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I binari spaccabracciano Oltre un secolo fa l’attuazione di un tracciato ferroviario che oggi divide il paese

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ggi, per chi vive a Bracciano, è molto sentito un problema strettamente connesso alla ferrovia, cioé il passaggio a livello che intasa il traffico cittadino in particolari momenti. Coloro, invece, che utilizzano il treno per gli spostamenti, evidenziano un altro fattore strutturale negativo nel mancato raddoppiamento dei binari. Le ragioni di queste difficoltà vanno ricercate all’origine quando, nella seconda metà del 1800, la ferrovia fu concepita non per il trasporto giornaliero delle persone bensì dei materiali o per limitati, specifici eventi. L’intento di realizzare una ferrovia, che in qualche modo avrebbe potuto coinvolgere il territorio di Bracciano, risale a poco dopo gli anni 1870, quando si stava elaborando il progetto del collegamento di Roma con Viterbo. Ma l’idea originaria, pensata intorno al 1850 durante lo Stato Pontificio, poi ripresa ed elaborata dallo Stato italiano, non era quella motivata dalla esigenza di collegare Roma con Viterbo, bensì Civitavecchia con Viterbo e Orte, per poi proseguire fino ad Ancona, cioè per assicurare un collegamento terrestre tra il mare Tirreno e l’Adriatico. Le vicende belliche connesse ai tentativi di annessione di Roma al Regno d’Italia avrebbero reso la linea utile anche per trasportare nei territori interni le truppe francesi che accorrevano in difesa dello Stato Pontificio sbarcando a Civitavecchia. Occorre tener presente che nel 1859 era stata inaugurata la tratta Roma-Civitavecchia e, quindi, la Civitavecchia-Viterbo costituiva il logico proseguimento di quanto già realizzato. Con la conquista di Roma da parte del Regno d’Italia, divennero non più urgenti e attuali le ragioni militari che ne avevano motivato la progettazione e fu così che al percorso originario, che da Civitavecchia raggiungeva Viterbo attraverso Capranica, fu preferito anticipare il collegamento che da Roma portava a Capranica, con una diramazione protratta fino a Ronciglione. La tratta Civitavecchia – Capranica – Orte fu successivamente ripresa e completata nel 1929 sempre con l’intento, poi non realizzato, di proseguirla verso l’Adriatico in modo da collegarla con il porto di Ancona e servire anche le acciaierie di Terni che nel frattempo erano sorte. Nel 1961, invece, causa una frana, la linea Civitavecchia – Capranica è stata chiusa. Successivamente sono stati effettuati importanti lavori di ristrutturazione ma senza mai arrivare al suo ripristino. Per alcuni anni il progetto sembrava fosse stato accantonato definitivamente, ma in questi ultimi tempi si è acceso un nuovo interesse alla riapertura che vede coinvolte anche le strutture comunitarie europee. Ritornando alla ferrovia Roma – Viterbo, nelle intenzioni dei progettisti la linea non doveva passare per Bracciano bensì lungo la direttrice della via Cassia, più lineare e maggiormente popolata. Ci furono intense dispute, sfociate nella petizione presentata al Parlamento nel maggio 1884, per modificare il tracciato inizialmente previsto e alla fine Bracciano prevalse. L’approvazione di questa variante fu dovuta alle forti pressioni esercitate dagli Odescalchi, che puntavano ad un rilancio economico ed a una valorizzazione dei loro possedimenti, nonché da Tommaso Tittoni, che ricopriva la carica di Presidente del Consorzio che doveva realizzare l’opera e la cui famiglia aveva interessi a Manziana. Tommaso Tittoni è stata una personalità politica di rilievo: fu deputato e senatore (fu anche Presidente del Senato per vari anni), ambasciatore e più volte Ministro degli Esteri e, nel 1905, anche Presidente del Consiglio dei Ministri, sia pur per soli 15 giorni. Il progetto fu così variato adducendo motivazioni di carattere economico-sociale e, tra le altre, furono indicate anche ragioni di utilità militare dal momento che a Bracciano cominciavano a stabilizzarsi i primi insediamenti di quella che sarebbe poi diventata la Scuola di Artiglieria. Il percorso definitivo della ferrovia si spostò quindi più ad ovest seguendo, nella parte centrale, proprio il vecchio basolato della via Clodia ed interessando il territorio di Bracciano. Anche il nuovo tracciato della ferrovia era stato concepito e realizzato prevalentemente per ragioni economiche connesse all’agricoltura e silvicoltura (soprattutto taglio dei boschi), non certo per il trasporto umano quotidiano, al tempo inesistente e forse anche difficile da prevedere e ipotizzare negli sviluppi futuri, dati i tempi. La natura prettamente agricola della

ferrovia viene confermata e dimostrata anche dalla ubicazione delle stazioni: Crocicchie, Anguillara, Cesano, La Storta e S. Onofrio (l’odierna Monte Mario) al tempo erano totalmente fuori o distanti da nuclei abitati significativi. Anche il tratto del Viterbese presentava tutte le stazioni fuori dai centri abitati (Capranica, Vico Matrino, Vetralla, S. Martino al Cimino). Perfino il tracciato che attraversava il territorio di Bracciano doveva passare più a nord, oltre i “Cappuccini”, e la stessa stazione di Bracciano era stata inizialmente prevista nella zona degli archi di Mazzasette. La variante è avvenuta solo in corso d’opera per le pressioni locali e per aver gli Odescalchi messo a disposizione il terreno ed il Comune contribuito alla maggiore spesa con propri fondi. Illuminante è invece la circostanza che la stazione di Manziana è ubicata proprio in prossimità dell’abitato, ma nei pressi c’era la casa di Tittoni. Con Regio decreto del 28 aprile 1889 la “Società Italiana per le strade ferrate del Mediterraneo” fu autorizzata a realizzare l’opera. La costruzione iniziò quasi immediatamente e durò esattamente 5 anni. La sua entrata in funzione avvenne il 30 aprile 1894, con un viaggio inaugurale avvenuto il giorno precedente. I treno partiva dalla stazione di Trastevere (al tempo collocata non nell’attuale sede ma in un edificio di piazza Ippolito Nievo) e, fino a Bracciano, contava 8 stazioni: Trastevere, S. Pietro, S. Onofrio, La Storta, Cesano, Anguillara, Crocicchie e Bracciano. Il viaggio inaugurale del 29 aprile 1894, affollato di autorità, partì da Trastevere alle ore 7 e giunse a Bracciano alle ore 8,38 per poi proseguire a Viterbo e con ritorno nel pomeriggio. La ferrovia rimase a binario unico fino al 2000, quando, dopo circa tre anni di lavori, fu realizzato il raddoppiamento dei binari fino a Cesano, in contemporanea con l’elettrificazione della linea. Per quanto riguarda Bracciano rimangono ancora attuali i programmi che contemplano sia la costruzione del secondo binario sia l’eliminazione del passaggio a livello. In pratica, nel futuro, la linea dovrebbe prefigurarsi come servizio metropolitano in direzione di Roma, ma certo è difficile fare previsioni sui tempi e sulle modalità di realizzazione. Il flusso verso Viterbo, ora poco significativo, è stato invece notevole, a partire da circa il 1950, per gli spostamenti degli studenti che frequentavano le scuole superiori, prima che queste fossero istituite a Bracciano. Il potenziamento della ferrovia influì molto sulla crescita della popolazione di Bracciano perché, a seguito dei lavori del 2000, molti ritennero vantaggioso scegliere Bracciano come residenza, in considerazione dell’importanza di disporre di un valido mezzo di trasporto per il collegamento con Roma, e per i prezzi competitivi delle abitazioni, come dimostra il successivo andamento demografico. Il censimento del 2001 conta 13.436 residenti che passano a 18.549 già nel 2011, con una percentuale di incremento storicamente mai avvenuta nell’arco di un solo decennio. Pierluigi Grossi

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Amelia Rosselli e l’urlo del Novecento

Gente Bracciano

Una donna imbrigliata dalla storia e dalla tragica fine dei figli Aldo, Nello e Carlo

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Dedicato a Maria Tesesa

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Editore: Associazione Gente di Bracciano Presidente: Claudio Calcaterra Direttore responsabile: Graziarosa Villani Redazione: Francesco Mancuso, Vittoria Casotti, Mena Maisano, Biancamaria Alberi, Luigi Di Giampaolo Collaboratori: Massimo Giribono Fabercross, Pierluigi Grossi Registrato al Tribunale di Civitavecchia n. 1388/2014 Stampa e impaginazione: FEDE 2011 srl Via dei Vignali, 60 - Anguillara Sabazia su carta riciclata foto di copertina a cura di

Contribuisci al progetto Per la TUA pubblicità contatta la Redazione: gentedibracciano@tiscali.it cell. 349 1359720

Le stagioni del nostro amore “Origine della specie”

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erché si ama. È un mistero. La vita è tutta un mistero. Qual è il segreto della vita? La vita stessa…Darwin diceva che la vita è nata da una combinazione di cellule feconde che hanno generato la via umana, animale e vegetale. Mentre le religioni predicano che la vita l’ha creata Dio. Osservando tutto quello che succede nel mondo, da quando è nata la vita, il Dio di tutte le religioni ci appare come un Dio selettivo, omofobico e cinico. Noi umani, non siamo in condizione di sapere se aveva ragione Darwin o le religioni degli uomini passati o presenti. Una cosa è certa, la teoria di Darwin è stata ed è innocua. Mentre le teorie delle religioni, hanno prodotto cataclismi, guerre, odii, discriminazioni ed ipocrisie su scala planetaria. Se sono razionale nelle mie riflessioni senza presunzione, credo; se siamo figli della teoria darwiniana, la vita sarebbe serena e costruttiva in un mondo di tutti uguali, se al contrario siamo figli dei vari Dii di tutte le religioni che dominano nel mondo, siamo ostaggi della vita di stenti, dentro le guerre, degli odii, delle discriminazioni, del razzismo, dell’ipocrisia e di tutto quello che è la negazione della vita. Se è vero che stiamo pagando il peccato originale, spero che un giorno cada in prescrizione, così la umanità potrà, finalmente, vivere in santissima pace, forse… Claudio Calcaterra

a rebbe stata una affermata drammaturga, una ottima pedagoga, una antesignana dei diritti dei deboli e delle donne se la storia non ne avesse relegato i suoi impeti di giovane ragazza a quella di madre affranta, costretta all’esilio e a piangere la morte di tre figli fino a divenire in tarda età presidente del Comittee for Relief to Victims of Nazi-Fascism in Italy. Amelia Pincherle Rosselli, una figura che ci piace riscoprire anche in omaggio ad un marzo che si tinge di donna, vede la sua vita segnata dai tragici eventi del Novecento. La Grande Guerra, nella quale perderà il figlio primogenito Aldo, caduto nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1916 sul Pal Piccolo, in Carnia e la lotta antifascista poi con l’assassinio di Carlo e Nello in Francia per ordine di Mussolini stesso. In gioventù, giornalista ed autrice, scrive lavori teatrali. Si ricordano, tra i tanti, Anima, dramma in tre atti portato in scena al Politeama Gerbino di Torino dalla compagnia del Teatro dell'arte di Alfredo De Sanctis, e la raccolta di novelle Gente Oscura, con protagonisti esponenti del mondo operaio e diseredati, pubblicata nel 1903 che le vale il plauso de L’Avanti che, recensendo il libro, poneva Amelia fra le scrittrici di riferimento del panorama socialista. La separazione dal marito Joe la porta a dedicarsi all’educazione dei figli. Una educazione votata ai valori mazziniani, anche in senso sociale, che le erano propri essendo lei, proveniente da famiglia di ebrei veneziani, cresciuta in un ambiente risorgimentale. Lo zio Leone Pincherle era stato membro del Triunvirato del Governo Provvisorio della Repubblica di Venezia. Tra i tanti episodi mi colpisce quello che Amelia scrisse in Topinino (si occupava anche di scrivere libri per ragazzi), dedicato ai tre figli, “i miei uccellini” come li chiama Amelia, il volumetto vede protagonista il simpatico bambino Topinino. Indossato il completo “alla marinaretta”, ricevuto in dono assieme ad un soldino, Topinino esce con la mamma. Si lamenta perché nessuno si intrattiene ad ammirarlo. Lei lo ammonisce dicendo che per essere notati bisogna fare buone e grandi cose. “Non ti pare che ci sia più merito in quell’operaio che è passato poco fa e che si recava al lavoro per guadagnare il pane per sé e per la sua famigliuola? Eppure tu non l’hai guardato. Ora, se fra te e lui c’era chi meritasse di essere guardato ed ammirato, questo era certamente lui e non te, che non hai fatto ancora niente di buono per nessuno”. Dopo l’esperienza del Lyceum di Firenze, circolo privato costituito da sole donne e indirizzato alla promozione della cultura femminile, fondato sul modello del primo Lyceum nato nel 1904 a Londra e ad esso affiliato, dopo la realizzazione della Casina di Aldo, un rifugio tra Bagno a Ripoli e Grassina per il soccorso dei bambini orfani o figli di combattenti, gli anni Venti e l’avvento del Fascismo pongono Amelia e i suoi figli, tra gli oppositori al regime. Arriva lo squadrismo – la loro casa di via Giusti a Firenze viene devastata nel luglio 1925, ed arriva il confino di Nello e Carlo. Nell’ottobre 1927 Amelia Rosselli raggiunge Nello nel confino di Ustica. Il 18 gennaio 1928 si reca da Carlo nel confino di Lipari. Poi l’espatrio dei due fratelli in Francia e il tremendo epilogo. L’uccisione dei due fratelli il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l’Orne. Carlo e Nello vengono uccisi durante una imboscata da sicari che verranno poi identificati come appartenenti alla Cagoule, gruppo parafascista francese che aveva agito su mandato del regime italiano. I loro corpi crivellati vengono ritrovati l’11 giugno. Strazianti i giorni delle esequie. Le salme dalla Normandia vengono condotte a Parigi nella casa di Carlo in rue Notre Dame des Champs. Quando Amelia, fino allora contrita nella sua compostezza signorile, vede portare fuori di casa, “una dopo l’altra, le bare del suo Carlo e del suo Nello – si legge in Lessico Familiare (Edimond editore) ha improvvisamente uno schianto e dalla sua bocca esce un urlo che quasi non sembra umano”. È l’urlo del Novecento, interminabile, acutissimo, la cui eco giunge inquietante fino a noi. A cura di Claudio Calcaterra .

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Gallerana: partigiana Cenerentola Lucido racconto di una Bracciano d’altri tempi: dagli episodi in epoca di guerra al lavoro al servizio del marchese Giovanni Cassis

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i aspetta al bar di famiglia. Ci sediamo in una saletta “riservata” e Gallerana tira fuori dalla borsa decine di fotografie che hanno segnato la sua vita e un misterioso blocco notes. Insieme a una splendida tisana alle erbe sfogliamo le fotografie, sono quasi tutte in bianco e nero, mi soffermo su una foto che la ritrae appena sbocciata, avrà tredici, quattordici anni, ha un sorriso leggero, di accoglienza alla vita, un volto sereno, slanciata, dietro un cumulo di pietre del giardino, una fotografia che ispira serenità. Oggi ha settantasette anni e conserva molto di quel suo sorriso alla vita, con dentro una vitalità e un desiderio di stupire che affascina. Mi chiede cosa voglio che racconti…quello che senti più urgente in te…e comincia a narrarmi di suo padre Rolando, Canini Rolando. Appena nata il padre fu richiamato alle armi, era l’inizio della Seconda Guerra Mondiale e fu spedito in Istria…mi battezzarono in fretta e furia alle 4 del mattino, non c’era tempo, doveva partire e voleva assolutamente assistere alla cerimonia…lo rividi nel 1944, tornò per poco tempo, in licenza, uno sconosciuto per me, così mi spaventai “dell’orco” che mi prendeva in braccio per baciarmi e coccolarmi, piansi disperata e mi vennero strane bolle su tutto il corpo, tanto che mamma mi mandò qualche giorno a casa della zì Betta…poco a poco cominciai ad affezionarmi “all’orco” che era apparso improvvisamente nella mia vita, neanche il tempo di provare a volergli bene che dovette ripartire, la maledizione delle guerre…si ferma quasi stupita della sua narrazione e mi chiede nuovamente cosa deve dire…quello che senti più urgente in te…sarà un motivo ricorrente del mio incontro con Gallerana, tanto che il suo racconto sarà pieno di flash-back, sempre tesa a voler inseguire urgenze e non a seguire un filo temporale…i tedeschi erano di stanza a Bracciano, mia zia Sofia aveva una capanna nel terreno dove coltivava l’orto e dove pascolavano somari e maiali, spesso i tedeschi venivano a prendersi un maialino, senza tante cerimonie, e insieme si portavano via tante patate, le kartoffen, si sa, i tedeschi con le patate…il capitano del distaccamento portava a lavare i suoi indumenti

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Ricordo delle nozze d’argento 1958 alla Tenuta Del Gallo della famiglia Canini Rolando. Angela, Gallerana, mamma Giulia, papà Rolando, Scalabrino, Vincenza, Candiano, Oriano.

da mamma, voleva pagare quel servizio, ma mamma non volle soldi, solo sapone, tanto sapone, per lavare e venderlo al mercato della borsa nera, era oro…una volta, vicino alla capanna, i partigiani uccisero tre tedeschi, solo grazie al pronto intervento di contadini amici furono evitate rappresaglie alla famiglia, li fecero sparire, probabilmente in una grotta…Gallerana si ferma, quasi che quei ricordi crinassero la sua fiducia nella vita, riprende con una strana frenesia, quasi che i ricordi si affollassero senza riuscire a trovare un ordine…zio scriveva lunghe lettere dal fronte e noi le leggevamo alla zia, ridemmo di cuore quando chiese come stava il somaro soprannominato “ci stò”, la risposta fu: “ci stò” sta bene e continua imperterrito a battere il tempo…arrossisce un po’ Gallerana, quasi sorpresa di aver narrato di quella metafora un po’ osè. Ridiamo tutti divertiti, con me ci sono Claudio e Mena, sua amata cugina e via a seguire il curioso filo con cui dipana i suoi ricordi…zia Sofia e zio Luigi, Gigiò per gli amici, abitavano sotto al castello, dove c’è

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ancora il negozio alimentare “Piccioni”. Una mattina corremmo sotto casa di zia Sofia strillandole di scendere di corsa, avevamo saputo che zio Gigiò stava tornando a casa, a piedi, lungo la ferrovia e che era vicino, molto vicino, fu un lampo e zia Sofia cominciò a correre come una giovincella incontro al suo sposo, lo riportò sfinito a casa e lo accudì amorevolmente, specialmente per debellare quella colonia di pidocchi “cicciotti” che s’erano insediati sul suo corpo…Gallerana è attenta agli appunti che prendo a un ritmo “forsennato” per seguire le sue parole e spesso si ferma per aspettare che finisca, poi riparte e cambia registro…ora devo parlare di Giocondaccia, al secolo Vincenza Granatelli, mia nonna, era analfabeta, come succedeva a troppi in quei tempi difficili, aveva un carattere tempestoso e si proclamava orgogliosamente comunista…ho sorriso quando mi ha detto che suo marito si chiamava Modesto, quasi un contrappasso…aiutava i partigiani, dava loro da mangiare e non la mandava a dire a nessuno, una volta passarono sopra il cielo

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di Bracciano aerei tedeschi che andavano a bombardare la Roma-Civitavecchia, lei era in piazza, le venne naturale urlare ai quattro venti “daje Gigiò, che tanto quelle bombe sò…vedo Gallerana arrossire un po’ e chiederci se può ripetere quella parola di Giocondaccia, al nostro sì…quelle bombe sò stronze, nun c’acchiappano”, ma il diavolo ci mise lo zampino e volle che la moglie del gerarchetto di Bracciano fosse presente e riferisse al marito le parole di Giocondaccia…pausa galeraniana e partenza per un altro ricordo…Giocondaccia, quando nacque un suo figliuolo andò a battezzarlo e quando il prete gli chiese quale nome voleva dargli, rispose fiera e impettita “Matteotti”… era da poco stato assassinato dalla ferocia fascista… al diniego del prete tacque, alle sue pressioni perché venisse fuori quel nome, si stava facendo tardi, disse che lo chiamava “Fiore”…chissà, forse il fiore del partigiano di “bella ciao”…Giocondaccia aveva partorito cinque figli con Modesto, del sesto non si seppe mai il nome, amava andare con Modesto all’osteria di via Giuseppe Volpi 19 e bersi il suo bel quartino di vino rosso…una fiera femminista anti litteram penso e mi distraggo un attimo, la riprendo che ha ricominciato a narrare dell’episodio dell’invettiva all’aereo tedesco…fu arrestata e rinchiusa nelle carceri di Bracciano, poi spedita a Regina Coeli, dove venne pesantemente interrogata affinchè denunciasse il nome di dieci partigiani, per premere su di lei arrestarono anche Fiore e, al loro reiterato silenzio, li condannarono alla fucilazione. Quella notte Giocondaccia perse tre denti, il fatto è che morse con rabbia e disperazione le barre di ferro della finestrella del carcere, voleva fuggire! Lei e Fiore, a cui i tedeschi avevano già fatto scavare la loro fossa, furono salvati dalla fantasia e dalle conoscenze di Don Cesolini. Arrivò per un colloquio in carcere e le disse di fare i nomi di tutti i dipendenti comunali, doveva cercare di passare per matta. Fu così che Giocondaccia sciorinò ai crucchi tutti quei nomi, molti dei quali fascisti notori. Fu così che il tribunale militare la riconobbe matta e liberò lei e suo figlio: diavolo di un Don Cesolini, ne sapeva e ne conosceva sicuramente più lui del diavolo!...eccola che s’interrompe per sfogliare le fotografie che ha portato con sé, quasi a cercare l’ispirazione per nuovi racconti…abbiamo passato l’infanzia in povertà, papà faceva l’imbianchino, lavorava ma i soldi erano sempre insufficienti per sfamare e vestire nove persone. Fece anche qualche apparizione in un film di Tinto Brass che girò le scene

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Mamma Giulia, Modesto, Vincenza, Gallerana

da queste parti, spesso bevvero e cantarono insieme, ma di soldi sempre pochi. Domenico, il fratello, in arte Meco, era il fattore della tenuta del Gallo del marchese Giovanni Cassis e della marchesa sua sposa Luciana Del Gallo di Roccagiovine, figlia di Luciano, discendente diretto di Napoleone I, che fu senatore avevano bisogno di braccia, fu così che Rolando andò a lavorare nella tenuta, via il lunedì con il birroccio fino a Santa Maria di Galeria, sei giorni fuori casa e la domenica a far festa con la famiglia. Modesto, il suo primogenito, non amava molto andare a scuola, passava il tempo a monellare, era bravissimo con la mazzafionda e con grande facilità s’ingegnava a far scoppiare le lampadine dei lampioni sulla strada, cosicché, aveva dieci anni, il padre decise di portarlo a lavorare con sé nella tenuta del Gallo, a fare il pecoraro. Rolando era un papà meraviglioso, ma un uomo dei suoi tempi, i sentimenti nel cassetto segreto, difficile che offrisse ai figli una carezza o una caramella…vedo sorgere un sorriso luminoso sul volto di Gallerana…mamma era bellissima, con quei suoi occhi azzurri…la vedo persa in un silenzio incantato che dura alcuni secondi, poi… io ero un po’ la simpatica Cenerentola di casa, a me spaz-

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zare e pulire, a me rimediare palettate di cenere per accendere il camino, non c’erano soldi per comprare fiammiferi, a me mettermi il “coroio” in testa a portare acqua e fascine a casa…pausa Galleraniana…mio fratello Modesto era un discolaccio, una volta si mangiò una scaglia di pecorino che doveva bastare per tutti, mamma diventò una belva, levare il pane ai fratelli, alle sorelle, gli legò le mani e guardando il camino lo minacciò di bruciargliele quelle mani ladre…tempi duri per i deboli di cuore!...papà voleva tutta la famiglia unita, così chiese a Meco di chiedere ai marchesi se era possibile trasferirsi tutti alla tenuta, c’era bisogno di braccia e i marchesi acconsentirono, c’era un lungo magazzino che si trasformò nella loro casa, letti da una parte e fieno dall’altra, dentro un camino di quelli dei signori di un tempo, enorme, per cuocere le delizie ai banchetti che organizzavano, un cervo, un maiale, interi naturalmente…Gallerana sfodera un nuovo sorriso incantato e parla del marchese e della marchesa con parole di miele…ci volevano bene, fecero costruire una casa per noi con il bagno, la luce e l’acqua, la marchesa diceva che le femmine non potevano dormire con i maschi, a ognuno il suo posto, un sogno, io, oltre

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“I miei cugini Sergio e Franco Citti” Il volto di Accattone di Pasolini scomparso di recente. Claudio Calcaterra ricorda i rapporti con loro

In primo piano a sinistra Rolando Canini ritratto con i suoi commilitoni

le faccende domestiche, aiutavo con il forcone a preparare il fieno per le bestie, in più ero la “maialara”, quella che accudiva i maiali, per capirci. Davanti a casa c’erano tre grotte enormi e lunghissime, qualche centinaio di metri, abitate da “serpenti millenari”, piene di trappole e cunicoli, quasi un labirinto, alla fine si usciva carponi tanto era piccolo il buco, accanto un masso che sembrava la porta del buco, oltre un campo pieno di alberi di fico, nettare per i maiali, così nella stagione dei fichi a terra passavo in quel mistero di grotta, ma ero tranquilla, tanto erano i maiali che m’indicavano la “retta via”. Un giorno la marchesa ci volle ospiti a casa sua, furono giorni di preparativi per essere belli e puliti in quel giorno di festa, poi tutti sul

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carretto e via verso la villa, verso il sogno, fu una giornata memorabile e ricevemmo lodi per il nostro lavoro e la nostra onestà che ancora mi accarezzano il cuore…le chiedo di parlare un po’ di “Gallerana” intima, si schernisce un po’, poi…amavo leggere, mi portavo sempre qualche libro quando prendevo la corriera per andare a farmi i capelli a Bracciano, ricordo, come se fosse oggi, i brividi che mi diede leggere la storia del bandito “Giuliano”, era uscita a dispense su un giornale che compravo all’edicola di Bracciano, anche papà leggeva, ricorda ancora un libro che poi lesse anche lei, Il ponte dei sospiri…un romanzo storico e romantico di cappa e spada di Michel Zevaco insegnante, giornalista, editore e attivista anarchico francese”…ogni mese

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arrivava uno strano vecchietto con un birroccino pieno di oggetti: vestiti, forbici, pentole, ago e filo, cocci e libri, la sera si fermava da noi, cenava e dormiva alla tenuta per partire verso il suo prossimo avventore, da lui comprai molti dei libri che ho letto…papà la sera, quando eravamo nello stanzone, tutti insieme appassionatamente, amava raccontarci una favola, sempre la stessa ma cambiavano le parole e per noi era come se fosse sempre una nuova favola, eravamo in sette, sette figli, il quinto era Scalambrino, che vuol dire scaltro, attento, chissà in quale romanzo trovò l’ispirazione, e che dire di Candiano e il mio, Gallerana, così si chiamava mia nonna paterna, poi c’erano Modesto, Vincenza, Angela e Oriano…amavo talmente quel posto, la tenuta, la marchesa che ogni mattina spianavo e pulivo il viale che portava alla villa, che passava davanti a casa nostra, per premio un sorriso della marchesa e così cantavo allegra tutto il giorno…Sono due ore che siamo insieme, Gallerana a raccontare, io a cercare di fermare le sue suggestioni, i suoi ricordi, mi guarda dritta negli occhi, apre il suo sorriso incantato e mi chiede se è andata bene…non sono ancora un ferro vecchio, non ti pare?... è una persona ancora fresca, con un’ingenuità antica che travolge, cerco anch’io un sorriso incantato, ma credo mi sia riuscito male, non sono allenato, cerco parole ma sto zitto, diffido della retorica. Ed ecco apparire il blocco notes misterioso, me lo mostra…qui ho scritto molte delle cose che ti ho raccontato, desidero che i miei figli sappiano che viaggio ha fatto la loro madre nella vita…gli chiedo di poterci dare un’occhiata, me lo porge senza nessuna reticenza, mi avverte solo che lei ha una scrittura che forse non è facile leggere. Mi perdo qualche minuto nelle “sue memorie”, la calligrafia è antica, ricorda le stanghette con cui ci hanno insegnato a scrivere, leggibilissima, lì Gallerana ha scritto le sue memorie, per lei e per i suoi figli. Mentre sto leggendo Gallerana, quasi parlando a sé, o forse a tutti, sussurra…e avrei molte altre cose da raccontare…sembra una richiesta, o un invito, o una promessa, o un desiderio, o un bisogno, non sono riuscito a decifrare il suo sussurro. Ci salutiamo come vecchi amici, insieme al figlio che ha accompagnato la madre lungo tutta la narrazione…grazie e a presto Gallerana!!! Francesco Mancuso

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Franco Citti

Franco e Sergio Citti

I fratelli Calcaterra. Al centro Claudio

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rono a Fiumicino. Mio zio Santino era un patito del bilancione, gli piaceva pescare e spesso io e i miei figli andavamo a trovarli nella loro nuova casa”. La vita scorre ed occasioni di incontrarsi per i tre cugini sono poche. Ma Roma, a volte è come un paese. “Stavo lavorando in via Margutta ad un locale di grido, la Taverna degli Artisti. Vi cantava anche Juliette Grecò, la celebre chansonnier francese. All’epoca ero tecnico della Teti, la società di telefonia. Un giorno incontrai Franco e Sergio. Con Pasolini frequentavano lo studio di pittura di Novella Parigini e così mi portarono con loro. Passammo molte serate lì da Novella a chiacchierare, a parlare di politica, di cultura, di poesia. Erano i giorni di Valle Giulia. Io stesso sentii Pierpaolo commentare i fatti criticando la contestazione e difendendo quelli che secondo lui erano i veri proletari, ovvero i carabinieri costretti alla divisa dalla fame e dalla povertà. Io ascoltavo con interesse. Ancora non ero coinvolto nella politica”. Quando i lavori finirono, finì anche quel periodo. Per i cugini i rapporti tornarono radi, qualche incontro sporadico, a Fiumicino. “Franco un giorno mi disse che era molto contento perché Coppola lo aveva chiamato per fare il picciotto nel Padrino. Aho vado ad Hollywood, diceva contento. Sergio invece a fianco a Pierpaolo era diventato uno sceneggiatore, un regista”. Con Pierpaolo il sodalizio era stretto. Un film dopo l’altro fino alla Trilogia dell’amore e quello della morte. Tutto fino a quella notte tra il 1 e il 2 novembre e il ritrovamento del corpo di Pierpaolo all’idroscalo di Ostia. “Franco piangeva, piangeva tanto…a dirotto. Aveva perso la madre, il padre, il figlio. Mentre

Sergio ci diceva ‘noi lo sappiamo chi lo ammazzato’. Lo disse a chiare note anche al giornalista Fabrizio Forcone del Corriere della Sera che lo contattò. “Pierpaolo è stato giustiziato. Si disse anche all’epoca che c’era dietro la storia del furto delle pizze dell’ultimo film Salò e le 120 Giornate di Sodoma e del ricatto per riaverle indietro. ‘Noi lo sappiamo chi lo ha ammazzato’, continuava a dire Sergio. A dieci giorni dal fatto Sergio girò un filmato sul luogo del rinvenimento del corpo di Pasolini secondo le indicazioni dategli da un pescatore che era stato, a suo dire, testimone oculare del fatto. Il pescatore parlò di due auto. Una probabilmente di Pasolini l’altra, con tre o quattro persone a bordo che poi buttò giù un paletto e investì più volte il corpo del regista. Solo anni dopo fu chiamato a testimoniare. Ma poco prima aveva ricevuto delle minacce…Restavano le prime dichiarazioni. Il caso della morte di Pasolini, fu archiviato il giorno della morte di Sergio. Per l’avvocato Marazzita ‘una strana coincidenza”. Per Franco e Sergio la perdita è stata irreparabile. A portare la bara di Pasolini furono loro con Bernardo Bertolucci e Ninetto Davoli. Nonostante la grave perdita Franco e Sergio hanno continuato a lavorare e a viaggiare molto. Ma non era più la stessa cosa. Sergio è morto ad ottobre 2005 dopo aver firmato vari film. È considerato uno sceneggiatore ed un regista di fama. Franco dopo il suo rientro dal Sudamerica viveva a Fiumicino, vicino ai figli Paolo e Marina. Lì è morto il 14 gennaio a 80 anni. “Con Ninetto al funerale ci siamo guardati negli occhi. Si chiude definitivamente un’epoca. Sono contento delle belle parole che hanno detto di lui alla commemorazione”. Graziarosa Villani

h Claudio è venuto un regista che ha detto che ce fa fà un film, a me e a mio fratello Sergio”. Franco è entusiasta qualche giorno prima alla Maranella era venuto Pasolini, voleva fare un film. Franco, il fratello Sergio e la sorella Adriana non si incontravano tanto spesso con Claudio, loro cugino carnale. Le madri erano sorelle, ma da quando la famiglia di Santino Citti si era trasferita gli incontri si erano diradati. “Mi ricordo che con la mia famiglia andavamo a trovarli, là alla Maranella. Noi vivevamo al Trionfale. Santino faceva l’imbianchino e i miei cugini Franco e Sergio lavoravano con lui”. Racconta Claudio. “Quel giorno quando arrivammo Franco mi corse incontro e mi disse che era stato scelto per fare l’attore”. Un regista in una borgata può trasformare la vita di due ragazzi allora alla soglia della trentina. E così fu. Franco divenne il volto indimenticabile di Accattone, quasi l’icona di una Roma proletaria, ai margini della città, in quelle sterminate periferie che oggi il lunghissimo viale Palmiro Togliatti, quasi un miniraccordo anulare, congiunge trasversalmente. Franco e Sergio lasciarono il pennello ed entrarono nel mondo patinato del Cinema lavorando gomito a gomito con un regista come Pasolini, all’epoca quasi ai suoi esordi cinematografici. “Pierpaolo, Franco, Sergio e Ninetto divennero amici, al di là del lavoro. I due fratelli introdussero il friulano maestro, per così dire, nel “core de Roma” insegnandogli le sfumature del romanesco, i modi di fare dei romani, l’atteggiamento tipico sornione e divertito. Lo fecero entrare nelle case. E per loro fu davvero una svolta. “I miei cugini dopo Accattone, lasciarono La Maranella e si trasferi-

Io sono scandaloso. Io sono nella misura in cui tendo una corda, anzi un cordone, tra il sacro e il profano. P. P. Pasolini

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Controcorrente 11 Realtà e finzione, realtà e sogno, realtà e apparenza

Non sono niente. Non sarò mai niente. A parte questo, Possiedo in me Tutti i sogni del mondo. (Fernando Pessoa)

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ella propria vita credo sia successo quasi a tutti di svegliarsi improvvisamente e di chiedersi se quello che aveva vissuto era davvero un sogno o era realtà. Ho iniziato cosi, tanto tempo fa quando feci un sogno che mi accompagnò per mesi, una ricerca per tentare di capire quella linea sottile, quella zona grigia, quella terra di nessuno che esiste tra finzione e realtà, tra sogno e realtà, tra apparenza e realtà. Il teatro è il luogo dove questi elementi si mescolano meglio e dove forse è più difficile scorgere le differenze. Pirandello sosteneva che le persone nella loro vita indossano delle maschere, per conformarsi meglio alle regole e ai luoghi comuni della società. Tuttavia, queste maschere, spesso, prendono il sopravvento e modificano la stessa personalità dell’individuo che le agita. Pirandello era convinto che i personaggi di un’opera teatrale, o dell’arte in generale, fossero più veri e più reali di tutte le persone che erano a teatro, attori, spettatori, macchinisti, truccatori e quant’altro. Da giorni sono immerso nella lettura delle Novelle per un anno di Pirandello, tre al giorno, tre giorni sì e tre giorni no, sono 256, e proprio ieri mi sono imbattuto in una che mi ha fatto riflettere sul tema in oggetto: Il pipistrello. La trama. Siamo sul palcoscenico di un teatro mentre gli attori provano il testo della commedia, alla battuta di Gastina, la primadonna, che chiede che venga spenta la candela, un pipistrello, annidato nella volta, arriva repentinamente e sbatte con le sue ali viscide sulla faccia dell’attrice. Gastina minaccia di ritirarsi alla prima del giorno dopo, ma il regista la convince che il pipistrello non è reale perché lui non l’ha inserito nel copione. Nel giorno del debutto, dopo un primo atto fiacco, arriva la famosa battuta e anche il pipistrello. Gastina, terrorizzata, sviene di

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ribrezzo tra gli applausi del pubblico che non ha visto il topaccio volante e crede che ella reciti con bella naturalezza la sua parte. Lo spettacolo viene interrotto perché Gastina non si rianima, ma il successo è enorme, inaspettato, irreale. Per la replica del giorno dopo il regista inserisce nel copione, nella sua realtà, il pipistrello ma, a quelle condizioni, Gastina si rifiuta di recitare e lo spettacolo non verrà replicato. Ho assaporato golosamente il contrasto di due mondi e di due realtà: la realtà creata da un’artista, quella della commedia, e la realtà della vita, quale la percepiscono i sensi ed è quel pipistrello svolazzante sui lumi della ribalta a confondere le anime dei teatranti e degli spettatori. Due realtà o due illusioni? Picasso diceva che tutto ciò che riesci a immaginare è realtà, mentre Murakami, un moderno e versatile scrittore giapponese, asserisce che la realtà esiste solo quando, se ti pungi con un ago, ti esce del sangue rosso. Non c’è rimedio, per vivere c’è chi si affida all’effimero della vita, alle percezioni, agli stati gassosi in cui ci si può trovare e chi asserisce che la realtà è solo quando la “cosa” si può misura-

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re, toccare. È un enigma che sarebbe piaciuto alla Sfinge. Don Chisciotte è grande perché si ostina a credere, contro l’evidenza, che la bacinella da barbiere sia l’elmo di Mambrino e che la rozza Aldonza sia l’incantevole Dulcinea. Don Chisciotte, da solo, sarebbe penoso e pericoloso. Don Chisciotte ha bisogno di Sancho Panza, il quale vede che l’elmo di Mambrino è una bacinella e sente l’odore di stalla di Aldonza ma capisce che il mondo non è completo, né vero, se non si cerca quell’elmo fatato e quella beltà luminosa…. Io sogno la mia pittura. Poi dipingo il mio sogno. (Vincent Van Gogh) Amo Van Gogh, i suoi gialli estremi, a volte deliranti, le sue spatolate accese, non sapevo che avesse anche il dono della poesia. In due versi è riuscito a raccontarmi sui sogni più di mille spiegazioni psicanalitiche. Poi mi sono un po’ inciurmato, di quali sogni parlava? Dei sogni della notte o di quelli a occhi aperti? Quarant’anni fa ho fatto un sogno che posso raccontare

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ancora oggi nei minimi particolari. Era una fase turbolenta della mia vita. Sognavo di cambiare il mondo, di costruire un futuro migliore per i miei figli, ma la vita faticava a scorrere, tra le mie lontananze per lavoro e le presenze stanche quando tornavo a casa sentivo le mie relazioni con le persone più care inaridirsi, o almeno a farsi difficili, inoltre il mondo se ne andava per conto suo senza minimamente ascoltarmi, così si stavano aprendo ferite pericolose. Quel sogno entrò a gambe tese nella mia vita e con il suo simbolismo spesso misterioso mi costrinse a fare i conti con la realtà, che cambiò.

lontaria messa in onda di un oggetto delle mie brame, delle mie insane curiosità. L’illusione più pericolosa è quella che esista soltanto un’unica realtà. Ma anche una visione troppo ristretta della realtà può dimostrarsi illusoria. (Paul Watzlawick) Alla ricerca di una bussola per orientarmi nel ginepraio in cui mi sono cacciato ho trovato un simpatico aforisma che mi consente un’altra digressione sul tema. Nulla è più democratico del sogno. Garantisce a tutti il diritto di volo. (Anonimo romano)

Io sogno le mie rogne Poi la “realtà” mi cambia. Il problema della realtà ha affascinato, da sempre, poeti e filosofi. Già Platone, nella sua Repubblica, affermò che la nostra comprensione del mondo reale è imperfetta. Ciò che comprendiamo, a suo dire, è una specie di ombra, di immagine, di simulacro della realtà. Più la realtà diventa soggettiva, più è difficile separare i fatti dalle finzioni e, soprattutto, l’oggettivo da ciò che è decisamente personale. A volte, vi sono persone che tendono ad essere vittime delle loro fantasie in quanto “permettono” involontariamente che le loro fantasie impregnino la loro facoltà di giudicare. Più il distacco delle persone dalla “realtà” è profondo, cioè non si è in grado di orientarsi nel tempo, nello spazio o nell’identità, più si vive in un mondo fantasioso, ci si rifugia in un non luogo inaccessibile agli altri. Si opera, così, in base a delle illusioni e di conseguenza le nostre azioni non riescono a radicarsi nella “realtà”. Ma la “realtà” non è sempre facile da definire. Spesso, infatti, è difficile determinare quali nostre azioni e convinzioni siano “illusioni” e quali siano invece “vere”. Epitteto, un filosofo romano, asseriva che non esiste la realtà, esiste la rappresentazione della realtà che ognuno di noi elabora ed essendo ognuno di noi unico sembrerebbe di poter dire che esistono infinite realtà o almeno tante realtà quante sono le persone che la pensano e la vivono. Questione dura da digerire per un ingegnere che misura con precisione alchemica le sue creazioni. Eppure, eppure…mi è capitato di assistere a una vibrante discussione tra due cari amici sulla rosa, realtà immanente, ma per uno era un fiore fragrante, un dono della natura, per l’altro solo una maledetta spina che si conficca nelle mani di chi la tiene in mano. Ho riso e pianto per tre giorni. La sentivo una disputa strampalata, forse animata da una loro rivalità latente, ma insieme dovetti apprezzare quella invo-

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Ho pensato subito al mito di Icaro. Per scappare dal labirinto, Dedalo sognò di volare, così costruì delle ali con delle penne e le attaccò al suo corpo e a quello di Icaro con la cera. Nonostante gli avvertimenti del padre di non volare troppo alto, Icaro si fece prendere dall'ebbrezza del volo e si avvicinò troppo al sole, il calore fuse la cera, facendolo cadere nel mare dove morì. Non volle stare con i piedi per terra, volle troppo dal sogno di volare. E che dire dei disegni di Leonardo che sognò un elicottero? Ma prima di lui in Cina nel V secolo a.C. era in voga un giocattolo costruito in leggerissimo legno di bambù e costituito da un'elica a due pale collegata a un bastoncino che, fatto ruotare velocemente fra i palmi delle mani o mediante la trazione di una cordicella, lo faceva levare in volo. Questi piccoli giocattoli, tuttora utilizzati anche in Giappone dove prendono il nome di taketombo, arrivarono in Europa presumibilmente nel XV secolo, dal momento che appaiono in alcuni dipinti a partire dal 1463. Circa vent'anni dopo Leonardo da Vinci, in un disegno del 1480 conservato nel Codice Atlantico, abbozza il progetto di una “vite aerea” che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto “avvitarsi” nell'aria sfruttandone la densità similmente a quanto fa una vite che penetra nel legno. La macchina era immaginata come una vite senza fine del diametro di circa 10 metri, mossa dalla

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forza muscolare di quattro uomini e costituita da una struttura di canne rivestita di una tela di lino inamidato. Il sogno irrompe nella realtà!!! Un tempo posavo ad apparire migliore di quel che ero. Poi, senza fortuna, ho posato a calunniarmi. Oggi, con fortuna ancora minore, mi sforzo di somigliarmi. (Gesualdo Bufalino, Il malpensante) C’è un giuoco antico che ancora faccio nei momenti di fatica, di dolore, d’incomprensione con gli altri e con me stesso. Mi chiudo al bagno davanti a uno specchio e rigiro la pelle del volto, illuminandomi di smorfie e ghigni spaventosi, “orrorifici”. Per me è come portare allo scoperto i demoni che mi abitano ed è solo allora che riesco a sopportarli, a renderli, spesso, inoffensivi, vincerli non è mai facile. Una volta fu tale il pathos con cui rigirai la mia pelle che non riuscivo più a riprendere nessuna delle immagini che offro a chi m’incontra, secondo chi incontro: ebbi paura, poi una risata omerica e ricacciai i demoni nel loro/mio inferno. Apparire per ciò che si è sembra un esercizio impossibile, pretenderebbe che uno sapesse chi è! Guardando l’immagine della pipa dipinta da Magritte e leggendo la scritta sottostante che dice: “questa non è una pipa”, la prima reazione è di chiedersi: “ma allora cos’è?”.

Il sottile inganno si svela ben presto se si riflette che si sta guardando solo un’immagine, il quadro, non l’oggetto reale che noi chiamiamo “pipa”. Magritte anche in questo caso, tende a giocare con la confusione tra realtà e rappresentazione, per proporci una nuova riflessione sul confine, non sempre coscientemente chiaro tra i due termini. L’uomo non ha una propria essenza a priori, l’uomo diventa una persona solo sotto lo sguardo degli altri, assumendo tanti ruoli e tante maschere , quante sono le persone che lo vedono. Se si sogna da soli, è solo un sogno. Se si sogna insieme, è la realtà che comincia. (Proverbio africano) Francesco Mancuso

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La Grotta dei Serpenti tra scienza e mito

Bacco a Bracciano

Sul Monte delle Fate l’antro serpifero e salutifero meta tra Cinquecento e Settecento di persone in cerca di guarigione e di studiosi di medicine

I vini locali al giudizio di Sante Lancerio, storico e bottigliere di fiducia del papa Paolo III. Per Francesco Redi, letterato e medico “Pisciarello di Bracciano, che è gentile, vino da Dame”

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l territorio di Bracciano, per la sua natura prevalentemente collinosa e boschiva, soprattutto nelle aree a ridosso del lago, non si è prestato molto alla coltivazione della terra e, quindi, neanche all’impianto di vigneti su larga scala. Forse lo fu nel periodo più antico, quello etrusco - romano, prima che la proprietà terriera, inizialmente frazionata, si trasformasse in un latifondo adibito, in massima parte, a pascolo. Ma la “cultura” del vino ha sempre stimolato i singoli agricoltori, orgogliosi della propria produzione, sia pur spesso limitata ai propri fabbisogni. La gara fra di loro per il riconoscimento delle singole qualità e specificità è sempre stata attuale. Mentre oggi ogni azienda provvede direttamente a far conoscere i propri vini ed alla loro commercializzazione, allargando l’orizzonte della clientela, in passato la fruizione era praticamente riservata ai singoli agricoltori ed ai paesani. Sono note le cosiddette “fraschette”, cioè le vendite al pubblico che consentivano lo smaltimento delle eccedenze, ai fini personali, delle produzioni con l’apposizione di un ramo (frasca) d’alloro all’ingresso del locale appositamente ricavato ed adattato alla circostanza. Con il tempo, iniziarono poi ad essere classificate e divulgate le caratteristiche dei singoli vini. Il primo vero e corposo trattato enologico moderno risale alla metà del quindicesimo secolo quando Sante Lancerio, storico nonché bottigliere di fiducia del papa Paolo III, in un manoscritto databile intorno al 1559, descrisse in maniera dettagliata e puntuale le qualità dei vini italiani e europei al tempo ritenuti più pregiati. Paolo III, nato Alessandro Farnese, originario del Viterbese, fu un assiduo frequentatore di Bracciano, particolarmente legato agli Orsini dal momento che sua sorella Giulia era la moglie di Orsino Orsini, anche se è passata alla storia, più che per i vincoli matrimoniali, per essere stata molto bella e l’amante di Rodrigo Borgia, cioè papa Alessandro VI. Nella descrizione dei vini fatta dal Lancerio, salta subito agli occhi lo spazio dedicato al vino di Monterano, che è il più ampio di tutti in quanto questo vino era ritenuto il migliore in assoluto. Dopo aver scritto che Monterano è “distante da Roma una grande et grossa giornata è un antico castello al presente dell’illustrissimo Giordano Orsini conte dell’Anguillara e di Bracciano” il Lancerio esamina le qualità del vino asserendo che è tanto buono che a “narrare la sua bontà et scrivere assai, sarei troppo lungo et non potrei tanto scriverne et laudarlo, quanto più merita essere laudato”. Prosegue poi scrivendo che “tale vino,

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credo, certo secondo il mio giudizio et la mia esperienza, non abbi pari bevanda in tutta Italia. In questo vino sono tutte le proprietà che possa et debba avere un vino; in esso è il colore, odore et sapore, l’odore di viola mammola quando comincia la sua stagione, il colore è di finissimo rubino, et è saporito si che lascia la bocca come se uno avesse bevuto o mangiato la più moscata cosa che si possa. Esso ha una venetta di dolce, con un mordente così soave che fa lagrimare d’allegrezza bevendolo”. Scrive poi che di “tale vino se ne può bere assai a tutto pasto che mai fa male, anzi, ancorché sia rosso, purga il ventre, sicchè bevutolo è digestivo….Et questo credo che proceda che il terreno dove si piantano le vigne è molto forte e tufato, et è luogo calido rispetto alle grandissime selve che lo circondano et anche in molti luoghi il terreno, per la sua calidità sente lo zolfo….Di tal vino Sua Santità beveva volentieri et assai e cominciava a berne a tutto maggio delli dolci, et anco, se si salvavano, ne beveva di tutto luglio. Et gli asciutti beveva nella stagione rimanente, et faceva onore al luogo. Di tali vini molti prelati vorriano bere, ma per essere il luogo picciolo, vi si fa poco vino, onde bisogna che abbino patienza”. Oltre a Monterano, il Lancerio descrive anche il vino di Bracciano che giudica perfetto, con delle limitazioni però. Dopo aver precisato che “Bracciano è il primo luogo di casa Orsina, et è luogo inespugnabile” precisa che “… questo vino è piccolo, e certo non sono vini da portare da luogo a luogo, se non nell’inverno”. Passando a Pisciarelli scrive: “... sono anco di buoni vinetti a un loco nominato Pisciarelli, dove sono molte capanne fatte di legname ed terra. Dove habita Lombardi, Toschani e di diverse provincie, che custodiscono le vigne secondo la sua patria, et il vino lo fanno simile al modo del suo paese. Di modo che si trovano di buoni et perfetti vini, ma in Roma sono buoni per l’inverno. L’estate si trova qualche vino in quelle grotte, ed è molto appetitoso, ma vuole essere pigliato in fiaschi, perché alli caldi non resiste. Di questo vino, massime rosso, Sua Santità beveva alcuna volta nella Primavera quando era amabile, di bel colore e mordente”. Nel trattato sono citati anche i vini di Cerveteri e di Anguillara. Di quello di Cerveteri scrive: “... è perfetto vino nel luogo. Ma levatolo dalla sua botte per trasportarlo, muta colore et anco sapore, et sente del terreno. Et che non lo conoscesse pensaria che fosse la botte trista, ma certo non è altro che il terreno che fa così. Di questo vino Sua Santità non bevevo volentieri, se non già si

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Segue dal numero 5 di ottobre 2015 e dal numero 6 di gennaio 2016

trovasse nel luogo et per far favore al Conte dell’Anguillara, padrone di detta terra e del luogo”. Passa poi ad Anguillara che, “..distante da Roma XVI miglia, fa di perfetti vini per l’Inverno, che alli caldi non resistono nella terra, perché non ci sono grotte fresche. Ci sono vini bianchi e rossi, meglio questi. Tali vini hanno tutti del molle et grasso, rispetto al paese acquoso, per il lago che circonda la terra”. Circa un secolo dopo la stesura del trattato di Sante Lancerio, il vino di Pisciarelli viene citato dall’accademico della Crusca Francesco Redi, letterato e medico, in un libro stampato a Firenze nel 1685 con il titolo “Bacco in Toscana”. Il Redi, però, non trova il vino di suo gradimento. Questa la descrizione: “…Quel cotanto sdolcinato, sì smaccato, scolorito, snervatello, Pisciarello di Bracciano non è sano, e il mio detto vò che approvi ne’ suoi dotti scartabelli l’erudito Pignatelli; e se in Roma al volgo piace glielo lascio in santa pace” Questo giudizio, apparentemente sostanzialmente negativo, viene mitigato in una nota dove, precisa: “Ma noi abbiamo in Toscana un dettato: vino amaro tienlo caro, il che s’intende del vino non dolce, e che pende gentilmente nell’austero. Tutta volta lasciando il parlar da scherzo, non sia ch’io voglia biasimare il Pisciarello di Bracciano, che è gentile, vino da Dame, ed è lo stesso vino di quello, che in Firenze si appella Pisciancio”. Un’altra nota chiarisce il riferimento a Pignatelli, precisando che si “intende del sig. Stefano Pignatelli cavalier Romano mio riveritissimo amico, e litterato di maniere gentilissime, come ne fanno fede i Libri, che ha stampati, e particolarmente il Trattato Platonico…”. Nei secoli successivi si hanno sempre valide produzioni di nicchia che

esaltano alcune produzioni locali fino ad arrivare ai tempi attuali che vedono Bracciano sede della manifestazione “Laghidivini”, festival nazionale dei vini prodotti lungo le rive dei laghi italiani e che si svolge da qualche anno a Bracciano. Pierluigi Grossi

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[…] Una casuccia sovrasta al colle, dove sono due celle, lunghe XI piedi, larghe V. Nelle pareti della spelonca nomi scritti dagl’infermi, e veggonsi effigie de’ serpenti. Fuori è la grotta nella quale cacciando il capo si sente il calore eccitato del vapore solfureo. Il poggio nella sua parte più alta ha quercie e scogli, e guarda il sol nascente. Le serpi medicinali appaiono principalmente in maggio e sono allora efficacissime. E in altri tempi v’erano più numerose, ma da invidi medici si esterminarono le più con qualche malefica droga. Del resto innocenti si mostrano e a nessuno letali. Perciò non serpi, ma special maniera di vermi, da Dio creati e destinati a salute de’ mortali. Pericolose però a quei che le offendono: ciorché un tale sperimentò con suo danno, il quale con frettolosa fraude uno de’ serpenti, applicatoglisi addosso, dalla spelonca volle recar fuori, per collocarlo egli stesso in sul petto ov’era il massimo della malattia. Col fine di recuperare la salute in questo speco entrò negli anni andati il quadragenario cardinal Valence miseramente travagliato da dolori artritici ed altri per più anni, e ne tornò salvo. E lo stesso accadde ad una podagroso che vedemmo. Un contadino di nome Rosilio, idropico da un quadriennio, ed immensamente gonfio, stato per tre dì alquante ore nella grotta, n’ebbe immediato sollievo, e sgonfio il ventre, com’egli stesso in Bracciano ebbe a narrarci “ …La seconda testimonianza me la darà il Mangeto nella Bibl. Med. Pract. Lib. VIII. S.V. Hydrops col seguente racconto. “Io Gio. Cristoforo Baume di Spira, nell’a. 1692, il 2 di Giugno, da Ratisbona andando in Roma, per soverchio bere cervogia nera la quale del resto non m’era a grado, fui preso da itterizia gialla, si orrenda, che il giallore non solo era su tutto il corpo, ma stendevasi all’unghie delle dita e al bianco degli occhi, divenuta ogni cosa come cera, e fatta si pertinace l’infermità, che per più settimane a nessun rimedio volle cedere. In Roma anzi una febbre ardente vi si era aggiunta, alla quale finalmente l’idrope era succeduto, vasto e pericoloso, che tanto atrocemente avevami indebolito, ch’io non poteva né stare, né andare, e quasi né manco respirare, ed ogni speranza di risanamento e di vita avevami abban-donato…Mentre dunque io non più cercava di prognosi, sfiduciato al tutto, ecco un medico romano, Antonio Marconi di nome, diemmi il consiglio, e mi persuase, che se punto amava la vita e la sanità, alla spelonca de’ serpenti mi recassi, ad essa ricorrendo come ad ultimo rifugio, senza di che dentro otto giorni sarei morto. Disposto ad obbedire, nel dì seguente che fu il 12 del settembre di quell’anno colà feci trasportarmi così intraprendendo la cura. Nel mattino, verso l’ora 5 o 6 (che alla romana è quanto dire l’ora 12) nudo affatto, e digiuno entrai nella caverna, e tosto fui preso da sonno (se non per oppio assunto, forse per la virtù narcotica de’ vapori, od ancora per stanchezza, e fiacchezza). Così non potrei dire quale accoglienza i medicatori serpenti ni facessero, e se grandi erano o piccoli, pochi o molti, d’un colore o d’un altro, posto che appena il paziente dà segno di moto rientran essi ne’ nascondigli loro velocissimamente fuggendo, e fatti con ciò invisibili. Nel tempo però dell’immobilità e del sonno s’avvolgon essi colle spire al corpo del giacente ed infermo, e lo stringono, e tanto lambendo e suggendo s’affaticano, che senza prostrazione alcuna delle forze, o lassezza, o piuttosto richiamandolo da morte a vita e l’appetito risuscitandogli, fan ritornarsene il malato a casa vispo ed allegro. E questa medicatura seguitai per tre giorni, nel quale spazio di tempo, nove o dieci ore spesi dormendo, sudando, e lasciando alle serpi ritorre i viziati umori, finché tutto il turgore idropico svanì, l’addome perdé l’enfiagione, a dir breve fui sano senz’altro farvi, che

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prendere, giunto in Venezia, per sette od otto volte alcun poco di sal volatile in brodo caldo od in alquanto di vino”. Queste due storie penso bastare a chi è per leggere, poiché bastarono a me per eccitarmi a chiederne altre novelle all’egregio ed eruditissimo amico mio sig. D. Giovanni Canonico Guazzetti, il quale già da sopra un anno gentilissimamente alla mia curiosità soddisfece con una lunga e dotta sua lettera, che stamperei per intero, se lo spazio accordatomi nel giornale il comportasse. Io solo estrarronne le particolarità che qui appresso trascrivo. “Usciamo di Roma per porta Cavalleggieri, e prendendo la via di Civitavecchia, dopo aver veduto celebri luoghi di antiche nominanze, arriviamo a Cervetere, la nobilissima Agilla, ricco terreno di tanti classici monumenti, e di tanta sepolta civiltà. Di quivi declinando verso nord-ovest, passato Cere-Novo, troviamo il Sasso, oggi piccolo Castro o Vico di coloni maremmani , del quale molta dev’essere però l’antichità, offrendo all’intorno un continuato ingombro di muracci, e di enormi pietre, visibilmente state in costruzione: luogo altissimo, forse propugnacolo una volta agli abitatori della contrada. E tutto il paese è oggi tenimento del sig. Marchese Patrizi di Roma. Or è quivi a poche miglia, fra Castel Giuliano, e una giogaia detta le Petrische, un luogo erto, anfrattuoso, rupinoso, che i nostri chiamano Monte delle Fate, al cui piede mostrasi l’apertura, come di cunicolo, internantesi nel seno della roccia; ed è quest’apertura, che ha nome grotta de’ serpenti. “E’ pur vero secondo una carta geografica dell’agro romano, troviamo appunto infra Ceri e Castel Giuliano la denominazione di Grotta delle serpi salutifere”. “L’abbate Venuti, insigne archeologo, il quale nel decorso secolo la visitò mentre narra la tradizione de’ vecchi della contrada intorno a’ rettili che ivi abitano, e che poi lambiscono e risanano gli infermi, narrò d’aver osservato uscirne solo un vapore caldo ed umettante, pel quale gli parve potere stabilire analogie colle grotte sulfuree di Pozzuolo, e le altre simili”. “Oggi riferiscono i villici esistere poco lungi acque termali: ma sopra tutto è pregio dell’opera conoscere quel che dalla bocca del sig. Traversini di Bracciano, affittuario di tutte quelle terre potrei raccorre (è sempre il sig. Guazzetti quegli che scrive). “Curioso, egli mi disse, di conoscere il monte così chiamato delle fate, e la famosa grotta de’ serpenti, della quale molte cose straordinarie, incredibili, favolose mi vennero raccontate, ciò è dire di esse fate che in quello scoglio hanno l’inaccessibile loro reggia, e che quivi in serpi di varie nature e forme orribilmente si trasformano, più però ad altrui vantaggio che nocumento, io mi vi condussi, e trovai niente altro che un frane, ed ostiolo non più largo ed alto di circa due palmi, ridotto forse a quell’angustia per forame delle terre superiori, dove introdotto il braccio par sentii quel calore del quale altri favellano”. Sin qui il R.mo signor Canonico, al quale voglio pubblicamente rendute quelle grazie che la cortesi di lui ben merita. Or da tutto ciò io deduco ben aver pensato il Venuti, nel giudicare che la portentosa grotta niente altro è se non un naturale sudatorio, o vogliasi dire un bagno a vapore, come non radamente se ne hanno presso le acque medicate calde, ove la virtù risanatrice non ha bisogno di serpenti per manifestarsi quando con senno e cautela si usi. La giunta de’ serpenti che nessun mai vede, né può vedere, è tutta una favola, avanzata in parte dall’antico gentilesimo, in parte della nuova mitologia recata in Italia d’oltralpe cogli occupatori specialmente normanni; siccome non era verisimilmente che un’astuzia di contadini di trovar dentro alcune spoglie di serpi, ed alcuna loro bava... segue al prossimo numeno

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Le nove tavole sul lago di Bracciano di Guido Viettone dagli Etruschi ad oggi Il singolare plico rinvenuto in una soffitta. La ricerca della mitica Sabate e studi sul reticolo viario etrusco e romano

L’assetto viario nel periodo etrusco secondo lo studio di Guido Viettone

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ono venuto in possesso casualmente di un singolare plico, ripescato in una soffitta, che mi ha molto incuriosito ed affascinato. Si tratta di un fascicolo di 9 tavole contenenti mappe che attraversano la storia del territorio del lago di Bracciano dal periodo etrusco ai giorni nostri. Tavole di 965x630 mm, alcune delle quali con uno o due ripiegamenti di 250 mm circa dove sono riportate, scritte a mano, le spiegazioni di ogni mappa. Un fascicolo di tavole toponomastiche dell’intero bacino lacuale sabatino redatto da un certo Ingegner Guido Viettone. Il titolo del lavoro, in evidenza al centro della copertina in cartone color celestino (sbiadito, ingiallito e in alcune sue parti, già attaccato dalla muffa), è il programma del contenuto: “Tavole di Indagine Storica al Territorio Interessante il Comune di Anguillara Sabazia”.

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Probabilmente una tesi per un corso superiore postlaurea. Infatti, nella parte superiore destra della copertina, si legge: “Scuola di Perfezionamento per lo Studio ed il Restauro dei Monumenti”. Immediatamente sotto l’intestazione, con caratteri molto più piccoli, sono apposti (forse con il timbro dello studio professionale) il nome, il cognome e la via del compilatore (con annessi titoli accademici). Non c’è una data certa della sua redazione ma si può desumere che si tratti di un lavoro della fine degli anni ’50 del secolo scorso. E gli anni trascorsi in soffitta il plico li dimostra tutti purtroppo. La rilegatura ad esempio, è fatta con grappe a testa tonda che ora si presentano totalmente arrugginite. Tuttavia le tavole, di color giallo paglierino, sono ben conservate e completamente leggibili. Accanto alla prima tavola è incollato

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un foglio che funge da indice dove sono elencati, anche questi rigorosamente scritti a mano con inchiostro di China, i titoli di tutte le tavole contenute. Sono disegni di una fattura minuta e pregevole. Sono facilmente interpretabili anche dai digiuni di ingegneria ed architettura. Sarebbe però opportuno approfondire l’analisi della tesi con un approccio interdisciplinare di esperti e studiosi di diverse materie. In particolare gli aspetti storici che dalle carte emergono con grande evidenza agli occhi di chi di storia si diletta. O anche gli aspetti meramente cartografici e della storia della cartografia. Comunque sono tutte mappe interessantissime. Deliziose sono le rilevazioni cartografiche dei centri storici dei tre comuni rivieraschi che si riferiscono alla loro evoluzione nelle varie epoche storiche con ingrandimenti in scala 1:5000 (riportate, per ragioni di spazio suppongo, all’interno del perimetro del lago sembrando grandi città subacquee). Il dato che balza agli occhi immediatamente si riferisce alla tavole n. 4 “periodo etrusco” e la n. 5 “periodo romano”. In esse si evidenziano due fatti che continuano ancora oggi a suscitare dispute storiche tra studiosi. In primo luogo la ubicazione della mitica Città Sabate (da cui presero il nome, come si sa, il “lacus sabatinus” e le colline circostanti, Monti Sabatini) che, anche secondo l’autore di questo studio, non è possibile collocare precisamente in nessuna parte del territorio. Anzi gli stessi cartografi dall’autore citati (Westephal, Zuccagni, Eufrosino, ecc.) non riescono a dare, sulla base di testimonianze storiche ed archeologiche certe, una collocazione definitiva della mitica città. Ed in secondo luogo la diatriba sulla nascita dei centri abitati sulle rive del lago. A parte il ritrovamento del favoloso sito archeologico plurimillenario alla Marmotta del 1989: il villaggio neolitico e le piroghe monofittili (di circa 8000 anni fa) che da solo rivoluziona l’intera cognizione storico - archeologica del territorio sabatino (cosa questa che lo studio ovviamente non poteva contemplare perché di molto antecedente ai ritrovamenti dell’età neolitica). La questione che lo studio di Viettone invece pone è che l’organizzazione

Gente di Bracciano

urbanistico-viaria e socio-economico e produttiva dei nuclei esistenti all’epoca etrusca indica con sufficiente sicurezza che Bracciano non esistesse neanche come semplice villaggio; che Trevignano pur esistendo fosse un piccolissimo villaggio e che: “Anguillara dipende direttamente da Veio e perciò ne segue le sorti. Nel periodo in esame fu probabilmente il centro agricolo principale del territorio veiente e perciò dovette godere di un discreto benessere e di una limitata importanza”. Così dice Viettone nella leggenda della tavola 4. Ed anche nell’immediato successivo periodo romano, mentre riafferma quello che già conoscevamo: la comparsa nelle carte di Brachianum sorto grazie al cambiamento del verso della viabilità tra gli Etruschi che avevano una “struttura viaria a direzionalità antipeninsula” (ortogonali rispetto alla posizione longitudinale dell’Italia) ed invece i Romani con una viabilità orientata “…su direttrici peninsulari… soprattutto impiantando nuove strade ad ampio sviluppo per facilitare le comunicazioni” (Tav. 5). In effetti l’odierno Bracciano, in epoca romana poteva rappresentare uno snodo della via Clodia sapendo che gli altri centri rivieraschi preesistenti avevano perso d’importanza riacquisita poi nel periodo imperiale (costruzione dell’acquedotto Traiano e termalismo a Vicarello e turismo rurale ad Anguillara con ville e case rustiche romane nei dintorni – tra le più importanti quella di Rutilia Polla). Interessanti sono le tavole del periodo dal Medioevo al Rinascimento (tav. 1 ) e quella del periodo medievale (tav. 6) che veramente rappresentano il cuore dello studio dell’ingegner Viettone. Egli riesce a dare sostanza alle tesi di rilievo storico, urbanistico ed economico del bacino lacuale attraverso la consultazione e citazione di una importante quantità di autori di carte geografiche e piante toponomastiche, dalle più antiche a quelle più moderne, che attestano la validità del suo studio. Si tratterebbe di approfondire e verificare con certezza le fonti utilizzate (e magari aggiungere le mancanti), cosa che io non potevo fare (NdR: chi fosse interessato, anche solo a visionare le tavole, può contattare direttamente l’autore dell’articolo, attraverso la nostra redazione). Ma ad una primissima sommaria lettura (chiamando altri, più esperti di me, a cimentarsi nell’approfondimento), mi pare si possa considerare questo studio basilare per ogni ipotesi storica si voglia formulare del territorio sabatino e dintorni.

Dal Cinquecento al tutto il Settecento

“Progetto Pace o Guerra: il 1914 I Dilemmi del Novecento”

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rchivi alla luce della Grande Guerra per imparare a fare ricerca, indagare i segni del territorio, produrre e ricercare nuovo materiale per arricchire il patrimonio storico-culturale del territorio interrogandosi sui valori del pacifismo. Non ha precedenti il “Progetto Pace o Guerra: il 1914 I Dilemmi del Novecento” che riunisce in unica grande manifestazione otto comuni (Anguillara Sabazia, Bracciano, Campagnano Romano, Cerveteri, Formello, Mazzano Romano, Oriolo Romano, Tolfa), la Soprintendenza Archivistica del Lazio, scuole e numerosi altri partner tra i quali l’Istituto Luce, l’Istituto Storico per il Risorgimento. Un progetto culturale ampio che prevede incontri nelle scuole, eventi ed iniziative in ognuno dei comuni interessati che ha ottenuto un finanziamento dalla Regione Lazio di 75.600 euro, a valere sulla legge regionale n. 26/2009. Il progetto vede come capofila il Comune di Bracciano. Ideato ed elaborato nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della Prima Guerra Mondiale il progetto entra ora nel vivo con un ricco calendario di eventi tra mostre, spettacoli, concerti e riletture di documenti d’archivio. Coinvolto un gran numero di associazioni del territorio. Denominatore comune per tutti i paesi interessati i 20 incontri in programma nelle scuole a cura dell’Istituto Storico per il Risorgimento di Roma – i risultati dei quali verranno acquisiti al patrimonio dell’innovativo portale Movio, strumento per la realizzazione di mostre virtuali on line – e le 15 proiezioni nelle scuole di filmati d’epoca con lezioni per l’uso delle fonti audiovisive a cura dell’Istituto Luce. A Bracciano nell’ambito del progetto gli studenti di alcune classi hanno seguito laboratori di didattica della storia alla luce dei nuovi orientamenti storiografici: dalla fotografia al cinema, dalle fonti private alle testimonianze urbane e territoriali. Ad aprile inoltre è in programma nelle sale dell’archivio comunale una specifica mostra dell’Associazione Fotocineamatori Bracciano.

Biagio Minnucci

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A Bracciano progetti di Arteterapia

Vita di paese e Social Network: i giustizieri della rete

Esperienze straordinarie. A colloqui con Sabrina Masoni

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all’ultimo rapporto del Censis sulla situazione del Paese emerge chiaramente come il fenomeno dei Social Network stia permeando in modo sempre più intenso la vita degli italiani che sembrano investire nella rete sempre più tempo e sempre più energie. Il dato interessante è il boom dei social network ed in particolare Facebook rispetto al quale il Censis rileva che tra il 2009 e il 2015 gli utenti con un’età compresa tra 35 e i 45 anni sono aumentati del 153%, mentre gli over 55 sono aumentati addirittura del 405%. In sostanza, mentre tra i ragazzi si registra un graduale spostamento da Facebook a WhatsApp, canale più agile e soprattutto più privato, su Facebook fa il proprio ingresso un pubblico decisamente più maturo, in particolare la fascia di età compresa tra i 55 e i 74 anni è quella che risulta in costante aumento. Il fenomeno nazionale si riflette con le stesse coordinate anche in piccole realtà e Bracciano, con i suoi 20.000 abitanti, ne è la prova provata. I principali animatori delle pagine di facebook

della platea cittadina sono un grande numero di gruppi che pubblicano notizie, lanciano appelli, condividono immagini e via continuando con tutte le modalità di comunicazione tipiche delle piattaforme Social. Si tratta di adulti che usano la rete come una sorta di “Speaker Corner” per arringare su argomenti disparati. La differenza è data dai contenuti che rispecchiano i valori degli autori dei post e la qualità della comunicazione è direttamente proporzionale al grado di intelligenza degli interlocutori. Così fenomeni di aggregazione civica intorno a temi importanti ed obiettivamente utili che danno vita ad iniziative di alta utilità sociale si mescolano a farneticanti proclami giustizialisti che incitano all’odio generalizzato verso l’ingiustizia e la corruzione sbandierata spesso senza la minima cognizione di causa. È il fenomeno, ben noto agli studiosi della rete, della “gogna mediatica” che trova in Facebook un ottimo terreno di espressione ed offre al proprio pubblico l’occasione di scaricare le proprie frustrazioni travestendole da “missioni sociali”, rafforzate

Museo Civico di Bracciano si apre alla formazione degli studenti della Cattolica di Milano

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l Museo civico di Bracciano selezionato per le buone pratiche a rappresentare MU.S.ART. che raccoglie tutti i musei storico artistici della regione accreditati nel Sistema Museale Regionale all’importante convegno internazionale “Comunicare il museo oggi: dalle scelte museologiche al digitale” che ha riunito il 18 e 19 febbraio alla Sapienza di Roma esperti del settore tra i quali James Bradburn, direttore della Pinacoteca di Brera, ed Enrico Ferraris, direttore del Museo Egizio di Torino. All’incontro è stato proiettato un video realizzato da Marco Marcotulli con interviste, tra le altre, al direttore del Museo Civico di Bracciano Cecilia Sodano e all’educatrice museale, Sara Maccioni, che hanno raccontato le attività museali e i rapporti con il territorio. La struttura è particolarmente apprezzata sia in ambito universitario che regionale per la sua vivacità culturale. Nel 2015 ha realizzato oltre cinquanta laboratori per pubblici diversi (ragazzi, famiglie scuole), accogliendo oltre mille ragazzi. Il museo si è poi da poco dotato di nuovi dispositivi multimediali e mappe tattili che permettono la fruizione delle sue opere anche alle persone cieche e sorde, oltre che di una piccola sala video. Per questa sua vivacità culturale il Museo di Bracciano, che da qualche tempo può contare su un nuovo accesso direttamente da via Umberto I, è stato scelto dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano tra

quelli dove gli studenti del master “Servizi educativi per il patrimonio artistico, dei musei storici e di arti visive” possono svolgere il loro stage di formazione.

dall’impressione di parlare, attraverso la propria tastiera, al mondo intero senza doverne rispondere a nessuno. È facile in questo modo calpestare le normali regole della convivenza civile ed arrivare al libero insulto che, probabilmente, nessuno avrebbe mai pensato di poter mettere in atto nella realtà della vita di tutti i giorni, ma che, magicamente, diventa possibile in uno spazio virtuale in cui le persone diventano immagini e assumono la valenza simbolica del nemico pubblico. Quello che si affaccia all’orizzonte è un panorama da moderno medioevo in cui chiunque si può permettere di infangare chiunque e, l’un contro l’altro armati, si consumano pubblicamente linciaggi mediatici e vere e proprie battaglie all’ultimo post. Esiste in materia un’ampia casistica, la stessa che affolla le aule dei tribunali e gli uffici del Garante della Privacy, interpellati sempre più frequentemente per dirimere situazioni di questo tipo, ed esistono ormai numerose sentenze della Cassazione che equiparano la diffamazione in rete alla diffamazione a mezzo stampa, segno inequivocabile dell’incapacità a gestire la rete da parte di una società evidentemente non ancora pronta ad usare in modo costruttivo l’enorme potenziale offerto dalle innovazioni tecnologiche. Sembra appropriato a questo punto citare Umberto Eco, il grande semiologo scomparso pochi giorni fa, quando nella Lectio Magistralis tenuta all’Università di Torino nel 2015 sulla necessità di insegnare alle nuove generazioni come filtrare le informazioni su Internet, ha affermato: “I social permettono alle persone di restare in contatto tra loro, ma danno anche diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”. In sostanza il grande potere di Internet presuppone un altrettanto grande livello di responsabilità in capo a chi lo usa pena la perdita di tutte le enormi opportunità che la rete offre a tutto il suo pubblico.

Biancamaria Alberi

Bracciano Via Principe di Napoli, 9/11 Tel./Fax 06 90804194 www.caffegranditalia.com

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Gente di Bracciano

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ncontro Sabrina Masoni una mattina in cui piove a dirotto. Guardo l’orologio. Mancano pochi minuti alle dieci. Mi auguro che sia puntuale. Mi sento chiamare, mi volto. È lei. Sono le dieci in punto. Tiene a guinzaglio una cagnolina che le scodinzola accanto. Muoio dalla curiosità di conoscere quest’arteterapia. “Sparo” subito una serie di domande: “che cos’è questa arte?”, “quali sono i tuoi progetti?, “quali i tuoi obiettivi?”. “Eh, quante domande!”. Mi risponde. “Piuttosto dimmi come mai ti interessa tanto l’arteterapia? Forse ne hai sentito parlare?”. Prima di rispondere ci penso un momento. “No. Fino a poco tempo fa non sapevo nemmeno che esistesse”, confesso, con un certo imbarazzo, la mia ignoranza. Sabrina sorride. Poi racconto com’è nata questa mia curiosità: durante una manifestazione ti ho vista in mezzo ad un gruppo di bambini che su grandi fogli facevano strani disegni e linee di diversi colori; linee che si rincorrevano fino a ricongiungersi in un punto preciso. Quello che mi ha colpito – dico – è stato che hai detto a ciascuno: il tuo disegno vuol dire…, il tuo…, e il tuo…”. “Brava Sabrina, hai indovinato!”. Poi correvano ad abbracciarti”. Gli occhi azzurri di Sabrina sembrano diventare di un azzurro più intenso e quasi brillare. Toh, mi sono detto, quelli che a me sembravano scarabocchi o segnacci avevano un significato preciso. Attraverso disegni, linee, colori e “figure”, ciascuno di noi rivela sé stesso. Straordinario !! Sabrina, dopo qualche colpo di tosse, riprende a parlare, a spiegare, a chiarire. Sembra

L’arteterapeuta Sabrina Masoni

un torrente in piena. Sottolinea che “l’arteterapia è uno ‘strumento’ privilegiato per la salute del corpo e della mente. Sì, è proprio questa voglia di aiutare le persone a trovare o a ritrovare il proprio equilibrio l’ha portata a quest’arte. “Le vicissitudini della vita quotidiana, aggiunge, spesso provocano turbamenti profondi”. Mi dice che ha seguito corsi e percorsi che l’hanno abilitata ad essere arteterapeuta, inoltre è orgogliosa di aver dato vita e, ne è socia fondatrice di Parthérapie – Parterre Art Thérapie, associazione culturale, precisa. L’arteterapia continua non è uno “strumento” da ciarlatani come qualcuno potrebbe pensare. Al contrario è una vera e propria scienza nata da più di 50 anni, una scien-

Donne: sportello antiviolenza “Codice Rosa” al Padre Pio

“Il caso, vedete, favorisce solo gli uomini forti, ed è ciò che fa indignare gli sciocchi”. Emile Gaboriau

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a Asl Roma 4, in collaborazione con l’associazione Differenza Donna, grazie a un finanziamento della Regione Lazio, promuove il progetto Rosa al Centro per far emergere il fenomeno della violenza di genere e favorire una sempre più vasta riconoscibilità sociale attraverso la formazione qualificata degli operatori socio-sanitari e di tutta la rete territoriale di riferimento. Il primo corso di formazione rivolto agli operatori si è svolto dal 15 al 18 febbraio al Centro Polifunzionale di Bracciano. Figure professionali specifiche come psicologhe, sociologhe, avvocate e una giornalista medico scientifica hanno portato le loro conoscenze teorico-pratiche agli operatori socio-sanitari (medici, psicologi, infermieri, ostetriche, educatori professionali, assistenti sanitarie, associazioni e tutti i soggetti operanti nella rete di supporto alle donne) per intercettare la violenza e fronteggiarne l’emergenza attraverso un approccio appropriato. In questa ottica è prevista a breve l’attivazione all’ospedale Padre Pio di Bracciano di uno Sportello Antiviolenza denominato Codice Rosa dedicato a donne e ai minori vittime di violenza, per offrire un servizio di sostegno immediato e dare una risposta concreta. Lo sportello sarà attivo due volte la settimana con la presenza di un’operatrice specializzata di Differenza Donna, un’operatrice sarà reperibile telefonicamente 24 ore su 24.

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za che si propone attraverso situazioni che “toccano” diversi “settori”, compreso quello educativo, riabilitativo e della salute. L’obiettivo è quello di migliorare le capacità creative della persona e, attraverso di esse, “accendere” tutte le altre. Gli occhi azzurri di Sabrina, mentre parla, tornano a brillare. Ora riprende fiato. Io rifletto. La vita frenetica di oggi - la sua voce ora è vibrante - è un continuo correre, non abbiamo il tempo per soffermarci a riflettere, spesso neppure un istante, su ciò che viviamo. Dunque; le immagini, i suoni, le emozioni che ciascuno di noi riceve dal mondo esterno non hanno il tempo di “fissarsi”. I nostri ricordi, così, insieme alle nostre emozioni e alle nostre sensazioni ci sfuggono, si mischiano, si accavallano e non hanno il tempo di depositarsi nella nostra coscienza. Il presente rimane presente, senza lo spessore di un passato. Il cuore dell’arteterapia, conclude. È proprio questo. Insomma, attraverso l’arteterapia possiamo riannodare, piano piano i vari momenti del nostro vissuto e risistemarli. Se la corda è lunga l’aquilone volerà in alto. Sono trascinato da questo fiume di parole. Ho perso la cognizione del tempo. Sunny, ora scodinzola velocemente. Sabrina mi dice che vuole uscire. Ci alziamo, usciamo dal bar. Il Sole fa capolino tra le nuvole. Ci salutiamo. Respiro profondamente. Sunny saltella vicino a Sabrina che si gira e mi fa un cenno con la mano. Eh sì, a Bracciano questa arteterapia propone percorsi, progetti ed esperienze, davvero straordinarie. Luigi Di Giampaolo

“L’invidia è come una palla di gomma che più la spingi sotto più ti torna a galla”. Alberto Moravia “Se un uomo non sa rischiare per le sue opinioni vuol dire che le sue opinioni non valgono nulla, o che non vale niente lui”. Ezra Pound

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