tante persone credono alle notizie semplicemente perché sono state condivise dai loro amici, che è l’effetto delle echo chambers (le camere di risonanza) dove si creano false verità. Per poter contrastare il dilagare di notizie false sui social network e mettere un freno ai ‘falsari’ serve un cambiamento nel comportamento degli utenti stessi, generalmente fruitori di poche pagine informative, all’ascolto di poche voci e sordi alle tesi che non amano, a prescindere dall’attendibilità delle notizie. Per combattere il problema non basta agire sul sintomo, ma operare a monte sulle cause del fenomeno e ciò riporta l’attenzione sul tema delle fake news e post-verità come fenomeni che si nutrono dell’inerzia intellettuale degli utenti. In Europa diversi governi hanno lanciato proposte di legge per arginare il fenomeno: la Germania vuole introdurre multe fino a 50 milioni di euro per i siti che non rimuovono notizie diffamatorie o calunniose (il provvedimento non riguarda le “notizie false” in genere, ma solo alcune tipologie); nella Repubblica Ceca è stata creata un’unità governativa per timore di influenze russe in campo informativo. Anche in Italia è stata presentata una proposta di legge contro le fake news che però è stata giudicata come “pericolosa” sia da alcuni esponenti politici che da attivisti per le libertà digitali. L’esigenza di interventi legislativi a tutela dell’informazione si deve confrontare, in questo caso, con il tema della censura e dei rischi antidemocratici che essa comporta. Per contenere il rischio, piuttosto, sembra maggiormente efficace restituire al singolo e alle istituzioni sociali il loro senso di responsabilità, stimolare la ricerca di un piano culturale condiviso, senza scadere nell’ansia ossessiva della lotta alla falsa notizia che, una volta lanciata, difficilmente perde il suo effetto nonostante tutte le smentite possibili. In assenza di strumenti educativi e culturali, combattere ottusamente la disinformazione rischia di sconfinare in un sistema di “post-libertà”, in cui la possibilità di esprimersi liberamente viene compromessa in nome della tutela della buona informazione. Dove il falso diventa minaccia, la democrazia è in crisi. La repressione non è mai una risposta efficace, la vera scommessa è saper gestire con intelligenza il fenomeno tenendo presente che il falso, come l’odio, fanno parte della democrazia. Soffocare le voci di dissenso non aiuta a combattere il fake, ma semplicemente riduce gli spazi di libertà e di dissenso. L’unica soluzione percorribile è una crescita culturale che valorizzi le grandi opportunità della rete togliendo senso all’esistenza stessa delle Fake News che, viceversa, rappresentano il lato oscuro della comunicazione digitale. Biancamaria Alberi

il fenomeno delle Fake News, notizie false, che trovano generalmente un’audience quanto mai disponibile a fare la sua parte per contribuire alla loro diffusione. Non siamo di fronte ad una novità, anzi il fenomeno è antico in quanto l’uso manipolatorio delle informazioni è sempre esistito ed ha conosciuto diverse modalità nel tempo che hanno dimostrato ampiamente la loro efficacia. Un caso famosissimo è quello dello sceneggiato radiofonico War of the Worlds di Orson Wells andato in onda nel 1938 che, nel descrivere un’invasione aliena, scatenò il panico tra molti radioascoltatori perché - malgrado gli avvisi trasmessi prima e dopo il programma - non si accorsero che si trattava di una finzione e si convinsero che stesse veramente avvenendo uno sbarco di extraterrestri ostili nel territorio americano. Era una fantasia che aveva trovato uno spazio nella realtà quotidiana e le persone più che la ragione seguivano il loro cuore, le loro paure, i loro pregiudizi. Il successo delle “Fake” insomma non dipende tanto dalla mancanza di un’educazione culturale e di ragionamento critico, o dall’assenza di un accertamento dei testi, come si fa nell’analisi filologica, quanto piuttosto dalla voglia generalizzata di vedere confermati i propri pensieri nascosti, le congetture, in altri termini, se la notizia fake conferma il pregiudizio del lettore, allora trova consenso e si ammanta di autorevolezza e credibilità. Assodato che le fake news non sono un male dei tempi moderni, quanto piuttosto un fenomeno endemico alla storia umana, va detto che, ai nostri giorni, il tema si complica principalmente per l’inedita velocità di circolazione delle informazioni garantita dalla diffusione capillare dei social network e dalla estrema facilità della pubblicazione e della condivisione delle News. II livello di diffusione di Internet come fonte di informazione ha comportato una capillare propagazione del fenomeno, attribuendogli una importanza sempre maggiore. Alcuni esempi degli effetti delle Fake News noti a tutti sono gli allarmismi sui rischi, non scientificamente dimostrati, attribuiti ai vaccini, così come le teorie complottistiche sulle scie chimiche lanciate nell’etere, con intenti nefasti, da misteriose agenzie governative, tanto per citarne alcuni. Ad alimentare le fake, oggi, sono il narcisismo degli utenti in termini di visibilità, la superficialità in quanto si condivide anche ciò che non si legge, l’assenza di conoscenza e di capacità ragionative dell’individuo. In una società fatta di informazione e di comunicazione, il tema delle fake news si collega naturalmente a quello della postverità e rischia di contribuire alla deriva culturale dei popoli. Come in un rapporto di causa-effetto, le notizie false producono quella disinformazione capace di superare la verità fino al punto di determinarne la perdita di importanza. Il ‘dopo la verità’ non riguarda un aspetto cronologico, ma intende scavalcare la verità, andando oltre e sostituendosi ad essa. L’Oxford Dictionary definisce la post-verità come “sostantivo che fa riferimento o denota circostanze in cui fatti oggettivi sono meno influenti nella formazione dell’opinione pubblica rispetto alle emozioni e convinzioni personali”. In pratica, le nostre convinzioni non vengono scalfite neanche quando smentite in modo evidente dai fatti, come confermano alcune ricerche. La capacità delle Fake di creare false realtà ed orientare l’opinione pubblica ha ovviamente fortissime ripercussioni sul piano della comunicazione politica ma non solo, in quanto affidare la nostra memoria storica alla Rete, in assenza di un’informazione ispirata ai principi di verità, correttezza e affidabilità, rischia peri-

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Maestro...Addio?

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u un giornale: “Dopo i padri scompaiono i maestri: in cattedra salgono solo le donne”. Davveroooo!! Sara’ proprio così’? Accidenti come cambiano i tempi! Una volta, Vi ricordate? Tutto era più semplice: il buono era buono, il bravo era bravo, il mascalzone, mascalzone, perfino il bianco era “più bianco”. Sì, ma una volta. E oggi? Beh, oggi non siamo più sicuri di niente: le statistiche e i “soloni” pontificano su tutto, dalla mortadella al sistema solare; fortunatamente, molto spesso, la realtà si incarica di smentirli. E meno male!! I padri scompaiono? Ma dai!! In cattedra salgono “solo” le donne? Embe’? La figura del “Maestro” però... peroò diciamocelo, ha...ha un “qualcosa” in più, forse un po’ più di fantasia, non che le donne non ne abbiano, anzi… tuttavia, se andiamo indietro nel tempo, oltre i nostri genitori, chi sono stati i nostri “ maestri”? I nonni, o più precisamente il Nonno. Vi ricordate con quanto amore ci insegnava? La sua esperienza, la sua saggezza, la sua filosofia, hanno lasciato in noi una traccia profonda. Quando da “piccolo” trascorrevo le vacanze in Abbruzzo, mio nonno mi svelava i segreti della campagna: quando seminare, quando mietere; mi insegnava i nomi delle piante e degli animali: “quella è la “grigetta” e quella è la “bianchina”. La sera, poi, seduto accanto a lui sull’aia, illuminata a malapena da una lampada a petrolio, mi indicava le stelle e mentre incantato guardavo quello spettacolo meraviglioso, mio nonno mi indicava ... “quella è la stella polare, quella è Andromeda, quello è il Grande carro, quello più’ in là il Piccolo carro”. Altre sere mi raccontava di Ettore ed Achille, di un certo Alighieri detto Dante e della sua “commedia” ed io “Nonno…che è da ridere?” e lui “mica tanto”. “Nonno quante cose sai, sei enciclopedico”. “Nipo’, le parolacce non si dicono” “Nonno lo diceva “lu’ Dottore”, “Ah, se è così’”. L’unico mio problema, allora, era contare le pecore. “Conta Luigi” mi diceva ed io obbediente “una, due, tre, qua…ttro”. Alla quinta già dormivo, e mio nonno “Lui’, Lui’, ma che fai dormi?”...Allora chiamava mia nonna “Mari’, lu frichi’ dorme, portame lu rosso”. Naturalmente “lu rosso” era un bel bicchiere di

Aldo Fabrizi nei panni di insegnante

vino. Mio nonno “Lui’ bevi tutto d’un fiato che te sveja”. Bevevo tutto d’un fiato, saltavo in piedi e “due, tre, venti, quaranta, duecento, trecento, tremila...”. “Calma Lui’ frena...”. “A nonno, vado come un trenooo”. Mia nonna a mio nonno: “Stu’ frichi’ me lo rovini”, ed io “nonna me sento benissimo” e mi ruzzolavo sull’aia. Insomma: Maestro addio?? Ho voluto verificare l’ultimo giorno di scuola mi sono messo davanti al portone: una maestra, due maestre, tre maestre...dieci maestre. Toh, e quello chi è? Tra gli scolaretti vedo un giovanottello, cappelletto con la visiera all’indietro, camicetta coloratissima, jeans, scarpe da ginnastica. I ragazzini lo circondano “ciao, Signor Maestro” e in coro “ti vogliamo bene” ed uno “Giorgio, dammi il cinque” e tutti gli altri “anche a me, anche a me”. “Ragazzi mi raccomando durante le vacanze leggete e ripassate quello che abbiamo fatto insieme”. Arriva l’autobus, il Maestro sale, il bus parte. Dal finestrino il Maestro saluta, i ragazzini in coro “ciao, ciao, signor Maestro, a presto”. E’ uno sventolio di cappellini e fazzoletti. Maestro addio??.... Ma no!... Ma no!! Luigi Di Giampaolo

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Chi l’ha visto?

L’

Apollo di Vicarello. Rinvenuto nel 1977 nel ninfeo di Vicus Aurelii, la villa romana appartenuta all’imperatore Domiziano, per anni rimase negli scantinati della Soprintendenza per l’Etruria Meridionale. Poi finalmente nel 2011 il ritorno a Bracciano in pompa magna. Un evento che fu salutato come una vittoria per tutto il territorio. I riflettori su

questa splendida statua si sono riaccesi. Per questa opera è stato ricavato un apposito spazio nel Museo Civico di Bracciano. Ma da ormai troppo tempo il Museo è praticamente chiuso e questo altri beni culturali che appartengono al patrimonio collettivo braccianese non sono ad oggi più fruibili da nessuno. L’Apollo di Vicarello. Chi l’ha visto?


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