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REDACTIO JAMES J. CONN, S.J., Director DAMIÁN G. ASTIGUETA, S.J., ROBERT GEISINGER, S.J. Pontificia Università Gregoriana Piazza della Pilotta 4 – 00187 Roma – Italia
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INDEX FASCICULI
LUIGI SABBARESE, La questione dell’autorità e le nuove forme di vita consacrata. Parte prima ................................................... 223-249 YUJI SUGAWARA, Amministrazione e alienazione dei beni temporali degli Istituti religiosi nel Codice (can. 638) ........................... 251-282 JUAN MIGUEL ANAYA TORRES, La dimissione dei religiosi. Un percorso storico che mostra l’interesse pastorale della Chiesa................. 283-324 GEORGES -H ENRI RUYSSEN , Eucaristia ed ecumenismo. Evoluzione della normativa universale e confronto con alcune norme particolari ..................................................... 325-378 JANUSZ KOWAL, Annales Canonici. Una recente rivista di diritto canonico dalla Polonia....... 379-384
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LA QUESTIONE DELL’AUTORITÀ E LE NUOVE FORME DI VITA CONSACRATA Introduzione Uno degli aspetti più interessanti, e certamente più complessi, nella trattazione di tematiche riguardanti le nuove forme di vita consacrata, è quello dell’autorità, sia considerata come autorità gerarchica competente ad approvare e/o a discernere, sia intesa come autorità interna. Senza voler entrare nella considerazione di aspetti più generali concernenti l’autorità nella Chiesa e nella vita consacrata, ci limitiamo qui a trattare l’autorità sotto i seguenti profili specifici: l’autorità gerarchica competente ad approvare le nuove forme di vita consacrata (Sede apostolica, Congregazione per gli IVC e le SVA, Pontificio consiglio per i laici), l’autorità del Vescovo diocesano cui compete discernere, aiutare e tutelare i nuovi doni ispirati dallo Spirito nella sua Chiesa particolare; l’autorità interna alle nuove forme di vita consacrata, con la sua natura specifica e le sue modalità di esercizio in ottemperanza al diritto universale e proprio. Il tema in oggetto invita, poi, a considerare il legame inscindibile tra autorità e potestà, come pure tra potestà e i soggetti abili ad esercitarla. Infatti, proprio quest’ultimo rapporto, cioè quello che investe la potestà e i Superiori, sembra essere il
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nucleo maggiormente problematico. Tuttavia, prima di entrare nel mezzo della questione, pare opportuno premettere una sorta di precisazione terminologica che evidenzi già i punti salienti della tematica. In senso stretto, la potestà ecclesiastica di governo può essere descritta come la capacità di guidare autoritativamente il popolo di Dio per conseguire propriamente finalità spirituali1. Essa può essere esercitata da chi è munito di potestà di governo o di giurisdizione. Nella Chiesa la potestà di governo è unica e i pastori la detengono nella sua unità; ma, pur essendo una, essa si differenzia almeno per le modalità con cui viene trasmessa e con cui viene esercitata. Nella vita consacrata, i Superiori maggiori e i Capitoli degli IVC e delle SVA, a seconda della loro natura, partecipano alla potestà di governo per il proprio istituto. Sono Superiori i membri definitivamente incorporati ad un istituto, i quali, sulla base del diritto universale e con le determinazioni del diritto proprio, hanno potestà sui membri del proprio istituto. Ma quale potestà esercitano i Superiori delle varie forme di vita consacrata? Tutti i Superiori godono di potestà in ragione dell’ufficio e possono esercitarla a nome proprio o per conto di altri, ma la potestà ecclesiastica di governo è riservata ai Superiori degli IR clericali di diritto pontificio (can. 596 §2)2. I Superiori maggiori
1 Cf. F. IANNONE, «Potestà del capitolo generale», Commentarium pro Relisiosis 68 (1987) 234. 2 «In institutis autem religiosis clericalibus iuris pontificii [Superiores et Capitula] pollent insuper potestate ecclesiastica regiminis pro foro tam externo quam interno.»
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(can. 620)3 e i loro Vicari, negli istituti clericali di diritto pontificio, sono Ordinari (can. 134 §1)4. Sembra che le nuove forme di vita consacrata abbiano in qualche modo superato la classificazione codiciale, specie con la fondazione di nuovi istituti costituiti sulla base di una fraternità, a carattere misto, senza la precisazione della natura laicale o clericale dell’istituto. Pertanto, tale nuova configurazione ha richiesto di superare il modello classico dell’autorità e di inventare nuove formule, nel rispetto però dei membri chierici, il più delle volte inseriti nel cosiddetto ramo sacerdotale. Il superamento del modello classico ha, tuttavia, comportato in alcuni casi il ricorso a categorie (e contenuti?), quali Superiore maggiore, Ordinario, potestà, ora applicate a forme di vita consacrata, e addirittura a forme associative non di vita consacrata, che pretendono di essere nuove. 1. Le nuove forme di vita consacrata e l’autorità ecclesiastica Consideriamo qui la questione dell’autorità dal punto di vista gerarchico, in relazione alle compe-
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«Superiores maiores sunt, qui totum regunt institutum, vel eius provinciam, vel partem eidem aequiparatam, vel domum sui iuris, itemque eorum vicarii. His accedunt Abbas Primas et Superior congregationis monasticae, qui tamen non habent omnem potestatem, quam ius universale Superioribus maioribus tribuit.» 4 «Nomine Ordinarii in iure intelleguntur […] itemque, pro suis sodalibus, Superiores maiores clericalium institutorum religiosorum iuris pontificii et clericalium societatum vitae apostolicae iuris pontificii, qui ordinaria saltem potestate exsecutiva pollent.»
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tenze della Sede Apostolica e del Vescovo diocesano nei confronti delle nuove forme di vita consacrata. L’approvazione da parte della Sede Apostolica ha suscitato non poche questioni interpretative rispetto alla identificazione del soggetto specifico capace di approvare, se cioè esso sia il Romano Pontefice o un Dicastero della Curia romana e, in questo secondo caso se sia la Congregazione per gli IVC e le SVA o il Pontificio consiglio per i laici. Per quanto attiene ai compiti del Vescovo essi sono maggiormente chiari e si deve ritenere che essi siano ispirati, oltre che all’osservanza di quanto il can. 605 dispone per loro, anche a tanta prudenza e discernimento. Individuare quale sia l’autorità ecclesiastica competente ad approvare nuove forme di vita consacrata sembra essere rilevante per capire quale tipo di potestà le realtà approvate possono esercitare; sembra del tutto evidente che una nuova forma approvata dalla Congregazione per gli IVC e le SVA eserciti potestà diversa da una nuova forma approvata dal Pontificio consiglio per i laici. E anche nel contesto delle nuove forme approvate dalla Congregazione per gli IVC e le SVA sarà necessario riferirsi al diritto proprio per verificare l’organizzazione del governo, i Superiori maggiori, se chierici o laici, e se dotati di potestà ecclesiastica di governo. 1.1 L’autorità gerarchica competente all’approvazione Il contenuto del can. 605 permette di individuare con chiarezza due questioni; la prima, riguardante l’approvazione delle nuove forme di vita consacrata, specifica che tale atto è riservato unicamente alla Sede Apostolica: Novas formas vitae consecratae approbare uni Sedi Apostolicae reservatur.
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La seconda parte del canone concerne le competenze del Vescovo diocesano: Episcopi dioecesani autem nova vitae consecratae dona a Spiritu Sancto Ecclesiae concredita discernere satagant iidemque adiuvent promotores ut proposita meliore quo fieri potest modo exprimant aptisque statutis protegant, adhibitis praesertim generalibus normis in hac parte contentis.
Vediamo, per il momento, l’approvazione delle nuove forme riservata alla Sede Apostolica. 1.1.1 L’approvazione di nuove forme di vita consacrata Il processo di revisione del CIC ha indicato che l’attuale can. 605 ha come oggetto specifico dell’atto di approvazione non nuovi istituti, ma nuove forme di vita consacrata, diverse da quelle codificate, cioè diverse sia dagli IR sia dagli IS5. Sta di fatto che qui il Legislatore non ha inteso, crediamo, riferirsi all’approvazione di singoli istituti, ma a quanto ha disposto nel can. 576, secondo cui «competentis Ecclesiae auctoritatis est […] stabiles inde vivendi formas canonica approbatione constituere». Alcuni Autori6, però, ritengono opportuno
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Alla osservazione di un Padre: «Sufficit ut novae formae vitae religiosae approbentur ab Episcopo, et ideo ne fiat reservatio ad Sedem Apostolicam» fu risposto: «Agitur in canone de approbandis non novis Institutis, sed novis formis vitae consecratae, quae differunt tum ab Institutis religiosis tum ab Institutis saecularibus. Propter hoc fit reservatio». Communicationes 15 (1983) 67. 6 J. BEYER, «De novo iure circa vitae consecratae Instituta et eorum sodales quaesita et dubia solvenda», Periodica 73 (1984) 435; e in italiano su Vita consacrata 21 (1985) 581; V. DE PAOLIS, La vita consacrata nella Chiesa, Bologna 1992, 88.
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e/o necessario che la Santa Sede intervenga con una legge a carattere universale, altri sono più cauti e propongono di aspettare una congrua fase sperimentale prima di emanare un documento universale7. Critici altri Autori sulla proposta di una costituzione apostolica che ritengono inutile, in quanto giudicano sufficienti le vigenti previsioni codiciali8. Strettamente collegata all’approvazione è la natura sperimentale di essa. […] si parla di nuove forme ad experimentum. Ma non si capisce bene il significato delle nuove forme ad experimentum. Se si tratta del riconoscimento di un nuovo soggetto non si vede come si possa parlare di creazione di nuovi soggetti a norma del can. 605. Il CIC parla di approvazione ad experimentum di statuti o comunque di realtà che non hanno una definitività. Una nuova forma di vita consacrata, a norma del can. 605, può essere approvata ad experimentum. È l’interrogativo che la dottrina si pone9. 7
D.J. ANDRÉS GUTIÉRREZ, Il diritto dei religiosi. Commento al Codice, Roma 1984, 39; anche se lo stesso Autore non si riferisce più a tale possibilità nell’ultima edizione: Le forme di vita consacrata. Commentario teologico-giuridico al Codice di Diritto Canonico, Roma 20055, 801-810; G. ROCCA, Le nuove comunità (can. 605 C.I.C.), Roma 1995, 168-169. 8 A. NERI, «Nuove forme di vita consacrata (can. 605). I profili giuridici», Commentarium pro Religiosis 75 (1994) 293; ID., Nuove forme di vita consacrata (can. 605 C.I.C.), Roma 1995, 105-106. 9 V. DE PAOLIS, «Il ruolo della scienza canonistica nell’ultimo ventennio», in PONTIFICIO CONSIGLIO DEI TESTI LEGISLATIVI, Vent’anni di esperienza canonica 1983-2003. Atti della giornata accademica tenutasi nel XX anniversario della promulgazione del Codice di Diritto Canonico, Città del Vaticano 2003, 145.
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1.1.2 L’autorità competente ad approvare nuove forme di vita consacrata: la Sede Apostolica Il can. 605 riserva alla Sede Apostolica la competenza di approvare le nuove forme di vita consacrata. Ciò fu inizialmente contestato durante i lavori di revisione, ma poi entrò nel canone definitivamente. Qualche Autore, però, commentando la sintesi delle osservazioni allo Schema del 1980, dove si prospettava che bastasse l’approvazione episcopale, non ha mancato di continuare a pensare che «le nuove forme spesso concretamente fanno ritenere esagerato o inutile l’intervento della Sede Apostolica»10. Prescindendo, per il momento, dalla individuazione del Dicastero competente, si tratta anche di precisare se all’approvazione, di cui al can. 605, possa procedere un Dicastero della Curia romana o se, invece, si esiga l’intervento diretto del Romano Pontefice. La dottrina degli Autori non è in merito univoca. Per alcuni Autori, che costituiscono la dottrina maggioritaria, la riserva alla Sede Apostolica è cosa ovvia, considerata la prassi della S. Sede, che era intervenuta con la Conditae a Christo, nel 1900, per dare statuto canonico alle congregazioni religiose, e nel 1947 con la Provida Mater per gli istituti secolari. […] È chiaro, comunque, che l’approvazione di nuove forme di vita consacrata supera le competenze normali dei Dicasteri romani (nel nostro caso: la Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, la quale agisce in forma amministrativa e disciplinare), e si richiede perciò l’intervento del Pontefice11.
10
A. NERI, «Nuove forme […] I profili giuridici» (cf. nt. 8), 267; ID., Nuove forme di vita consacrata (cf. nt. 8), 50. 11 G. ROCCA, «Le nuove comunità» (cf. nt. 7), 168-169. Precisano che per Sede Apostolica si debba intendere il
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Per qualcun’altro12 l’equiparazione Sede Apostolica-Romano Pontefice non si può ammettere, e ciò per svariati motivi: perché «è evidente che il Papa può approvare forme di vita consacrata, ed è evidente che è inutile che questo venga espresso in maniera superflua in un Codice»; perché durante i lavori di revisione mai fu indicato il Romano Pontefice quale autorità competente in casu; perché «sarebbe sembrato del tutto sproporzionato intendere per Sede Apostolica addirittura il Papa, quando già un’approvazione della Congregazione, sostanzialmente per garantirne la conformità, sembrava eccessiva in tema di forme di vita consacrata»; e, infine, perché così prevede il disposto degli artt. 10513, 11014 e 11115 di Pastor Bonus. A quest’opinione, definita minoritaria dallo stesso Autore che la propone, si può efficacemente rispondere con il De Paolis: Romano Pontefice. J. BEYER, Il diritto della vita consacrata, Milano 1989, 192; V. DE PAOLIS, La vita consacrata nella Chiesa (cf. nt. 6), 81; ID., «Le nuove forme di vita consacrata (a norma del can. 605)», Ius Ecclesiae 6 (1994) 547; ID., «Il ruolo della scienza canonistica» (cf. nt. 9), 145. 12 Ad esempio, per A. NERI, «Nuove forme […] I profili giuridici» (cf. nt. 8), 282-285; ID., Nuove forme di vita consacrata (cf. nt. 8), 95-98, 181. 13 «Congregationis [pro IVC et SVA] munus praecipuum est praxim consiliorum evangelicorum, prout in probatis formis vitae consecratae exercetur, et insimul actuositatem Societatum vitae apostolicae in universa Ecclesia Latina promovere et moderari.» 14 «Congregationi etiam subiciuntur vita eremitica, ordo virginum harumque consociationes ceteraeque formae vitae consecratae.» 15 «Ipsius competentia amplectitur quoque Tertios Ordines necnon consociationes fidelium, quae eo animo eriguntur ut, praevia praeparatione, Instituta vitae consecratae vel Societates vitae apostolicae aliquando evadant.»
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Approvare nuove forme di vita consacrata […] significa andare contro gli elementi costitutivi essenziali stabiliti dal Codice perché si possa parlare di istituti di vita consacrata. Ora ciò è possibile solo a chi ha il potere di legiferare in tutta la Chiesa. Non basta il potere di giurisdizione esecutiva, che permette di dispensare dalle leggi della Chiesa. Il can. 86 infatti stabilisce che non sono soggette alla dispensa le leggi che definiscono e in quanto definiscono gli elementi costitutivi degli istituti o degli atti giuridici. Ora si sa che i Dicasteri della Curia romana non godono di potestà se non esecutiva: in forza dell’ufficio proprio pertanto non possono dispensare dalle leggi costitutive. Ma si può dire di più: le nuove forme di vita consacrata normalmente comportano anche dei problemi di ordine dottrinale non indifferenti, che solo l’autorità suprema della Chiesa può risolvere e chiarire (cfr. can. 576)16.
1.1.3 L’autorità competente a discernere, aiutare e tutelare i nuovi doni: il Vescovo diocesano Durante i lavori di revisione non fu sempre chiaro che ai Vescovi spetta il compito di discernere i nuovi doni di vita consacrata, di aiutare coloro che li promuovono e di tutelare tali doni con statuti adatti. Infatti, non mancarono voci in favore di un ampliamento di tali competenze sino a voler concedere loro l’approvazione delle nuove forme, come fu proposto nelle osservazioni allo Schema del 1980, dove si chiedeva di non privare il Vescovo delle pro16
V. DE PAOLIS, «Le nuove forme di vita consacrata», Informationes SCRIS 19 (1993) 89-90; ID., La vita consacrata nella Chiesa (cf. nt. 6), 82. Anche J. BEYER, Il diritto della vita consacrata (cf. nt. 11), 192-193.
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prie prerogative e quindi di lasciargli l’approvazione delle nuove forme17. Da un punto di vista strettamente giuridico, forse queste competenze non suscitano particolari questioni interpretative. Ma è certo che dal punto di vista della prudenza pastorale esse non sono meno impegnative e non pare possa esercitarsi prudenza pastorale senza competenza canonica e quindi senza tener conto dei principi di discernimento che il Legislatore ha definito nel can. 57318. Questo discernimento non è senza conseguenze concrete, perché nelle forme riconosciute di vita consacrata l’intervento dell’autorità ecclesiastica è decisivo per l’assunzione, la tutela e la disciplina dei consigli evangelici che non possono dipendere dal solo diritto proprio dell’istituto19.
17 «Nimia est centralizatio quod approbatio S. Sedis exigatur pro qualibet nova forma vitae consecratae. Ne priventur Episcopi suis praerogativis (Quidam Pater). R. Animadversio admitti nequit: quae Sanctae Sedi et Episcoporum dioecesanorum respective sunt apte in canone distinguuntur». Communicationes 15 (1983) 67. 18 «§1. Vita consecrata per consiliorum evangelicorum professionem est stabilis vivendi forma qua fideles, Christum sub actione Spiritus Sancti pressius sequentes, Deo summe dilecto totaliter dedicantur, ut, in Eius honorem atque Ecclesiae aedificationem mundique salutem novo et peculiari titulo dediti, caritatis perfectionem in servitio Regni Dei consequantur et, praeclarium in Ecclesia signum effecti, caelestem gloriam praenuntient. §2. Quam vivendi formam in institutis vitae consecratae, a competenti Ecclesiae auctoritate canonice erectis, libere assumunt christifideles, qui per vota aut per alia sacra ligamina iuxta proprias institutum leges, consilia evangelica castitatis, paupertatis et oboedientiae profitentur et per caritatem, ad quam ducunt, Ecclesiae eiusque mysterio speciali modo coniunguntur.» 19 S. RECCHI, «Le nuove forme di vita consacrata», Vita consacrata 32 (1996) 673.
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La pratica suggerisce che una “nuova forma”, quale dono dello Spirito in una comunità di fedeli, ha bisogno di essere sottoposta al discernimento dell’autorità; il che avviene ordinariamente nella persona del Vescovo di una Chiesa particolare, il quale, in quanto Pastore, esercita il compito di discernere i carismi (LG 45). In tal senso anche il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna: Nessun carisma dispensa dal riferirsi e sottomettersi ai Pastori della Chiesa, «ai quali spetta specialmente, non di estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono» (LG 12), affinché tutti i carismi, nella loro diversità e complementarietà, cooperino all’“utilità comune” (1 Cor 12,7) (n. 801). È ancora il Vescovo ad aiutare la nuova fondazione a esprimersi giuridicamente. In questo può servirsi della disciplina riservata alle associazioni private o pubbliche e anche delle norme generali concernenti gli IVC, da inserire negli statuti. È evidente che se tali comunità sono approvate come associazioni di fedeli, esse conservano la natura giuridica di queste ultime e non sono ancora da considerare IVC20.
In tal senso già Beyer aveva precisato: Episcopus dioecesanus, qui “motum ecclesialem” erigere velit, eum ut Christifidelium consociationem approbari potest, publicam vel privatam, simulque sectiones etiam vitae consecratae quorum statuta videat et examine peracto approbet, nisi sit generale de his novis vitae consecratae formis legislativum documentum iam promulgatum, quod sequi debet 21. 20
S. RECCHI, «Le nuove forme di vita consacrata» (cf. nt. 19), 682. 21 J. BEYER, «De novo iure» (cf. nt. 6), 435. Sulla stessa linea V. DE PAOLIS, La vita consacrata nella Chiesa (cf. nt. 6), 84.
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1.2 Criteri per l’approvazione di nuove forme di vita consacrata I «Criteri per approvare nuove forme di vita consacrata a norma del can. 605»22, elaborati dalla Congregazione per gli IVC e le SVA, in occasione del Congresso del 26 gennaio 1990, evidenziano, anzitutto, che la forma di vita consacrata deve contenere gli elementi essenziali dei cann. 573-605: professione dei consigli evangelici con vincoli sacri; stabilità di vita; dedicazione con nuovo e speciale titolo; vita fraterna; Superiori interni; giusta autonomia; codice fondamentale; erezione della competente autorità. I medesimi criteri precisano, poi, quando una forma di vita consacrata è nuova; e si dice che è tale se non rientra in quelle già stabilite, e cioè, se non si tratta di IR e IS, di SVA con l’assunzione dei consigli evangelici, di vita eremitica e verginità consacrata, individuali o associate. Quando gli istituti contengono gli elementi essenziali dei cann. 573-605, ma la loro organizzazione non rientra tra quelle già previste dal CIC, allora possono essere riconosciuti come istituti con forma nuova di vita consacrata. Quando una forma nuova comprende anche un ramo clericale, non si richiede che l’istituto sia riconosciuto come clericale, ma è sufficiente che i membri chierici dipendano da un sacerdote, membro dell’istituto e non necessariamente Presidente dello stesso. 22
Sono stati pubblicati da G. ROCCA, «Le nuove comunità» (cf. nt. 7), 171-172, nota 25; e ripresi dalla medesima fonte da A. NERI, Nuove forme di vita consacrata (cf. nt. 8), 165-166.
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Per il numero dei membri di ogni ramo ci si regola secondo i criteri applicati agli altri IVC e SVA23. Considerata l’originalità delle nuove forme, previo esame e approvazione della Congregazione per gli IVC e le SVA, sarebbe più opportuno autorizzare il Vescovo ad erigere l’istituto come nuova forma e [approvare] le costituzioni ad experimentum et ad nutum Sanctae Sedis, senza limiti di tempo. Vescovo e Moderatore supremo devono riferire ogni anno (o ogni due anni) circa lo stato dell’istituto. Alla sola Santa Sede è riservata l’approvazione delle nuove forme. Ci si potrebbe chiedere, anzitutto, quale sia il valore da attribuire a tali criteri, considerato che non sono mai stati resi pubblici in via ufficiale dal Dicastero, né sono comparsi su molte pubblicazioni scientifiche. Nemmeno sul periodico ufficiale Informationes SCRIS, che dal 2005 si chiama Sequela Christi, ne è mai stata data notizia. Il primo criterio proviene certamente dalla Propositio 13 A24, del sinodo dei Vescovi, che individua come nuove forme di vita consacrata «tantum eae in 23
La prassi della Congregazione per gli IVC e le SVA richiede in genere che per l’erezione di istituti di diritto diocesano vi siano almeno 40 membri, di cui la maggioranza con voti perpetui; per quelli di diritto pontificio che vi siano almeno 80 membri, di cui la maggioranza con voti perpetui. Limitatamente ai documenti richiesti in vista dell’erezione di un istituto di diritto diocesano, si veda quanto pubblicato da V.G. D’SOUZA, «Erection of Religious Institute of Diocesan Right: Law and Praxis», Studies in Church Law 1 (2005) 91-93. 24 SYNODUS EPISCOPORUM – IX COETUS GENERALIS ORDINARIUS, Elenchus finalis Propositionum Placet ut, de vita consecrata deque eius munere in Ecclesia et in mundo, 28 octobris 1994, in EV 14/1591.
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quibus inveniuntur elementa essentialia theologica et canonica, etsi et propriis elementis specificationis gaudeant (CIC, can. 573; CCEO, can. 410)». Non si accenna alla questione dei coniugati come membri o associati in “nuove forme di vita consacrata”. Si potrebbe pensare che la questione fosse ritenuta assodata e, quindi, definitivamente risolta, nel senso che i coniugati non possono partecipare come membri di istituti con nuova forma di vita consacrata che prevede la consacrazione mediante i consigli evangelici. Sembra che in tale direzione si muova anche l’Instrumentum laboris 38 quando, interrogandosi sulle nuove forme precisa che «possono essere considerati membri di un IVC solo quelli che assumono tutti e tre i consigli evangelici, mentre gli altri, coniugati o no, che assumono solo un legame di obbedienza, di condivisione dei beni e di vita in comune, possono essere considerati aggregati, con un vincolo più o meno forte a norma delle Costituzioni». E a riguardo della condizione specifica dei coniugi precisa: «Ci si interroga infine circa la possibilità, l’opportunità e le condizioni di un riconoscimento specifico da parte della Chiesa di una forma stabile di vita, secondo i consigli evangelici, da parte dei coniugi»25. 1.3 Criteri di discernimento da parte del Vescovo La seconda parte del can. 605 riguarda le competenze dei Vescovi diocesani; esse si esplicano in un triplice compito: discernere i nuovi doni dello Spirito alla
25 SINODO DEI VESCOVI – IX ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA, La vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo. Instrumentum laboris, E Civitate Vaticana 1994, 47-48.
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Chiesa; aiutare quanti promuovono i nuovi doni di vita consacrata; tutelare le nuove forme con adeguati statuti, utilizzando soprattutto le norme generali contenute in questa parte, cioè in quella riguardante gli IVC26. Una criteriologia esemplificativa si rinviene nella Propositio 13 B-C: Inter criteria ad quae Episcopus referri potest: a) examinentur historia fundatoris vel fundatricis, et modo particulari communitatis experientia, sana doctrina et authentica vita spiritualis; b) discernendum est utrum sodales idonei sint ad professionem consiliorum evangelicorum; c) clare appareat oportet missio et scopus, quae Ecclesiae necessitatibus et praesentis temporis respondeat, ratione habita de numero et formis iam existentibus; d) omnia autem fiant sub ductu auctoritatis ecclesiasticae competentis. Synodus autem singulariter Episcopos exhortatur ut charismatum indoles experiantur, et patienter non solum fructus sed etiam communitatum istarum fragilitates considerent […]. Necesse est ut clare proponantur criteria ad idoneitatem discernendam eorum qui ex istis communitatibus ad ordines sacros accedere petunt […] 27.
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Nella determinazione della locuzione «adhibitis praesertim generalibus normis in hac parte contentis» le interpretazioni degli Autori non concordano affatto: si tratterebbe di tutta la Parte III del Libro II, secondo A. NERI, «Nuove forme […] I profili giuridici» (cf. nt. 8), 180; del solo Titolo I (cann. 573-606), secondo J. BEYER, «De novo iure» (cf. nt. 6), 444-445; e in italiano su Vita consacrata 21 (1985) 587-588; e secondo R.M. MCDERMOTT, Commentary to can. 605, in J.P. BEAL – J.A. CORIDEN – TH. J. GREEN (edd.), New Commentary on the Code of Canon Law, New York (N.Y.) – Mahwah (N.J.) 2000, 769. 27 SYNODUS EPISCOPORUM – IX COETUS GENERALIS ORDINARIUS, Elenchus finalis Propositionum Placet ut, in EV 14/15921594.
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La medesima criteriologia viene assunta in Vita Consecrata 6228. Si deve ricordare che già Mutuae relationes, segnalata tra le fonti del can. 605, aveva indicato alcune caratteristiche per esprimere un giudizio sulla genuinità di un carisma: a) Singularis eius a Spiritu origo, distincta quidem, etiamsi non seiuncta, ab innatis et acquisitis personae dotibus, quae in operando et moderando ostenduntur; b) profundum animi studium sese Christo configurandi ad aliquem eius mysterii aspectum testificandum; c) fructuosus amor in Ecclesiam, qui plane abhorreat a quavis in die excitanda discordia29.
Anche il direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi, citando Vita Consecrata 62, ne riprende i criteri e aggiunge che, prima di procedere alla erezione di un gruppo di fedeli come istituto di diritto diocesano e dopo una previa esperienza e il nulla
28 IOANNES PAULUS PP. II, Adhortatio apostolica postsynodalis Vita consecrata, de vita consecrata eiusque missione in Ecclesia ac mundo, 25 martii 1996, AAS 88 (1996) 436: «[…] necesse est ut gressus fiat ad charismatum discretionem. […] In dioecesibus de vitae testimonio deque conditorum conditricumque harum communitatum recta fide inquirat Episcopus, similiter de eorum spirituali vita, de ecclesiali sensu in missione complenda, de institutionis rationibus atque de modis in communitatem admittendi; si quae sunt infirmitates perpendat et patienter consequentes fructus exspectet, ut charismatum veritatem agnoscant. Nominatim ipse rogatur ut, ad perspicuas normas, de idoneitate iudicet eorum qui his in communitatibus ad ordines sacros accedere volunt». 29 S. CONGREGATIO PRO RELIGIOSIS ET INSTITUTIS SAECULARIBUS ET S. CONGREGATIO PRO EPISCOPIS, Notae directivae Mutuae relationes, pro mutuis relationibus inter Episcopos et religiosos in Ecclesia, 14 maii 1978, n. 51, in EV 6/690.
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osta della Santa Sede, il Vescovo lo inserisca in diocesi come associazione pubblica di fedeli30. Compito del Vescovo, in quanto preposto a discernere i doni dello Spirito nella Chiesa particolare che egli regge, è anzitutto quello di aiutare i fondatori a chiarificare la natura e le finalità della loro opera, soprattutto se essa si configuri come nuovo istituto o come nuova forma. In tal senso il Vescovo può giovarsi delle norme sulle associazioni dei fedeli ed eventualmente quelle comuni agli IVC, quando è già certo che l’associazione è sorta con l’intento di diventare un giorno istituto tra le nuove forme di vita consacrata. Ma è chiaro che il primo passo da compiere sarà quello di organizzare i propositi del fondatore in una forma associativa e quindi, con l’approvazione degli statuti, erigere l’associazione sia pubblica sia privata. Per questo non si comprende perché il direttorio Apostolorum successores preveda la sola erezione pubblica di dette associazioni, mentre la prassi insegna che vi è una gradualità nelle approvazioni: approvazione di fatto, poi come associazione privata, con o senza personalità giuridica, e, infine, eventualmente come pubblica31. Vero è che il Ghirlanda, ad esempio, ha scritto che le associazioni dove i membri professano i consigli evangelici dovrebbero essere erette come associazioni pubbliche «quia professio consiliorum evangelicorum non 30
CONGREGAZIONE PER I VESCOVI, Direttorio Apostolorum successores, per il ministero pastorale dei Vescovi, art. 107, Città del Vaticano 2004, 114-115. 31 J. BEYER, Il diritto della vita consacrata (cf. nt. 11), 194; V. DE PAOLIS, «Le nuove forme di vita consacrata» (cf. nt. 16), 90-92, e ID., «Le nuove forme […] (a norma del can. 605)» (cf. nt. 11), 539-548-549.
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tantum ad sanctitatem singulorum membrorum consociationis spectat sed ad sanctitatem totius Ecclesiae atque eiusdem salvificam missionem (cf. cann. 573; 574)»32. 1.4 Autorità pontificie e nuove forme di vita consacrata: competenze in conflitto? L’approvazione di nuove forme di vita consacrata, riservata alla Sede Apostolica, da un lato ha comportato questioni interpretative nell’individuare se il titolare di questa competenza sia da ritenersi unicamente il Romano Pontefice o anche i Dicasteri della Curia romana, dall’altro ha creato conflitti di competenza nello stabilire quale Dicastero sia da ritenersi titolare della giurisdizione per determinare le caratteristiche di una nuova forma di vita consacrata e per approvarla come tale. Considerando l’iter di approvazione degli istituti di voti semplici, è del tutto pacifico che la competenza in detta approvazione fu della S. Congregazione dei Vescovi e Regolari, come pure che l’approvazione degli IS fu riservata alla S. Congregazione dei Religiosi e non a quella del Concilio, in quanto si ritennero gli IS come istituti di perfezione e non come associazioni di fedeli. Alla vigilia del Vat. II, la situazione conobbe un capovolgimento. Le Congregazioni del Concilio e dei Religiosi avanzarono proposte contraddittorie
32
G. GHIRLANDA, «Quaestiones de christifidelium consociationibus non solutae», Periodica 80 (1991) 542; ID., «Questioni irrisolte sulle associazioni dei fedeli», Ephemerides Iuris Canonici 49 (1993) 88.
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in tema di competenza sugli IS. Dopo il Concilio intervenne anche l’odierno Pontificio consiglio per i laici. Dopo il Vat. II, rileva menzionare le norme che la Segnatura emanò, nel novembre del 1968, per dirimere le questioni di competenza tra i Dicasteri, riguardo alle associazioni di fedeli33. L’art. 8 recita: «Associationes sive clericorum sive laicorum sive mixtae quae ideo eriguntur ut, praevia congrua praeparatione, fiant Congregationes religiosae vel Instituta saecularia, pendent e S. Congregatione pro Religiosis et Institutis saecularibus. In ceteras vero quae eiusmodi fine, ex suo ipsarum instituto, carent, competentia regitur iuxta nn. 4, 6, 7». L’odierna Congregazione per gli IVC e le SVA ha sempre sostenuto essere di sua competenza non solo le realtà associative fondate in vista di divenire IVC, ma anche quelle che osservano i consigli evangelici34. In dottrina non sono mancati Autori che, a fronte di forme associative che prevedono la presenza di membri che assumono i consigli evangelici e di membri sposati, hanno prospettato una soluzione istituzionale per dirimere le questioni di competenza: la creazione di un nuovo Dicastero che abbia compe-
33 SIGNATURA APOSTOLICA, Normae In fidelium associationes, quibus regitur competentia Romanae Curiae in fidelium associationes, novembris 1968, in EV 3/685-693. 34 Cf. D.M. HUOT, «Les associations des fidèles et leur dépendance à l’égard de la Sacrée Congrégation pour les religieux et les instituts seculiers et du Conseil Pontifical pour les laïcs», Informationes SCRIS 10 (1984) 126-144; ID., «Les associations de fidèles et la SCRIS», Informationes SCRIS 10 (1984) 97-117.
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tenza sui movimenti ecclesiali35. Gli stessi Autori e altri36 hanno avanzato l’idea di istituire una Commissione interdicasteriale, a norma dell’art. 21 di Pastor Bonus37. Questa soluzione, però, non sarebbe priva di problemi ulteriori. Infatti, si tratterebbe di capire se la Commissione di cui si tratta sia quella di cui all’art. 20 o quella di cui all’art. 21 della costituzione Pastor Bonus. Gli Autori parlano di conflitti di competenze e/o di competenza mista. Nel primo caso è chiaro che il riferimento è unicamente all’art. 2038; mentre nell’ambito delle competenze miste si applicherebbe l’art. 21. E nel caso si istituisse una Commissione interdicasteriale, questa avrebbe potestà di giurisdizione almeno esecutiva o sarebbe costituita solo per scopi promozionali e di studio? Bisogna altresì ricorrere al disposto del già menzionato art. 111 di Pastor Bonus, secondo cui la competenza della Congregazione per gli IVC e le SVA si estende anche alle associazioni dei fedeli che vengono 35 In tal senso J. B EYER , «Movimento ecclesiale», in C. CORRAL SALVADOR – V. DE PAOLIS – G. GHIRLANDA (edd.), Nuovo Dizionario di Diritto Canonico, Cinisello Balsamo 1993, 710; J. BEYER, «Motus ecclesiales», Periodica 75 (1986) 619-620; ID., «I movimenti ecclesiali», Vita consacrata 23 (1987) 147. 36 Così G. GHIRLANDA, «Quaestiones de christifidelium consociationibus» (cf. nt. 32), 555-558; A. NERI, «Nuove forme […] I profili giuridici» (cf. nt. 8), 161-162. 37 «§1. Negotia, quae plurium Dicasteriorum competentiam attingunt, a Dicasteriis, quorum interest, simul examinentur. […] §2. Ubi opus fuerit opportune commissiones interdicasteriales permanentes, ad negotia tractanda, quae mutua crebraque consultatione egeant, constituantur.» 38 «Conflictus competentiae inter Dicasteria, si qui oriantur, Supremo Tribunali Signaturae Apostolicae subiciantur, nisi Summo Pontifici aliter prospiciendum placuerit.»
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erette con l’intento di divenire IVC o SVA. Secondo l’art. 111 pare che il criterio chiave per comprendere e giustificare la competenza della Congregazione sia non tanto che l’associazione abbia membri consacrati ma che sia nata con l’intento di divenire IVC39. Quali dunque le specifiche, esclusive e legittime competenze del Pontificio consiglio per i laici e della Congregazione per gli IVC e le SVA? 1.4.1 Il Pontificio consiglio per i laici e le nuove forme di vita consacrata40 Istituito da Paolo VI, come risposta alle sollecitazioni provenienti dal decreto conciliare sull’apostolato dei laici, con mp Catholicam Christi Ecclesiam41, il Consilium de Laicis fu inserito nella costituzione Regimini Ecclesiae Universae, e, dopo un decennio di approvazione sperimentale, ricevette un assetto più definitivo il 10 dicembre 1976, quando ancora Paolo VI, con mp Apostolatus peragendi, costituì il Pontificium Consilium pro Laicis 42. 39 A. PERLASCA, «Le dimissioni dei membri dalle associazioni sorte per divenire istituti di vita consacrata», Informationes SCRIS 29 (2003) 86-87. 40 Cf. G. DALLA TORRE – L. SABBARESE, «Pontificio Consiglio per i Laici», in P.V. PINTO (ed.), Commento alla Pastor Bonus e alle norme sussidiarie della Curia Romana, Città del Vaticano 2003, 196-201. 41 PAULUS PP. VI, Litterae apostolicae motu proprio datae Catholicam Christi Ecclesiam, quibus Consilium de Laicis et Pontificia Commissio studiosorum «Iustitia et pace» appellata constituuntur, 6 ianuarii 1967, AAS 59 (1967) 25-28. 42 ID., Litterae apostolicae motu proprio datae Apostolatus peragendi, quibus Consilium de Laicis nova certaque ratione ordinatur, Pontificium Consilium pro Laicis in posterum appellandum, 10 decembris 1976, AAS 68 (1976) 696-700.
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Accanto agli iniziali compiti di animazione, di coordinamento e di studio, il Consiglio non mancò di intervenire anche con apporti direttivi, giuridicamente rilevanti, peraltro già previsti dal mp Catholicam Christi Ecclesiam, che gli affidava funzioni di vigilanza: «curare ut leges ecclesiasticae, ad laicos respicientes, fideliter serventur». Tali funzioni andarono ad assumere sempre maggior rilievo sino al mp Apostolatus peragendi e oltre, quando si espletavano funzioni ben oltre quelle meramente promozionali, rientranti nell’esercizio di potestà di governo esecutiva. Già il mp Apostolatus peragendi prevedeva una certa competenza di governo del Consiglio, benché più direttamente disciplinare in vasti campi dell’apostolato e della disciplina riguardante i laici. L’art. VI del citato mp recita in proposito: «Competentia Pontificii Consilii pro Laicis complectitur apostolatum laicorum in Ecclesia ac disciplinam laicorum qua validum»; a ciò segue un lungo elenco di funzioni: esortative in ordine alla partecipazione dei laici alla vita e alla missione della Chiesa sia soprattutto come membri di associazioni che hanno come scopo l’apostolato, sia come singoli; dirigenziali e promozionali verso l’apostolato dei laici, nei vari settori della vita sociale; organizzative verso le associazioni che si occupano dell’apostolato nell’ambito sia internazionale sia nazionale, verso le associazioni cattoliche che promuovono l’apostolato, la vita e l’attività spirituale dei laici, verso le pie associazioni, verso i terzi ordini secolari soltanto per quelle materie che si riferiscono alla loro attività apostolica, le associazioni comuni ai chierici ed ai laici; esecutivi in ordine all’osservanza delle leggi ecclesiastiche, riguardanti i laici, e alle controversie; coordinativi negli affari che riguardano i consigli pastorali, sia
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parrocchiali sia diocesani, in modo che i laici siano incoraggiati a prendere parte ad una pastorale d’insieme. Unitamente a ciò, si deve rilevare che lo stesso Pontificio consiglio esercita, accanto alla funzione propriamente consultiva, anche funzioni tipicamente normative o esecutive. La prassi ha conosciuto l’intervento del Pontifico consiglio nell’approvazione di non poche associazioni, i cui statuti prevedono espressamente i consigli evangelici. Questo fatto ha indotto la Congregazione per gli IVC e le SVA a reclamare una sua più rigida competenza e le associazioni di fedeli a ricorrere alla competenza del Pontificio consiglio per un riconoscimento come associazioni private; ciò permette loro maggiore libertà di azione e la possibilità di ammettere tra i membri celibi e sposati. Peraltro nell’incontro organizzato dal Pontificio consiglio nel novembre 1991, cui parteciparono rappresentanti delle nuove comunità, i cui membri vivono secondo i consigli evangelici, questi espressero la preferenza a sottostare alla competenza del Pontificio consiglio43. 1.4.2 La Congregazione per gli IVC e le SVA e le nuove forme di vita consacrata A tenore dell’art. 105 della costituzione Pastor Bonus, la Congregazione per gli IVC e le SVA ha un
43 È stato opportunamente notato che «la competenza di un dicastero non “si sceglie” né si identifica in forza del grado di libertà che esso concede, ma in forza della natura giuridica del fenomeno che si intende regolare». A. PERLASCA, «Le dimissioni dei membri» (cf. nt. 39), 87-88, nota 33.
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duplice compito: uno promozionale, l’altro di governo sulla pratica dei consigli evangelici esercitata nelle forme approvate di vita consacrata e sull’attività delle SVA. La competenza si estende su tutta la Chiesa latina, mentre gli istituti sorti in seno alle Chiese sui iuris orientali dipendono dalla Congregazione per le Chiese Orientali. La competenza della Congregazione per gli IVC e le SVA non concerne direttamente gli elementi teologici della vita consacrata (cf. can. 573 §1), ma verte direttamente sulle forme canonicamente erette (cf. can. 573 §2), che, secondo il CIC, sono gli IR e gli IS, la vita eremitica o anacoretica e l’ordo virginum. Per quanto riguarda, invece, le SVA, le competenze del Dicastero, pur rimanendo le medesime – promuovere e regolare –, sono dirette alle attività e non alla pratica dei consigli, atteso che, a tenore del can. 731 §144, nelle SVA i membri non assumono i consigli evangelici, in quanto la professione non ne costituisce elemento essenziale, benché in alcune SVA i membri assumano i consigli evangelici con qualche vincolo sacro determinato dal diritto costituzionale (cf. can. 731 §2)45. La questione della competenza circa le cosiddette nuove forme di vita consacrata, di cui al can. 605, si collega sia alla nozione di nuove forme di vita consacrata sia all’autorità competente per la loro approva44
«Institutis vitae consecratae accedunt societates vitae apostolicae, quorum sodales, sine votis religiosis, finem apostolicum societatis proprium prosequuntur et, vitam fraternam in communi ducentes, secundum propriam vitae rationem, per observantiam constitutionum ad perfectionem caritatis tendunt.» 45 «Inter has sunt societates in quibus sodales, aliquo vinculo constitutionibus definito, consilia evangelica assumunt.»
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zione. Come abbiamo già detto, qui si prospetta non l’approvazione di forme non previste dal can. 573 §2, ma di forme che non contengono tutti gli elementi teologici e canonici essenziali richiesti dal citato canone: nuove forme e non nuovi istituti. Bisogna, altresì, distinguere tra elementi teologici ed elementi tipologici. Riguardo alla riserva di approvazione, che il can. 605 limita alla sola Sede Apostolica, va precisato che si intende solo il Romano Pontefice, atteso che la Congregazione per gli IVC e le SVA agisce solo in forma amministrativa e non legislativa. Nel nostro caso, infatti, si attribuirebbe alla Congregazione non la semplice potestà esecutiva, ma quella legislativa di dispensare dalle leggi costitutive del CIC. A dimostrazione della problematica accennata, si può notare che nell’Annuario Pontificio vengono indicate con la denominazione “altri istituti di vita consacrata”46. Più problematica, come sopra accennato, è la definizione delle nuove forme di vita consacrata, su cui pure la Congregazione è competente, in quanto il can. 605 ne riserva l’approvazione alla sola Sede Apostolica. Trattandosi di Sede Apostolica e di competenza su leggi costitutive, la Congregazione può agire solo in singoli casi e con specifica approvazione da parte del Romano Pontefice, dato che il Dicastero gode solo di potestà esecutiva e non può pertanto emanare leggi o decreti generali legislativi, né derogare al diritto universale, stando a quanto dispone la Pastor Bonus nell’art. 1847. Uni-
46
Annuario Pontificio per l’anno 2007, Città del Vaticano 2007, 1742-1743. 47 «[…] Dicasteria leges aut decreta generalia vim legis habentia ferre non possunt nec iuris universalis vigentis prae-
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tamente a ciò, va ricordato che la configurazione di queste nuove forme pone non solo questioni di ordine dottrinale, inerenti alla individuazione degli elementi essenziali della vita consacrata, ma anche di ordine morale, per cui a buon ragione la competenza spetta al solo Romano Pontefice, dato che sono coinvolte anche altre Congregazioni, quali, ad esempio quella per la Dottrina della Fede. Stante il tenore dell’art. 111 di Pastor Bonus, la competenza della Congregazione si estende anche ai terzi ordini e alle associazioni di fedeli. Agli uni in quanto, a tenore del can. 303, contengono come elemento peculiare e proprio quello di partecipare nel mondo al carisma di un IR, sotto l’alta direzione dell’istituto; alle altre in quanto nascono con l’esplicito intento di passare tra quelle forme associative che il CIC chiama IVC e SVA. Si deve anche considerare qui la competenza del Pontificio consiglio per i laici, atteso che l’art. 134 la prevede espressamente nei riguardi dei terzi ordini secolari, limitatamente a quanto attiene alla loro attività apostolica, restando integra la competenza della Congregazione riguardo alla partecipazione al carisma di un istituto. Nonostante la chiarezza del testo normativo, la prassi non va esente da conflitti di competenza, evidenziati già nel 1968, quando si rese necessario un intervento della Segnatura Apostolica per regolare con norme la dipendenza delle associazioni di fedeli dai Dicasteri della Curia romana.
scriptis derogare, nisi singulis in casibus atque de specifica approbatione Summi Pontificis […].»
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Per questo aspetto specifico, come pure per altre materie in genere, anche in ossequio al principio generale enunciato nell’art. 1448 e nell’art. 21 §1 di Pastor Bonus, devono essere consultati altri Dicasteri, in ragione della materia di loro competenza. (continua)
LUIGI SABBARESE, C.S.
48 «Dicasteriorum competentia definitur ratione materiae nisi aliter expresse cautum sit.»
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AMMINISTRAZIONE E ALIENAZIONE DEI BENI TEMPORALI DEGLI ISTITUTI RELIGIOSI NEL CODICE (CAN. 638) Introduzione I beni temporali posseduti dagli Istituti religiosi, secondo la norma del can. 635 §1, sono chiamati “beni ecclesiastici” e sono retti dalle disposizioni del Libro V «I beni temporali della Chiesa», a meno che non sia espressamente disposto altro1. Ugualmente, secondo il can. 634 §1, non solo gli Istituti religiosi in quanto tali, ma anche le loro Province e case sono persone giuridiche pubbliche ipso iure, i loro beni a norma del can. 1257 §1 sono beni ecclesiastici e perciò soggetti alle norme del medesimo Libro2. Certamente, sebbene i beni temporali degli Istituti reli1
Per l’esegesi e applicazione del can. 635, vedi Y. SUGAWARA, «Le norme sui beni temporali negli istituti religiosi», in AA.VV., Iustitia in caritate, Miscellanea di studi in onore di Velasio De Paolis, Roma 2005, 411-429. 2 Il Codice precedente rinviava il regolamento dell’amministrazione dei beni di diversi enti degli Istituti religiosi alle Costituzioni (cf. can. 532 §1). Ora il Codice del 1983 fa un riferimento esplicito anche alle norme del Libro V che riguarda i beni ecclesiastici in genere. Per quanto riguarda i beni degli Istituti secolari, il can. 718 dispone che l’amministrazione dei loro beni sia regolata delle norme del Libro V e del loro diritto proprio. La stessa regola si applica anche alle Società di vita apostolica a norma del can. 741 §1.
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giosi siano definiti “ecclesiastici”, come viene affermato nel can. 1256, essi appartengono agli Istituti stessi come a persona giuridica che legittimamente li possiede, e non ad una altra autorità superiore nella Chiesa, ad esempio, la Chiesa particolare nel caso dell’Istituto di diritto diocesano, e sono amministrati e alienati con la propria capacità e sotto la propria responsabilità. Questo rappresenta come una parte del governo interno degli Istituti che godono di giusta autonomia (cf. can. 586 §1). Il Codice di diritto canonico del 1983 ordina il regolamento dell’amministrazione e alienazione dei beni temporali degli Istituti religiosi nel can. 638 in quattro paragrafi. Trattare la materia dell’amministrazione è un’opera non senza difficoltà, particolarmente perché si tratta di un tema che copre un campo considerevolmente vasto con diversi elementi nella prassi come atti di acquisizione, conservazione e investimenti, costruzioni e manutenzione, e altri contratti. Ogni amministratore negli Istituti religiosi infatti compie un gran numero di atti di amministrazione nel proprio ufficio ordinario, sia per la vita interna dell’Istituto e della comunità sia per le attività apostoliche esterne. La difficoltà in questo argomento deriva anche dal fatto che esiste una normativa canonica peculiare che si basa sui fattori propriamente ecclesiali, come ad esempio, i caratteri specifici derivanti dai fatti storici, le esigenze spirituali e pastorali, il carisma di fondazione di ciascun Istituto che esige uno stile speciale di vita e di apostolato. Si richiede un’attenzione particolare al fatto che nel Codice attuale, oltre agli atti di amministrazione ordinaria, esistono quelli di amministrazione straordinaria che il Libro V regola sotto il titolo dell’amministrazione (Titolo II; cann. 1273-1289) ed esiste
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poi un’altra categoria di atti che la normativa della Chiesa regola in modo specifico, sotto il titolo di atti di alienazione (Titolo III; cann. 1291-1298), distinti da quelli di amministrazione; ad esempio, nel Libro V il can. 1277 prevede la determinazione degli atti di straordinaria amministrazione per la diocesi, e il can. 1281 per le altre persone giuridiche, mentre il can. 1292 si occupa degli atti di alienazione. Questa distinzione degli elementi economici si trova anche nel campo dei beni degli Istituti religiosi, precisamente nel can. 638 §§1-3. In tal modo la nozione di alienazione nella legislazione canonica deve essere distinta dal concetto di amministrazione, anche rispetto agli atti di amministrazione straordinaria. Il Codice non dice nulla circa i limiti degli atti di amministrazione, e quelli di amministrazione straordinaria non sono atti necessariamente peggiorativi. Sono distinti da quelli che riguardano il patrimonio stabile di cui parla il can. 1291 sull’alienazione. I Superiori, i loro Consigli e gli amministratori negli Istituti religiosi devono conoscere la distinzione di questi diversi tipi di atti contenuta nel Codice e i loro rispettivi requisiti per la procedura nell’ordinamento canonico per il buon governo degli Istituti.
1. Amministrazione dei beni temporali negli Istituti religiosi 1.1 Amministrazione ordinaria e straordinaria negli Istituti religiosi Il can. 638 §1 dice che spetta al diritto proprio di ciascun Istituto, entro l’ambito del diritto universale,
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determinare quali sono gli atti che eccedono il fine e la misura dell’amministrazione ordinaria e stabilire ciò che è necessario per porre validamente tali atti, chiamandoli atti di “amministrazione straordinaria”. Il §1 dà una norma generale ai religiosi che deve essere sempre osservata nella procedura per porre gli atti di amministrazione straordinaria, cioè si esige la licenza dell’autorità competente senza della quale l’atto è invalido. La definizione di atto di amministrazione straordinaria è contenuta nel Libro V, nei cann. 1277 e 1281 §§1-2. Si descrive che sia un atto che eccede “finem et modum” dell’amministrazione ordinaria e richiede che sia determinato negli Statuti o dal Superiore competente. I canoni prescrivono che l’atto di amministrazione straordinaria richiede particolari procedure. Il can. 1281 §1 prescrive che, fermo restando le disposizioni degli Statuti, si richiede sempre per la validità il permesso scritto previo dell’Ordinario3 e il can. 1277 prescrive il consenso di determinati organismi. Il can. 1281 §1 parla del permesso scritto previo dell’Ordinario. Per gli Istituti religiosi, essendo il diritto proprio a determinare gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione a norma del can. 638 §1,
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Gli amministratori hanno spesso bisogno di licenze e permessi per compiere determinati atti nell’atto di amministrazione. Tale licenza è per la validità qualora ciò sia detto espressamente (cf. can. 10). La normativa del can. 1281 §1 è quasi la stessa del can. 1527 §1 del Codice del 1917, il quale è la fonte del can. 638 §1 e indicava il permesso scritto dell’Ordinario del luogo nell’atto in questione: «Nisi prius ab Ordinario loci facultatem impetraverint, scriptis dandam, administratores invalide actus ponunt qui ordinariae administrationis fines et modum excedant».
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spetta ad esso prevedere in concreto chi sia il Superiore competente che dà il permesso richiesto per ciascuna persona giuridica pubblica, come ad esempio, lo stesso Istituto, la Provincia oppure la singola casa religiosa. Nel caso degli Istituti religiosi, il consenso richiesto nel Libro V è quello del Consiglio del Superiore competente (cf. can. 638 §3). Niente vieta, tuttavia, che il Superiore abbia un altro organismo per il suo governo concernente gli affari economici determinato nel diritto proprio. Il Superiore deve avere il consenso quando si tratta di atti di amministrazione straordinaria con le conseguenze specificate nel can. 127, cioè per la validità. A questo proposito, le Costituzioni come Codice fondamentale (cf. can. 587 §1) dovrebbero dare delle direttive di carattere generale e di principio e lasciare gli elementi mutabili alle norme contenute nei codici secondari dell’Istituto (cf. §4). Dalla lettera del can. 638 §1, è evidente che l’amministrazione straordinaria suppone che esista un’amministrazione ordinaria, la quale è atto ordinario di conservazione, custodia, sviluppo ed impiego dei beni. Secondo il canone, sono atti di amministrazione straordinaria «actus qui finem et modum ordinariae administrationis excedant»4. La stessa for-
4 L’espressione, originariamente, si trovava nella legislazione particolare della Sacra Congregazione della Propaganda Fide del 1856, art. 20, Collectanea S. Congregationis de Propaganda Fide, Roma 1893, 608, la quale è una fonte del can. 1527 §1 del Codice del 1917, che trattò il concetto di «quidquam facere, quod fines ordinariae administrationis transgreditur». Questo concetto è recepito dal Codice precedente e viene ripreso nel Codice attuale in cui la formula con qualche modifica viene adoperata nei cann. 638, 1277 e 1281.
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mula si trova anche nel can. 1281 §2 del Libro V, «actus qui finem et modum […] excedunt», mentre nel suo §1 si adopera la forma plurale fines. A norma del can. 638 §2, l’amministrazione straordinaria spetta di diritto al Superiore competente, mentre l’economo o altro ufficiale non può porre atti di questo genere senza il permesso esplicito, il cui modo è da determinare nel diritto proprio, da parte del Superiore competente5. Tutte quelle spese e atti giuridici di amministrazione che non sono compresi nell’amministrazione straordinaria appartengono all’amministrazione ordinaria. Il canone domanda che, entro l’ambito del diritto universale, il diritto proprio precisi quali atti appartengano all’amministrazione straordinaria. In certo modo si può semplicemente affermare che gli atti di amministrazione ordinaria sono quelli normali per la conservazione, l’utilizzo e il miglioramento del patrimonio. In realtà, tuttavia, si deve dire che è difficile fornire una determinazione di tali atti, per diverse ragioni. Il Codice adopera il termine “amministrazione straordinaria” sia nel Libro V (can. 1277; cf. can. 1281) per le persone giuridiche in genere sia nel can. 638 §1 per gli Istituti religiosi, ma non definisce quali atti in concreto siano considerati atti di straordinaria amministrazione6. Ci possono essere
5 Il §2 prescrive: «Le spese e gli atti giuridici di amministrazione ordinaria sono posti validamente, oltre che dai Superiori, anche dagli officiali a ciò designati dal diritto proprio, nei limiti del loro ufficio». 6 Nel Libro V, il can. 1281 §2 stabilisce in modo generale che spetta innanzitutto agli Statuti delle singole persone giuridiche precisare quali atti si debbano considerare straordinari. Il Codice, cioè, prescrive che tali atti siano determinati positiva-
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diversi criteri; ad esempio, quantitativo, qualitativo o di frequenza. Un criterio quantitativo vuol dire considerare atti di amministrazione dal punto di vista del costo fissando una somma. Questo criterio porta con sé una certa sconvenienza, in quanto una cifra che può essere del tutto ordinaria per un Istituto religioso esteso e internazionale potrebbe essere straordinaria per un altro più piccolo. Una possibilità potrebbe essere quella di fare un elenco di atti concreti che rientrano alla categoria dell’atto in questione. Ma l’economia moderna non permetterebbe di farlo a causa delle complessità delle attività coinvolta oggi rispetto a quella d’altri tempi. Non sarebbe nemmeno possibile elencare tutte le categorie di atti “straordinari” a livello di diritto universale per il mondo moderno, che sperimenta un cambiamento veloce negli atti economici di natura e modalità inimmaginabili prima. In proposito, De Paolis, cautamente leggendo la lettera dei canoni stessi che adoperano espressione “finem (fines) et modum”, osserva che l’amministrazione può essere straordinaria in riferimento sia ai fini sia alla misura. I fini, nel nostro caso, riguardano il progetto, lo scopo per il quale un Istituto religioso è costituito. Secondo l’autore, quando l’atto risponde alle finalità e al servizio che l’Istituto religioso deve prestare in base al diritto proprio, l’amministrazione
mente. Se questa definizione è assente negli Statuti, «spetta al Vescovo diocesano, udito il Consiglio per gli affari economici, determinare tali atti per le persone a lui soggette». Ogni persona giuridica deve avere Statuti approvati dalla competente autorità (cf. can. 117), e per gli Istituti religiosi questi sono le Costituzioni.
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si considera ordinaria7. Il rispetto della finalità infatti coincide con l’atteggiamento fondamentale del Codice che parla spesso del fine di ciascuna persona giuridica, come afferma il primo canone del Libro V quando ammette il diritto della Chiesa ai beni temporali collegandosi ai suoi “fini propri” (can. 1254 §1). Il Libro V indica chiaramente che i beni temporali servono alla Chiesa per perseguire i suoi fini propri, e il §2 dello stesso canone mette in risalto i fini dei beni, soprattutto quelli propri della Chiesa: culto divino, sostentamento del clero e di altri ministri, e le opere apostoliche e di carità, specialmente a favore dei poveri. Secondo tale spirito, gli Istituti religiosi hanno diritto di possedere e amministrare i beni temporali in quanto essi partecipano alla missione della Chiesa (cf. can. 574) e perciò devono amministrare i beni secondo lo spirito e i fini propri degli Istituti approvati dalla Chiesa8.
7 Cf. V. DE PAOLIS, Il Codice del Vaticano II, I beni temporali della Chiesa, Bologna 1995, 146-147. 8 L’affermazione del can. 1254 §2 era già contenuta nel Codice precedente, precisamente nel can. 1496, il quale, a differenza del canone in questione, parlava soltanto del diritto della Chiesa di esigere dai fedeli i beni necessari per tali fini propri, e non faceva riferimento alla destinazione dei beni della Chiesa in genere. Nel Vaticano II, nell’elencazione delle finalità dei beni ecclesiastici, il decreto Presbyterorum Ordinis, 7 dicembre 1965, AAS 58 (1966) 991-1024, n. 17c afferma: «I sacerdoti devono sempre impiegare i beni ecclesiastici per quei fini per il cui raggiungimento è lecito alla Chiesa possedere beni temporali, e cioè: lo svolgimento del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero e, inoltre, l’esercizio delle opere del sacro apostolato o della carità in modo particolare nei confronti dei poveri». Il Codice applica l’affermazione conciliare alla Chiesa intera, a tutti i livelli.
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È necessario tenere il fine come primo criterio. I canoni parlano anche della «misura [modus]» degli atti di amministrazione. Ci possono essere degli atti che, per quanto riguarda i fini, sono di ordinaria amministrazione, ma dal punto di vista della misura, sono da considerare di amministrazione straordinaria. I due criteri, il fine e la misura, devono quindi essere combinati insieme. In concreto, per gli atti di amministrazione straordinaria ci sono, in effetti, diversi elementi di cui tenere conto. De Paolis elenca in modo generale gli elementi a questo proposito: la quantità; i rischi di perdita; l’incidenza che l’atto può avere sulla sostanza o solamente sui frutti; pericoli sulla stabilità dello stesso patrimonio; la natura della cosa; l’oggetto dell’atto di amministrazione e del servizio che viene prestato; la modalità e la complessità del negozio; il valore della cosa; la durata dei tempi di esecuzione; incertezza dei risultati economici; la consistenza patrimoniale, economica e finanziaria della stessa persona giuridica, ecc.9.
Gli atti di amministrazione straordinaria siano individuati dal diritto proprio a norma del can. 638 §1. L’elencazione dovrà essere fatta secondo le esigenze di ciascuna persona giuridica esistente: l’Istituto stesso, la Provincia/Regione e la singola casa. Non potrebbe esistere un elenco completo applicabile comunemente a tutti gli Istituti, in quanto la determinazione concreta degli atti di amministrazione straordinaria può variare da Istituto ad Istituto. Talvolta a causa della diversità delle situazioni; motivata in modo particolare dall’estensione territoriale, è impossibile anche averla per
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V. DE PAOLIS, Il Codice del Vaticano II (cf. nt. 7), 147.
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l’Istituto intero. Gli atti di amministrazione straordinaria in ogni modo devono essere stabiliti in riferimento al fine dell’Istituto, sempre prestando attenzione al suo carisma di fondazione e, allo stesso tempo, alla concreta situazione economica dei singoli enti; ad esempio, la somma della spesa, l’attuale situazione economica o il rapporto alla Chiesa locale10. 1.2 Altri requisiti per l’amministrazione Il can. 636 §1 prescrive che in ogni Istituto ed in ogni Provincia che viene retta da un Superiore maggiore11 deve esserci un economo distinto dal Superiore maggiore costituito a norma del diritto proprio per amministrare i beni sotto la direzione del rispettivo Superiore12. Gli economi e gli altri ufficiali a ciò desi-
10 Per l’amministrazione, il Codice adopera anche l’espressione “atti di amministrazione di maggior importanza”. Il can. 1277 stabilisce che il Consiglio per gli affari economici diocesano e il Collegio dei consultori devono essere consultati dal Vescovo per gli atti di amministrazione che risultano di particolare importanza in relazione alla situazione economica della diocesi. Il Codice tuttavia non offre argomenti più precisi per distinguere l’ambito di tali amministrazioni se non alcune norme per la procedura. Per gli Istituti religiosi non esiste tale normativa. La distinzione in questione è, quindi, lasciata al diritto proprio. 11 Per la definizione di Provincia e di una parte equiparata alla Provincia, con qualunque nome designata, e di “Superiore maggiore”, vedi cann. 620 e 621. 12 Questo canone si applica anche alle Società di vita apostolica a norma del can. 741 §1. Secondo il canone, anche nelle comunità locali deve essere nominato un economo distinto dal Superiore locale. Costituire un economo, sia generale sia provinciale, è obbligatorio, mentre costituire un economo locale è facoltativo, in quanto il §1 dice «per quanto è possibile»; ciò
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gnati devono essere soggetti ai Superiori nell’amministrare i beni dell’Istituto, il che significa che devono trovare i modi migliori per conservare, utilizzare e spendere i beni secondo lo spirito e le intenzioni dell’Istituto. L’economo sottostà all’autorità del Superiore ed è escluso dall’azione dell’alienazione in senso tecnico canonico della parola (cf. 2.1) e deve limitarsi nel suo ufficio agli atti di amministrazione ordinaria. I compiti e i doveri principali degli economi e ufficiali dovranno essere specificati nel diritto proprio e sono ordinariamente di natura esecutiva: amministrano i beni dell’Istituto secondo gli indirizzi e le modalità stabiliti dal Superiore. Spetta all’economo realizzare gli ordini di spesa sulla base delle entrate stabili dell’Istituto o della Provincia. Il can. 636 §2 ordina che nel tempo e modalità stabiliti dal diritto proprio, l’economo e gli altri amministratori devono presentare all’autorità competente il rendiconto dell’amministrazione da loro svolta13. Gli
dipende, ad esempio, dalla misura e natura della comunità. In caso di necessità è possibile nominare uno stesso economo per diverse case o comunità locali. Secondo la norma del Libro V, il mandato all’economo di una diocesi deve essere di cinque anni, rinnovabile per altri quinquenni, ed egli non deve essere rimosso dal suo ufficio mentre è in carica, se non per grave causa (can. 494 §2), ma per gli Istituti religiosi non si dà una norma simile. La determinazione spetta quindi al diritto proprio. Inoltre a differenza del Codice del 1917 che prescriveva tale ufficiale fosse designato secondo la norma delle Costituzioni (cf. can. 516 §4), ora il canone parla del diritto proprio. 13 Il can. 1287 §1 parla del rendiconto annuale per l’economo diocesano e il can. 1284 §2, 8° per gli amministratori in genere. Il can. 636 §2 lascia la determinazione della periodicità al diritto proprio di ciascun Istituto.
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economi, perciò, a ciascun livello – generale, provinciale e locale – presentano al Superiore determinato nel diritto proprio il rendiconto della propria amministrazione. Quando agisce per conto dell’Istituto, l’economo o l’altro ufficiale deve stare nell’ambito delle sue competenze, ma tale regola non impedisce al Superiore di affidare loro alcuni compiti specifici per gli atti di amministrazione. L’economo, se agisce nell’ambito delle proprie competenze, agisce in nome dell’Istituto e gli atti posti da tale amministratore sono atti posti dall’Istituto stesso. Se una persona giuridica – l’Istituto, Provincia o casa religiosa – ha quindi contratto debiti e oneri, con la dovuta procedura tramite il legittimo amministratore, è tenuta naturalmente a risponderne in proprio (cf. can. 639 §1)14 come persona giuridica. Secondo il can. 638 §2, anche quando esiste un economo, il Superiore può per diritto eseguire personalmente gli atti di amministrazione. Le spese e gli atti giuridici di amministrazione ordinaria sono posti validamente dai Superiori, e in modo particolare, in caso urgente, il Superiore o gli officiali designati per questo scopo possono lecitamente eseguire gli atti di amministrazione ordinaria senza alcuna comunicazione del fatto all’economo. Al Superiore, tuttavia, non spetta l’amministrazione esecutiva nelle materie quotidiane, ma piuttosto essere il responsabile nel-
14 Il can. 639 §§2-3 tratta i casi dei beni che appartengono ai singoli membri degli Istituti e dicono che se un religioso ha contratto debiti o oneri sui propri beni senza la licenza del Superiore, è lui stesso, e non la persona giuridica, a doverne rispondere. Per la validità di atto giuridico in genere, vedi cann. 124-128.
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l’ambito dell’amministrazione. Egli, cioè, in via ordinaria, non esegue i singoli atti di amministrazione, ma li guida dando il permesso agli ufficiali incaricati per la persona giuridica, altrimenti lo spirito del can. 636 §1 – avere l’economo distinto dal Superiore – non raggiungerebbe il suo scopo. Per un buon governo delle cose nell’Istituto, è necessario, prima di tutto, che il Superiore si sia informato in modo adeguato e sufficiente sulla reale situazione economica dei singoli enti, sia della loro disponibilità sia dei loro bisogni, affinché sia in grado di operare ciò che è necessario per il bene della persona giuridica affidatagli. All’economo spetta la proposta, il consiglio e la preparazione dell’atto che oltrepassa l’ordinaria amministrazione, ma non la decisione stessa, che spetta invece al Superiore. L’economo avrà il compito di evidenziare in modo particolare gli aspetti tecnici e giuridici – economici e finanziari – dell’atto che il Superiore deve porre. Dal tenore della lettera dei cann. 627 §1 e 638 §1, spetta al Consiglio aiutare il Superiore per alcuni elementi peculiari, ad esempio, il discernimento sugli aspetti pastorali, sulla maniera del raggiungimento del fine proprio e sul rapporto con la Chiesa locale. Sarà impossibile definire esattamente il limite delle opere da affidare all’economo, ed è difficile allo stesso momento, immaginare che, quando c’è l’economo nella procedura del discernimento prima di arrivare alla fase decisionale, egli non partecipi a tale procedimento, in quanto egli è la persona che conosce la situazione patrimoniale dell’Istituto o la Provincia più di ogni altro membro. Il can. 1283, 2° esige che ci siano norme chiare nel diritto proprio riguardo a un dettagliato inventa-
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rio dei beni immobili, dei beni mobili preziosi o che rappresentino qualche interesse culturale secondo la valutazione e la stima degli amministratori. Negli Istituti religiosi, adempiere queste opere è degli economi. Il can. 1284 §1 inoltre impone agli amministratori l’obbligo di agire con diligenza. Il modello della diligenza è quella del “buon padre di famiglia” che amministra i propri beni; la formula tradizionale per indicare le virtù richieste per il Superiore e l’economo. Nel §2 dello stesso canone, si elencano in nove numeri in modo estremamente generale le norme da seguire come principi di sana amministrazione. Un’ulteriore specificazione sarà impossibile a livello di diritto universale, dato che le situazioni economiche sono molto diverse, per i singoli Istituti religiosi la determinazione sarà dunque affidata al diritto proprio di ciascun Istituto. Per quanto riguarda la responsabilità dell’amministratore sui beni degli Istituti religiosi, è da prestare attenzione in modo speciale al §2, 1°, che impone l’obbligo della costante e periodica vigilanza in materia amministrativa. Per gli Istituti religiosi, la vigilanza richiesta si attua tramite il controllo di un ufficiale specializzato per la materia economica o in occasione della visita dei Superiori designati a tale incarico (can. 628 §1). Quando, cioè, il Superiore, solitamente maggiore, fa la visita della casa con la frequenza stabilita dal diritto proprio, si auspica che, o egli personalmente o tramite l’ufficiale che accompagna, accuratamente conosca la reale situazione economica della casa, soprattutto mediante l’esame dei bilanci e dei libri contabili. Inoltre si devono adempiere tutti i requisiti del diritto, anche dal punto di vista della proibizione: ad esempio, a norma del can. 672 che si riferisce al can. 286, i religiosi
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devono evitare finalità commerciali ed affaristiche. In effetti il can. 286 vieta ai religiosi di svolgere attività affaristica e commerciale, direttamente o tramite altri, a proprio profitto o per conto di altri, se non con la licenza della legittima autorità ecclesiastica. 2. Alienazione dei beni degli Istituti religiosi 2.1 Il concetto di alienazione nel can. 638 §3 Il can. 638 §3 regola in modo particolare l’alienazione dei beni temporali degli Istituti religiosi. Il Codice prescrive che per la validità degli atti di alienazione si richiede la licenza scritta del Superiore competente con il consenso del suo Consiglio15. Il
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Per la facoltà di alienazione degli Istituti religiosi, a partire dal periodo del Vaticano II, il rescritto pontificio Cum admotae, 6 giugno 1964, AAS 58 (1964) 374-378, n. 9 ha esteso la facoltà anteriormente concessa ai Vescovi nel motu proprio Pastorale munus, 30 novembre 1963, AAS 56 (1964) 5-12, I, n. 32, ai Superiori generali degli Istituti religiosi clericali di diritto pontificio. Due anni dopo, LA SACRA CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI, decreto Religionum laicalium, 31 maggio 1966, AAS 59 (1967) 362-364, n. 2, ha dato un’ulteriore estensione della medesima facoltà ai Superiori generali di Istituti religiosi laicali, sia maschili sia femminili, di diritto pontificio. Si tratta della facoltà del Moderatore supremo di concedere, con il consenso del loro Consiglio e per un giusto motivo, il permesso di alienare beni del proprio Istituto, insieme con alcune materie concernenti l’amministrazione, come il permesso di pignorare i beni degli Istituti, di ipotecarli, di affittarli, di darli in enfiteusi. Il decreto dichiarava che i Superiori generali, con il consenso del loro Consiglio, possono suddelegare questa facoltà agli altri Superiori maggiori dello stesso Istituto.
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§3 segue e specifica la normativa contenuta nel Libro V16, nel senso che paragonando la normativa contenuta nel §3 a quella del Libro V sull’alienazione (cann. 1291, 1292 e 1295) risulta chiaro che l’alienazione di cui al §3 non riguarda il semplice trasferimento di un bene o rapporto giuridico degli Istituti ad un altro titolare, ma si tratta del sistema giuridico del Libro V, cioè, solo di trasferimento del dominio diretto dell’Istituto sui beni appartenenti al suo patrimonio stabile ad altro titolare. Ciò significa che l’atto di alienazione è un atto chiaramente distinto da quello dell’amministrazione. Nel Codice attuale si parla di alienazione, da un canto in senso stretto, cioè come trasferimento della proprietà diretta da una persona giuridica ad una altra persona, e, d’altro canto, come dice il can. 1295, si applica il concetto più largo di qualsiasi atto «quo condicio patrimonialis personae iuridicae peior fieri possit»17. Il can. 638 §3 parla nello stesso paragrafo sia dell’alienazione in senso proprio, ad esempio, la vendita di una casa religiosa, la cessione di un credito intitolato da una Provincia, sia in quello più largo, di qualsiasi negozio «in quo condicio patrimonialis personae iuridicae peior fieri potest». Il Codice in tal modo fa rientrare nella nozione di alienazione dei beni degli Istituti religiosi anche ciò che non è propriamente alienazione, cioè, un atto che non trasferi16
Dall’elenco delle fonti dei cann. 1291-1298 risulta che la legislazione attuale sull’alienazione dei beni ecclesiastici in linea di principio si riproduce la normativa del Codice del 1917 con alcune modifiche che specificano le norme in questione. 17 Nel Codice del 1917, il concetto di alienazione si trova nel can. 1533 che fa riferimento ugualmente a qualsiasi contratto «quo conditio Ecclesiae peior fieri possit».
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sce il dominio diretto di una cosa, ma che concede un diritto reale sulla stessa, in modo che il dominio diretto rimane all’Istituto, ma diminuito in modo considerevole; ad esempio, la costituzione di una servitù su una sua casa religiosa per un periodo molto lungo, la dazione in ipoteca di un bene immobile dell’Istituto. Non si tratta del titolo del proprietario in se stesso, ma della condizione patrimoniale della persona giuridica negli Istituti. Per quanto riguarda la legislazione sull’alienazione dei beni ecclesiastici in genere, nel Libro V si trova il regolamento sia per la validità dell’atto sia solo per la sua liceità; i cann. 1291 e 1292 si occupano della validità, mentre i cann. 1293 e 1294 trattano della liceità. Secondo il can. 1291, solo l’alienazione di beni ecclesiastici appartenenti al patrimonio stabile richiede per la validità la licenza della competente autorità. Secondo il can. 1292, quando il valore dei beni che si intendono alienare eccede la somma fissata dal diritto, si richiede la licenza della legittima autorità. Perciò anche negli Istituti religiosi si richiede la licenza scritta rilasciata dal Superiore competente per la validità dell’alienazione e di qualunque negozio da cui la situazione patrimoniale dell’Istituto, la sua Provincia e casa potrebbe subire detrimento in questo senso, quando si tratta del patrimonio stabile e della somma massima fissata. Nel Libro V, per l’alienazione in alcuni casi è richiesto anche il parere o il consenso da parte di determinati organismi (can. 1292 §1). Nel caso degli Istituti religiosi, come prescrive il can. 638 §3, è necessario in ogni caso il consenso del Consiglio che il Codice prescrive ad ogni Superiore canonico (can. 627). Si applica naturalmente anche in tale occasione la norma del Libro V che dispone che coloro
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che sono chiamati a dare il parere o il consenso per l’alienazione devono farlo solo dopo che siano stati informati esattamente sullo stato economico della persona giuridica di cui si propone l’alienazione dei beni (can. 1292 §4), e anche di altre alienazioni eventualmente già fatte (can. 1292 §3)18. 2.2 Alienazione di beni che costituiscono il patrimonio stabile Secondo il can. 1291, solo l’alienazione di beni degli Istituti che appartengono al suo patrimonio stabile richiede per la validità la licenza del Superiore competente con il consenso del suo Consiglio. Non tutti i beni appartenenti ad un Istituto religioso sono beni che fanno parte del suo patrimonio stabile. Il can. 1291 dice che il patrimonio stabile è costituito da una legittima assegnazione. È necessaria quindi anche per un Istituto religioso un’assegnazione positiva dei beni al patrimonio stabile. Il consenso del Consiglio di cui parla il can. 638 §3 è richiesto per l’alienazione dei beni che per tale legittima assegnazione costituiscono il patrimonio stabile dell’Istituto o di una delle sue parti. La legittima assegnazione è un atto posto dall’autorità competente a norma del diritto sia universale sia proprio. Spetta al diritto
18 Per quanto riguarda il consiglio o il consenso, si applica il can. 127. Il can. 127 §3 invita gli interessati a dare il proprio parere o consenso con sincerità e a mantenere, se lo richiede la gravità della materia, il segreto. Il can. 1292 §3 precisa che quando si tratti dell’alienazione di beni divisibili, la validità della licenza è vincolata alla menzione delle parti eventualmente già alienate nella richiesta stessa per evitare vendite frazionate.
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proprio determinare chi sia tale autorità competente a fare tale assegnazione, il Superiore o il Capitolo, e se nel caso del primo, con il consenso o parere del suo Consiglio. Per quanto riguarda il concetto di “patrimonio stabile”, il termine si trova anche nel can. 1285 sull’amministrazione, il quale parla della donazione dei beni che gli amministratori possono fare a fini di pietà e di carità cristiana. Nel canone, con l’espressione “i beni mobili non appartenenti al patrimonio stabile” viene esplicitato che i beni che formano il patrimonio stabile non sono limitati ai beni immobili, anche se la gran parte dei quali sarebbe di questo genere. Sebbene il can. 1291, trattando l’atto di alienazione, non espliciti questo elemento, si può dire che possono appartenere al patrimonio stabile sia beni mobili sia quelli immobili. Facendo paragone con la dicitura adoperata nei canoni concernenti l’alienazione, l’espressione “patrimonio stabile” del can. 1291 del Codice attuale può essere considerata sostituire quella del can. 1530 §1 del Codice del 1917, che ne è fonte, “res ecclesiasticae immobiles aut mobiles, quae servando servari possunt ”. Con tale formula si indicavano quei beni mobili e immobili che possono essere conservati e tali beni non devono essere alienati. Questi beni sono da essere conservati, e quindi non devono essere alienati. Nel mondo dell’economia odierna si possono conservare più facilmente anche i beni mobili investendoli in diversi modi in maniera stabile e permanente, e perciò sia i beni immobili sia i beni mobili possono essere considerati stabili, e il Codice del 1983 adopera il temine “patrimonio stabile”, sostituendo la formula precedente. I canoni che riguardano l’alienazione non obbligano esplicitamente che ogni persona giuridica abbia
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un patrimonio stabile, ma suppone che lo abbia, in quanto nel Codice il canone che riguarda la persona giuridica in genere stabilisce che l’autorità non conferisca la personalità giuridica se essa non abbia i mezzi che si prevedono sufficienti al conseguimento del fine (can. 114 §3)19. La situazione naturalmente differisce da un Istituto all’altro. Infatti il can. 634 §1 ammette la possibilità di limitare o escludere perfino la capacità di acquistare e possedere agli Istituti religiosi a norma delle proprie Costituzioni. Vista la diversità sia di vita sia di attività che gli Istituti svolgono in diverse condizioni, non ci possono essere criteri di stabilità oggettivamente applicabili riguardanti i loro beni. Tuttavia, come nel caso dell’amministrazione dei beni, il criterio si dovrebbe basare sul fine proprio dell’Istituto per il quale l’Istituto è nato ed approvato dalla competente autorità della Chiesa. L’assegnazione al patrimonio stabile deve essere fatta secondo criteri che mettono in rilievo prima di tutto il fine e la natura dell’Istituto o delle comunità interessate e anche secondo la natura dei beni. In ordine teorico, il patrimonio stabile per un Istituto religioso significa l’insieme dei beni che costituiscono la base economica minima per i fini propri dell’Istituto derivanti dal suo carisma di fondazione. Tale formula può evidenziare che si tratta di beni inalienabili, in quanto hanno lo scopo di permettere l’esistenza e le necessarie attività per il raggiungimento
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Per gli Istituti religiosi, il can. 610 §2 accenna all’esistenza di tali mezzi, stabilendo che non si proceda all’erezione di una casa se prudentemente non si ritiene possibile provvedere in modo adeguato alle necessità dei membri.
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delle finalità proprie dell’Istituto. Ogni Istituto e sua parte, come persona giuridica, hanno un patrimonio stabile. Alcuni beni per natura propria costituiscono tale patrimonio, nel senso che senza di essi l’Istituto non avrebbe i mezzi necessari per compiere i propri fini sia nella vita interna sia per le attività apostoliche20. Il patrimonio stabile di cui al §3 necessita che vi sia una assegnazione positiva e perciò il Superiore competente secondo la norma del diritto proprio determina i beni che corrispondono a tale criterio, e anche la procedura necessaria per tale assegnazione. 2.3 I casi nei quali si richiede la licenza della Santa Sede per l’alienazione Secondo il can. 638 §3, se il valore dei beni che si intendono alienare eccede la somma massima indicata dalla Santa Sede, o si tratta di ex voto donati alla Chiesa o di cose preziose, si richiede il permesso della Santa Sede. Si tratta dell’autorizzazione necessaria per l’alienazione dei beni degli Istituti, ma solo se il valore supera la misura stabilita negli atti di alienazione, la quale non è la stessa di quella degli atti di amministrazione. La licenza della Santa Sede, quando richiesta, non sostituisce il consenso
20 Negli Istituti religiosi ci sono alcuni beni, mediante un riferimento concreto e preciso con l’individuazione, che sono necessari al sostentamento dell’Istituto, della sua parte o dell’istituzione per l’apostolato e quindi inalienabili senza la dovuta solennità. Prima di tutto è necessario individuare quale bene appartiene ad una persona giuridica pubblica dell’Istituto. Cf. SACRA CONGREGAZIONE PER I RELIGIOSI, Istruzione (Prot. n. 300/74), in X. OCHOA, Leges Ecclesiae, vol. VI, Roma 1987, n. 4652 circa la mutazione del proprietario e l’alienazione.
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richiesto dal Consiglio del Superiore competente. Il §3 esplicita un’ulteriore licenza, adoperando il termine “insuper” e tale aggiunta, dal tenore della lettera del can. 1292 §2, è per la validità. Per quanto riguarda l’alienazione dei beni ecclesiastici in genere, il can. 1292 §2 dice che spetta alla Conferenza episcopale determinare una somma al di sotto della quale non si richiedono particolari solennità21, e un’altra somma oltre la quale si richiede la licenza da parte della Sede Apostolica. Ci sono quindi tre categorie di cifre; una cifra minima, una media ed un’altra, massima. Ma il canone ha la clausola «salvo il disposto del can. 638 §3». Il caso degli Istituti religiosi è quindi un’eccezione e spetta all’autorità interna dell’Istituto fissare le somme secondo la necessità, per le quali si richiede una formalità o solennità, che è la licenza dell’autorità interna dell’Istituto. Ugualmente, quanto alle operazioni che non riguardano il patrimonio stabile, le ulteriori determinazioni sono lasciate al diritto proprio in quanto tale operazione fa parte dell’amministrazione (can. 638 §1), non dell’alienazione in senso del can. 638 §322.
21 A norma dello stesso §1, quando si tratta dei beni di persone giuridiche pubbliche soggette al Vescovo diocesano, se il valore è compreso tra le quantità massima e minima indicate dalla Conferenza episcopale, è competente lo stesso Vescovo, che deve tuttavia avere il consenso del Consiglio per gli affari economici e del Collegio dei consultori. Il canone fa riferimento anche agli interessati, i quali sono, ad esempio, i benefattori, il fondatore, il titolare di diritti sulla cosa da alienare. La normativa si dovrebbe applicare anche agli Istituti religiosi in modo analogo, sempre conservando l’indole e natura dell’Istituto. 22 Quanto all’alienazione di beni il cui valore non supera la somma minima stabilita dal diritto proprio, se tale somma esi-
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Spetta al diritto proprio fissare la somma di queste diverse categorie, l’autorità competente a dare la licenza e la procedura richiesta per il retto utilizzo e la protezione dei beni dell’Istituto. Il can. 638 §3 dice che la somma oltre la quale bisogna ricorrere alla Sede Apostolica è fissata dalla stessa Santa Sede, ossia dalla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica o la Congregazione per le Chiese orientali. Spetta alla Santa Sede determinare la somma massima oltre la quale è necessario il suo permesso. Di fatto, la Conferenza episcopale non ha competenza sulla vita interna degli Istituti religiosi23. La Santa Sede, però, nella maggior parte dei casi, sembra usare la somma fissata dalle Conferenze episcopali per gli Istituti religiosi. Per quanto riguarda l’alienazione delle cosiddette donazioni votive fatte ad un Istituto religioso, oppure di oggetti preziosi dal punto di vista dell’arte o dell’antichità, si richiede sempre la licenza da parte della Santa Sede per la validità, anche se il valore di tali oggetti è inferiore alla somma massima fissata24. La licenza della Santa Sede viene richiesta
ste nell’Istituto, in modo analogo al can. 1292 §2, non si richiede alcuna licenza del Superiore competente. 23 Il rescritto pontificio Cum admotae del 1963 (cf. nota 15) ha affidato la competenza alla Conferenza episcopale nazionale o regionale. 24 Come abbiamo visto sopra (cf. 1.2), il can. 1283 sull’amministrazione esige norme chiare nel diritto proprio riguardanti un inventario esatto e puntuale degli immobili, dei mobili preziosi o che rappresentino qualche interesse culturale con la loro descrizione e valutazione. Questo elenco può servire, per il caso menzionato nel can. 638 §3, per gli atti di alienazione negli Istituti religiosi.
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per i doni votivi e gli oggetti storicamente o artisticamente preziosi, cioè quando si tratta non solo di denaro, ma anche di sacralità, storicità e di cultura. Il can. 1190 §2 dice ugualmente che le reliquie insigni, come pure quelle onorate da grande pietà popolare, non possono essere alienate validamente in nessun modo senza la licenza della Sede Apostolica25. La lettera circolare Opera artis26, una delle fonti del can. 638 §3, n. 7 ha ordinato che l’alienazione di cose preziose, specialmente ex voto, richiede che nelle istanze venga chiaramente indicato il parere della Commissione per l’arte sacra e per la sacra liturgia e, se il caso lo permette, anche il parere della Commissione per la musica sacra e degli esperti. In questi casi, se viene richiesto dalla legislazione statale locale, necessita il benestare dell’Organo civile competente in materia. 2.4 Altri requisiti per l’alienazione Per quanto riguarda i requisiti per la liceità dell’atto di alienazione, il can. 1293 tratta di alcune disposizioni che devono essere osservate, ad esempio, la giusta causa e la cautela. Secondo il canone, quando il valore della cosa che viene alienata superi la somma stabilita per l’alienazione, necessita una
25 È necessario il permesso della Santa Sede anche trasferire la materia in questione in modo definitivo. Il Codice del 1917 diceva anche «in aliam ecclesiam transferri» (can. 1281 §1). Vedi anche il can. 1171 sull’uso di cose sacre nel Codice attuale. 26 SACRA CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Lettera circolare, 11 aprile 1971, AAS 63 (1971) 315-317 circa la cura del patrimonio storico-artistico della Chiesa.
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“giusta causa”. Nel caso degli Istituti religiosi, sarà valutata dai Superiori competenti con serietà e attenzione sugli elementi contemplati nel canone: la necessità urgente, l’utilità evidente, la pietà, la carità o altra grave ragione pastorale. L’elenco indicato nel can. 1293 §1, 1° non sembra esaustivo, ma esemplificativo27. Ci si può chiedere se alienazione oppure la vendita dei beni temporali di patrimonio stabile degli Istituti religiosi deve essere sempre motivata da giusta causa o meno. Spetta all’autorità competente nell’istituto giudicare realisticamente il motivo, ma la scarsezza delle vocazioni non può automaticamente creare la giusta causa. Il canone parla anche di perizia e di ogni altra cautela necessaria (§1, 2°). La valutazione deve essere fatta da periti ossia esperti nella concernente scienza. Dicendo «a peritis», si parla di periti al plurale, e la stima deve essere fatta per iscritto. Il §2 dice «per evitare danni alla Chiesa». La parola “Ecclesia” qui sembra riferire ad una determinata persona giuridica pubblica, l’Istituto stesso o la Chiesa locale. Lo scopo indicato nel §2 può essere conseguito, ad esempio, richiedendo determinate qualità nell’acquirente, ad esempio, che sia un ente ecclesiastico con o senza personalità giuridica. Inoltre, il can. 1294 obbliga a non vendere ordinariamente ad un prezzo inferiore rispetto a quello stimato, e a collocare il denaro ricavato in modo
27 All’elenco contenuto nel can. 1530 §1, 2° del Codice del 1917, questo canone aggiunge «la carità o altra grave ragione pastorale». Facendo riferimento sia alla carità sia alla ragione pastorale, il Codice attuale apre in modo ragionevole la possibilità di alienazione anche se chiede una “grave” ragione.
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sicuro e per i fini dell’alienazione. Il §1 ordina che il prezzo dell’alienazione non sia inferiore a quello della stima, cioè mira a proteggere il patrimonio stabile dell’Istituto, ma il canone contiene l’avverbio “ordinarie”. Ci possono infatti essere delle ragioni che possono giustamente consigliare l’alienazione ad un prezzo inferiore, ad esempio, se l’alienazione dei beni degli Istituti sia fatta ad un’altra persona giuridica ecclesiastica, oppure per fini di carità o per un motivo religioso. La circostanza dovrebbe essere valutata dal Superiore competente cui spetta dare il permesso. Il denaro ricavato dall’alienazione, dice il §2, deve essere impiegato con cautela a beneficio della Chiesa, e quindi, nel nostro caso, dell’Istituto stesso oppure deve essere adoperato prudentemente per adempire i fini specifici dell’alienazione, ad esempio, costruire una nuova casa religiosa, aiutare altre Province più bisognose, provvedere ad una necessità dell’apostolato in un nuovo campo, ecc. Secondo la norma del can. 1296, se i beni dell’Istituto sono stati alienati senza le debite formalità canoniche, ma l’alienazione è civilmente valida, il Superiore competente deve stabilire se si debba intentare un’azione affinché l’Istituto possa rivendicare i suoi diritti, ad esempio, recuperare la stessa cosa o il risarcimento del prezzo. Il Superiore competente dell’Istituto deve precisare le opportune azioni, cioè di che tipo, chi debba agire in giudizio o contro chi, ecc28. Altri elementi di cui tenere conto nell’atto
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Questo canone fa riferimento solo all’alienazione in senso stretto e non sembra includere il negozio di cui la seconda parte del can. 638 §3, cioè, il senso largo dell’alienazione (cf. can. 1295), ma non vieta espressamente un’applicazione larga.
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di alienazione sono indicati nei canoni seguenti, la locazione (can. 1297) e il divieto di vendita dei beni ai propri amministratori e ai loro parenti (can. 1298). Nel Libro VII, inoltre, trattando il tema dei modi di evitare il giudizio, il can. 1715 §2 dice che se si tratta di beni ecclesiastici temporali, ogniqualvolta la materia lo richiede si osservino le formalità stabilite dal diritto per l’alienazione delle cose ecclesiastiche. In fine è da ricordare che l’alienazione di beni senza il necessario permesso è punita a norma del can. 1377: «Chi senza la debita licenza aliena beni ecclesiastici sia punito con giusta pena». 2.5 La responsabilità dell’Ordinario del luogo per l’alienazione degli Istituti di diritto diocesano e dei monasteri sui iuris Il can. 638 §4 ribadisce che per la validità di un’alienazione fatta da un Istituto di diritto diocesano o da un monastero sui iuris di cui al can. 615 (cioè quello che non ha un altro Superiore maggiore oltre al proprio Moderatore, né è associato ad un Istituto religioso in modo che il Superiore di questo abbia su quel monastero una vera potestà definita dalle Costituzioni), è sempre necessario il consenso scritto dell’Ordinario del luogo, anche nel caso in cui la somma coinvolta nell’alienazione non superi quella fissata dalla Santa Sede29. Un Istituto di diritto diocesano rimane sotto la speciale cura del
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Il canone è complementare al can. 1276 §1 e si applica anche alle Società di vita apostolica di diritto diocesano a norma del can. 741. Per i monasteri il diritto e il dovere dell’Ordinario del luogo è limitato a quelli di cui tratta il can. 615.
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Vescovo diocesano, sempre fatta salva la sua legittima autonomia (cf. can. 594). Similmente un monastero di cui al can. 615 viene affidato alla peculiare vigilanza del Vescovo diocesano a norma del diritto. Se l’Ordinario deve dare il suo consenso sia per un’alienazione sia per i beni specificati nel can. 638 §3, tale permesso deve essere dato previamente per ottenere la licenza della Santa Sede30. Il §4 tratta dell’atto di alienazione in cui l’Ordinario del luogo agisce come se fosse un Superiore competente dell’Istituto. Il Vescovo è l’autorità responsabile e indipendente in materia anche dell’amministrazione dei beni nella diocesi (can. 392 §2). Il Codice quindi gli affida di esercitare il diritto e il dovere di vigilanza di cui al can. 1276 §2, e la vigilanza richiesta si attua, nel caso dell’alienazione, mediante una specie di tutela e di controllo. Il can. 638 §4 non determina la somma a partire dalla quale sia necessario il consenso da parte dell’Ordinario. È evidente che il consenso richiesto è necessario se si tratta di somme di certa misura. In ogni caso, sarà utile che la Conferenza episcopale in ciascuna regione, unitamente con la Conferenza dei Superiori maggiori degli Istituti religiosi interessata (cf. can. 708), determini a partire da quale somma sia necessario il consenso da parte dell’Ordinario del luogo. Tale regola non si applica per gli Istituti religiosi di diritto pontificio31, né ai monasteri sui iuris che appartengono alla Congregazione monastica.
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Il regolamento già si trovava nel Codice del 1917: cann. 533 §1, 1° e 534 §1. 31 Esiste tuttavia una lettera cui prestare attenzione: CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE
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Conclusione La difficoltà di trattare la materia dell’amministrazione dei beni temporali degli Istituti religiosi, oltre alla complessità della normativa e della procedura richieste negli affari economici in genere nel mondo di oggi, deriva in certo modo dal fatto che il Codice di diritto canonico non offre una definizione quantitativa per l’amministrazione e l’alienazione, ma si limita a regolamentare la prassi, dando un criterio finalistico. Essendo opportuna una larga applicazione del principio di sussidiarietà, anche SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, Lettera spedita ai Moderatori supremi degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, 21 dicembre 2004 (Prot. N. 971/2004). Si tratta di una lettera ufficiale che vuole informare circa la prassi della Congregazione sull’alienazione. Cf. R. GEISINGER, «Some Ongoing Considerations in Canon Law for Treasurers General of Religious Institutes», Periodica 95 (2006) 243-244. La suddetta Congregazione informa che quando il valore del bene periziato supera la somma massima fissata dalla Conferenza Episcopale e recepita dalla medesima, per la concessione della prescritta licenza agli Istituti di vita consacrata di diritto pontificio si richiede ora il parere dell’Ordinario del luogo dove è ubicato il bene sulla progettata vendita. La Congregazione spiega i motivi dandone tre: favorire le mutue relazioni tra Vescovi e Istituti; evitare che il patrimonio ecclesiastico si impoverisca; consentire all’Ordinario del luogo di valutare l’opportunità dell’acquisto del bene. Gli Istituti religiosi di diritto pontificio nel rispetto dell’autonomia sono soggetti in modo immediato ed esclusivo alla Sede Apostolica per ciò che riguarda la vita e la disciplina interna dell’Istituto (can. 593). La sottomissione diretta alla Sede Apostolica significa che non esistono altre autorità intermedie tra la Santa Sede e gli Istituti per quanto riguarda la vita interna ed il governo. La sottomissione alla Santa Sede riguarda il governo interno e la disciplina, perciò include anche le alienazioni dei beni.
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nel rispetto della giusta autonomia del governo interno degli Istituti, non sembra possibile né opportuno richiedere di avere delle norme oggettive e assolute applicabili a tutti gli Istituti religiosi per questa materia. Come abbiamo visto sopra, si devono considerare diversi elementi, non solamente la quantità dei beni coinvolti, ma anche la natura degli atti e le esigenze economiche nella situazione concreta sia dell’Istituto sia della Chiesa locale, per cui si richiede sempre il conseguimento dei fini ecclesiastici. La giusta autonomia di governo di cui al can. 586 §1 comprende l’amministrazione dei beni temporali come parte del governo. Il can. 638, un canone piuttosto tecnico e giuridico, domanda la conoscenza e il rispetto delle norme del diritto canonico, perché il patrimonio ecclesiale sia adeguatamente tutelato e amministrato per il bene degli Istituti e della Chiesa. In questo proposito, ci sono diversi fattori di cui tenere conto. Prima di tutto, per la normativa concernente i religiosi, come si fa nel Codice del 1983 nel Libro V (cann. 1291, 1292 e 1295), si parla di alienazione in senso proprio e in senso largo, cioè, di qualsiasi negozio «in quo condicio patrimonialis personae iuridicae peior fieri potest» in un unico paragrafo (can. 638 §3). Secondo ciò che è definito dalla normativa sull’alienazione nel Libro V per le persone giuridiche in genere, e dal suddetto canone per gli Istituti religiosi, si trovano criteri sostanziali (il patrimonio stabile), quantitativi (somma massima fissata), e qualitativi di sacralità (doni votivi) e di storicità o dell’arte (cose preziose). Gli atti di amministrazione o ordinaria o straordinaria, invece, riguardano tutti i beni degli Istituti e anche tutti gli affari economici di essi, e, differentemente dal caso
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dell’alienazione, i criteri dati nei canoni del Codice attuale trattano il fine e la misura degli atti. Per quanto riguarda il rispetto del fine dei beni e della povertà evangelica collettiva degli Istituti, certo è estraneo al conseguimento dei fini della Chiesa il possesso e l’uso di beni che siano destinati all’arricchimento degli Istituti o di singoli religiosi. È difficile, tuttavia, determinare un criterio che possa distinguere ciò che non è strettamente necessario per servire al fine dell’Istituto da tutto ciò che esso possiede. La misura di un uso moderato delle cose materiali può variare secondo la natura di ciascun Istituto e comunità, ma il testo del can. 638 deve essere letto secondo lo spirito dei canoni che lo precedono nella stessa sezione del Codice; ad esempio, il can. 634 §2 rivolge a tutti gli Istituti religiosi un’esortazione di carattere spirituale e pastorale per una testimonianza collettiva della povertà religiosa, di evitare ogni parvenza di lusso, di lucro eccessivo e di accumulazione di beni. Ogni Istituto inoltre deve stabilire norme per l’amministrazione dei beni che riflettano il carisma e lo spirito di povertà suo proprio. Il can. 635 §2 infatti richiede le norme proprie mediante le quali la povertà propria dell’Istituto deve essere favorita, tutelata e manifestata. La necessità o non necessità di beni temporali per il raggiungimento dei fini della Chiesa è da valutarsi in modo concreto. Per gli Istituti religiosi non ci può essere altro criterio che non il loro spirito di fondazione e il fine proprio. Certo, molto dipenderà dalla sensibilità dei vari Superiori e ufficiali, che dovranno essere sempre attenti alle esigenze della povertà evangelica sia individuale sia collettiva. In ogni modo, è necessario mettere in risalto l’indole specifica dell’Istituto, e in modo particolare la sua
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povertà caratteristica (cf. can. 598 §1). Il diritto proprio deve esprimere non solo il limite dell’uso e dell’amministrazione, ma anche il diritto alla povertà secondo l’ideale e le intenzioni dei fondatori. Il criterio chiave per stabilire delle norme nel diritto proprio dovrebbe essere la comprensione della testimonianza evangelica da parte dell’Istituto, non in primo luogo un’amministrazione efficace. YUJI SUGAWARA, S.J.
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LA DIMISSIONE DEI RELIGIOSI Un percorso storico che mostra l’interesse pastorale della Chiesa Che un religioso sia dimesso dal suo Istituto non accade molto frequentemente, ma quando il fatto si produce si assiste ad una rottura traumatica nella vita del dimesso, con ripercussioni importanti per la sua comunità, Provincia ed Istituto. Il tema è particolarmente interessante per me, dovuto al lavoro di Procuratore generale che svolgo per il mio Istituto Religioso. La mia tesi, riassunta in questo articolo, cerca di presentare l’attuale quadro legale relativo al tema, nel contesto della sua evoluzione storica, partendo dalle norme esistenti nella primitiva vita consacrata della Chiesa, fino ad arrivare alle due codificazioni del secolo XX1. Una definizione di dimissione può essere la seguente: rottura imposta dei vincoli con l’Istituto che si rende necessaria per un comportamento criminale o moralmente riprovevole e colpevole di un
1 Per fare riferimento alle diverse espressioni della Vita Consacrata che ci sono nel Codice di Diritto Canonico [= CIC] o nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali [= CCEO] utilizzerò le abbreviature: Istituto Religioso [= IR], Istituto Secolare [= IS], Istituto di Vita Consacrata [= IVC], Società di Vita Apostolica [= SVA], Società di Vita Comune [= SVC].
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membro di un IVC o SVA. Può iniziare tale procedimento l’autorità religiosa, non il membro2. Il fatto che la misura risulta imposta al membro ci permette di distinguerla nettamente dal permesso d’assenza dalla comunità (cf. can. 665 §1)3, dal passaggio ad un altro Istituto (cf. cann. 684-685)4, dall’uscita dall’Istituto scaduto il tempo della professione (cf. can. 688 §1)5, dall’indulto di lasciare l’Istituto (cf. cann. 688 §2 e 691-693)6 e dalla concessione di un’esclaustrazione (cf. can. 686 §§1-2)7 che sono
2 Cf. E. GAMBARI, Vita religiosa secondo il Concilio e il nuovo Diritto Canonico, Roma 19852, 606; G. GHIRLANDA, «La problematica della separazione del religioso dal proprio istituto», in D.J. ANDRÉS (ed.), Il nuovo diritto dei religiosi, Roma 1984, 176. Un’altra definizione può essere: «Dimissio ab Instituto est egressus professo etiam nolenti a legitima auctoritate impositus». F. D’OSTILIO, «De separatione sodalium ab IVC», in Z. GROCHOLEWSKI – V. CÁRCEL ORTÍ (edd.), Dilexit Iustitiam, Fs. Sabattani, Città del Vaticano 1984, 560. 3 Cf. M. DORTEL-CLAUDOT, De Institutis Vitae Consecratae et Societatibus Vitae Apostolicae, Roma 1995, 192-193; G. LOBINA, «Separazione dei membri dall’Istituto», in ISTITUTO REGIONALE LOMBARDO DI PASTORALE (ed.), Gli Istituti religiosi nel nuovo Codice di Diritto Canonico, Milano 1984, 206. 4 Cf. F. D’OSTILIO, «De separatione sodalium ab IVC» (cf. nt. 2), 574-575; G. GHIRLANDA, «La problematica della separazione» (cf. nt. 2), 157-164; G. LOBINA, «Separazione dei membri dall’Istituto» (cf. nt. 3), 205-206. 5 Cf. G. GHIRLANDA, «La problematica della separazione» (cf. nt. 2), 165-166; G. LOBINA, «Separazione dei membri dall’Istituto» (cf. nt. 3), 207. 6 Cf. F. D’OSTILIO, «De separatione sodalium ab IVC» (cf. nt. 2), 580; G. GHIRLANDA, «La problematica della separazione» (cf. nt. 2), 166-167. 169-173; G. LOBINA, «Separazione dei membri dall’Istituto» (cf. nt. 3), 207-209. 7 Cf. F. D’OSTILIO, «De separatione sodalium ab IVC» (cf. nt. 2), 576-577; G. GHIRLANDA, «La problematica della sepa-
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misure che esigono una petizione o decisione del membro stesso. Bisogna anche distinguere la dimissione dalla esclusione dalla successiva professione da parte del competente Superiore (cf. can. 689)8. La Chiesa è interessata ad assicurare ai suoi figli dei mezzi che li aiutino a vivere in conformità alla propria vocazione, perfino in questi casi straordinari. Per ciò, nelle circostanze anomale quando si commettono delitti o mancanze gravi, si dà agli Istituti la possibilità di utilizzare misure straordinarie che permettano di allontanare i membri incorreggibili, ma, nello stesso tempo, viene assicurato ai membri degli Istituti la possibilità di un’adeguata difesa davanti ad eventuali situazioni di abuso. Anche in questo campo la Chiesa si mostra come una madre che prende cura dei suoi figli. Questo articolo presenta un riassunto del tema in quattro punti: l’evoluzione storica; la normativa attuale; la situazione speciale dei membri chierici dimessi; i dati statistici ed alcuni casi concreti. 1. L’evoluzione storica Si presenta l’evoluzione storica della normativa seguendo i periodi che distingue Rocca9.
razione» (cf. nt. 2), 164; G. LOBINA, «Separazione dei membri dall’Istituto» (cf. nt. 3), 206-207. 8 Cf. F. D’OSTILIO, «De separatione sodalium ab IVC» (cf. nt. 2), 575-576; G. GHIRLANDA, «La problematica della separazione» (cf. nt. 2), 167-169; G. LOBINA, «Separazione dei membri dall’Istituto» (cf. nt. 3), 208. 9 Cf. G. ROCCA, «Per una storia giuridica della vita consacrata. Tra fedeltà al Vangelo senza regole e classificazioni di genere
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1.1 Fino al secolo VII: alla ricerca di un denominatore comune di genere La primitiva vita consacrata, praticata individualmente si poteva iniziare ed abbandonare a partire dalla libera volontà di ogni persona, poiché non esisteva nessuna autorità che la governasse né promesse esternamente accettate che obbligassero gli individui. In tali condizioni non ci poteva essere una dimissione. Istaurata la vita cenobitica con il monacato orientale (dal secolo III) ed occidentale (dal secolo V) la situazione cambia. Le Regole monastiche antiche contemplano l’espulsione degli incorreggibili perché, con il loro esempio, non portino gli altri alla rovina. C’era, perciò, un’autorità che poteva permettere o imporre il ritorno nel mondo. L’immagine che si usa abitualmente per giustificare questa misura è quella della necessaria amputazione di un membro malato che sta avvelenando il corpo, per evitare che l’organismo muoia. 1.2 I secoli VIII e IX: la prima classificazione di specie, monaci (Regola di S. Benedetto) e canonici (Regola di S. Agostino) Le autorità civili si mostrano interessate nel regolare le espressioni della vita consacrata del tempo ed impongono una certa unificazione legale, naturale nel contesto dei processi di unificazione politica che si stavano producendo. In Oriente l’imperatore Giustiniano arriva a dare disposizioni di valore civile per regolare la dimissione dei religiosi (cf. Nov. 133, 5-6).
e specie», in GRUPPO ITALIANO DOCENTI DI DIRITTO CANONICO (ed.), La vita consacrata nella Chiesa, Milano 2006, 35-69.
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Tuttavia, la dottrina della dimissione non rimane regolata né in fonti legislative universali, né nella dottrina. Piuttosto vengono determinati casi singoli e pratici, in cui i superiori possono espellere o dimettere i religiosi seguendo la propria Regola. 1.3 Dal secolo IX al XIII: dalle due specie alle tre Regole, e dalle tre Regole alle Religioni approvate Il Concilio Lateranense II (1139) ammette la Regola di S. Basilio come possibile fondamento della vita consacrata del tempo. Il Concilio Lateranense IV (1225) stabilisce che chi desideri fondare una nuova forma di vita religiosa deve inserirsi in una già approvata, assumendone la Regola. Tuttavia continuano ad apparire espressioni di vita consacrata che ottengono l’approvazione pontificia, con o senza l’approvazione di una nuova Regola. Nonostante il grande progresso tecnico, implicito nel Decretum Gratiani e nelle Decretales di Gregorio IX (che raccolgono l’opinione comune sulla legittimità dell’espulsione di un religioso impenitente) in queste collezioni non appare ancora una dottrina generale e distinta sulla dimissione. Mancano regole comuni nelle fonti giuridiche, anche se la disciplina della dimissione si regola in base ai privilegi ottenuti dai Pontefici e le Costituzioni che elaborano gli Ordini stessi e che sono approvate dalla Santa Sede. 1.4 Dal secolo XIII al XIX: il primo denominatore comune di genere, il Regolare (= Religioso = Voto solenne) e lo stato di perfezione Gli autori, partendo dai testi legali esistenti sul tema, formulano lentamente la teoria completa della
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dimissione. Si giunge così ad una certa sistematizzazione della dottrina. Dopo il Concilio di Trento la prassi della Curia Romana e delle sue Congregazioni acquisisce sempre maggiore importanza. Diverse Congregazioni Romane10 producono normativa su questo tema.
10
Un tentativo di specificare le diverse Congregazioni che incontreremo lungo i diversi paragrafi potrebbe essere: a) Pio IV (1560-1565) crea la Sacra Congregazione del Concilio [= SCConc] con la finalità iniziale di applicare i decreti del Concilio di Trento. Tale finalità è stata ampliata nel tempo, concedendo la facoltà di poter interpretarli con sentenze e decisioni che hanno suprema autorità giurisdizionale. Cf. C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, Bologna 20032, 162-166. Possiamo considerare che la sua erede attuale sia la Congregazione per il Clero [= CpC]. b) Dal 1601 la Congregatio super consultationibus regularium appare unita alla Congregazione per i Vescovi [= CpO] ed è chiamata Sacra Congregazione per i Vescovi ed i Regolari [= SCER]. Cf. A. BIZZARRI (ed.), Collectanea in usum Secretariae Sacrae Congregationis Episcoporum et Regularium, Romae 18852, 14. Innocenzo X (1644-1655) crea nel 1649 la Congregazione sullo Stato dei Regolari [= SCSR], per procedere alla riforma dei religiosi in Italia. Cf. INNOCENZO X, Costituzione Inter cetera, 17 dicembre 1649, in Bullarum, diplomatum et privilegiorum sanctorum Romanorum pontificum, XV, 646-649. Innocenzo XII (1691-1700), nel 1698, la riforma, amplia le sue attribuzioni e la denomina Congregazione per la Disciplina dei Regolari [= SCDR]. Cf. INNOCENZO XII, Costituzione Debitum pastoralis officii, 4 agosto 1698, in Bullarum, diplomatum et privilegiorum sanctorum Romanorum pontificum, XX, 824-828. Pio IX (1846-1878) nel 1846 erige di nuovo la SCSR senza che la SCDR sparisca. c) Pio X (1903-1914) nel 1906, trasferisce tutte le facoltà di SCDR e SCSR alla SCER. Cf. PIO X, motu proprio Sacrae Congregationi, 26 maggio 1906, Acta Sanctae Sedis [= ASS] 39 (1906) 203-204. Nel 1908 trasferisce le attribuzioni relative ai Vescovi alla Sacra Congregazione Concistoriale [= SCC], e le relative ai religiosi alla nuova Congregazione per i Religiosi
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La dottrina elaborata dagli autori rimane confermata da Urbano VIII col Decreto Sacra Congregatio11 che contempla unicamente la dimissione dei religiosi di voti solenni, i Regolari. Si fissa il proce-
[= SCR]. Cf. PIO X, Costituzione apostolica Sapienti Concilio, 29 giugno 1908, AAS 1 (1909) 9-135. La SCC era già presente dalla riforma di Sisto V, e aveva competenza sulla erezione di nuove diocesi, nomina di Vescovi ed altri temi amministrativi, contenziosi e graziosi annessi. Cf. N. DEL RE, La Curia Romana. Lineamenti storico-giuridici, Città del Vaticano 19984, 136-137. Paolo VI (1963-1978) cambia il nome della SCR in Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari [= SCRIS]. Cf. PAOLO VI, Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae Universae, 15 agosto 1967, AAS 59 (1967) 885-928. In fine, Giovanni Paolo II cambia di nuovo il nome a Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica [= CIVCSVA]. Cf. GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Pastor bonus [= PB], 28 giugno 1988, AAS 80 (1988) 841-930. A partire del 1985 il nome delle Congregazioni non include più l’aggettivo Sacra, ma noi non lo considereremo nella nostra collezione di sigle. Possiamo trovare un recente articolo su questa profusione di nomi – ce ne sono ancora altri oltre a quelli citati – in D.J. ANDRÉS, «CIVCSVA: Imagen de un dicasterio a través de sus 12 nombres», Commentarium pro Religiosis et Missionariis 86 (2005) 7-37. Molto materiale prodotto da queste Congregazioni si trova raccolto in P. GASPARRI – J. SERÉDI (edd.), Codicis Iuris Canonici Fontes, I-IX, Roma 1923-1939 [= CICFontes]. Collezioni simili sono X. OCHOA – D.J. ANDRÉS (edd.), Leges Ecclesiae post Codicem Iuris Canonici editae, Roma 1966-oggi [= LE], che ha raccolto la documentazione prodotta a partire della promulgazione del CIC17, e B. TESTACCI – E. LORA (edd.), Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, Bologna 1966-oggi [= EV], che raccoglie la documentazione prodotta a partire del Vaticano II. 11 SCConc, Decreto Sacra congregatio, 21 settembre 1624, in CICFontes, V, 231-234, n. 2454.
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dimento di dimissione e si determina l’incorreggibilità e le cause necessarie. In sintesi si può affermare che può essere dimesso solo chi risulta incorreggibile e che il dimesso rimane soggetto all’Ordinario del luogo e viene sospeso in perpetuum dagli ordini. Innocenzo XII, col Decreto Instantibus12 che si riferisce unicamente alla dimissione di religiosi di voti solenni, fa alcune modifiche minori, ma conserva gli elementi essenziali della disciplina. La SCSR pubblica una Lettera Circolare13 che prescrive che prima di fare la professione solenne i religiosi di tutti gli Ordini devono fare dei voti semplici per almeno tre anni. Nel 1858 si pubblica un Decreto14 che stabilisce che i voti semplici, perpetui da parte del professo, potevano essere sciolti dall’Ordine con la dimissione, di modo che il professo dimesso era liberato da qualsiasi vincolo od obbligo derivante dei voti. Non si poteva espellere un professo di voti semplici per essersi ammalato dopo la professione15. Tutta questa normativa non si applicava alle religiose. Senza che esista una normativa ufficiale promulgata si procede, nella pratica, in modo simile nei casi in cui è necessario salvaguardare la pace dei monasteri al presentarsi situazioni in cui l’incorreg-
12 SCConc, Decreto Instantibus, 24 luglio 1694, in CICFontes, V, 429-431, n. 2942. 13 SCSR, Carta Circolare Neminem latet, 19 marzo 1857, in CICFontes, VI, 973-975, n. 4381. 14 SCSR, Decreto Sanctissimus, 12 giugno 1858, in CICFontes, VI, 976-977, n. 4383. 15 Cf. SCSR, Decreto Sanctissimus, n. 1.3-5, in CICFontes, VI, 976-977, n. 4383.
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gibilità della religiosa o le circostanze rendevano impossibile prolungare la convivenza16. 1.5 Il cambio dovuto alla apparizione degli Istituti di voti semplici: il secondo denominatore comune di genere, la Religio ed il Religiosus del Codice di 1917 Dal secolo XVI appaiono nella Chiesa Istituti nei quali il professo emette sempre voti semplici. La dimissione dei professi di voti semplici temporali negli Ordini e gli ordinati in sacris e professi perpetui, nei nuovi Istituti di voti semplici, è regolata per il Decreto Auctis admodum17. È una disciplina simile a quella che riguarda i religiosi di voti solenni, ma meno severa riguardo agli effetti della dimissione. Leone XIII sviluppò la disciplina dalla dimissione, in relazione con le facoltà dei Vescovi, nella costituzione Conditae a Christo18. Le Normae di 190119 della SCER regolano la dimissione dei religiosi di voti semplici temporanei
16 Deve intervenire la Santa Sede che concede una secolarizzazione perpetua. Ci sarà anche una secolarizzazione temporanea e una secolarizzazione ad nutum Sanctae Sedis, che vuol dire fino a quando la Santa Sede decida il fine della stessa. 17 SCER, Decreto Auctis admodum, 4 novembre 1892, in CICFontes, IV, 1054-1056, n. 2020. 18 LEONE XIII, Costituzione Conditae a Christo, 8 dicembre 1900, ASS 33 (1900-1901) 341-347. 19 SCER, Normae secundum quas S.C. Episcoporum et Regularium procedere solet in approbandis novis institutos votorum simplicium, 28 giugno 1901, in E. SASTRE SANTOS, El ordenamiento de los institutos de votos simples según las Normae de la Santa Sede (1854-1958). Introducción y textos, Roma – Madrid 1993, 266-299.
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non ordinati in sacris e le religiose di voti semplici, temporanei o perpetui. La dimissione delle suore di voti semplici temporanei previi alla professione solenne rimane regolata col Decreto Perpensis20. All’inizio del secolo XX ci troviamo in un momento in cui abbiamo norme che regolano la dimissione di tutte le categorie di religiosi. Tuttavia il processo non restava completamente spiegato e continuavano ad esistere dubbi, poiché un buon numero di cose rimanevano all’arbitrio dei Superiori. Molti Superiori poi non erano esperti in temi di diritto, e, proprio per questo, non effettuavano i processi in modo adeguato. Il Decreto Quum singulae21 rappresenta l’apparizione nella Chiesa della prima legislazione che vuole raccogliere in un unico documento la disciplina sulla dimissione di tutti i religiosi22. Il nuovo procedimento contiene importanti novità, tra le quali bisogna citare il fatto che la dimissione può avvenire in tre modi diversi:
20 SCER, Decreto Perpensis, 3 maggio 1902, in CICFontes, IV, 1088-1090, n. 2039. 21 SCR, Decreto Quum singulae, 16 maggio 1911, AAS 3 (1911) 235-238. 22 Si regolano i casi di Religiosi di voti solenni negli Ordini, di voti perpetui nelle Congregazioni e Istituti e di voti temporanei ma ordinati in sacris. Per la dimissione delle monache o religiose di voti perpetui si mantiene in vigore la disciplina anteriore, con la possibilità di rimandare al secolo, con il consenso del Vescovo locale, una monaca o religiosa in caso di grave scandalo pubblico (numero 21 del Decreto). Per le professe temporanee di voti semplici ed i professi temporanei di voti semplici non ordinati in sacris, dei quali non si parla, seguono in vigore le Normae di 1901.
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– mediante la pena stabilita dallo stesso diritto, appena commesso il delitto (a iure); – mediante una pena decretata con un processo regolare; – mediante una pena decretata istantaneamente dal Superiore nei casi più urgenti (remissio ad saeculum). Poco dopo si promulga il Codice di 1917 [= CIC17]23 che contiene una legislazione sistematica e completa per i religiosi. Il Codice apporta in molti settori quella chiarezza che non esisteva. Tuttavia, la legislazione risulta troppo meticolosa: gli Istituti avevano bisogno di chiedere una grande quantità di dispense per adattarsi alle condizioni dei diversi luoghi ed attività, e rispettare i modi di fare propri di ognuno. Il CIC17 conserva la distinzione introdotta per il Decreto Quum singulae tra la dimissione a iure, adesso chiamata ipso facto, il procedimento ordinario e la remissio ad saeculum. Ci sono tre diversi tipi di procedimento ordinario che si applicano secondo la condizione giuridica del religioso. Uno è previsto per i professi temporanei di qualunque Religione. Un altro per i professi perpetui di una Religione laicale o di una Religione clericale non esente. Un ultimo per i professi perpetui di una Religione clericale esente. Nella normativa appare come problematica la discriminazione tra le Religioni di uomini e quelle di donne e tra coloro che godono dell’esenzione e gli altri. La diversità dei procedimenti previsti rendeva
23 BENEDETTO XV, Codex Iuris Canonici, 27 maggio 1917, AAS 10 (1918) Parte II, 1-521.
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difficile l’uguaglianza di diritti tra i religiosi e la protezione giuridica di tali diritti. Il processo giudiziale previsto per i professi perpetui delle Religioni esenti era troppo complicato ed era pressoché impossibile da applicare. D’altra parte, la situazione in cui rimanevano i professi perpetui dimessi era sgradevole e giuridicamente complessa, soprattutto nel caso in cui fossero ordinati in sacris. Benedetto XV creò una Commissione per interpretare autenticamente il CIC1724. Previde anche che la Curia Romana potesse sviluppare un’attività
24
BENEDETTO XV, motu proprio Cum iuris canonici, 15 settembre 1917, AAS 9 (1917) 483-484. La Commissione appare abbreviata nel testo come CI-1. Giovanni XXIII costituì nel 1963 la Pontificia Commissio Codici Iuris Canonici Recognoscendo [= CI-2]. Cf. GIOVANNI XXIII, Costituzione della CI-2, 28 marzo 1963, AAS 55 (1963) 363-364. Nel 1966 Paolo VI creò una Commissione centrale [= CI-V2] per coordinare il lavoro delle Commissioni post conciliari che dovevano seguire l’avvio delle riforme previste dal Vaticano II. Cf. PAOLO VI, motu proprio Finis Concilio, 3 gennaio 1966, AAS 58 (1966) 37-40. L’anno seguente (11 luglio) la Commissione si trasforma in Pontificia Commissione per l’Interpretazione dei Decreti del Concilio Vaticano II, acquistando una fisionomia più permanente. Si comunica la decisione con una lettera della Segreteria di Stato [= Sec]. Un’altra lettera della Segreteria di Stato, il 14 aprile 1969, amplia le competenze della Commissione all’interpretazione dei documenti emanati della Santa Sede per mettere in esecuzione i Decreti conciliari. Cf. SEC, Lettera al Presidente della CI-V2, 14 aprile 1969, in EV S1/338. Nel 1984 Giovanni Paolo II sopprime la CI-2 originale, ed anche la CI-V2, creando la Pontificia Commissione per l’Interpretazione Autentica del Codice (cf. GIOVANNI PAOLO II, motu proprio Recognito iuris canonici Codice, 2 gennaio 1984, AAS 76 [1984] 433-434), incaricata, anche, dell’interpretazione di tutte le leggi universali della Chiesa latina. Questa nuova Commissione appare abbreviata nel testo anche come CI-2. Con PB è stata
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regolamentare, attraverso istruzioni o decreti generali25. Nella tesi sono stati presentati i principali interventi della CI-1 e la SCR quando trattano temi inerenti alla dimissione dei religiosi. 1.6 Dal 1947 al 1983: nuove specie Nella decade del 1940 avviene l’approvazione formale degli IS26. Dopo la buona accoglienza del CIC17 si formula un progetto di Codice orientale. In questo contesto Pio XII promulga la legislazione per i Religiosi delle Chiese orientali [= PAL-R]27. Si promulgano anche i canoni sul matrimonio, i giudizi, i riti e le persone giuridiche. La struttura e le idee di fondo sono simili in entrambi i Codici, benché il PAL-R deve tenere presente la maggiore varietà di autorità dalle quali dipendono i religiosi nelle Chiese orientali e gli apporti normativi realizzati dalla CI-1 e SCR. Oltre a questi cambiamenti e quelli che sono meramente
trasformata nel Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi (PB 154-158). In fine, nel 1991, si chiarisce che la CI-2 è anche competente per interpretare il CCEO e le leggi comuni delle Chiese Orientali Cattoliche. SEC, Lettera al Presidente della CI-2, 27 febbraio 1991, Communicationes 23 (1991) 14-15. 25 BENEDETTO XV, motu proprio Cum iuris canonici, II e III, AAS 9 (1917) 483-484. 26 Cf. P IO XII, Costituzione apostolica Provida mater, 2 febbraio 1947, AAS 39 (1947) 114-124; ID., motu proprio Primo feliciter, 12 marzo 1948, AAS 40 (1948) 283-286. 27 P IO XII, motu proprio Postquam Apostolicis Litteris, 9 febbraio 1952, AAS 44 (1952) 65-152. La prima parte è dedicata ai religiosi, la seconda ai beni temporali e la terza alla significazione delle parole.
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di redazione, si tenta di rispondere ai commenti, suggerimenti e critiche degli autori che scrivono sul CIC17. Esaminando il materiale inviato per la preparazione del Concilio Vaticano II si osserva che la maggioranza dell’Episcopato del tempo non riteneva che la vita religiosa avesse bisogno di interventi disciplinari speciali. Nella fase preparatoria del Concilio la Commissione di Religiosi elaborò un articolo che prevedeva la scomparsa del processo giudiziale per la dimissione dei religiosi di Religioni esenti e la riforma del procedimento che si seguiva nelle altre Religioni, in modo che il processo diventasse più agile e sereno, conservando l’equità necessaria. L’articolo fu approvato dalla Commissione Centrale, ma non fu sottoposto alla considerazione del Concilio: venne però trasmesso alla CI-2. Non appare alcun riferimento al nostro tema nei documenti conciliari che trattano dei religiosi28. Con la riforma della Curia Romana29, Paolo VI istituisce per la prima volta il supremo tribunale amministrativo della Chiesa, la Sectio Altera della SA. A partire da questo momento il dimesso ha la possibilità di ricorrere alla SA contro una decisione
28 Tali documenti sono: CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, 21 novembre 1964, AAS 57 (1965) 5-67 [= LG]; ID., Decreto Christus Dominus, 28 ottobre 1965, AAS 58 (1966) 673-696 [= CD]; ID., Decreto Perfectae caritatis, 28 ottobre 1965, AAS 58 (1966) 702-712 [= PC]. Trattano dei religiosi, rispettivamente, LG 43-47 e CD 33-35. PC è interamente dedicato ai religiosi. 29 Cf. PAOLO VI, Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae Universae, 15 agosto 1967, AAS 59 (1967) 885-928. Il numero 106 tratta della costituzione della Sectio Altera della Segnatura Apostolica [= SA].
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della SCRIS. La SA, con le decisioni che prende, contribuirà a difendere i diritti delle persone. Nelle sue decisioni si insiste in modo particolare nel garantire il diritto di difesa degli accusati. La celebrazione del Concilio apre un tempo nel quale, nell’attesa della promulgazione del nuovo Codice, si stimolano e si permettono esperienze30 che cercano di adattare la normativa alla sensibilità nuova propria del nostro tempo. Per alcuni Ordini, si approvano metodi che introducono l’apostasia della religione come nuova causa di dimissione ipso facto31. Nel caso della normativa promossa dai Domenicani il dimesso ipso facto rimane automaticamente liberato dei suoi voti, rimanendo fermi gli obblighi dell’ordinazione. La SCRIS non approvò nessun metodo particolare per regolare la dimissione di religiosi di voti temporanei in un Istituto, nonostante fossero presentate alcune proposte di questo tipo. La normativa comune sulla dimissione di religiosi di voti perpetui subì vari cambiamenti importanti. Si applica agli esenti la normativa prevista per i non esenti, abolendo la distinzione esistente su questo punto tra i vari religiosi32.
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PAOLO VI, motu proprio Ecclesiae Sanctae, 6 agosto 1966, AAS 58 (1966) 757-787 [= ES]. Contiene norme per l’applicazione di alcuni decreti del Concilio Vaticano II. Risulta specialmente importante ES II, 6 nel tema di permettere esperienze contrarie al diritto comune. 31 Cf. SCRIS, Rescritto, 25 novembre 1969, in LE, IV, 5686-5689, n. 3806 (Francescani); ID., Rescritto, 22 luglio 1972, in LE, IV, 6300, n. 4076 (Domenicani). 32 SCRIS, Decreto Processus iudicialis, 2 marzo 1974, AAS 66 (1974) 215-216.
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Tra uomini e donne si eliminarono varie differenze che la normativa prevedeva nel trattamento del tema della dimissione33. Tuttavia non si può parlare che si sia prodotta un’equiparazione completa. Nella preparazione del nuovo Codice si tentò di assicurare un adeguato equilibrio tra elementi apparentemente contraddittori: l’esigenza di semplificare i processi di dimissione, in modo che gli fosse tolta la pesantezza e diventasse più agile ed accessibile per la maggioranza dei Governi generali; salvaguardare i diritti della persona contro la quale si realizza il procedimento. Bisognava anche evitare discriminazioni tra i diversi tipi di Istituti, così che si progettò ugualmente un unico tipo di processo per tutti, maschili o femminili, esenti o no, clericali o laicali, di vita attiva o contemplativa, ecc. D’altra parte, ragioni pastorali consigliavano che la dimissione supponesse automaticamente l’annullamento dei voti religiosi. 1.7 A partire dal 1983: il terzo denominatore comune, la vita consacrata Con la promulgazione del CIC, PB e CCEO si completa la normativa che regola il tema della dimissione di un membro dalla vita consacrata. 2. La normativa vigente Studieremo prima la normativa del CIC, successivamente quella del CCEO, le possibilità di ricorso e concluderemo con una valutazione generale. 33 SCRIS, Norme La Sacra Congregazione, 1976, in EV 5/1746-1752.
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2.1 La normativa del CIC Si studia il tema della dimissione nel caso di IR, IS e SVA, nella Chiesa latina34. 34 Non si studia la dimissione degli eremiti (cf. can. 603) o vergini (cf. can. 604), già che detto tema si deve reggere mediante statuti diocesani che regolano la vita di tali espressioni di vita consacrata. Per gli eremiti cf. D.J. ANDRÉS, Le forme di Vita Consacrata. Commentario teologico-giuridico al Codice di Diritto Canonico, Roma 20055, 775-786. Andrés offre un’abbondante bibliografia sul tema. Per le vergini cf. D.J. ANDRÉS, Le forme di Vita Consacrata, 787-800. Andrés offre un’abbondante bibliografia sul tema, nel quale ha un ruolo importante il Dicastero che oggi chiamiamo Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, conosciuta come: a) Sacra Congregazione del Culto Divino, dal 1908 al 1975, + Sacra Congregazione della Disciplina dei Sacramenti, dal 1969 al 1975. b) Sacra Congregazione per i Sacramenti ed il Culto Divino dal 1975 al 1984. c) Congregazione per la Disciplina dei Sacramenti + Congregazione per il Culto Divino dal 1984 al 1988. Per parlare di tutti questi Dicasteri useremo l’abbreviazione CCDDS. Una vergine è consacrata a Dio dal Vescovo diocesano (cf. can. 604 §1), secondo il rito liturgico approvato. Cf. CCDDS, Decreto Consecrationis virginum, 31 maggio 1970, AAS 62 (1970) 650. Le norme generali ed il rito sono nelle pagine 7-9 del Pontificale Romanum. Cf. CCDDS, Pontificale Romanum: Ordo consecrationis virginum, Città del Vaticano 1970. La Congregazione rispose a 7 dubbi sul tema nel 1971. Cf. CCDDS, Risposte, in E. LORA (ed.), Enchiridion della Vita Consacrata. Dalle Decretali al rinnovamento post-conciliare [385-2000] [= EVC], Bologna 2001, 2222-2225, n. 4688-4695. Torres indica che ci sono numerosi riconoscimenti diocesani di associazioni di vergini (cf. can. 604 §2) e che la CIVCSVA ha riconosciuto già un’associazione di vergini di diritto pontificio con sede in Buenos Aires. Cf. J. TORRES, Norme comuni a tutti
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2.1.1 Gli Istituti Religiosi In tutti i casi si usano procedimenti amministrativi nei quali si fissano delle misure per garantire un’attuazione giusta. I procedimenti sono applicabili a tutti i religiosi, senza distinzione tra Istituti maschili o femminili, laicali o clericali, esenti o non esenti. Con la dimissione cessano ipso facto i voti e tutti i diritti ed obblighi provenienti della professione. Invece non si perde lo stato clericale, se il membro è chierico. In questo caso il membro non potrà esercitare gli ordini sacri fino a che trovi un Vescovo che lo riceva nella sua diocesi, o almeno gli permetta l’esercizio di detti ordini. I procedimenti che si devono seguire sono di natura distinta secondo le cause che motivano la dimissione. Così, possiamo trovarci con dimissioni: a) Ipso facto. Si producono per lo stesso fatto di commettere certe trasgressioni. Se un religioso abbandona notoriamente la fede cattolica, oppure contrae o attenta matrimonio canonico, o civile, è
gli Istituti di Vita Consacrata. Cann. 586-606, Roma 2003, 51. Gli statuti di tali associazioni dovrebbero prevedere come si perde questa forma di vita, includendo la possibilità di essere separati da essa. Secondo Calabrese spetta al Vescovo diocesano del luogo di residenza dispensare i vincoli sacri che professarono. Cf. A. CALABRESE, Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica, Città del Vaticano 19972, 70. I membri di eventuali nuove forme di vita consacrata che si appartano della normativa comune del CIC (cf. can. 605) hanno dovuto ottenere, quando sono stati approvati dalla Santa Sede, una normativa propria per queste tematiche. Per le eventuali nuove forme di vita consacrata cf. D.J. ANDRÉS, Le forme di Vita Consacrata, 801-810. Andrés offre un’abbondante bibliografia sul tema.
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dimesso ipso facto dell’Istituto. Il CIC chiede che il Superiore maggiore (cf. can. 620) del religioso dichiari il fatto. Non si tratta di emettere una sentenza, ma di fare una dichiarazione (cf. can. 694). b) Obbligatorie se il membro commette altre trasgressioni35. Il Superiore maggiore del religioso deve raccogliere le prove circa i fatti e l’imputabilità e rendere note al religioso l’accusa e le prove per dargli facoltà di difendersi (cf. can. 695 §2). Trasmessi gli atti al Moderatore Supremo36 è questo che emette il decreto di dimissione se così risulta dopo votazione segreta collegiale col suo Consiglio, composto per l’occasione di almeno quattro membri. Il decreto di dimissione non ha vigore senza la conferma dalla Santa Sede, per gli istituti di diritto pontificio, o del Vescovo della diocesi in cui sorge la casa alla quale il religioso è ascritto, per gli istituti di diritto diocesano (cf. can. 699). Il decreto per avere valore deve indicare il diritto, di cui gode il religioso dimesso, di ricorrere all’autorità competente entro dieci giorni dalla ricezione della notifica. Il ricorso ha effetto sospensivo (cf. can. 700). 35
Quelle determinate nei cann. 1395 §1 (concubinato, pertinacia scandalosa in altro peccato esterno contro il sesto comandamento), 1397 (omicidio, rapimento o detenzione di persona, mutilazione o ferimento grave) e 1398 (aborto procurato). Per le trasgressioni di cui al can. 1395 §2 (trasgressioni contro il sesto precetto del Decalogo, compiute con violenza, o minacce, o pubblicamente, o con un minore al di sotto dei 16 anni) il Superiore può ritenere che la dimissione non è necessaria e che si possa sufficientemente provvedere in altro modo alla correzione del religioso come pure alla reintegrazione della giustizia e alla riparazione dello scandalo. 36 O al Vescovo diocesano se si tratta di un monastero sui iuris (cf. can. 699 §2).
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c) Facoltative. Si producono se il rispettivo Superiore giudica che è il caso di procedere così. Il CIC chiede che le cause siano gravi, esterne, imputabili e comprovate giuridicamente. Si da una lista di esempi nel can. 696 §1. Può iniziare la procedura di dimissione il Superiore maggiore del religioso, sentito il suo Consiglio. Deve seguire una procedura che prevede due ammonizioni con 15 giorni di intervallo. Se il Superiore, con il suo Consiglio, considera che il religioso si mostra incorreggibile deve trasmettere gli atti al Moderatore Supremo (cf. can. 697), che procede come abbiamo visto nel caso delle dimissioni obbligatorie. Esiste anche un provvedimento eccezionale che si concede agli Istituti per evitare danni gravi o gravi scandali esterni (cf. can. 703, espulsione immediata), in modo che un religioso può essere espulso dalla casa religiosa. Se è necessario, il Superiore maggiore curerà che si istruisca il processo di dimissione a norma del diritto, oppure deferirà la cosa alla Sede Apostolica. 2.1.2 Gli Istituti Secolari Non si parla di espulsione immediata dalla casa né può configurarsi come causa per una dimissione facoltativa l’assenza illegittima come nel can. 696, già che la vita fraterna propria dell’IS si esprime attraverso la comunione tra i membri e non attraverso la vita in comune. 2.1.3 Le Società di Vita Apostolica Nei casi di dimissione dei membri di una SVA della Chiesa latina la dimissione dei membri non
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incorporati definitivamente è codificato dalle Costituzioni della propria Società. 2.2 La normativa del CCEO Si studia il tema della dimissione nei Monasteri, Ordini, Congregazioni, SVC e IS nelle Chiese orientali37. 2.2.1 La eiectio Corrisponde alla espulsione immediata del CIC. Il membro deve sempre lasciare l’abito. Chi abbia ricevuto l’ordine sacro ha la proibizione di esercitarlo, salvo che l’autorità alla quale è sottomesso l’IR determini un’altra cosa (cf. can. 498 §3 CCEO).
37 Non si studia il tema nel caso di asceti che non sono membri di IR, vergini o vedove consacrate (cf. can. 570 CCEO), già che detto tema si deve reggere sulle previsioni che abbia fatto il diritto particolare della propria Chiesa sui iuris con l’approvazione della sua esistenza. I membri di eventuali nuove forme di vita consacrata (cf. can. 571 CCEO) hanno dovuto ottenere, quando sono stati approvati dalla Sede Apostolica, una normativa propria per queste tematiche. Le SVA (cf. can. 572 CCEO) si reggono soltanto per il diritto particolare o per quello stabilito dalla Sede Apostolica nella approvazione, perciò non si prende in considerazione il suo caso. Nel 1984 è stato pubblicato un Rito de benedizione delle Vedove (cf. CCDDS, Ordo benedictionum, Città del Vaticano 1985), il can. 570 CCEO fa riferimento a vedove consacrate e l’Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Vita consecrata del 25 marzo 1996 (cf. AAS 88 [1996] 377-486) parla di loro nell’ultimo paragrafo del numero 7. Chiappetta suggerisce il riconoscimento di un ordine delle vedove come il can. 604 riconosce un ordine delle vergini. Cf. L. CHIAPPETTA, Il Codice di Diritto Canonico. Commento giuridico-pastorale, I, Roma 19962, 741.
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2.2.2 Le dimissioni – Uno dei casi previsti affinché si produca la dimissione ipso iure (ipso facto nel CIC) è l’abbandono pubblico della fede e non l’abbandono notorio, come prevede il CIC. – Non esiste una figura simile a quella della dimissione obbligatoria. – Non si presenta in nessun luogo un elenco di cause di dimissione, neppure come esempio. La mancanza di spirito religioso, che può essere di scandalo agli altri, è un motivo sufficiente per la dimissione di un membro durante la professione temporanea. – Possono esistere dei casi in cui la natura della causa di dimissione sia tale che escluda la necessità di dare le due ammonizioni obbligatorie (cf. can. 500 §2, 2° CCEO)38. Il tempo utile che deve passare dall’ultima ammonizione, deve stabilirsi nel Tipico o negli Statuti (cf. can. 500 §2, 4° CCEO). – Non è esplicitamente previsto il diritto del membro di mettersi in contatto diretto con il Presidente della Confederazione o il Superiore generale per presentare la sua difesa. – Nei Monasteri autonomi è competente per emettere il decreto di dimissione il Superiore, non come nel CIC. In tutti gli IR, il Superiore deve agire con il consenso dal suo Consiglio. Tipico o Statuti devono prevedere a chi compete completare il numero di consiglieri, se fosse necessario.
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Come nei casi di dimissione obbligatoria del CIC.
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– Il decreto di dimissione deve essere approvato dall’autorità alla quale è soggetto l’IR (cf. can. 500 §4 CCEO)39. – I voti e gli altri obblighi derivati della professione non vengono sciolti da una dimissione ipso iure (cf. can. 502 CCEO). – Per la dimissione dei membri delle SVC si applica quanto spiegato per i membri degli IR (cf. can. 562 §3 CCEO). – La dimissione dei membri incorporati perpetuamente agli IS si produce con un decreto, dato secondo ciò che determinino gli statuti dell’IS, che deve essere approvato dall’autorità alla quale è sottomesso l’IS (cf. can. 568 §2 CCEO). 2.3 I ricorsi Nel caso del CIC sono quelli stabiliti nel can. 1400 §2: «Le controversie insorte per un atto di potestà amministrativa possono tuttavia essere deferite solo al Superiore o al tribunale amministrativo». La regolamentazione di come presentare la controversia al Superiore è contenuta nei cann. 1732-1739. Le misure giuridiche per la soluzione dei conflitti originati per questi atti amministrativi si trattano nel can. 1445 §2. Il ricorso contro la dimissione è specificamente regolato dal can. 700 e dalla II risposta della CI-2 del 17 maggio 1986 (2ª). Si dispone di 10 giorni per presentare ricorso. Il ricorso si presenta alla stesa autorità che confermò il decreto di dimissione.
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Vescovo eparchiale per un IR di diritto eparchiale, Patriarca per un IR di diritto patriarcale e CEO per un IR di diritto pontificio.
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Nel tema che studiamo la SA ha acquisito un gran protagonismo nei suoi quasi quaranta anni di esistenza40. In questi casi, che generalmente sono gravi, l’impugnazione produce automaticamente la sospensione dell’esecuzione del procedimento. Pertanto il membro continua mantenendo in pienezza i suoi diritti e doveri fino alla decisione definitiva. Nelle Chiese orientali la legislazione prevede la possibilità di ricorso contro la dimissione, con effetto sospensivo, nel termine di quindici giorni, sia alla Sede Apostolica, sia al Patriarca se il membro ha il domicilio dentro i limiti della Chiesa patriarcale (cf. can. 501 §2 CCEO)41. Il membro può, nello stesso termine, chiedere che la sua causa si tratti in giudizio, invece di presentare il ricorso. Ciò non si può fare se il decreto di dimissione è stato confermato dalla Sede Apostolica (cf. can. 501 §2 CCEO)42.
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Conviene insistere sulla necessità di trovare la modalità più conveniente per pubblicare periodicamente le decisioni della Sectio Altera della SA, con le dovute cautele per salvaguardare il segreto necessario ed evitare la possibilità della identificazione delle persone e situazioni. L’attuale sistema, col quale sono pubblicate alcune decisioni nelle riviste specializzate, è dispersivo, scarsamente organico, non ufficiale e centrato nelle decisioni della Prima Sezione. 41 A sua volta, contro la decisione del Patriarca si può presentare ricorso al tribunale amministrativo speciale della Chiesa patriarcale (cf. can. 1006 CCEO) o anche alla CEO. Contro le decisioni della CEO è possibile il ricorso alla SA. 42 In un IR di diritto eparchiale la causa deve giudicarsi nel tribunale Metropolitano (cf. can. 133 §1, 3° CCEO), se la Chiesa patriarcale è divisa in province metropolitane, o nel tribunale ordinario Patriarcale (cf. can. 1063 §1 CCEO). Se l’IR è di diritto
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2.4 Valutazione della normativa Una valutazione della normativa presentata permette di affermare che si tutelano i diritti fondamentali delle persone e si stabiliscono procedimenti per salvaguardare i diritti soggettivi. La dimissione si può produrre unicamente se ci sono commessi delitti (cf. cann. 694-695 CIC e can. 497 CCEO) o ci sono cause gravi, imputabili (nel CIC imputabili ed esterne) e giuridicamente comprovate, dalle quali il membro non si corregge (cf. cann. 696 §1, 697 CIC e can. 501 §2 CCEO). È vero che per i professi temporanei si possono prevedere cause di minore gravità (cf. can. 696 §2 CIC e can. 552 §2 CCEO), ma nella maggioranza dei casi l’iter che si userà con questi membri è la non ammissione alla professione successiva. Resta discutibile la misura stabilita nel CCEO nel senso che la dimissione ipso iure non libera dai voti o vincoli e dagli altri obblighi derivati della professione o incorporazione. I procedimenti di dimissione si applicano a tutti indistintamente. Risulta evidente la preoccupazione di garantire il diritto di difesa della persona attraverso, per esempio: – la possibilità di presentare direttamente la difesa davanti al Moderatore supremo (cf. cann. 695 §2, 697, 2°)43; – l’obbligo di includere nelle ammonizioni l’esposizione delle cause per le quali si danno le stesse, con
patriarcale la causa deve giudicarsi nella Sede Apostolica (SA). Se l’IR è di diritto pontificio non c’é possibilità di giudizio. 43 Non è previsto nel CCEO.
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l’avvertenza esplicita della possibilità di dimissione se non c’è correzione e della piena possibilità di difesa data al membro (cf. can. 697, 2° CIC e can. 500 §2, 2°-3° CCEO); – l’intervento obbligatorio del Consiglio dei rispettivi Superiori, con un numero minimo di persone presenti e la presa di decisione attraverso una votazione segreta (cf. can. 699 §1 CIC e can. 500 §1 CCEO); – la necessità di esporre, nel decreto di dimissione, le ragioni per le quali si procede all’atto, con l’obbligo di segnalare la possibilità di ricorso (cf. cann. 699 §1, 700)44, come condizione per la validità del decreto stesso; – la possibilità del ricorso, concessa a tutti, con effetto sospensivo della dimissione, cf. can. 700 CIC e can. 500 §1, 2°-4° CCEO) e l’esistenza di un sistema di ricorsi che prevede diverse tappe (cf. cann. 1400 §2, 1445 §2, 1732-1739 CIC e cann. 996-1006 CCEO)45; – il diritto della persona a presentare il ricorso per mezzo di un avvocato o procuratore46, e la possibi-
44 Nel CCEO è condizione per la validità che le cause della dimissione siano state presentate per scritto al membro (cf. can. 500 §2, 3° CCEO). Il termine per ricorrere contro una dimissione è lo stesso di tutti gli altri ricorsi (cf. can. 501 §2 CCEO, 1001 §1 CCEO), a differenza della normativa prevista nel CIC. 45 Il sistema di ricorsi nelle Chiese orientali risulta più complesso e diversificato. Quando saranno passati alcuni anni si dovrà fare valutazione dell’effettività di aver conservato il diritto del membro a chiedere un autentico processo giudiziale penale per trattare del ricorso contro la sua dimissione (cf. can. 501 §2 CCEO). Tale processo, di fatto, non ammette appello (cf. can. 501 §4 CCEO). 46 C’è un albo degli avvocati che sono abilitati «a prestare altresì la loro opera nei ricorsi gerarchici dinanzi ai dicasteri della Curia romana» (PB 183).
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lità di procurargliene uno se l’autorità davanti alla quale si ricorre lo considera necessario (cf. can. 1378 CIC e can. 1003 CCEO). Si può affermare che le norme vigenti hanno accumulato, con ogni probabilità, il maggiore numero di meccanismi protettivi dei diritti della persona esistente nella legislazione del CIC e CCEO47.
3. La situazione speciale dei membri chierici dimessi Il membro non può esercitare gli ordini sacri finché non abbia trovato un Vescovo che lo accolga. Un chierico ha, oltre ai diritti e doveri propri della sua appartenenza ad un IVC o SVA, una serie di obblighi e di diritti provenienti della sua ordinazione. Sono raccolti nei cann. 273-289 CIC e cann. 367-393 CCEO. Il can. 701 CIC ed il can. 502 CCEO indicano che per la dimissione legittima cessano i voti, i diritti e gli obblighi provenienti della professione48. Tuttavia, gli obblighi derivanti dello stato clericale rimangono.
47 Cf. D.J. ANDRÉS, «El estatuto codicial sobre la vida religiosa (cán. 573-709) en la formalización jurídica de los “Principia quae CIC recognitionem dirigant” del Sínodo Episcopal de 1967», in J. CANOSA (ed.), I principi per la revisione del Codice di Diritto Canonico. La ricezione giuridica del Concilio Vaticano II, Milano 2000, 457. 48 Nel caso delle Chiese orientali i dimessi ipso iure continuano ad essere vincolati dai voti o vincoli e da tutti gli altri obblighi (cf. can. 502 CCEO).
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3.1 L’incardinazione del chierico dimesso Se il membro chierico dimesso era incardinato nel suo IVC o SVA, cessa l’incardinazione con la dimissione? Negli autori si trovano tre opinioni differenti: a) Alcuni negano la possibilità che un chierico possa perdere l’incardinazione prima di acquisirne una nuova, o distinguono tra l’incorporazione all’IVC o SVA e l’incardinazione. In conseguenza negano che un membro chierico incardinato al suo IVC o SVA perda l’incardinazione al momento della dimissione. b) Altri indicano che il senso dell’incardinazione sta nell’assicurare che ogni chierico sia vincolato con una comunità, alla quale serve e dalla quale riceve il necessario sostentamento, e sia controllato da un superiore competente. Di conseguenza sostengono che assicurare che sia mantenuta l’incardinazione dopo la dimissione va contro il senso stesso di questa istituzione. c) Un ultimo gruppo sostiene che la questione ha bisogno di un ulteriore approfondimento dottrinale e che, per l’eventuale esercizio degli ordini sacri è sufficiente la soluzione già prevista. Se si facesse l’approfondimento dottrinale di cui si parla, conviene non dimenticare alcune spiegazioni date dalla SCRIS nel 1984 sui procedimenti dei cann. 691-693 per ottenere l’indulto di uscita dell’Istituto49 che
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Cf. SCRIS, Documento Procédure pour la séparation d’un membre de son institut, in EV 9/847-860. Il documento ricorda che sempre c’è la possibilità che la Santa Sede provveda diversamente da quanto indicato nel CIC per un caso
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potrebbero essere applicati per la soluzione di questo tema50. 3.2 La perdita dello stato clericale E se il membro, data la sua situazione, volesse essere liberato dai diritti e dagli obblighi derivanti dallo stato clericale, come può perdere detto stato? La normativa sulla perdita dello stato clericale è praticamente identica in entrambi i Codici. Appare nel can. 290 CIC e nel can. 394 CCEO. Ci sono tre possibilità. 3.2.1 La richiesta della dichiarazione di invalidità della sacra ordinazione Per trattare questi casi è competente la CCDDS (cf. PB 68). La normativa vigente prevede due strade, la via giudiziale51 e la via amministrativa52.
specifico poiché la norma del can. 265 è una prescrizione di diritto positivo della quale la Chiesa può dispensare. La relazione di un chierico con una diocesi o un istituto può essere soppressa, poiché è una prescrizione di diritto positivo. 50 Tenendo conto degli argomenti dei due primi gruppi, e le conclusioni opposte alle quali arrivano, sembra che c’è bisogno dell’approfondimento dottrinale che chiede il terzo gruppo. Anche sarebe opportuna qualche previsione normativa, valida per tutta la Chiesa, che faccia obbligatorio il ricorso alla Santa Sede se il membro dimesso non ottenne che un Vescovo lo accolga a prova o li permetta l’esercizio degli ordini dopo, per esempio, un anno. Lo stesso dovrebbe accadere se il dimesso non ottenesse l’incardinazione o ascrizione prima, per esempio, di sei anni. 51 I cann. 1708-1712 CIC e i cann. 1385-1387 CCEO regolano le cause per dichiarare la nullità della sacra ordinazione. 52 Per il processo amministrativo si deve seguire CCDDS, Decreto Ad satius, 16 ottobre 2001, AAS 94 (2002) 292-300. Il
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Il numero di casi trattati dalla CCDDS ogni anno è molto piccolo53. 3.2.2 La richiesta di un rescritto della Santa Sede Per ottenere un rescritto della Santa Sede che permetta di abbandonare lo stato clericale sono in vigore le norme elaborate per la Congregazione per la Dottrina della Fede [= CDF] nel 198054. La natura giuridica del processo è di carattere amministrativo. La Segreteria di Stato ha comunicato recentemente alla CCDDS55 che Benedetto XVI, per ragioni di necessità di unificazione della materia sacerdotale, a norma di PB 96, aveva disposto che la competenza relativa ai casi di dispensa dagli obblighi assunti con il diaconato ed il presbiterato
decreto contiene Regulae Servandae ad nullitatem sacrae Ordinationis declarandam. 53 Secondo i dati pubblicati nei rispettivi volumi de L’Attività della Santa Sede, Città del Vaticano 1940-oggi [= L’Attività], facendo un paragone ad intervalli di 5 anni a partire dal 1983 troviamo che sono state trattate 2 cause nel 1983, 3 cause nel 1988, nessuna nel 1993 e una nel 1998. Dal 1999 non vengono riportati i dati, anche se si accenna che il numero è molto piccolo. 54 CDF, Circolare Per litteras ad universos, 14 ottobre 1980, AAS 72 (1980) 1132-1135; ID., Norme Sostanziali, 14 ottobre 1980, in CCDDS, Collectanea documentorum ad causas pro dispensatione super “rato et non consummato” et a lege sacri coelibatus obtinenda, Città del Vaticano 2004, 157158; ID., Norme Ordinarius competens, 14 ottobre 1980, AAS 72 (1980) 1136-1137. 55 Con lettera del 21 giugno 2005 (Prot. 907) che informava della disposizione del Papa, comunicata al Cardinale Segretario di Stato nell’Udienza del 16 maggio 2005.
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da parte di chierici, religiosi o seculari, latini o orientali, passasse alla CpC a far data dal 1º agosto 200556. Un membro chierico dimesso che desideri perdere lo stato clericale con dispensa dall’obbligo del celibato deve presentare ragioni gravi (diaconi) o gravissime (sacerdoti) e mandare la sua richiesta alla CpC, attraverso il suo Ordinario57. L’Ordinario è competente per realizzare l’interrogatorio previsto nelle Norme, preparare la documentazione richiesta e trasmetterla al Dicastero in triplice copia. Dopo lo studio della causa nel Dicastero si presenta la relazione al Santo Padre che decide se concedere o no la dispensa. In caso che sia concessa la dispensa il Dicastero prepara il rescritto e lo invia all’Ordinario affinché venga consegnato al richiedente. Il rescritto comporta indivisibilmente la dispensa dal celibato e la perdita dello stato clericale. Questa via di abbandono dello stato clericale viene usata da circa 500 chierici l’anno58.
56 Cf. L’Attività 2005, 687. La CCDDS, in data 13 luglio 2005, ha inviato una circolare (Prot. n. 1080/05) ai Presidenti delle Conferenze di Vescovi ed ai Superiori Generali informando del trasferimento di competenza. 57 L’articolo 2 delle Norme Ordinarius competens prevede che il Dicastero può delegare l’istruzione della causa ad un altro Ordinario. Cf. CDF, Norme Ordinarius competens, 2, AAS 72 (1980) 1136. 58 Secondo i dati presi dai volumi de L’Attività, nel 2002 sono stati concessi rescritti con la dispensa dal celibato a 550 sacerdoti e 82 diaconi. Non sono stati pubblicati i dati del 2003. Nel 2004 sono stati concessi a 484 sacerdoti e 46 diaconi. Nel 2005 sono stati concessi a 434 sacerdoti e 51 diaconi.
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3.2.3 La dimissione dallo stato clericale La dimissione prevede una condotta riprovevole del membro. Può tale condotta esigere che il membro sia anche dimesso dello stato sacerdotale? Il CIC, quando parla di dimissione dallo stato clericale, presenta sette casi59 nei quali risulta possibile adottare tale misura. Questa pena si può applicare unicamente per via giudiziale (cf. can. 1342 §2). Il tribunale deve essere collegiale ed essere formato da almeno tre giudici (cf. can. 1425 §1, 2°; §2). Il processo segue le norme che regolano il processo penale (cf. cann. 1721-1728). Il CCEO non parla di dimissioni dallo stato clericale, ma di deposizione dallo stato clericale (cf. can. 394, 2° CCEO). Tra i delitti per i quali si prevede la deposizione nel CCEO non appaiono come delitti specifici quelli del can. 1395 §2 CIC, benché tali delitti siano inglobati nei peccati esterni contro la castità dal can. 1453 §1 CCEO. Il CCEO, invece enumera come delitti per i quali può darsi la deposizione: l’omicidio (cf. can. 1450 §1 CCEO) e ricorrere all’autorità civile per ottenere la sacra ordinazione, un mestiere, un ministero o un’altra funzione nella Chiesa (cf. can. 1460 CCEO). Non si può infliggere la deposizione per decreto extragiudiziale né per procedimento amministrativo (cf. can. 1402 §2 CCEO). L’unica via possibile è il giudizio penale, regolato dai cann. 1468-1482 CCEO.
59
§§1-2.
Cf. cann. 1364 §2, 1367, 1370 §1, 1387, 1394 §1 e 1395
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Attualmente le cause penali nella Chiesa sono pochissime60. 3.3 I casi di abuso sessuale Nel caso specifico degli abusi sessuali commessi dai chierici e dai membri di IVC e SVA si è presentato alla Chiesa un grave problema negli ultimi decenni. L’esistenza di questi casi ha scandalizzato numerosi credenti e l’opinione pubblica in generale. Il motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela61 ha introdotto una nuova normativa che regola il trattamento penale di alcuni delitti commessi dai chierici. Tale normativa è stata modificata in alcuni punti dal Papa, a richiesta della CDF, in questi ultimi anni. Il procedimento che si segue nel caso in cui il chierico accusato sia membro di un IVC o SVA consta dei seguenti passi: a) Il Superiore maggiore realizza l’investigazione previa corrispondente (cf. cann. 1717, 695 §2).
60 Tra 1983 e 1996 la Rota Romana ha discusso soltanto una causa penale. Cf. F.J. RAMOS, «I processi e le sanzioni al servizio della giustizia ecclesiale», in CI-2 (ed.), Vent’anni di esperienza canonica 1983-2003. Atti della giornata accademica tenutasi nel XX anniversario della promulgazione del Codice di Diritto Canonico, Città del Vaticano 2003, 228-230. Secondo i rispettivi volumi de L’Attività, ci furono 5 cause penali pendenti all’inizio dell’anno 2000, 4 all’inizio del 2001, 5 all’inizio del 2002, 5 all’inizio del 2003, 4 all’inizio del 2004 e 2 all’inizio del 2005. 61 GIOVANNI PAOLO II, motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela, 30 aprile 2001, AAS 93 (2001) 737-739. Troviamo le norme sostanziali e procedurali relative in CDF, «Normae substantiales et processuales promulgate col motu proprio Sacramentorum sanctitatis tutela (30 aprile 2001) e successive modifiche (7 novembre 2002 – 14 febbraio 2003)», Ius Ecclesiae 16 (2004) 313-320.
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b) Il Superiore maggiore trasmette i verbali al Moderatore Supremo (cf. can. 695 §2). Questo, dopo averli studiati, gli trasmette alla CDF allegando un suo parere, e quello del suo Consiglio. c) La CDF decide il procedimento che si deve seguire e le misure che bisogna adottare: – Se la CDF decide che si proceda ad un giudizio penale può indicare anche, secondo le circostanze, quale sarà il tribunale competente di prima istanza. Il tribunale può decretare la dimissione del membro del suo IVC o SVA e, anche, condannare alla dimissione dallo stato clericale. Il giudizio di seconda istanza corrisponde alla CDF. – Se la CDF decide di procedere per via amministrativa chiederà al Moderatore supremo che proceda a norma del can. 699 §1. Compete alla CDF la conferma del decreto di dimissione (cf. can. 700). Il Moderatore supremo ed il suo Consiglio possono decidere la dimissione del membro o che sia sottoposto a misure disciplinari e anche la dimissione dallo stato clericale. Non si ammette ricorso alla SA, ma decide sul ricorso la stessa CDF. Il ricorso ha effetto sospensivo. Copia degli eventuali decreti si invieranno ex officio alla Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica [= CIVCSVA]. d) Con riferimento agli IVC e SVA di diritto diocesano, tutti gli interventi del Moderatore supremo davanti alla CDF devono essere convalidati dal Vescovo diocesano del domicilio o quasidomicilio del membro accusato62.
62 Cf. C.J. SCICLUNA, «Procedura e Prassi presso la Congregazione per la Dottrina della Fede riguardo ai delicta gra-
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3.4 Alcune critiche Nel rispetto delle decisioni del Papa e sapendo che, soprattutto in alcuni paesi, la situazione ha spinto ad adottare provvedimenti straordinari63, faccio alcune osservazioni relative a certe decisioni che suscitano in me dubbi: a) L’adozione di procedimenti per imporre ex officio l’abbandono dello stato clericale a chierici non idonei per il ministero che hanno commesso gravi delitti e rifiutano di sollecitare il rescritto di dispensa dovrebbe essere una misura del tutto eccezionale. Credo che questa opzione diventerebbe molto pericolosa se si usasse con troppa frequenza64. b) La proibizione di rivelare all’accusato, o al suo avvocato, l’identità del querelante, senza il consenso dello stesso, nei casi che si riferiscono al sacramento della Penitenza che tratta la CDF secondo le
viora», in D. CITO (ed.), Processo penale e tutela dei diritti nell’ordinamento canonico, Milano 2005, 285-286. 63 Quasi tutte le nazioni prevedono nella propria Costituzione la possibilità di adozione di misure straordinarie per limitare l’esercizio dei diritti dei propri cittadini, in modo da poter affrontare situazioni di pericolo. Nella Spagna, per esempio, la Costituzione prevede tali attuazioni nel articolo 55, che dedica il primo paragrafo allo stato di eccezione e alla legge marziale, e il secondo paragrafo alla sospensione di alcuni diritti per determinate persone, in rapporto alle investigazioni corrispondenti alla attuazione di gruppi armati o elementi terroristici. 64 Nella CCDDS è stato usato in 22 occasioni tra 1996 e 2002 secondo i dati raccolti nel volume L’Attività 2002 e la pagina 100 dell’articolo di Llobell «Contemperamento tra gli interessi lesi e i diritti dell’imputato: il diritto all’equo processo», in D. CITO (ed.), Processo penale e tutela dei diritti nell’ordinamento canonico, Milano 2005.
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norme di Sacramentorum sanctitatis tutela65 ha lo scopo di proteggere il sigillo della confessione sacramentale66. Tuttavia, il tribunale ed il promotore di giustizia conoscono tale identità senza che per questo ci sia il pericolo di violare il sigillo. In alcuni casi perché l’accusato possa esercitare il suo diritto di difesa potrebbe essere necessario che egli, o il suo avvocato (che deve essere approvato previamente67), conoscessero l’identità del querelante68. c) La concessione alla CDF della facoltà di dispensare dall’obbligo di procedere giudizialmente nei casi gravi e chiari in cui, a giudizio del Congresso della CDF, si può procedere alla dimissione per decreto, suscita in me le stesse inquietudini indicate dall’imposizione ex officio dell’abbandono dello stato clericale. d) Le previsioni delle norme 8a69, 8b70 e 971 della conferenza di Vescovi degli Stati Uniti72 che
65 Cf. articolo 20 §1 delle Norme che accompagnano il motu proprio. Il testo delle Norme, e le successive derogazioni si possono trovare in CDF, «Normae substantiales et processuales», Ius Ecclesiae 16 (2004) 313-320. 66 Cf. articolo 20 §3 delle stesse Norme. 67 Cf. articolo 11 delle stesse Norme. 68 Llobell giunge a proporre che l’avvocato difensore possa conoscere tutte le testimonianze e prove. Cf. «Contemperamento tra gli interessi» (cf. nt. 64), 121-123. 69 «Se il caso fosse estinto per prescrizione, dato che l’abuso sessuale di un minore di età è un’offesa grave, il Vescovo chiederà alla CDF una dispensa della prescrizione» (traduzione a cura dell’autore). 70 «Se la pena di dimissione dallo stato clericale non è stata applicata (per esempio per ragioni di età o di infermità avanzata) il delinquente dovrà condurre una vita di preghiera e penitenza. Non gli sarà permesso celebrare la Messa in pub-
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hanno ottenuto la recognitio della Santa Sede, mi sembrano eccessivamente rigide, fino al punto che mi risulta difficile conciliarle con le esigenze della giustizia evangelica73. 4. Dati statistici ed alcuni casi pratici 4.1 Il contesto Uno studio quantitativo sulla vita consacrata ci porta a concludere che: – È, oggigiorno, essenzialmente di diritto pontificio74, religiosa75, femminile76 e laicale77, e dipende dalla CIVCSVA78.
blico o amministrare i sacramenti. Gli sarà ordinato di non portare l’abito clericale, o presentarsi pubblicamente come sacerdote» (traduzione a cura dell’autore). 71 «Il Vescovo utilizzerà la sua potestà di governo per assicurarsi che nessun sacerdote che abbia commesso anche un unico atto di abuso sessuale prosegua nel ministero attivo» (traduzione a cura dell’autore). 72 Cf. CPO, Essential Norms, 8 dicembre 2002, in EV 21/1084-1099. 73 Pietrusiak afferma che uno dei frutti del pensiero teologico e antropologico del Concilio Vaticano II è la considerazione del delinquente come un fedele che deve riconciliarsi con Dio, con la società e con se stesso, che deve essere recuperato conservando la sua appartenenza attiva nella comunità ecclesiale. Cf. M. PIETRUSIAK, L’incidenza del Concilio ecumenico Vaticano II sulla pastoralità della pena nel codice di diritto canonico del 1983, Roma 1996, 82. 74 I membri degli Istituti di diritto diocesano erano nel mondo 172.129 nell’anno 1966. I membri degli Istituti di diritto pontificio, nello steso anno, erano 1.217.566. Cf. ANONIMO, «Statistiche», in G. PELLICIA – G. ROCCA (edd.), DizioTesto delle note 75, 76, 77 e 78 alla pagina seguente
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– Ha sofferto una forte diminuzione nel numero dei membri79 della quale una delle più importanti cause è l’alto numero di abbandoni80.
nario degli Istituti di Perfezione, 10, Roma 2003, 815-820. I membri degli IS di diritto pontificio erano 28.986 nel 1995. I membri degli IS di diritto diocesano, invece, 9.429. Cf. M. CARREZ-MARATRAY, «Dati statistici ultimi sugli Istituti di Vita Consacrata Secolari», Commentarium pro Religiosis et Missionariis 78 (1997) 299-307. 75 L’Annuario Pontificio 2007 riconosce soltanto 77 IS e 45 SVA di diritto pontificio. 76 I dati numerici sono presi dagli rispettivi Annuarium statisticum Ecclesiae [= AnSt] di ogni anno. Nel 2005 gli uomini membri di IVC e SVA di diritto pontificio erano 203.188 (24,49%). Le donne erano 626.559 (75,51%). 77 Nel 2005 i membri degli IVC e SVA di diritto pontificio erano 130.414 chierici (tra i quali 1.191 vescovi e 468 diaconi), altri 72.774 uomini (tra i quali 30.565 seminaristi) e 626.559 donne. 78 L’Annuario Pontificio 2007 indica, in nota nella pagina 1.449, che gli Istituti segnati da * dipendono dalla CEO, quelli segnati da ** dalla Congregazione per la Evangelizzazione dei Popoli [= CEP]. Così risulta che dipendono dalla CEO 35 IR, 1 IS e 1 SVA, dipendono dalla CEP 1 IR e 15 SVA, tutti di uomini, e dipendono dalla CIVCSVA tutti gli altri. Considerando le persone consacrate risulta che 94,53% dipende dalla CIVCSVA, 2,23% dalla CEO e 3,23% dalla CEP. Il numero di membri dipendenti della CEO aumenta, ma è ancora molto basso. 79 Nel 1983 c’erano 958.374 membri di IVC e SVA di diritto pontificio. Nel 2005 c’erano 829.747. I dati del 1983 non includevano le monache dei monasteri sui iuris, 49.172 nel 2005, né i membri di IS, 20.378 nel 2005. La diminuzione totale di membri è stata di 198.177. 80 Nel periodo dal 1983 al 2005 la somma di abbandoni secondo i rispettivi AnSt di ogni anno indica 134.496 membri che hanno lasciato gli IVC e SVA di diritto pontificio, tra i quali 9.293 sacerdoti.
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– È cresciuto il numero dei membri in Africa81 ed Asia82. È diminuito in America83, in Europa84 ed in Oceania85. Come conseguenza, dalla decade degli anni 90, in Europa non vive più la maggioranza dei membri degli IVC e SVA di diritto pontificio86. – È diminuito il numero di fratelli87, presbiteri88, religiose89, monache90 e membri degli IS91. È aumentato quello dei seminaristi92, diaconi93 e vescovi94. – Si è prodotta una diminuzione numerica di membri nei grandi e classici Istituti e Società, benché siano apparsi nuovi grandi Istituti, specialmente in Asia95.
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37.211 nel 1984, 52.140 nel 2004. Incremento del 40,12%. 92.157 nel 1984, 153.871 nel 2004. Incremento del 66,97%. 83 313.229 nel 1984, 251.835 nel 2004. Diminuzione del 19,60%. 84 490.468 nel 1984, 372.252 nel 2004. Diminuzione del 24,10%. 85 18.321 nel 1984, 12.056 nel 2004. Diminuzione del 34,20%. 86 Nel 1984 erano il 51,55%, nel 2004 il 44,20%. 87 63.111 nel 1983, 42.209 nel 2005. Diminuzione del 33,12%. 88 148.543 nel 1983, 128.755 nel 2005. Diminuzione del 13,32%. 89 724.688 nel 1983, 557.009 nel 2005. Diminuzione del 23,14%. 90 55.868 nel 1988 (primo anno nel quale lo AnSt raccolse dati degli monasteri sui iuris), 49.172 nel 2005. Diminuzione del 11,99%. 91 26.518 nel 1988 (primo anno nel quale lo AnSt raccolse dati degli IS), 20.378 nel 2005. Diminuzione del 23,15%. 92 20.689 nel 1983, 30.565 nel 2005. Incremento del 47,74%. 93 294 nel 1983, 468 nel 2005. Incremento del 59,18%. 94 1.049 nel 1983, 1.191 nel 2005. Incremento del 13,54%. 95 Andrés indica che il numero di nulla osta emessi dalla CIVCSVA per l’erezione di nuovi IVC o SVA nelle diocesi è stato di 213 nel periodo 1984-2004, 62 dei quali sono IS. Nello 82
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Gli studi statistici editi sulla vita consacrata presentano nello stesso capitolo, sotto il nome di abbandono, realtà molto differenti come la non rinnovazione delle professioni temporanee, gli indulti di uscita, le dimissioni e la realtà dei consacrati che abbandonano il loro Istituto o Società senza realizzare nessuna mediazione. Questo fatto indica che la diminuzione causata dagli abbandoni è percepita come problematica, ma che le dimissioni attualmente non provocano un’attenzione specifica. È, anche, molto significativo non avere trovato riferimenti al tema della dimissione dei membri nei principali documenti della Chiesa in questo periodo, se eccettuiamo i due Codici. 4.2 I casi di dimissione tra i Piccoli Fratelli di Maria dal 1983 al 2005 In questo Istituto sono avvenuti 18 casi di dimissione dalla promulgazione del CIC fino ad oggi. Si studiano anche i casi in cui la CIVCSVA ha preferito una soluzione diversa alla dimissione96. Le osservazioni e i commenti corrispondenti possono essere molto utili per evitare errori simili e possono offrire
steso periodo le approvazioni di nuovi IVC o SVA di diritto pontificio sono state 164, dei quali 23 sono IS. Cf. D.J. ANDRÉS, «El exuberante servicio postcodicial de la CIVCSVA a favor de los consagrados (años 1984-2004)», Commentarium pro Religiosis et Missionariis 87 (2006) 211-224. 96 In tre casi la Santa Sede preferì concedere un indulto di uscita al membro, piuttosto che confermare il decreto di dimissione ed in un altro non è stato confermato il decreto di dimissione dato che c’era un’errore commesso nella fase provinciale dell’elaborazione.
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idee su come trattare casi del genere. Si studia anche un caso che avrebbe potuto finire in dimissione poiché un Fratello sottoscrisse una dichiarazione pubblicata dalla stampa del suo paese sulla liceità dell’aborto in determinate circostanze. Esistono altri casi nei quali la corrispondente Provincia ha iniziato il processo di dimissione, o il Provinciale ha fatto le consultazioni per iniziarlo, ma il caso si è risolto quando l’interessato ha sollecitato l’indulto di uscita dietro suggerimento dei Superiori e per evitare la dimissione. Non si studia nessuno di questi casi97. I casi di dimissione ipso facto sono sei, dei quali uno è costituito da un membro che ha attentato matrimonio canonico, altri quattro che hanno contratto matrimonio civile (cf. can. 694 §1, 2°) ed un ultimo che è giunto all’abbandono notorio della fede cattolica (cf. can. 694 §1, 1°). I casi di dimissione obbligatoria sono tre, con decreti di dimissione emessi per concubinato (cf. can. 1395 §1), aborto procurato (cf. can. 1398) e mancanza grave e permanente contro il voto di castità (cf. can. 1395 §1). I casi di dimissione facoltativa sono otto. Uno per trasgressione abituale degli obblighi della vita consacrata (cf. can. 696 §1), tre per disubbidienza
97 Dal 1 ottobre 2002 dieci casi hanno queste caratteristiche. Due corrispondono a situazioni nelle quali l’interessato commette uno dei delitti del can. 1395 §2, ma il Superiore Generale ritenne che la dimissione non era necessaria poiché l’indulto di uscita e il posteriore matrimonio dell’interessato con la ragazza in questione assicurava la correzione del religioso come pure la reintegrazione della giustizia e la riparazione dello scandalo (cf. can. 695 §1).
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pertinace (cf. can. 696 §1, in relazione con il can. 1371, 2°) e quattro per assenza illegittima (cf. can. 696 §1, citando il can. 665 §2). L’unico caso di espulsione immediata riguarda un caso di mancanza grave contro la castità. JUAN MIGUEL ANAYA TORRES, fms
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EUCARISTIA ED ECUMENISMO Evoluzione della normativa universale e confronto con alcune norme particolari Introduzione La communicatio in sacris [= c.i.s.] è un tema attuale non soltanto a causa degli abusi (come per esempio è avvenuto durante l’Ökumenischer Kirchentag alcuni anni fa nel 2003 o per la concelebrazione proibita come gravius delictum1), ma anche per alcune attuali sfide pastorali (soprattutto attinenti ai matrimoni misti), o per il motivo accennato dal magistero della Chiesa durante l’anno dell’Eucaristia (a questo riguardo cf. l’ultima Enciclica Ecclesia de Eucharistia di Papa Giovanni Paolo II2, l’Istruzione 1
Nel ambito della concelebrazione proibita come gravius delictum cf. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE [= CDF], Epistula a Congregatione pro Doctrina Fidei missa ad totius Catholicae Ecclesiae Episcopos aliosque Ordinarios et Hierarchas quorum interest De Delictis Gravioribus eidem Congregationi pro Doctrina Fidei reservatis, Ad exsequendam, 18 maggio 2001, AAS 93 (2001) 785-788, basata su GIOVANNI PAOLO II, Motu Proprio datae quibus Normae de gravioribus delictis Congregationi pro Doctrina Fidei reservatis promulgantur Sacramentorum Sanctitatis Tutela, 30 aprile 2001, AAS 93 (2001) 737-739. 2 GIOVANNI PAOLO II, Encyclica Ecclesia de Eucharistia, [= EE], 17 aprile 2003, AAS 95 (2003) 433-475.
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Redemptionis Sacramentum3 e l’ultimo Sinodo dei Vescovi di ottobre 2005 sull’Eucaristia come fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa e l’Esortazione post-sinodale di Papa Benedetto XVI Sacramentum Caritatis del 22 febbraio 20074). Va premesso però che il tema è soprattutto ecumenico. Infatti, l’eucaristia invece di essere il luogo e il culmine della piena comunione fra i battezzati, in quanto «l’eucaristia fa la Chiesa»5, purtroppo continua a rimanere il luogo per eccellenza della divisione, poiché non siamo ancora in grado di condividere lo stesso pane e lo stesso calice. Lo scandalo
3 CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Instructio Redemptionis Sacramen-
tum, 25 Marzo 2004, AAS 96 (2004) 549-601. 4 SINODO DEI VESCOVI, «Elenco finale delle proposizioni», http://www.vatican.va/news_services/press/sinodo/documents/ bolletino_21_xi-ordinaria-2005/01 italiano/b31_01.html (17/11/2005). Cf. G. MARCHESI, «Il Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia. Le Proposizioni», La Civiltà Cattolica 156/4 (2005) 597-598. BENEDETTO XVI, Exhortatio apostolica Sacramentum Caritatis, 22 febbraio 2007, Osservatore Romano, 14 marzo 2007, 1-9. Anche su: http://www.vatican.va/holy_father/benedict_ xvi/apost_exhortations/documents/hf_ben-vi_exh 20070222 _sacramentum-caritatis_fr.html. 5 «L’Eglise fait l’Eucharistie et l’Eucharistie fait l’Eglise». Questa frase viene ispirata dall’opera di Henri de Lubac: «Tous les chrétiens sont unis. Tous prient humblement le Seigneur […] c’est le début du canon de la messe, l’introduction à l’instant sacré où l’Eglise s’apprête à faire l’Eucharistie […] Mais si le sacrifice est accepté de Dieu, si la prière de l’Eglise est exaucée, c’est qu’à son tour, au sens le plus strict, l’Eucharistie fait l’Eglise». H. DE LUBAC, Méditation sur l’Eglise, Paris 1953, 128-129. La stessa idea viene ripresa nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia (EE 26).
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non si pone al livello della disciplina sulla c.i.s., ma piuttosto a quello che continua a separarci da una piena comunione. Se la disciplina sulla c.i.s. provoca molta frustrazione e rabbia, bisogna sapere che essa non si trova all’origine della divisione fra cristiani, ma ne è solo la conseguenza. In questo articolo ci limitiamo a studiare la c.i.s. di tipo sacramentale ed eucaristico, anche se il termine di c.i.s. è molto più ampio fino a comprendere la comunicazione nei sacramenti della penitenza e dell’unzione degli infermi, nonché la comunicazione nella liturgia non-sacramentale (vespri solenni, liturgia delle ore, celebrazioni ecumeniche) insieme alla comunicazione negli oggetti o luoghi sacri (edifici, chiese, cimiteri, calici, altre suppellettili, cf. can. 670/CCEO §2 e can. 933/CIC). 1. Communicatio in sacris nel Concilio Vaticano II I Padri del Concilio Vaticano II hanno elaborato nel contesto del Decreto sull’ecumenismo Unitatis Redintegratio (UR) e del Decreto sulle Chiese Orientali cattoliche Orientalium Ecclesiarum (OE) un nuovo approccio della c.i.s. che forma il nucleo della normativa universale in questo campo. Nel nostro studio ci atterremo strettamente alla disciplina attualmente in vigore nella Chiesa, senza cimentarci in un discorso dalla natura profetica o programmatica su come la c.i.s. dovrebbe essere. Non tratteremo nemmeno la disciplina pre-conciliare sulla c.i.s. (comunione “chiusa” dei cann. 731 §2 e 1258 del Codice di 1917), ma ripercorreremo la disciplina post-conciliare da un punto di vista esclusivamente canonico e normativo.
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La posizione cattolica sulla c.i.s. s’ispira, prima di tutto, ai fondamenti conciliari ecclesiologici della Costituzione Lumen Gentium: il battesimo come fondamento di una comunione reale, benché imperfetta (ecclesiologia cristologica, incorporazione a Cristo e quindi al Corpo di Cristo) e il subsistit in della LG 8 (la riconoscenza della presenza di elementa Ecclesiae Christi al di fuori della compagine visibile della Chiesa cattolica). Il grado di comunione dipende dagli elementa Ecclesiae Christi, cioè i veri sacramenti dell’ordine e dell’eucaristia in virtù della successione apostolica, che le altre confessioni possiedano in comune con la Chiesa cattolica, operando così una distinzione tra Chiese e Comunità ecclesiali separate (cf. la Lettera Communionis Notio 17 e la Dichiarazione Dominus Iesus 17 riprese nel recente documento della CDF Risposte e quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa, quesito 4 e quesito 5)6. Su questi fondamenti ecclesiologici si innesta la disciplina cattolica della c.i.s., cioè una comunione sacramentale graduale che nel caso delle Chiese orientali separate viene
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CDF, Litterae ad Catholicae Ecclesiae Episcopos de aliquibus aspectibus Ecclesiae prout est communio Communionis Notio, 28 maggio 1992, AAS 85 (1993) 838-850. CDF, Declaratio de Iesu Christi atque Ecclesiae unicitate et universalitate salvifica Dominus Iesus, 6 Augusti 2000, AAS 92 (2000) 742765. CDF, Lettera Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa, 29 giugno 2007, http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_ cfaith_doc_20070629_responsa-quaestiones_it.html (15/03/2008). Cf. anche J. WILLEBRANDS, «La signification de “subsistit in” dans l’ecclésiologie de communion, conférence du Cardinal Willebrands le 5 mai 1987 à Atlanta (USA)», Documentation Catholique 85 (1988) 35-41.
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raccomandata («non solum possibilis sed etiam suadetur» del UR 15)7 e nel caso delle Comunità ecclesiali viene soltanto concessa sotto certe condizioni (cf. il primo Direttorio ecumenico Ad Totam Ecclesiam 55)8. Il nucleo della disciplina sulla c.i.s. e costituito da un doppio principio regolatore, esplicitato dal Decreto conciliare UR 8: Attamen communicationem in sacris considerare non licet velut medium indiscretim adhibendum ad Christianorum unitatem restaurandam. Quae communicatio a duobus principiis praecipue pendet: ab
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«Cum autem illae Ecclesiae, quamvis seiunctae, vera sacramenta habeant, praecipue vero, vi successionis apostolicae, Sacerdotium et Eucharistiam, quibus arctissima necessitudine adhuc nobiscum coniunguntur, quaedam communicatio in sacris, datis opportunis circumstantiis et approbante auctoritate ecclesiastica, non solum possibilis est sed etiam suadetur». Il termine suadetur nel contesto delle Chiese orientali separate traduce piuttosto l’entusiasmo dei Padri conciliari in reazione al vetitum categorico della disciplina pre-conciliare del can. 731 §2 del Codice del 1917. Il termine suadetur deve pertanto sempre essere letto insieme all’ammonimento secondo cui la c.i.s. non deve essere usata indiscriminatamente per stabilire l’unità dei cristiani (cf. UR 8). Per lo più una c.i.s. raccomandata non implica che possa essere suggerita, imposta o che faccia oggetto di propaganda o di inviti da parte dai ministri cattolici. La c.i.s. dipende sempre dalla domanda spontanea e libera del non-cattolico. Il termine suadetur non significa nemmeno che la c.i.s. sarebbe diventata libera, aperta, generalizzata o senza condizioni, che al suo turno potrebbe condurre al proselitismo, all’errore, allo scandalo o all’indifferentismo ecclesiale. Una tale pratica sarebbe proibita dal diritto divino secondo OE 26: «Communicatio in sacris, quae unitatem Ecclesiae offendit aut formalem errori adhaesionem vel periculum aberrationis in fine, scandali et indifferentismi includit, lege divina prohibetur». Il termine suadetur deve quindi sempre essere inteso con questo sottofondo. 8 SEGRETARIATO PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI [=SPUC], Directorium ad ea quae a Concilio Vaticano secundo de re
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unitate Ecclesiae significando, et a participatione mediis gratiae. Significatio unitatis plerumque vetat communicationem. Gratia procuranda quandoque illam commendat9.
Si tratta del rapporto dialettico10 fra il principio della significatio unitatis, in cui i sacramenti e la loro comunione esprimono la comunione o l’unità ecclesiale, e il principio della gratia procurando, dove i sacramenti sono anche mezzi di grazia. Questo rapporto, applicato all’eucaristia, sacramento di unità, tratta il legame indissolubile tra la comunione eucaristica (Corpo eucaristico) e la comunione ecclesiale (Corpo mistico). Infatti, la comunione eucaristica esprime, significa – e per questo presuppone – la piena comunione ecclesiale. Di conseguenza, nella maggioranza dei casi la c.i.s. viene impedita (secondo il principio prohibens cf. il «plerumque vetat» di UR 8). D’altra parte si consta la necessità del nutrimento dell’eucaristia da parte del battezzato. Questa necessità permette qualche volta la c.i.s., per assicurare la salus animarum (principio
oecumenica promulgata sunt exsequenda, Pars prima Ad totam Ecclesiam [=ATE], 14 Maggio 1967, AAS 59 (1967) 574-592, EV 2/1194-1256. 9 UR 8 regola la c.i.s. nel contesto generale di ogni Chiesa o Comunità ecclesiale separata. UR 15 e OE 26-29 sono concentrati sul contesto delle Chiese orientali separate, mentre UR 22 si riferisce soltanto al contesto delle Comunità ecclesiali separate della Riforma. 10 «[...] the Eucharist as a sign of unity and as a means of grace. These two values are to be seen in a dialectical relationship, in a creative tension». M. WIJLENS, Sharing the Eucharist – A theological evaluation of the post conciliar legislation, Lanham – New York – Oxford 2000, 233.
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concedens/suadens11 cf. il «quandoque illam commendat» di UR 8). Ogni normativa cerca di esprimere questo doppio principio regolatore della c.i.s., vigilando però a non sacrificare il principio della significatio unitatis che rimane il primo principio. Si tratta di non sacrificare oltre misura l’unità ecclesiale, per il motivo secondo cui la comunione ai sacramenti esprime la comunione ecclesiale stessa. È chiaro pertanto che da questo punto di vista la c.i.s. non può essere utilizzata come mezzo strategico o come “viatico” lungo la strada verso la piena comunione. Sarebbe un uso indiscretim della c.i.s. (cf. UR 8) o una c.i.s. proibita dal diritto divino (cf. OE 26). Anzi proprio perché l’eucaristia è la fonte e la cima della piena comunione ecclesiale – e perciò la presuppone – ogni tipo di concelebrazione eucaristica con dei ministri separati rimane formalmente proi-
11 Per questi due termini ci siamo ispirati a UR 15, che parla di una c.i.s. possibilis e di una c.i.s. suadetur, benché UR 8 afferma in generale che la grazia a procurare raccomanda (commendat) la c.i.s. UR 8 annuncia il doppio principio regolatore per ogni tipo di c.i.s. senza fare la distinzione tra Chiese separate e Comunità ecclesiali separate, mentre UR 15 usa una terminologia più affinata nel caso di una Chiesa orientale separata. E soltanto nel contesto di queste ultime che la c.i.s. non solum est possibilis, sed etiam suadetur, mentre nel contesto delle altre Chiese e Comunità ecclesiali separate la c.i.s. può essere solum possibilis, cioè possibile o concessa in casi specifici, limitati e condizionati, ma non raccomandata in modo più generale. Si deve notare che, tranne il doppio principio regolatore della c.i.s. nel UR 8, il Decreto nella sua parte sulle Chiese/Comunità ecclesiali separate in Occidente (cf. UR 19-23), non menziona la c.i.s. in questo contesto. Si parla soltanto di dialogo. Cf. UR 22: «Quapropter doctrina circa Coenam Domini, cetera sacramenta et cultum ac Ecclesiae ministeria obiectum dialogi constituat oportet».
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bito (cf. cann. 908/CIC e 702/CCEO, EE 44). La concelebrazione con dei ministri che non stanno nella successione apostolica e che appartengono a delle Comunità ecclesiali che non hanno la dignità sacramentale dell’ordinazione sacerdotale, costituisce un gravius delictum riservato alla Congregazione per la Dottrina della Fede12.
12 «Delicta contra sanctitatem augustissimi Eucharistiae sacrifici et sacramenti videlicet: 3° vetita eucharistici Sacrificii concelebratio una cum ministris communitatum ecclesialium, qui successionem apostolicam non habent nec agnoscunt ordinationis sacerdotalis sacramentalem dignitatem». CDF, Epistula Ad exsequendam (cf. nt. 1), 786. Ci sono quindi due varianti del delitto di concelebrazione proibita: la prima con dei ministri validamente ordinati in virtù della successione apostolica, per esempio con dei ministri orientali separati, che non costituisce un gravius delictum riservato alla CDF e una seconda con dei ministri che non stanno nella successione apostolica e che non conoscono la dignità sacramentale dell’ordinazione sacerdotale, per esempio con dei pastori protestanti, che costituisce un gravius delictum riservato alla CDF. Per un commentario più approfondito cf. V. DE PAOLIS, «Norme De gravioribus delictis riservati alla Congregazione per la Dottrina della Fede», Periodica 91 (2002) 273-312; G. NÚÑEZ, «La competencia penal de la Congregación para la Doctrina de la Fe. Comentario al m.p. Sacramentorum Sanctitatis Tutela», Ius Canonicum 43 (2003) 351-388 (soprattutto 374-375); H. SCHMITZ, «Der Kongregation für die Glaubenslehre vorbehaltene Straftaten», Archiv für katholishes Kirchenrecht 170 (2001) 441-462; N. DELAFERRERA, «Normas acerca de los delitos más graves reservadas a la Congregación para la Doctrina de la fe», Anuario Argentino de Derecho Canónico 9 (2002) 61-78. Questo tipo di delitto si è presentato per esempio nella Colombia, nella diocesi di Ocaña nel gennaio 2006 dove tre sacerdoti furono sanzionati dal loro vescovo per aver commesso il delitto di concelebrazione con un ministro appartenente ad una Comunità ecclesiale che non conosce la dignità sacramentale dell’ordinazione sacerdotale. Le sanzioni comportavano la privazione dall’ufficio di parroco e il trasferi-
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2. La normativa post-conciliare fino al CIC La prima tappa della normativa post-conciliare sulla c.i.s. è costituita dal primo Direttorio ecumenico Ad totam Ecclesiam del 1967 e dei documenti annessi dello SPUC: una Dichiarazione del 1970, l’Istruzione In quibus rerum circumstantiis del 1972 attualmente ancora importante grazie ai suoi fondamenti dottrinali e conciliari della c.i.s. e una Nota del 1973, avendo lo scopo di precisare la normativa dinanzi a interpretazioni o applicazioni abusivi di essa13. Non faremo una lunga descrizione cronologica della disciplina universale sulla c.i.s14. Possiamo, tuttavia, concludere che in questa prima tappa si sviluppano i principi conciliari della comunione graduale nel campo della c.i.s., facendo la distin-
mento per un periodo di 12 mesi, a partire del primo febbraio 2006. Cf. ANONIMO, «Polémica por sanciones y traslados. Declaran persona no grata al Obispo Lozana Zafra», Bucaramanga Ocaña del 19 gennaio 2006. Per un altro esempio, cf. J. COONEY, «Irish Primates deplore joint Mass», The Tablet, 22 aprile 2006, 34. 13 SPUC, Déclaration sur la position de l’Eglise catholique en matière eucharistique commune entre chrétiens de diverses confessions Dans ces derniers temps, AAS 62 (1970) 184-188; EV 3/1948-1957. SPUC, Instructio de peculiaribus casibus admittendi alios christianos ad comunionem eucharisticam in Ecclesia catholica In quibus rerum circumstantiis, 1 giugno 1972, AAS 64 (1972) 518-525; EV 4/1626-1640. SPUC, Communicatio quoad interpretationem Instructionis de peculiaribus casibus admittendi alios christianos ad comunionem eucharisticam in Ecclesia catholica die 1 mensis Iunii 1972 editae Dopo la pubblicazione, 17 ottobre 1973, AAS 65 (1973) 616-619; EV 4/1641-1652. 14 Rimandiamo per una tale descrizione alla tesi di G. Ruyssen pubblicata dalla Cerf a Parigi sotto il titolo Eucharistie et Œcuménisme.
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zione ormai classica tra orientali separati, per cui vale una c.i.s. raccomandata, e gli altri fratelli separati, per cui vale una c.i.s. eccezionale e fortemente condizionata. A partire dal doppio principio regolatore della c.i.s., il primo Direttorio ecumenico prevede per la prima volta una possibilità di c.i.s. per gli altri fratelli separati (cf. ATE 55)15, mentre la UR parlava soltanto di dialogo (cf. UR 22). Un’altro punto importante è la distinzione delle nozioni del serio bisogno spirituale dell’eucaristia (cf. Istruzione In quibus rerum circumstantiis, n° 4b) o della grande necessità spirituale (cf. Istruzione In quibus rerum circumstantiis, n° 6)16 dagli altri casi simili di
15 «La celebrazione dei sacramenti è una azione della comunità celebrante fatta nella stessa comunità, di cui tale celebrazione significa l’unità della fede, nel culto e nella vita. Pertanto, quando manca questa unità [...] la partecipazione dei fratelli separati con i cattolici, specie ai sacramenti dell’eucaristia, penitenza e unzione degli infermi, è proibita. Tuttavia, siccome i sacramenti sono tanto segni di unità quanto fonti de grazia, la Chiesa per motivi sufficienti può permettere che ad essi venga ammesso qualche fratello separato. Tale permesso si può concedere in pericolo di morte, o per necessità urgente (durante una persecuzione, in carcere), se il fratello separato non può recarsi da un ministro della sua Chiesa e se spontaneamente richiede i sacramenti a un sacerdote cattolico, purché manifesti una fede conforme a quella della Chiesa circa questi sacramenti ed inoltre sia ben disposto. In altri casi di simile urgente necessità, decida l’ordinario del luogo o la conferenza episcopale. Il fedele cattolico, in simili circostanze non può chiedere questi sacramenti se non ad un ministro che abbia validamente ricevuto il sacramento dell’ordine». ATE 55, in EV 2/1248. 16 «Questo principio (significatio unitatis) non sarà oscurato se l’ammissione alla communione eucaristica cattolica riguarda in casi particolari soltanto quei cristiani che [...] sen-
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urgente necessità in situazioni oggettive di privazione di libertà fisica o di pericolo di morte (cf. ATE 55 che limitava la possibilità di c.i.s. per gli altri fratelli separati al pericolo di morte e altre situazioni oggettive di privazione di libertà fisica, come carcere e persecuzione). Questa comprensione più soggettiva e interiore della nozione di un serio bisogno spirituale contiene un potenziale enorme di possibilità di c.i.s. Il Cardinale Lehmann, Presidente della Conferenza dei vescovi tedeschi insisteva su questo punto nel suo discorso di apertura alla sessione plenaria autunnale della Conferenza nel 200017. Benché tono un vero bisogno spirituale del nutrimento eucaristico». SPUC, Instructio In quibus rerum circumstantiis (cf. nt. 13), n° 4b, in EV 4/1636. «Oltre al pericolo di morte, il direttorio presenta due casi a modo di esempio, cioè quello dei detenuti in carcere e di coloro che si trovano in stato di persecuzione; ma fa anche menzione di “altri casi di simile urgente necessità”. Questi non si limitano a situazioni di oppressione e di pericolo. Infatti si può verificare il caso di cristiani separati che si trovano in una grande necessità spirituale e che non hanno la possibilità di ricorrere alle proprie comunità. Citiamo quello della diaspora». SPUC, Instructio In quibus rerum circumstantiis (cf. nt. 13), n° 6, in EV 4/1640. 17 Il Cardinale Lehmann ricordava con insistenza che questa apertura della Istruzione del 1972 non è stata abbastanza sfruttata finora: «In der Instruktion […] aus dem Jahr 1972 findet sich ein bemerkenswerter Gedankengang […] Dort geschieht etwas Entschiedendes, was nach meinem Empfinden bis heute nicht genügend entfaltet und geklärt worden ist. Die bisherigen Situationen vor allem physischer Bedrängnis werden geöffnet in Richting auch geistlicher Notlagen (necessitas spiritualis) [...] Wenn nun der Begriff einer geistlichen Notlage eingefürht wird, wird eine wichtige Grenzlinie überschritten. Aber die Zulassung einer spirituellen Notlage bedeutet zusätlich eine gewisse Berufung auf einen inneren Notstand, vor allem des Gewissens. Wenn man dabei strikt auf den seelsorglichen Status
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l’Istruzione In quibus rerum circumstantiis faccia solo l’esempio della diaspora (cf. n° 6), p.es. gli anglicani in Italia, senza parlare esplicitamente dei matrimoni misti, essi erano però ben presenti nella mente ecumenica di questa epoca. Pertanto, oltre l’aspetto più personale, viene sottolineato anche l’aspetto ecclesiale del serio bisogno spirituale dell’eucaristia18. In questo senso, «l’eucaristia in nessun modo è il mezzo per soddisfare le aspirazioni esclusivamente individuali anche se elevate», perché «dalla unione dei fedeli con Cristo [...] ha origine l’unione dei fedeli tra loro» (Istruzione, n° 3,b, in EV 4/1632). Non basta quindi un semplice desiderio pio di ricevere l’eucaristia. Nello sforzo di precisare le condizioni d’ammissione alla c.i.s., il grado di fede eucaristica conforme alla fede cattolica richiesta viene mano a mano precisato nel senso della pienezza della fede cattolica tale che viene insegnata dalla Chiesa. Il contenuto della fides consentanea sull’eucaristia equivale in qualche modo a quello
eines einzelnen Menschen schaut, ist die Heranziehung eines solchen Kriteriums sinnvoll und wohl auch notwending. Aber es zeigt sich auch eine gewisse Subjektivierung, die wohl unvermeidlich ist». K. LEHMANN, «Referat zur Eröffnung der Herbst-Vollversammlung der Deutschen Bischofskonferenz. Einheit der Kirche und Gemeinschaft im Herrenmahl, Zur neueren ökumenischen Diskussion um Eucharistie-und Kirchengemeinschaft», http://dbk.de/presse/pm2000/pm2000092501.html 10. 18 «Il bisogno spirituale dell’eucaristia non riguarda dunque soltanto la crescita spirituale personale, ma nello stesso tempo e inseparabilmente concerne il nostro inserimento più profondo nella chiesa di Cristo, che è il suo corpo, il compimento di lui, che si va compiendo interamente in tutti i suoi membri». SPUC, Instructio In quibus rerum circumstantiis (cf. nt. 13), n° 3, in EV 4/1633.
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della fides cattolica. Questo viene sottolineato dalla Nota del 197319. Pertanto la c.i.s. rimane eccezionale, perché non si può sacrificare oltre misura il primo principio della significatio unitatis. 3. CIC e CCEO La seconda tappa nella normativa universale post-conciliare nell’ambito della c.i.s. è la normativa canonica del CIC inclusa in tre canoni: il can. 844 sulla c.i.s., il can. 908 sulla concelebrazione proibita e il can. 1365 sulle sanzioni per le violazioni della disciplina sulla c.i.s. I canoni equivalenti nel CCEO sono i cann. 671, 702 e 1440. In questo studio scegliamo di concentrarci sui cann. 844/CIC e 671/CCEO. Partendo dal principio dell’esclusività del paragrafo primo si ribadisce che «i ministri cattolici amministrano lecitamente i sacramenti ai soli fedeli cattolici, i quali parimenti li ricevano lecitamente dai soli ministri cattolici» (can. 844/CIC §1 e can. 671/CCEO §1). In questo modo viene tradotto il principio della significatio unitatis secondo il quale la c.i.s. viene in maggior parte esclusa (principio prohibens). I seguenti paragrafi, dal 2 al 4 del can. 844/CIC e del can. 671/CCEO, vengono redatti
19
«Perché altri cristiani possano essere ammessi all’eucaristia nella Chiesa cattolica, l’istruzione esige che essi manifestino una fede conforme a quella della Chiesa cattolica circa questo sacramento. Questa fede non si limita soltanto all’affermazione della “presenza reale” nell’eucaristia, ma implica la dottrina circa l’eucaristia come insegna la Chiesa cattolica». SPUC, Communicatio Dopo la pubblicazione (cf. nt. 13), n° 7, in EV 4/1648.
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come eccezioni a questo principio20. L’approccio chiaramente ecclesiologico dei codici, tralasciando la distinzione geografica tra Chiese separate in Oriente e Chiese/Comunità ecclesiali separate in Occidente, permette di produrre una disciplina unificata nel caso del ricorso di fedeli cattolici ai ministri non cattolici, nella cui Chiesa sono validi i sacramenti della penitenza, dell’Eucaristia e dell’unzione degli infermi (cann. 844/CIC §2 e 671/CCEO §2)21. Il criterio non è più soltanto quello della validità dell’ordinazione del ministro non cattolico (cf. ATE 55), ma piuttosto quello dello statuto valido dei sacramenti della sua denominazione. Il paragrafo secondo esclude così la possibilità di ricorso di un cattolico a un ex-prete cattolico diventato anglicano. La sua ordinazione sacerdotale rimane valida, ma egli non appartiene a una Chiesa nella quale i sacramenti abbiano uno statuto valido (per i cattolici). Per lo più sarebbe difficile conoscere l’intenzione di questo ex-prete cattolico: passando all’anglicanesimo, infatti, non celebra più i sacramenti secondo ciò che fa la Chiesa cattolica; essendo scismatico, cade anche sotto le pene 20
«[…] salvis huius canonis §§2, 3 et 4, atque can. 861 §2 praescriptis» (can. 844/CIC §1). Il can. 861/CIC §2 tratta del battesimo conferito da un catechista o da un’altra persona incaricata dall’Ordinario del luogo e in caso di necessità da «quilibet homo debita intentione motus». 21 «§2. Quoties necessitas id postulet aut vera spiritualis utilitas id suadeat, et dummodo periculum vitetur erroris vel indifferentismi, licet christifidelibus quibus physice aut moraliter impossibile sit accedere ad ministrum catholicum, sacramenta paenitentiae, Eucharistiae et unctionis infirmorum recipere a ministris non catholicis, in quorum Ecclesia valida exsistunt praedicta sacramenta». Il can. 671/CCEO §2, con una leggerissima differenza redazionale, ha lo stesso contenuto.
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ecclesiastiche del can. 1364/CIC. Le altre condizioni per la c.i.s. sono: la necessità o una vera utilità spirituale, evitare il pericolo di errore o di indifferentismo (i.e. tutte le denominazioni cristiane sono equivalenti) e l’impossibilità morale o fisica di accedere al ministro cattolico. I fedeli22 delle Chiese separate si servono del terzo paragrafo che contiene una normativa unificata in cui possono ricorrere ai ministri cattolici per la c.i.s. (cann. 844/CIC §3 e 671/CCEO §3)23. Si tratta prima di tutto delle Chiese orientali separate (pre- e non-calcedoniane), ma la normativa, per la prima volta, include anche le cosiddette Chiese equiparate alle Chiese orientali separate24. La Polish national
22
Il can. 844/CIC §3 parla soltanto di “membra Ecclesiarum orientalium” e di “membra aliarum Ecclesiarum”, mentre il can. 671/CCEO §3 non esita per una qualifica più ecclesiologica di “christifideles Ecclesiarum orientalium” e di “christifideles aliarum Ecclesiarum”. 23 «§3. Ministri catholici licite sacramenta paenitentiae, Eucharistiae et unctionis infirmorum administrant membris Ecclesiarum orientalium quae plenam cum Ecclesia catholica communionem non habent, si sponte id petant et rite sint dispositi; quoad membra aliarum Ecclesiarum, quae iudicio Sedis Apostolicae, ad sacramenta quod attinet, in pari condicione ac praedictae Ecclesiae orientales versantur». Il contenuto del can. 671/CCEO §3, tranne l’uso del termine “christifideles” invece di “membra”, è lo stesso. 24 Per delle ragioni di uniformità nella prassi universale della c.i.s. la lista delle Chiese in cui sono validi i predetti sacramenti del §2 include anche la lista delle Chiese equiparate del §3. Le Chiese del §2 sono quindi le stesse segnalate nel §3. «In other words: do the Churches spoken about in §2 have to be expressly indicated by the Apostolic See? Or is this left to the judgment of the individual faithful or to an eventual norm of the eparchial bishop or of the synod or Episcopal conference? It would seem at first sight that the authority competent
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catholic Church negli Stati Uniti ed in Canada è per ora l’unica Chiesa che viene esplicitamente qualificata dalla Santa Sede come Chiesa equiparata25. Benché le Acta Synodalia del Vaticano II parlavano anche dei vecchi-cattolici (come quelli dell’unione
to give such criteria would be the Apostolic See (by analogy with §3 in fine) […] The choice of the Pontificia Commissio Codicis Iuris Canonici Recognoscendo leaves one rather to understand that the competent authority is either the diocesan bishop or the conference of bishops». P. GEFAELL, «Sharing in sacramental life: doctrinal principles and normatives in the new ecumenical Directory of 1993», in A. AL-AHMAR – A. KHALIFE (edd.), Acta Symposii Internationalis circa Codicem Canonum Ecclesiarum Orientalium, Kaslik 24-29 aprilis 1995, Kaslik 1996, 342-343. B. CLOUGH, Sharing the Eucharist in particular cases: the path to a new legislation in canon 844, Roma 1992, 226 e 239: «[specifying the Churches who have valid sacraments], there is a great need for some specification of the same matter in the second paragraph. Since the Apostolic See is doing the task in the third paragraph, since the lists would appear to be identical, and since there is a need to avoid different lists being introduced around the world, this would seem to be a task best given to Rome». 25 Questo fu annunziato da un comunicato dalla Conferenza dei Vescovi statunitensi del 23 aprile 1993. Cf. CLSA (Canon Law Society of America), Newsletter, giugno 1993, 3. Questo viene anche confermato dalle norme della stessa Conferenza sulla c.i.s.: «Members of the orthodox Churches, the Assyrian Church of the East and the Polish National Catholic Church are urged to respect the discipline of their own Churches. According to Roman Catholic law, the Code of Canon Law does not object to the reception of communion by Christian Churches (canon 844 §3)». UNITED STATES CONFERENCE OF CATHOLIC BISHOPS, COMMITTEE ON THE LITURGY, «Guidelines for the Reception of Communion», http://www.Usccb.org/liturgy/current/intercom.shtml (06/11/2004). «Members of the orthodox Churches and the Polish National
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di Utrecht), questi non vengono qualificati come appartenenti a una Chiesa equiparata nel senso del paragrafo 326. Le condizioni di accesso alla c.i.s.
Catholic Churches share an intimate bond with us, however. They may receive the Eucharist when they ask for it and are properly disposed». UNITED STATES CONFERENCE OF CATHOLIC BISHOPS, COMMITTEE ON THE LITURGY, «Can non-catholic Christians be admitted to sacramental communion in the Roman Catholic Church?», http://www.Usccb.org/liturgy/q&a/ mass/communion.shtml (06/11/2004). Cf. O. LIPSCOMB, «Documentation: admission of Polish national Catholics to the sacraments in the Roman Catholic Church», Archdiocese of New York, Clergy Report, aprile-maggio 1996, 5-6. 26 «Notandum insuper est inter Communitates seiunctas esse quasdam Communitates scilicet Veterum Catholicorum, quae propter sacramentum validum ordinis et validam Eucharistiam […] similiter ac Communitates orthodoxae nominandae sunt Ecclesiae». Acta Synodalia III/II, Città del Vaticano 1970, 335. In funzione di questo alcuni commentatori non esitano a qualificare tutte le Comunità di vecchi-cattolici come Chiese equiparate. Cf. J.T. MARTÍN DE AGAR, «Comentario al can. 844», in A. MARZOA – J. MIRAS (edd.), Commentario exegético al Codigo de Derecho canonico Vol. III, Pamplona 1995, 432; CANON LAW SOCIETY OF GREAT BRITAIN AND IRELAND, The Canon Law, Letter & Spirit, Dublino 1995, 465; Codice di Diritto canonico commentato a cura della redazione di Quaderni di diritto ecclesiale, Città del Vaticano 2001, 714; W. WOESTMAN, Sacraments. Initiation, Penance and anointing of the sick. Commentary on Canons 840-1007, Ottawa 1992, 1213; T. BROGLIO, «Alcune considerazioni sulla “communicatio in sacris” nel Codice di Diritto Canonico», Quaderni di diritto ecclesiale 6 (1993) 86; B. FRANCK, «Remarques au sujet de la Note épiscopale concernant l’hospitalité eucharistique avec les Eglises issues de la Réforme», Revue de Droit canonique 35 (1985) 161 et 166. Per più informazioni sui vecchi-cattolici in Olanda, cf. SPUC, «Zurich Nota 8 juni 1972», Archief van de Kerken 27 (1972) 1042-1044 e GEMENGDE OUD KATHOLIEKE EN ROOMS KATHOLIEKE COMMISSIE ROME – UTRECHT, Rap-
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(sponte petant e rite sint dispositi) sono più flessibili per i fedeli delle Chiese separate che non per i fedeli cattolici (per loro si richiede anche la necessità o l’utilità spirituale). Per evitare una libertà troppo grande e per evitare le accuse di proselitismo da parte delle Chiese orientali separate27, sosteniamo una comprensione più specifica della buona disposizione, includendo la valutazione delle motivazioni per il ricorso al ministro cattolico insieme all’importanza della disciplina della propria Chiesa, che molto spesso proibisce la c.i.s. per i loro fedeli in altre Chiese28. Il nuovo Direttorio ecumenico del 1993 ne
port ‘Het Gezamelijk Erfgoed in vreugde delen’, Utrecht 2002. In questo rapporto della Commissione Roma – Utrecht si trova una bozza di c.i.s. eucaristica reciproca, basata sul riconoscimento reciproco della validità del ministero e dei sacramenti. Si trova in questo prezioso documento la descrizione di tutta l’evoluzione dei dialoghi tra Roma e i vecchi-cattolici in Olanda da 1968 fine a 2002. 27 Cf. KIRILL, METROPOLITA DI SMOLENSK E KALININGRAD, «Materials setting forth in detail the position of the Russian Orthodox Church on proselytism and Orthodox-Catholic relations sent to the Catholic side», One in Christ 37 (2002) 8994. «La norma, come è formulata nel §3 potrebbe avere delle implicazioni ecumeniche negative nel corso del dialogo della Chiesa cattolica con la Chiesa ortodossa». D. SALACHAS, Iniziazione cristiana nei Codici orientale e latino, Bologna 1992, 37. 28 «Duae enim conditiones eaedem omnino apparent ac pro fidelibus catholicis: sacramenta donantur iis qui petunt et qui dispositi sunt! Nulla proinde distinctio statuitur inter catholicos et reliquos fratres christianos etiamsi pertineant ad Ecclesias Orientales. Hoc modo ansam fortasse non praebitur saltem aliqua ratione, sic dicto indifferentismo ecclesiologico?». F. COCCOPALMERIO, «Communicatio in sacris, iuxta novum Codicem», in Congresso del ventennio dal Concilio Vaticano II. Portare Cristo all’Uomo, II, Testimonianza, Roma 1985, 215.
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è più sensibile29. Infatti non ci dovrebbe essere un ricorso presso il ministro cattolico, quando una persona può normalmente accedere al ministro della sua propria Chiesa30.
«[…] amministrare i sacramenti agli ortodossi, sic et simpliciter, se sono solamente ben disposti e se li chiedono spontaneamente, oltre a creare il fondato sospetto di proselitismo, è contrario al principio enunciato dal Concilio, UR 8, secondo il quale non è permesso considerare la communicatio in sacris come un mezzo da usarsi indiscriminatamente […]». D. SALACHAS, «La comunione nel culto liturgico e nella vita sacramentale tra la Chiesa Cattolica e le altre Chiese e Comunità Ecclesiali secondo lo Schema Codicis Iuris canonici orientalis», Antonianum 66 (1989) 415. Cf. anche Z. KUREC˘ IC´ , Comunione ecclesiastica fondamento della communicatio in sacris tra i cattolici e gli orientali non cattolici (CIC can. 844), Roma – Zagreb 1997, 79. P. GEFAELL, «Sharing in sacramental life» (cf. nt. 24), 340. 29 Il nuovo Direttorio ecumenico La Recherche de l’Unité del 1993 chiama precisamente a «prestare attenzione alla disciplina delle Chiese orientali per i loro fedeli ed evitare ogni proselitismo, anche solo apparente». LRU 125, in EV 13/2404, cf. anche LRU 107, 111, ed 122. PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI [= PCUC], Directoire pour l’application des principes et des normes sur l’œcuménisme La Recherche de l’Unité, 25 marzo 1993, AAS 85 (1993) 1039-1119. L’originale è in francese; per il testo italiano cf. EV 13/1093-1299, più in avanti LRU seguito dal numero di paragrafo. 30 «[…] but also that there not be bad faith or litigating motives, and that there be a just cause to approach the Catholic minister. And I think, this just cause should be the “impossibility” of having access to the proper minister». P. GEFAELL, «Sharing in sacramental life» (cf. nt. 24), 340-341. «Di conseguenza occorre sottolineare anche qui che se gli ortodossi hanno la possibilità di ricorrere al loro proprio ministro per chiedere e ricevere i sacramenti e partecipare in tal modo ai mezzi di grazia, non devono, anche se spontaneamente e ben disposti, far ricorso a ministri cattolici». D. SALACHAS, Iniziazione cristiana nei Codici orientale e latino (cf. nt. 27), 36.
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Tutti gli «altri cristiani che non hanno la piena comunione con la Chiesa cattolica» vengono trattati individualmente sulla base della loro dignità battesimale e indipendentemente della loro appartenenza ecclesiale (cann. 844/CIC §4 e 671/CCEO §4)31. Oltre al tradizionale caso di pericolo di morte (“periculum mortis”), il paragrafo prevede anche il caso di altre gravi necessità che urgono (“alia urgeat gravis necessitas”). Con questa categoria aperta viene data alle autorità ecclesiastiche competenti (Vescovi, Conferenze dei Vescovi, Eparchi, Sinodi patriarcali e Consigli dei Gerarchi orientali) un importante margine di interpretazione o di valutazione. I Codici non forniscono esempi concreti dell’urgenza, ma provvedono alla concretizzazione secondo il proprio contesto pastorale e ecumenico, p.es. il contesto dei matrimoni, delle coppie, e delle famiglie miste32.
31 «§4. Si adsit periculum mortis aut, iudicio Episcopi dioecesani aut Episcoporum conferentiae, alia urgeat gravis necessitas, ministri catholici licite eadem sacramenta administrant ceteris quoque christianis plenam communionem cum Ecclesia catholica non habentibus, qui ad suae communitatis ministrum accedere nequeant atque sponte id petant, dummodo quoad eadem sacramenta fidem catholicam manifestent et rite sint dispositi». Il contenuto del can. 671/CCEO §4 è lo stesso con la differenza che il canone esige che si manifesti «fidem […] fidei Ecclesiae catholicae consentaneam» e che invece della Conferenza dei Vescovi si elenca le autorità orientali cattoliche competenti: il Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale e il Consiglio dei Gerarchi. 32 Il contesto dei matrimoni misti veniva accennato dal Cardinale Willebrands durante il Sinodo sulla Famiglia in 1980. Cf. J. WILLEBRANDS, «Les mariages mixtes et les familles chrétiennes. Intervention du Cardinal Willebrands, Président du SPUC lors du Synode des Evêques d’octobre 1980», Documentation Catholique 77 (1980) 1002.
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Riguardo alle condizioni che si chiedono ricordiamo: l’impossibilità fisica o morale di ricorrere al proprio ministro (non viene più richiesto un certo tempo prolungato durante il quale non si può ricorrere al proprio ministro33), la domanda spontanea34 e la buona disposizione (un soggetto può essere ben disposto dal punto di visto della propria Chiesa o Comunità – come par esempio degli orientali separati o cristiani riformati che sono divorziati e risposati – ma non esserlo secondo la Chiesa cattolica35) e, infine, il
33 Dinanzi al brano «qui a suae communitatis ministrum per nimium tempus accedere nequent» l’Arcivescovo Castillo Lara argomentava che non era facile misurare questo tempo prolungato (una settimana, una mese, sei mesi, un anno?). Fu deciso di togliere questa condizione di tempo. Cf. PONTIFICIUM CONSILIUM DE LEGUM TEXTIBUS INTERPRETANDIS, Acta et Documenta Pontificiae Commissionis Codici iuris canonici recognoscendo, Congregatio plenaria diebus 20-29 Octobris 1981 habita, Città del Vaticano 1991, 552-559. 34 La domanda spontanea significa che il fratello separato prende lui stesso l’iniziativa per indirizzarsi al ministro cattolico. Questo ultimo, anche se può invitare, incoraggiare, suggerire pastoralmente i fedeli cattolici a ricevere la comunione eucaristica, deve dinanzi ai fratelli separati astenersi di tali iniziative. Forzare o imporre una pratica di c.i.s. ai fratelli separati potrebbe essere equiparata al proselitismo, definito dal primo Direttorio ecumenico come «modus agendi non conformis spiritui evangelico, in quantum utitur rationibus inhonestis ut homines ad Communitatem suam attrahat, abutendo e.g. illorum ignorantia vel paupertate etc.». ATE 28, nota 15, in EV 2/1221. 35 Si tratta di persone «che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» (cann. 915 e 1007/CIC) o che «sono pubblicamente indegni» (can. 712/CCEO). Cf. PONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, «Dichiarazione sulle persone divorziate risposate del 24 giugno 2000», http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/intrprtxt /documents/rc_pc_intrptxt_doc_200000706_declaration_fr.html
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grado di fede eucaristica richiesta. A nostro avviso, non deve crescere la differenza tra fides cattolica (nel can. 844/CIC §4) e fides consentanea (nel can. 671/CCEO §4). Alcuni autori, tuttavia, tendono a qualificare “la fede conforme” come una fede che non comprende tutti gli elementi della fede cattolica, e quindi come una fede necessariamente parziale, approssimativa o ambigua che rimane a un livello inferiore36. Benché si può argomentare che c’è una
(23/11/2005). «Vi sono ulteriori considerazioni pastorali da fare […] Quale sarebbe la reazione di una coppia cattolica che vive in una situazione matrimoniale irregolare nel vedere un acattolico ricevere un sacramento che è negato a loro? Non intensificherebbe la loro sofferenza? [...] Potrebbe sembrare troppo facile che ad altri venga concessa l’eucaristia senza richiedere pure a loro le esigenze dell’insegnamento integrale della Chiesa. Non è da minimizzare il pericolo di indifferentismo». T. BROGLIO, «Alcune considerazioni sulla Communicatio in sacris nel Codice di Diritto Canonico», Quaderni di Diritto Ecclesiale 6 (1993) 89-90. 36 Per questi autori, una fede conforme non è ancora la piena fede cattolica in ambito eucaristico e quindi une tale fede non basta per poter accedere ai sacramenti cattolici. «fides consentanea […] ha resultado ser bastante desafortunada como lo demuestran los sucesivos intentos clarificadores de la Santa Sede […]». T. RINCÓN-PÉREZ, «Plenitud de la fe católica y comunicación en la Eucaristía», in Actes du Ve Congrès international de droit canonique “Le nouveau Code de droit canonique” Ottawa 19-25 août 1984, Ottawa 1986, 428. «[…] profesar une fe conforme o acorde con la fe eucarística católica no significaba una fe idéntica a la de la Iglesia católica, es decir una fe plena en el misterio eucarístico tal y como objetivamente lo propone la Iglesia católica». T. RINCÓN-PÉREZ, La liturgia y los sacramentos en el derecho de la Iglesia, Pamplona 1988, 78. «Decir una fe consentanea, conforma à o acorde con la fe de la Iglesia non significa una fe idéntica a la fe de la Iglesia Católica o una fe plena en el misterio eucarístico tal y como objetivamente lo propone la
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sfumatura tra le due nozioni37 e che una cosa può essere più o meno conforme, non si deve escludere che una “fede conforme” possa rappresentare una fede cattolica piena che comprende tutti gli elementi
Iglesia, sino mas bien una fe objetivamente aproximada a los contenidos de la fe católica o simplemente una similar actitud subjetiva de fe independientemente de los contenidos objetivos». T. RINCÓN-PÉREZ, «Comunicación en la Eucaristía y Derecho particular», Ius Canonicum 24 (1984) 696. «[…] how is it that in cases of spiritual need in which only eucharistic faith exists, the principle requiring the fullness of the profession of faith will not be obscured? [...] It means that the eucharistic faith in harmony with that of the Catholic Church (as 1967 Directory 55 and the 1972 Instruction 4 asked) is not enough, because this expression could be misunderstood in the sense of a non-identical faith but only similar». P. GEFAELL, «Sharing in sacramental life» (cf. nt. 24), 328-331. 37 «Tra “fides consentanea” e “fides catholica” circa questi sacramenti c’è una importante sfumatura». D. SALACHAS, Teologia e disciplina dei sacramenti nei Codici latino e orientale. Studio teologico-giuridico comparativo, Bologna 1999, 170. L’autore non indica pertanto in che cosa risiede questa sfumatura o in quale misura essa avrebbe delle conseguenze per la pratica lecita/illecita della c.i.s. La sfumatura risiederebbe nel fatto che il contenuto della fede, essendo pure conforme a tutta la fede cattolica, sia espressa diversamente. Papa Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Vaticano II diceva che il contenuto del deposito della fede è una cosa, un’altra è la sua espressione, il suo modo di formulazione. Cf. GIOVANNI XXIII, Allocutio Gaudet Mater Ecclesia 11 ottobre 1962, AAS 54 (1962) 792. Astrid Kaptijn afferma che la nozione di fede conforme sarebbe «più in conformità con il Vaticano II e permette di distinguere meglio tra il contenuto della fede e la sua espressione». A. KAPTIJN, «Le aperture ecumeniche del Codice CCEO», Concilium (edizione italiana) 37 (2001) 495. Questo viene confermato da Sabine Demel che aggiunge: «Sie (la formulazione della fede conforme) lädt auch mehr dazu ein, für den Alltag allgemein verständliche Faustregeln für eine verant-
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dottrinali insegnati dalla Chiesa. Abbiamo visto che la Nota del 1973 definiva la “fede conforme” come la fede con tutti i suoi elementi di «dottrina circa l’eucaristia come insegna la Chiesa cattolica». Per noi fides consentanea fidei Ecclesiae catholicae del can. 671/CCEO §4 equivale fides catholica del can. 844/CIC §438. Essa comprende le dimensioni della presenza reale, del Banchetto e del Sacrificio39. L’Enciclica Ecclesia de Eucharistia del 17 aprile 2003 sottolinea come un elemento di fede eucaristica la necessità del sacerdozio ministeriale e ordinato per la validità del sacramento (cf. EE 46)40. Importante è
wortete Gewissenentscheidung zu entwickeln […]». S. DEMEL, «Gemeinsam zum Tisch des Herrn? Ein theologisch-rechtliches Plädoyer zur Konkretisierung der anderen schweren Notwendigkeit des c. 844 §4 CIC», Stimmen der Zeit 221 (2003) 666. 38 Mantenere una differenziazione forzata condurrebbe a delle conseguenze strane nell’applicazione del paragrafo 4 del can. 844/CIC e del can. 671/CCEO in riguardo alla c.i.s. in favore degli altri fratelli separati. Une fede conforme nel senso di una fede imparziale o approssimativa basterebbe per una c.i.s. lecita nell’ambito del can. 671/CCEO §4, mentre questa stessa fede non piena condurrebbe ad una c.i.s. illecita nell’ambito del can. 844/CIC §4. Una tale discordanza nella pratica della c.i.s. tra la Chiesa latina e le Chiese orientali cattoliche, produrrebbe confusione. 39 Queste tre dimensioni vengono elencate in GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Redemptor Hominis, 15 marzo 1979, AAS 71 (1979) 257-324 (cf. n° 20) e vengono riprese nei cann. 897, 898 e 899/CIC, nonché nel can. 698/CCEO, nei nn° 1356-1381 e nn° 1382-1401 del Catechismo della Chiesa Cattolica e nel Enciclica Ecclesia de Eucharistia (cf. EE 13, 15 e 16). 40 «[…] il rifiuto di una o più verità di fede su questi sacramenti, e tra di esse, di quella concernente la necessità del Sacerdozio ministeriale affinché siano validi, rende il richiedente non disposto ad una loro legittima amministrazione» (EE 46).
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che la professione di fede sia senza ambiguità. Non si tratta di tutto l’insieme della fede cattolica, ma soltanto della fede cattolica circa i sacramenti dell’Eucaristia, della penitenza o dell’unzione degli infermi. Questa fede non può semplicemente essere presupposta, le autorità ecclesiali competenti preciseranno come questa fede deve essere espressa41. Ciò non
41 In fatti questa fede non può essere assimilata con l’intenzione di ricevere il sacramento o ancora con la domanda spontanea, ma deve essere esteriorizzata con qualche manifestazione, tale che viene stabilita dalle autorità ecclesiastiche. Abbiamo per esempio la norma pratica del Cardinale Schönborn di Vienna, che considera la pronuncia della parola “Amen” a tutta la preghiera eucaristica come una espressione sufficiente di tutta la fede cattolica sull’eucaristia. «[…] eine ganz einfache Handregel: Die eucharistischen Gaben, die uns in der Kommunion gereicht werden, sind gewissermassen die Frucht des eucharistischen Gebetes […] In diesem stehen im Zentrum die Herabrufung des Heiligen Geistes über die Gaben und die Worte Jesu beim Abendmahl, von denen wir glauben, dass sie als geistmächige Worte Jesu Brot und Wein in seinen Leib und sein Blut verwandeln. Das Hochgebet endet mit dem “durch Ihm, und mit Ihm und in Ihm...”. Auf dieses Antwortet die ganze Gemeinde mit dem bekrächtigenden und bekennenden “Amen”. Nun meine kleine Regel: Wer das Amen zum Hochgebet ehrlichen Herzens sprechen kann, der kann auch die Frucht dieses Hochgebets, die Kommunion, ehrlichen Herzens empfangen, der kann auf das Wort des Kommunionspenders “der Leib Christi” mit einem ehrlichen und gläubigen “Amen” antworten». ANONIMO, «Konfessionsverbindende Ehen: Gemeinsam zur Kommunion?», Thema Kirche 9 (1999) 10. Questo viene ribadito dal Cardinale Kasper: «[…] qui au terme de la prière eucharistique, dans une foi sincère et avec toute l’assemblée peut répondre “Amen” à ce qui est dit dans cette prière eucharistique et à ce qui advient pendant la cérémonie, selon la profession de foi catholique […] (c’est à dire) la présence du Corps et du Sang du Christ, de la communion avec Jésus-
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deve essere une esame di sacramentologia42, più semplicemente dovrà essere un colloquio con il ministro cattolico, il parroco, che per l’occasione dovrà fare alcune domande a proposito43.
Christ, mais aussi de la communion avec les Saints, en particulier avec Marie, ainsi qu’avec le Pape et l’Evêque […] Celui qui dit oui avec foi à cette communion et la confirme par son “Amen”, celui-là est dans la communion ecclésiale par son intime conviction […]». W. KASPER, «L’Engagement œcuménique de l’Eglise catholique, conférence du Cardinal Walter Kasper à l’occasion de l’Assemblée générale de la Fédération protestante de France, mars 2002», Droit Canonique 99 (2002) 491. «One must be able to say this Amen with an honest heart and in union with all the assembled community, both at the end of the eucharistic prayer and when one receives communion; and one must bear witness with one’s own life to this Amen». W. KASPER, Sacrament of Unity: the Eucharist and the Church, New York 2004, 71-72. È chiaro che questa piccola norma pratica può servire per illuminare la coscienza del fratello separato, quando durante una intervista pastorale esprime il suo desiderio di poter comunicare. Il ministro cattolico potrebbe allora spiegare la pienezza del significato cattolico della risposta “Amen” alla preghiera eucaristica. Se in seguito all’intervista pastorale il ministro cattolico stima che la situazione giustifica la c.i.s. e che le condizioni del can. 844/CIC §4 sono presenti, la risposta “Amen” potrebbe allora essere sufficiente come manifestazione della fede cattolica sull’eucaristia. 42 «It is not necessary that the person has a detailed knowledge of the sacramental theology of the sacrament in question […] The norm of law should not be interpreted to mean that the non-catholic persons in question need precise knowledge of Catholic doctrine. It suffices for them to answer in the affirmative to the question: “Do you believe that what the Catholic Church teaches about the Eucharist is true?” The issue is not how much knowledge the persons have, but whether their faith is in conformity to that of the Catholic Church». J.M. HUELS, The Pastoral Companion: a Canon Law Handbook for Catholic Ministry, Chicago 1986, 308. Questo viene confermato dalle Testo della nota 43 alla pagina seguente
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L’ultimo (quinto) paragrafo dei cann. 844/CIC e 671/CCEO è un’applicazione della sussidiarietà, e tratta della concretizzazione della normativa canonica nei paragrafi precedenti secondo il proprio contesto pastorale ed ecumenico44. È chiaro che questo contesto è diverso in Francia, in Germania, in SudAfrica, in Australia, come nei paesi del Medio Oriente dove i cristiani formano una minoranza tra-
norme sulla c.i.s. dei Vescovi del Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del nord One Bread One Body: «Is there sufficient faith in the sacrament desired? That is: does the person believe in general terms what the Catholic Church believes, and certainly not deny the essentials of Catholic belief in the particular sacrament?». CATHOLIC BISHOPS’ CONFERENCES OF ENGLAND AND WALES, IRELAND AND SCOTLAND, «One Bread One Body. A teaching document of the Eucharist in the life of the Church and the establishment of general norms on sacramental sharing», Londra 1998, n° 115. Testo ripreso sul sito http://www.catholic-ew.org.uk/CN/98/980930a.html. 43 «Una volta che il ministro sia stato in grado di costatare la presenza delle altre condizioni, qualche domanda semplice dovrebbe essere sufficiente per verificare se la fede del cristiano separato si conforma o meno alla fede della Chiesa». T. BROGLIO, «Alcune considerazioni sulla Communicatio in sacris nel Codice di Diritto Canonico» (cf. nt. 35), 89. È chiaro che la verifica della fede (conforme) cattolica circa i sacramenti deve essere fatta con la debita sensibilità e carità pastorale, soprattutto quando la persona è malata o si trova in una situazione penosa (p.es. funerali del coniuge cattolico di una coppia mista). 44 «§5. Pro casibus de quo in §§2, 3 et 4, Episcopus dioecesanus aut Episcoporum conferentia generales normas ne ferant, nisi post consultationem cum auctoritate competenti saltem locali Ecclesiae vel communitatis non catholicae cuius interest». Il contenuto del can. 671/CCEO §5 è lo stesso, salvo le autorità orientali cattoliche competenti: l’Eparcha, il Sinodo patriarcale e il Consiglio dei Gerarchi.
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mite i musulmani. La normativa permette anche di promuovere il dialogo con le autorità ecclesiali separate, insistendo sull’obbligo di consultazione con le autorità almeno locali della Chiesa/Comunità ecclesiale separata, senza produrre necessariamente un esito favorevole45.
4. Il Direttorio ecumenico del 1993 La terza tappa della normativa universale sulla c.i.s. è costituita dal nuovo Direttorio ecumenico A la Recherche de l’Unité del 199346. Benché non confermato in forma specifica, il Direttorio ritocca o innova in alcuni punti la normativa canonica. Infatti modi-
45 L’obbligo non impone di portare delle norme generali, ma soltanto di consultare le autorità ecclesiali separate in caso in cui tali norme vengono elaborate. Durante la revisione del CIC, i consultori decidono di togliere il passaggio «nisi post favoribilem exitum consultationis» del can. 844 §5 nello Schema CIC de 1982 per la ragione che le attività legislative della Chiesa non possono dipendere del consenso di parti non cattoliche e non si deve restringere, senza necessità, l’autorità della Chiesa. «Loco favorabilem exitum consultationis dicatur: consultationem quia activitas legislativa interna Ecclesiae vinculari non potest consensui partis non catholicae, sine eventuali praeiudicio pastoralium necessitatum. (Duo Patres) Atque nimis et sine necessitate restringit potestatem Ecclesiae et serias in praxi gignit difficultates (Tres Patres)». PONTIFICIA COMMISSIO CODICI IURIS CANONICI RECOGNOSCENDO, «Relatio complectens synthesim animadversiones ab Em.mis atque Exc.mis Patribus Commissionis ad novissimum schema codicis iuris canonici exhibitarum, cum responsionibus a secretaria et consultoribus datis», Communicationes 15 (1983) 176. 46 PCUC, «Directoire La Recherche de l’Unité (cf. nt. 29).
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fica in senso più stretto la normativa dei cann. 844/CIC e 671/CCEO. Questo fa sorgere alcune riflessioni sullo statuto giuridico del Direttorio del 1993. Secondo il can. 33/CIC §1, i direttori cadono nella categoria dei decreti generali esecutivi che «non derogano alle leggi, e le loro disposizioni che siano contrarie alle leggi, sono prive di ogni vigore». Le norme canoniche prevalgono, soprattutto nelle materie per cui i Codici e il Direttorio si sovrappongono47. Nel caso in cui il Direttorio per alcune norme – soprattutto quelle che innovano e modificano la normativa canonica vigente con direttive universali e obbligatorie48 – potrebbe essere considerato come un decreto generale legislativo ai sensi dei cann. 29, 30/CIC, dovremmo chiederci in quale misura un dicastero della Curia Romana possa cambiare, ritoccare, rimodellare – soprattutto in senso più stretto e quindi non soltanto precisare o interpretare – la legi-
47 «Le Directoire œcuménique a le statut de décret général exécutoire, tel que défini dans le Code de droit canonique. Il ne peut donc ni élargir ni restreindre les normes canoniques». E.I. CASSIDY, «Le Directoire œcuménique de l’Eglise catholique: un engagement renouvelé à la recherche de l’unité des chrétiens», Ecumenism 30 (1995-1996) 21. «The Ecumenical Directory is situated in the sphere of general executive decrees, and therefore of itself can neither restrict nor broaden the canonical norm». E. FORTINO, «The revised Ecumenical Directory: process, content, supporting principles», Information service 84 (1993/III-IV) 142. 48 Sottolineammo precisamente che «Il Direttorio intende motivarla (l’attività ecumenica), illuminarla, guidarla e, in alcuni casi particolari, dare anche direttive obbligatorie […] il Direttorio raccoglie tutte le norme già fissate per applicare e sviluppare le decisioni […] e le adatta alla realtà attuale […] il Direttorio dà orientamenti e norme d’applicazione universali […]». LRU 6, in EV 13/2174.
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slazione canonica universale. Secondo l’articolo 18 della Costituzione Pastor Bonus sulla Curia Romana, un dicastero, come il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, non può «emanare leggi o decreti generali aventi forza di legge, né derogare alle prescrizioni del diritto universale vigente, se non in singoli casi e con specifica approvazione del Sommo Pontefice»49. Anche l’articolo 109 §2 del Regolamento della Curia Romana ribadisce questo: «I Dicasteri non possono emanare leggi e decreti generali, di cui al can. 29 del CIC, né derogare alle disposizioni del diritto stabilito dal Sommo Pontefice senza la sua specifica approvazione»50. Secondo l’articolo 110 dello stesso Regolamento la domanda di approvazione in forma specifica deve indicare le deroghe al diritto universale e, per poter constatare questo tipo di approvazione, si deve affermare esplicitamente che il Sommo Pontefice «in forma specifica approbavit»51. Nell’approvazione del Direttorio ecumenico del 1993 questa formula non c’è52. Riteniamo che
49 GIOVANNI PAOLO II, Constitutio Apostolica Pastor Bonus, 28 giugno1988, AAS 80 (1988) 841-934. Testo italiano in Codice di Diritto canonico, Testo ufficiale e versione italiana, terza edizione riveduta, corretta e aumentata dall’Unione editori e librai cattolici italiani, Roma 1997. 50 GIOVANNI PAOLO II, Regolamento generale della Curia Romana, 7 Marzo 1992, AAS 84 (1992) 201-267. 51 Art. 110 §1 del Regolamento generale della Curia Romana: «[…] se l’atto contiene deroghe al diritto universale vigente, esse devono essere specificate ed illustrate». Art. 110 §4 del Regolamento generale della Curia Romana: «Affinché consti dell’approvazione in forma specifica si dovrà dire esplicitamente che il Sommo Pontefice “in forma specifica approbavit”». 52 La menzione usata è «Sua santità papa Giovanni Paolo II ha approvato il presente Direttorio il 25 marzo 1993. L’ha confer-
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sarebbe stata la soluzione più elegante e più sicura dal punto di visto giuridico approvare in forma specifica quelle direttive in cui il Direttorio cambia la normativa dei codici53.
mato con la sua autorità e ne ha ordinato la pubblicazione. Nonostante qualsiasi disposizione in contrario». LRU 218, in EV 13/2507. Quanto alla formula “Nonostante qualsiasi disposizione in contrario”: «(These) words […] should not be taken to signify that the norms of this Directory are above the norms of the Codes, or have modified them […] unless the Roman Pontiff truly wished to concede derogatory character (but for this purpose, there should have been the clear indication of specific approval)». P. GEFAELL, «Sharing in sacramental life» (cf. nt. 24), 365. Per quanto riguarda il primo Direttorio Ad totam Ecclesiam del 1967, le regole precise per la conferma in modo specifico non esistevano, essa si basava soprattutto sull’intenzione del Pontefice e poi, il Direttorio del 1967 era coperto da tale autorità dal Papa Paolo VI (“contrariis quibuslibet minime obstantibus”), modificando ex integro tutta la normativa pre-conciliare nell’ambito dell’ecumenismo e della c.i.s. «No conviene, per tanto, cuestionarse la legitimidad de los directorios en razón de la aprobación pontificia. Para que un acto jurídico entre en vigor e innove el ordenamiento canónico hace falta tan solo que esa sea su voluntad y que tal intención no sea revocada por el Romano Pontífice». J. OTADUY, Un exponente de legislacion postconciliar. Los directorios de la Sante Sede, Pamplona 1980, 184. Cf. P. GEFAELL, «Il nuovo direttorio ecumenico e la communicatio in sacris», Ius Ecclesiae 6 (1994) 260-265. 53 «Since various innovating norms are contained in the Directory, as we have seen, we may ask ourselves whether it would not have been more opportune for them to have been given this specific approval, at least for the individual innovating norms […] A specific “particularized” approval perhaps would have been the best way to resolve the problem for the Directory». P. GEFAELL, «Sharing in sacramental life» (cf. nt. 24), 366. Cf. J.F. HOTCHKIN, «Perspective du Directoire œcuménique», Ecumenisme 30 (1995-1996), 7 e F.J. URRUTIA, «Quandonam habeatur approbatio in forma specifica», Periodica 80 (1991) 3-17.
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Dal punto di visto della disciplina sulla c.i.s. il Direttorio del 1993 ripristina un approccio ecclesiologico-geografico, mentre i cann. 844/CIC e 671/CCEO seguono un approccio puramente ecclesiologico, distinguendo tra Chiese separate (Chiese in cui i sacramenti sono validi [§2] Chiese Orientali e equiparate [§3]) e gli altri cristiani che non hanno la piena communione con la Chiesa cattolica (§4). Il nuovo Direttorio stabilisce, nell’ambito della condivisione di vita sacramentale, la distinzione da un lato tra i membri delle varie Chiese orientali separate (cf. LRU 122-128) e dall’altro i cristiani di altre Chiese e Comunità ecclesiali, sottintese in Occidente (cf. LRU 129-136). Così viene operato uno sdoppiamento della disciplina unificata dei cann. 844/CIC §§2 e 3 e 671/CCEO §§2 e 3, che ora viene limitata alla c.i.s. nel contesto delle Chiese orientali separate (cf. LRU 123 e 125) e quindi restringe la normativa canonica54. Come conseguenza i fedeli delle Chiese equiparate passano da una disciplina flessibile (i.e. dei cann. 844/CIC §3 e 671/CCEO §3:
54 LRU 123: «Ogniqualvolta una necessità lo esiga o una vera utilità spirituale lo consigli e purché sia evitato il pericolo di errore e di indifferentismo, è lecito a ogni cattolico, per il quale sia fisicamente o moralmente impossibile accedere al ministro cattolico, ricevere i sacramenti della penitenza, dell’eucaristia e dell’unzione degli infermi da parte di un ministro di una Chiesa orientale» (EV 13/2402). La norma del Direttorio limita quindi la disciplina dei cann. 844/CIC §2 e 671/CCEO §2 al contesto della c.i.s. presso un ministro di una Chiesa orientale separata, mentre la norma canonica include tutti i «ministri non cattolici, nella cui Chiesa sono validi i predetti sacramenti».
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sponte petant e rite sint dispositi) ad una disciplina più condizionata (ispirata ai contenuti dei cann. 844/CIC §4 e 671/CCEO §4: c.i.s. è concessa ai cristiani di altre Chiese e Comunità ecclesiali soltanto in pericolo di morte o in altre gravi necessità che urgono, purché manifestino la fede cattolica e si trovino nell’impossibilità fisica o morale d’accesso al proprio ministro [cf. LRU 130, 131])55. Reciprocamente, i fedeli cattolici per il ricorso ai ministri di
LRU 125: «I ministri cattolici possono amministrare lecitamente i sacramenti della penitenza, dell’eucaristia e dell’unzione degli infermi ai membri delle Chiese orientali qualora questi li richiedano spontaneamente e abbiano le dovute disposizioni» (EV 13/2404). La norma del Direttorio limita quindi la disciplina dei cann. 844/CIC §3 e 671/CCEO §3 ai soli fedeli di Chiese orientali separate, mentre la norma canonica include sotto questa disciplina anche i fedeli «delle altre Chiese, le quali, a giudizio della Sede Apostolica, relativamente ai sacramenti in questione, si trovano nella stessa condizione delle predette Chiese orientali». 55 LRU 130: «In caso di pericolo di morte, i ministri cattolici possono amministrare questi sacramenti alle condizioni sotto elencate. In altri casi [...]» (EV 13/2411). LRU 131: «Le condizioni in base alle quali un ministro cattolico può amministrare i sacramenti dell’eucaristia, della penitenza e dell’unzione degli infermi a una persona battezzata [...] sono: che detta persona sia nell’impossibilità di accedere a un ministro della sua Chiesa o Comunità ecclesiale per ricevere il sacramento desiderato, che chieda del tutto spontaneamente quel sacramento, che manifesti la fede cattolica circa il sacramento chiesto e che abbia le dovute disposizioni» (EV 13/2412). Per i cristiani membri di Comunità ecclesiali della Riforma vale pertanto la stessa disciplina che quella prevista dai cann. 844/CIC §4 e 671/CCEO §4. Per loro, il Direttorio ecumenico mantiene la stessa disciplina, precisando pero che: «In altri casi, è vivamente raccomandato che il vescovo diocesano, tenendo conto delle norme che possono essere state stabilite in tale materia dalla conferenza episcopale o
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queste Chiese equiparate passano dalla disciplina canonica (i.e. dei cann. 844/CIC §2 e 671/CCEO §2: necessitas, vera utilitas spiritualis et dummodo periculum vitetur erroris vel indifferentismi, physice aut moraliter impossibile sit accedere ad ministrum catholicum) alla stesse condizioni più restrittive, ispirate dai cann. 844/CIC §4 e 671/CCEO §4 (cf. LRU 132)56. Quindi il Direttorio restringe un’altra volta la normativa canonica. Si noti anche che nel contesto del ricorso da un fedele cattolico ai ministri non cattolici, il Direttorio riprende, accanto al criterio della validità dei sacramenti nelle Chiese del ministro non cattolico (cf. cann. 844/CIC §2 e 671/CCEO §2), l’antico criterio del primo Direttorio ecumenico del 1967 (cf. ATE 55), cioè la validità dell’ordinazione del ministro non cattolico57. Infine
dai sinodi delle Chiese orientali, fissi norme generali che permettano il discernimento in situazioni di grave e pressante necessità e la verifica delle condizioni qui sotto elencate» (EV 13/2411). 56 LRU 132: «[…] un cattolico, nelle circostanze sopra indicate (nn° 130-131), non può chiedere i suddetti sacramenti che a un ministro di una Chiesa i cui sacramenti sono validi, oppure a un ministro che, secondo la dottrina cattolica dell’ordinazione, è riconosciuto come validamente ordinato» (EV 13/2413). Se per esempio, secondo la disciplina canonica bastava per un cattolico una utilità spirituale per ricorrere ad un ministro non cattolico, la disciplina del Direttorio del 1993 esige pericolo di morte o un’altra grave necessità che urge. Diciamo pure che non viene ripresa dal Direttorio la condizione che «sia evitato il pericolo di errore o di indifferentismo» dei cann. 844/CIC §2 e 671/CCEO §2. 57 «The codes therefore had restricted what was foreseen by the old Directory. The 1993 Directory, however, amplifying the norm of the Codes, goes back to the former amplitude of the 1967 Directory». P. GEFAELL, «Sharing in sacramental life» (cf. nt. 24), 343.
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c’è la scelta tra due criteri: il ricorso o al ministro non cattolico, nella cui Chiesa sono validi i predetti sacramenti o al ministro non cattolico validamente ordinato. Qui potremmo dire che il Direttorio elargisce il criterio canonico sulla validità. Sopra abbiamo già accennato il problema con questo criterio58. Il Direttorio del 1993 suggerirebbe quindi che un cattolico potrebbe ricorrere ad un ministro validamente ordinato che esercita il suo ministero in un Comunità ecclesiale di cui l’eucaristia o gli altri sacramenti non hanno conservato «la loro sostanza propria e integrale» (cf. UR 22), a causa del sacramenti ordinis defectum (cf. UR 22) per mancanza di successione apostolica. Si può mettere in dubbio la prudenza di tale normativa contenuta nel Direttorio che potrebbe portare ad abusi e errori fino ad una sorta di falsa speranza ecumenica da parte di certe Comunità ecclesiali riguardo alla validità del loro ministero
58
«A further difficulty with this provision is that it does not acknowledge that a validly ordained priest serving in an Ecclesial Community which has no valid orders may well, by reason of his adhesion to this Community, lack the necessary sacramental intention in celebrating the Eucharist, notwithstanding his own valid ordination […] One cannot fail to admit the difficulty and question the prudence of applying it (this provision). Determining the absolute validity of an individual’s ordination could be a burdensome task for which local authorities are likely to be unprepared, and attempts to do so could improperly raise ecumenical expectations among Catholics and non-Catholics alike […] Using this provision prematurely could lead to numerous cases and new forms of abuse». J.J. C ONN , «Juridical Themes in the Eucharistic Documents of the Pontificate of John Paul II», Periodica 94 (2005) 395.
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ordinato59. È chiaro che il Direttorio, come decreto generale esecutivo o come decreto generale legislativo, non essendo confermato in forma specifica, non è in grado di ritoccare sostanzialmente i canoni che per ora mantengono la loro piena forza legale. L’Enciclica Ecclesia de Eucharistia del 2003 riafferma che «i cattolici possono fare ricorso per gli stessi sacramenti ai ministri di quelle Chiese in cui essi sono validi» (EE 46 ispirandosi ai cann. 844/CIC §2 e 671/CCEO §2), mentre nello stesso paragrafo viene ribadito che «un fedele cattolico non potrà ricevere la comunione presso una comunità mancante del valido sacramento dell’ordine» (EE 46 ispirandosi all’UR 22). La necessità del sacerdozio ministeriale per la validità dei sacramenti viene sottolineata come elemento di fede negli stessi sacramenti. Al centro della questione è proprio il sacramento dell’ordine e la sua validità; per questo il dibattito sull’ammissione reciproca alla comunione eucaristica fra le confessioni si concentra sul riconoscimento mutuo dei ministeri e del sacramento dell’ordine60.
59 Sull’invalidità delle ordinazioni anglicane, cf. CDF, Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio Fidei, AAS 90 (1998) 542-551, che riprende la Lettera apostolica di Papa Leone XIII Apostolicae Curae del 13 settembre 1896 (cf. Denzinger nn° 3318-3319). 60 «Fortschritte in der Frage der Eucharistiegemeinschaft, insbesondere eine gegenseitige Zulassung, hängen damit an Annäherungen im Verständnis des Amtes. Die Amtsfrage ist heute keineswegs mehr so ungelöst und umstritten, dass der blosse Verweis auf ihre angebliche Ungeklärheit jede Möglichkeit einer gottesdienstlichen Gemeinschaft ausschliessen könnte». P. NEUNER, «Ein katholischer Vorschlag zur Euchari-
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Al Direttorio ecumenico del 1993 va riconosciuto il grande merito di accennare, per la prima volta, la realtà dei matrimonii misti in relazione alla c.i.s.61. I matrimoni misti vengono apprezzati per il
stiegemeinschaft», Stimmen der Zeit 211 (1993) 445. «Au plan du mystère eucharistique il reste encore quelques ambiguïtés sur la compréhension de la présence réelle et une difficulté sur sa permanence, mais le vrai verrou se situe au niveau de la présidence de l’eucharistie. Si tout le monde est d’accord pour reconnaître que c’est le Christ qui invite et que la présidence du ministre est le signe de cette présidence du Christ, tous ne s’entendent pas sur la nature de l’ordination (sacramentelle?) […] Les Eglises n’en sont pas encore arrivées à réconcilier leurs ministères. Cette difficulté se manifeste à propos du douloureux débat concernant l’hospitalité eucharistique». B. SESBOÜÉ, «Où en est le dialogue œcuménique sur l’eucharistie?», Unité des Chrétiens 138 (aprile 2005) 10. 61 Questa problematica fu pertanto accennata durante il Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia dal Cardinale Willebrands: «On peut donc dire du mariage entre deux chrétiens baptisés dans des Eglises différentes que, dès lors qu’il s’agit d’un mariage entre deux chrétiens, leur union est un vrai sacrement et fonde une Eglise domestique […] qui reflète l’union du Christ avec l’Eglise […] Ainsi la famille elle-même, en tant que petite église, est en quelque sorte appelée, d’une manière semblable à celle de l’Eglise elle-même, à devenir un signe d’unité pour le monde […] la “communion spirituelle” de nombreux foyers mixtes peut affecter leur vie sacramentelle et pousser les conjoints à demander l’autorisation de s’approcher ensemble de la sainte eucharistie. C’est en effet à ce moment-là qu’ils ressentent vivement leur division, de même que leur besoin de la nourriture spirituelle qu’est l’eucharistie». J. WILLEBRANDS, «Les mariages mixtes et les familles chrétiennes» (cf. nt. 32), 10011002. Il Cardinale invoca la nozione di serio bisogno spirituale del nutrimento dell’eucaristia dell’Istruzione del 1972 (cf. supra) per applicarla al contesto dei matrimoni misti. L’Ordo celebrandi matrimonium del 1991 provvede che: «Si matrimonium fit inter partem catholicam et partem baptiza-
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loro contributo al movimento ecumenico62 e sono l’unico esempio che il Direttorio da di «un’altra grave necessità che urge», in cui un non cattolico viene ammesso alla comunione eucaristica, per il
tam acatholicam, adhiberi debet ritus celebrandi Matrimonium sine Missa; si autem casus ferat, et de consensu Ordinarii loci, adhiberi potest ritus celebrandi Matrimonium intra Missa; quoad autem admissionem partis acatholicae ad Communionem eucharisticam, serventur normae pro variis casibus edictae». CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Ordo celebrandi Matrimonium, Città del Vaticano Vaticano 1991, n° 36. Pertanto la domanda, se la celebrazione di un matrimonio misto costituisce un’altra grave necessità che urge nel contesto del can. 844/CIC §4, fu posta a questa Congregazione per il Culto divino: «I find it difficult to see how […] the occasion of a Nuptial Mass would constitute a grave necessity […] However those who have been involved in inter-communion contend that while there may be a general norm, canon 844 §4 provides for the exception […] I still need to ask the question: Am I justified in refusing permission for the administration of Holy Communion to a Lutheran in this instance?». La risposta della Congregazione del 15 dicembre 1986 fu: «Canon 844 §4 does not permit that Communion be given to a non-Catholic in the case of Nuptial Mass». CLSA, «Intercommunion with a Lutheran at a wedding», Canon Law Digest 12, 624-625. 62 «Questi matrimoni, nonostante le loro particolari difficoltà, presentano numerosi elementi che è bene valorizzare e sviluppare, sia per il loro intrinseco valore, sia per l’apporto che possono dare al movimento ecumenico. Ciò è particolarmente vero quando ambedue i coniugi sono fedeli ai loro impegni religiosi. Il comune battesimo e il dinamismo della grazia forniscono agli sposi, in questi matrimoni, la base e la motivazione per esprimere la loro unità nella sfera dei valori morali e spirituali». LRU 145, in EV 13/2426. Il Direttorio riprende qui il n° 78 della Esortazione apostolica Familiaris Consortio del 1981. Cf. GIOVANNI PAOLO II, Exhortatio apostolica Familiaris Consortio, 22 novembre 1981, AAS 74 (1982) 81-191.
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fatto che si deve tener conto «di questa situazione particolare della conclusione del sacramento del matrimonio fra due battezzati» (LRU 159)63. Il grande passo avanti è rappresentato dal fatto che
63 LRU 159: «[…] un matrimonio misto, celebrato secondo la forma cattolica, ha generalmente luogo al di fuori della liturgia eucaristica. Tuttavia, per una giusta causa, il vescovo diocesano può permettere la celebrazione dell’eucaristia. In quest’ultimo caso, la decisione di ammettere o no la parte non cattolica del matrimonio alla comunione eucaristica va presa in conformità alle norme generali esistenti in materia, tanto per i cristiani orientali quanto per gli altri cristiani, e tenendo conto di questa situazione particolare, che cioè ricevono il sacramento del matrimonio cristiano due cristiani battezzati» (EV 13/2442). «There is however one veiled reference to such a situation (of other grave necessity) that appears in the ED (Ecumenical Directory) in its treatment of mixed marriages […] the particular situation of the reception of the sacrament of Christian marriage by two baptized Christians […] may perhaps be interpreted to mean that the very occasion of two Christians both receiving the sacrament of matrimony […] may somehow create the grave necessity for them to receive together the sacrament of Eucharist as well». J.J. CONN, «Juridical Themes in the Eucharistic Documents» (cf. nt. 58), 393-394. Cf. J.M. HUELS, More disputed questions in the liturgy, Chicago 1996, 120; M. WIJLENS, Sharing the Eucharist (cf. nt. 10), 349 e S. DEMEL, «Gemeinsam zum Tisch des Herrn?» (cf. nt. 37), 671. Niente impedisce i Vescovi, Eparchi, Conferenze dei Vescovi, Sinodi patriarcali e Consigli dei Gerarchi a qualificare nelle loro norme particolari la celebrazione di un matrimonio misto come una tale altra grave necessità che urge. Come per esempio nelle norme One Bread One Body dei Vescovi dell’Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del nord: «The Directory also envisages that a grave and pressing need may be experienced in some mixed marriages». CATHOLIC BISHOPS’ CONFERENCES OF ENGLAND AND WALES, IRELAND AND SCOTLAND, One Bread One Body (cf. nt. 42), n° 110.
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anche durante la vita matrimoniale, la c.i.s. eucaristica anche se eccezionale, non viene esclusa dal Direttorio per il fatto del doppio legame sacramentale degli sposi nel matrimonio e nel battesimo (LRU 160)64. Anche se il Direttorio ribadisce la disciplina generale e non cita esempi di situazioni concrete (p.es. prima comunione, cresima di uno dei figli, giubileo di matrimonio, funerale di un coniuge), questo aspetto costituisce comunque una discreta apertura per una c.i.s. anche reiterabile dopo la celebrazione matrimoniale, a condizione che gli sposi vivano in modo autentico la loro fede cristiana (cf. LRU 145) e che la c.i.s. si limiti agli eventi importanti della vita di coppia o della famiglia65. Il fondamento di questa apertura non risiede nella valutazione della sofferenza della coppia che viene separata al momento della comunione eucaristica, ma nella valutazione ecclesiologica del matrimonio (e quindi anche del matrimonio misto fra due battezzati) come chiesa domestica che trova il suo nutrimento e la sua forza nel sacramento eucaristico66. In
64
LRU 160: «Sebbene gli sposi di un matrimonio misto abbiano in comune i sacramenti del battesimo e del matrimonio, la condivisione dell’eucaristia non può essere che eccezionale e, in ogni caso, vanno osservate le disposizioni indicate qui sopra, riguardanti l’ammissione di un cristiano non cattolico alla comunione eucaristica, e così pure quelle concernenti la partecipazione di un cattolico alla comunione eucaristica in un’altra Chiesa» (EV 13/2443). 65 Cf. J.Cl. PÉRISSET, «Le implicazioni ecumeniche del Diritto canonico e le implicazioni canoniche dell’ecumenismo», Periodica 88 (1999) 85. 66 Questa valutazione viene già fatta dal Concilio Vaticano II, cf. LG 11: «In hac velut Ecclesia domestica [...]» e AA 11:
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questo contesto può sorgere per un coniuge un «serio bisogno spirituale del nutrimento dell’eucaristia» (Istruzione In quibus rerum circumstantiis, n° 4b) per costruire la loro coppia, la loro famiglia come chiesa domestica67. 5. La normativa particolare Uno studio della normativa universale sulla c.i.s. sarebbe, però, incompleto e troppo astratto senza un riferimento alla normativa particolare. Essa concretizza, nell’ambito dei cann. 844/CIC §5 e 671/CCEO
«Haec famiglia [...] tamquam domesticum sanctuarium Ecclesiae». L’Esortazione Familiaris Consortio del 1981 continua in questa direzione: cf. n° 55: “il santuario domestico della Chiesa”, n° 65 “Chiesa domestica” e soprattutto nel n° 57: «Il compito di santificazione della famiglia cristiana ha la sua prima radice nel battesimo e la sua massima espressione nell’eucaristia, alla quale è intimamente legato il matrimonio cristiano [...] L’eucaristia è la fonte stessa del matrimonio cristiano [...] E in questo sacrificio (eucaristico) [...] che i coniugi cristiani trovano la radice dalla quale scaturisce, è interiormente plasmata e continuamente vivificata la loro alleanza coniugale. In quanto rappresentazione del sacrificio d’amore di Cristo per la Chiesa, l’eucaristia è sorgente di carità. E nel dono eucaristico della carità la famiglia cristiana trova il fondamento e l’anima della sua comunione e della sua missione: il pane eucaristico fa dei diversi membri della comunità familiare un unico corpo, rivelazione e partecipazione della più ampia unità della Chiesa [...]». 67 Per un dibattito interessante su questo approccio della c.i.s. nel contesto dei matrimoni, coppie, famiglie misti, cf. G. HINTZEN, «Gratia procuranda quandoque commendat. Überlegungen zur Zulassung evangelischer Partner konfessionsverschiedener Ehen zur katholischen Eucharistie», Catholica 41 (1987) 270-286; P. NEUNER, Geeint im Leben, getrennt im
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§5, la normativa universale alla luce delle sfide pastorali e ecumeniche in un contesto locale, nazionale o regionale68. Le sfide non mancano, sia per gli abusi nell’ambito della c.i.s. eucaristica, sia per le domande di un’ospitalità eucaristica reciproca, sia nell’insistenza, sempre più forte, da parte di coppie e famiglie miste per comunicare insieme alla Tavola del Signore. Questa normativa particolare – che non comprende soltanto delle norme giuridiche vincolanti – si può classificare in due gruppi. Il primo gruppo di norme riprende semplicemente la normativa canonica o i principi dottrinali. Queste sono essenzialmente delle norme rivestite della recognitio della Santa Sede secondo il can. 455/CIC §269.
Bekenntnis. Die konfessionsverschiedene Ehe, Düsseldorf 1989; P. NEUNER, «Ein katholischer Vorschlag zur Eucharistiegemeinschaft» (cf. nt. 60), 443-450. G. HINTZEN – P. NEUNER, «Eucharistiegemeinschaft für konfessionsverschiedene Ehen?», Stimmen der Zeit 211 (1993) 831-840. 68 Nella tesi di G. Ruyssen, pubblicata dalla Cerf a Parigi sotto il titolo Eucharistie et Oecumenisme, viene analizzata nel contesto della Chiesa latina una decina di norme particolari che concretizzano la normativa universale sulla c.i.s. 69 Come per esempio CONFERENZA EPISCOPALE DI MESSICO, «Normas complementarias conformes al Nuevo Código de Derecho canónico, Recognitio, del 06/08/1985», in J.T. MARTÍN DE AGAR (ed.), Legislazione delle Conferenze Episcopali complementare al CIC, Milano 1990, 461-462: «Además del caso de peligro de muerte se podrán administrar lícitamente los Sacramentos de que hable el §3 (Penitencia, Eucaristía y Unción de los Enfermos) a los cristianos que no estén en plena comunión con la Iglesia Católica, en las cárceles y hospitales, cuando sus ministros no se presenten a dar servicio en el termino de tres meses y a petición espontánea de los interesados. Con los mismos criterios también se podrá atender a los perseguidos y refugiados o a quienes manifiesten un deseo vehemente y legitimo de recibirlos».
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Il secondo gruppo comporta delle norme particolari che, pur basandosi sui principi dottrinali e normative universali, si impegnano in una ricerca creativa per interpretare ed esaurire il margine della normativa universale. Va comunque precisato che alcune norme vanno al di là di questo margine, come ad esempio il primo Directory sud-africano del CONFERENZA EPISCOPALE DELLA REPUBBLICA NICANA , «Normas complementarias conformes al
DOMINuevo Código de Derecho canónico, Recognitio, il 06/08/1985 ed il 27/02/1987», in J.T. MARTÍN DE AGAR (ed.), Legislazione delle Conferenze Episcopali complementare al CIC, 589-590: «Los ministros católicos podrán en caso de peligro de muerte, urgencia de conciencia o dificultad grave con los ministros de su Iglesia, administrar lícitamente los sacramentos de la penitencia, Eucaristía y unción de los enfermos a otros cristianos que no estén en plena comunión con la Iglesia Católica siempre que lo piden espontáneamente; estén dispuestos; profesen la fe católica respecto a esos sacramentos; no puedan acudir a su propio ministro; y su competente autoridad, por lo menos local, no se oponga a ello. En caso de que hubiere peligro de escándalo en la comunidad católica, se hará en la primera ocasión la conveniente catequesis sobre este punto. Se habrá de tener muy en cuenta la diferencia que existe respecto a los sacramentos entre los miembros de las Iglesias Orientales que no tienen plena comunión con la Iglesia Católica y los demás cristianos que tampoco tienen esa plena comunión con ella». CONFERENZA EPISCOPALE DELLA SCANDINAVIA, «Beschluss der Nordischen Bischofskonferenz, Recognitio, il 05/03/1984, il 05/10/1985, il 23/10/1985 e il 12/12/1985», in J.T. MARTÍN DE AGAR (ed.), Legislazione delle Conferenze Episcopali complementare al CIC, 618-619: «a) Die NBK (Nordischen Bischofskonferenz) erlässt keine normae generales im Sinne von Can. 844 §4 und 5, weil die Bedingungen von §5 von der NBK nicht zu erfüllen sind. b) Es bleibt jedem Ortsordinarius überlassen, nach Bedarf Richtlinien für seinen Sprengel zu erlassen; er unterbreitet diese im Voraus den Mitgliedern der NBK zur Kenntnisnahme».
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1998, le varie norme diocesane in Australia, o le norme Blessed and Broken dell’Arcidiocesi di Brisbane del 199570. Queste norme sulla c.i.s. si presentano come delle direttive o delle orientazioni pastorali e non sono giuridicamente vincolanti, non hanno nemmeno la recognitio dalla Santa Sede. Alcune sono più generali (cf. le norme Guidelines degli Stati Uniti)71, altre più contestualizzate (cf. le norme Zur
LXXXVI ASAMBLEA PLENARIA DE LA CONFERENCIA EPISCOPAL ESPAÑOLA, «Servicios pastorales a orientales no católicos. Orientaciones del 27-31 de marzo de 2006», Relaciones interconfesionales 30 (2006) 37-42: «Cuando los orientales no católicos acudan, por falta de ministro propio, a los celebraciones de Iglesia católica, el ministro católico administra lícitamente los sacramentos de la Penitencia, Eucaristía y Unción de enfermos a estos fieles de las Iglesias orientales que no están en plena comunión con la Iglesia católica según las prescripciones canónicas. En igualdad de condiciones, se desea que estos fieles acudan preferentemente a los ministros católicos orientales y no a los latinos, ya que poseen el mismo patrimonio litúrgico […] Está prohibido a los sacerdotes concelebrar la Eucaristía con sacerdotes o ministros no católicos […] El Obispo diocesano puede permitir que el matrimonio mixto se celebre junto con la Eucaristía, y que ambos esposos puedan recibirla, ya que las Iglesias orientales no católicas tienen verdaderos sacramentos». 70 BISHOPS OF SOUTHERN AFRICA, «Directory on Ecumenism for Southern Africa», Origins 27 (1997-1998) 606-610. J. BATHERSBY ARCIVESCOVO DI BRISBANE, «Blessed and Broken. Pastoral Guidelines for Eucharistic Hospitality – Easter 1995», http://www.interchurchfamilies.org/journal/brisbane.shtm. 71 UNITED STATES CONFERENCE OF CATHOLIC BISHOPS, «Guidelines for the Reception of Communion (14 November 1996)», Origins 26 (1996-1997) 414.
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Frage in Germania)72, altre molto pastorali (cf. le norme Blessed and Broken in Australia)73, alcune più dottrinali (cf. le norme One Bread One Body dei Vescovi di Inghilterra e di Galles, di Scozia e dell’Irlanda del nord)74, o più liberali (cf. il Revised Directory sud-africano)75, altre ancora più prudenti (cf. le norme francesi o svizzere)76, più brevi (cf. le norme Policy in Canada)77, oppure più dettagliate (cf. le norme One Bread One Body). L’attenzione di questa normativa particolare è indirizzata non tanto alla condivisione eucaristica con fedeli delle Chiese orientali separate o le Chiese
72 ÖKUMENE-KOMMISSION DER DEUTSCHEN BISCHOFSKONFERENZ, «Schreiben der Ökumene-Kommission der Deut-
schen Bischofskonferenz an die Arbeitsgemeinschaft christlicher Kirchen in Nürnberg. Zur Frage der eucharistischen Gastfreundschaft bei konfessionsverschiedenen Ehen und Familien (11 Februar 1997)», Una Sancta 52 (1997) 85-88. 73 Cf. nt. 70. 74 Cf. nt. 42. 75 BISHOPS OF SOUTHERN AFRICA, «Revised Directory on Ecumenism for Southern Africa», Origins 29 (1999-2000) 733-738. 76 COMMISSION ÉPISCOPALE POUR L’UNITÉ, «Note de la Commission épiscopale pour l’Unité aux prêtres et aux fidèles catholiques au sujet de “l’hospitalité eucharistique” avec les chrétiens des Eglises issues de la Réforme en France», Documentation Catholique 80 (1983) 368-369. EVÊQUES SUISSES, «Note des Evêques suisses: L’hospitalité eucharistique», Foyers Mixtes 74 (gennaio/marzo 1987) 30-32. 77 PERMANENT COUNCIL OF THE CANADIAN CONFERENCE OF CATHOLIC BISHOPS, «Policy on Cases of Serious Need in which the Sacraments of Penance, Eucharist and Anointing of the Sick may be administered to Anglicans and Baptized Protestant Christians (1999)», http://www.interchurch families.org/journal/2001jan08.shtm (22/01/2006).
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equiparate, ma piuttosto alla condivisione eucaristica con i cristiani che provengono dalle Comunità ecclesiali della Riforma. Tutte le norme si impegnano in modo particolare nell’ambito dei matrimoni e delle famiglie miste. Tendono a concentrare il doppio principio regolatore sul carattere eccezionale della c.i.s. e concordano sul principio che la piena comunione sacramentale presuppone la piena comunione ecclesiale. Nessuna norma particolare permette una comunione libera e aperta, o formula un invito generale a tutti gli altri cristiani a condividere senza nessuna restrizione la comunione eucaristica o giustifica una ospitalità eucaristica reciproca con i cristiani della Riforma78.
78
Al massimo si richiama alla coscienza del fedele cattolico che una tale partecipazione reciproca alla Cena protestante non corrisponde al legame tra eucaristia e comunione ecclesiale e va contro la disciplina cattolica. Le norme francesi del 1983 citano il Sinodo di Würzburg del 1969-1976: «Le Synode ne peut pas actuellement approuver la participation d’un catholique à la sainte Cène. Il ne peut être exclu qu’un catholique – suivant sa propre conscience – puisse trouver, dans la situation qui est la sienne, des raisons qui font apparaître sa participation à la sainte Cène comme spirituellement nécessaire. Il devrait alors penser qu’une telle participation ne correspond pas au lien entre eucharistie et communion ecclésiale, particulièrement pour ce qui concerne la compréhension du ministère. S’agissant de la décision qu’il sera amené à prendre, il ne devra pas mettre en péril son appartenance à sa propre Eglise et sa décision ne devra pas non plus équivaloir à un reniement de sa propre foi et de sa propre Eglise, pas plus qu’elle ne devra apparaître ainsi aux yeux d’autrui». COMMISSION ÉPISCOPALE POUR L’UNITÉ, Note de la Commission épiscopale pour l’Unité (cf. nt. 76). Per il testo tedesco di questo Sinodo di Würzburg, cf. GEMEINSAME SYNODE DER BISTÜMER IN DER BUNDESREPUBLIK DEUTSCHLAND, Beschlüsse der Vollversammlung.
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Nella valutazione dei casi in cui si è verificata grave necessità, questi vengono interpretati alla luce dell’apertura creata dalla nozione del «serio bisogno spirituale del nutrimento dell’eucaristia» (Istruzione In quibus rerum circumstantiis, n° 4b). Vengono pertanto considerate le situazioni di gioia o di sofferenza della vita di una persona o di una famiglia (battesimo, prima comunione, funerali), le feste (Natale, Pasqua...) o eventi importanti che possono essere utili a soddisfare questo bisogno spirituale (giubileo, ritiro spirituale, missione pastorale). Quindi si accerta una maggiore interiorizzazione o soggetivizzazione della nozione di “serio bisogno spirituale”. Questo viene soprattutto applicato alla situazione dei matrimoni misti (cf. LRU 160). Invece di fissarsi sulla sofferenza delle coppie miste si sviluppa una riflessione dottrinale sulla base del doppio legame sacramentale (battesimo e matrimonio) come fondamento della c.i.s. eucaristica (p.es. le norme Zur Frage, Revised Directory sud-africano si ispirano direttamente alla nozione di Chiesa domestica dell’Esortazione apostolica Familiaris Consortio). Un altro dibattito verte sul sapere se la c.i.s., che rimane sempre eccezionale (cf. LRU 160), si limita a regolare occasioni uniche non reiterabili79 o può includere una c.i.s. eucaristica reite-
Offizielle Gesamtausgabe I, Freiburg im Breisgau – Basilea – Vienna 1976, 216. 79 Le cosidette “one off situations” delle norme One Bread One Body dei Vescovi inglesi, di Galles, di Scozia e dell’Irlanda del nord: «[...] an occasion which of its nature is unrepeatable, a one-off situation at a given moment which will not come again». CATHOLIC BISHOPS’ CONFERENCES OF
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rabile80, senza condurre a una c.i.s. sistematica o continua ogniqualvolta il coniuge non cattolico partecipa alla messa cattolica con la sua famiglia81. Sarebbe certamente opportuno, se il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani oppure una commissione inter-dicasteriale, dessero delle direttive più precise sulla c.i.s. nell’ambito delle
ENGLAND AND WALES, IRELAND AND SCOTLAND, One Bread One Body (cf. nt. 42), n° 109. 80 Esempi di questa posizione di una c.i.s. reiterabile, ma rimanendo pure sempre limitata a delle situazioni eccezionali sono: il Revised Directory sudafricano del 1999 e le norme Zur Frage in Germania del 1997 (cf. nt. 75 e 72). Alcune norme segnalano una lista di eventi speciali durante i quali una c.i.s. eucaristica viene concessa, per esempio: «An Anglican or Protestant party in a mixed marriage who has a serious spiritual need for the Eucharist may receive Communion on special occasions, such as principal anniversaries, funerals of family members, on Christmas and Easter if the family attends Mass together, and other occasions of ecclesial or familial significance». PERMANENT COUNCIL OF THE CANADIAN C ONFERENCE OF C ATHOLIC B ISHOPS , «Policy on Cases of Serious Need» (cf. nt. 77). Le norme liberali della diocesi canadese di Saskatoon del 2005 provvedono una lista estensiva di tali occasioni o situazioni speciali: ROMAN-CATHOLIC DIOCESE OF SASKATOON, «Pastoral Notes for Sacramental Sharing with other Christians in the RomanCatholic Diocese of Saskatoon, Saskatoon (Canada) 2005», http://www.saskatoonrcdiocese.com/documents/Pastoral Notes on Sacramental Sharing.pdf. 81 Le norme australiane Blessed and Broken di Brisbane del 1995 prevedono una c.i.s. continua per il coniuge non cattolico che può risentire un serio bisogno spirituale di ricevere l’eucaristia ogniqualvolta assiste con la sua famiglia alla messa cattolica: «A spouse in such a marriage, now commonly called an interchurch marriage, could well experience a serious spiritual need to receive Holy Communion each time he or she
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coppie/famiglie miste. Ci pare che una c.i.s. reiterabile, pur essendo eccezionale, rimane dentro i margini della normativa universale sulla c.i.s., mentre una pratica continua e abituale della c.i.s. (ad esempio ogni domenica) non avrebbe più niente di eccezionale e condurrebbe a sacrificare oltre misura il principio della significatio unitatis (cf. UR 8).
Conclusione Concludendo possiamo indicare alcuni punti per una riflessione futura. Anzitutto, qualunque sia la riflessione, si deve tener conto del doppio principio
accompanies the family to a Catholic Mass». J. BATHERSBY ARCIVESCOVO DI BRISBANE, Blessed and Broken (cf. nt. 70). «Such spouses who are experiencing a pressing need to receive communion, whenever accompanying the family to Mass can request admission to the Eucharist». ECUMENICAL COMMISSION OF THE DIOCESE OF ROCKHAMPTON, «Rockhampton Diocesan Guidelines for Eucharistic Sharing (May 1998)», http://www.interchurchfamilies.org/journal/2000jul04. shtm. Le norme Real yet imperfect della diocesi di MaitlandNewcastle, suffragante di Sydney del 2001: «Both may experience a real need to express their unity by receiving the Eucharist whenever they attend Mass together». M. MALONE VESCOVO DI MAITLAND-NEWCASTLE, «Real yet imperfect: Pastoral Guidelines for Sacramental Sharing (March 2001)», http://www.mn.catholic.org.au/about/policies/policies_real_yet _imperfect.htm. Si va chiaramente verso una pratica di c.i.s. che diventa abituale e non più eccezionale. Non si richiede un serio bisogno spirituale del nutrimento dell’eucaristia, ma un semplice bisogno (“real need”) giustifica l’ammissione alla comunione eucaristica.
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regolatore della c.i.s., come enunciato dal Decreto sull’ecumenismo UR. Si dovrà certamente approfondire le soluzioni pastorali precisando in modo più concreto altri casi di grave necessità che urgono e si relazionano con il “serio bisogno del nutrimento dell’eucaristia”. Pertanto, seguendo la posizione del Cardinale Lehmann nel suo discorso del 2000, ci si deve chiedere se le soluzioni individuali e casistiche bastano per rispondere alle domande sempre più urgenti della c.i.s.82. Inoltre rimane importante decentrare l’attenzione eccessivamente ancorata sulla partecipazione alla comunione eucaristica. Bisognerebbe invece mettere più in rilievo altri modi fruttuosi di partecipazione alla celebrazione dei sacramenti cattolici83.
82 Per esempio nella diocesi di Norimberga, più della metà dei matrimoni tra battezzati sono dei matrimoni misti, cf. ARBEITSGEMEINSCHAFT CHRISTLICHER KIRCHEN IN NÜRNBERG, Zur Frage der Eucharistischen Gastfreundschaft bei konfessionsverschiedenen Ehen und Familien: eine Problemanzeige, Norimberga 1996, 1. «Die Regelung bestimmter seelsorglicher Einzelsituationen setzt eine gültige Disziplin [...] voraus [...] In unserem Land, wo die grossen Konfessionen jeweils einen etwa gleich grossen Anteil an der Gesamtbevölkerung darstellen, ist eine solche kasuistische Einzelfall-Regelung nur sehr schwer realisierbar [...] Es scheint mir also Notwendig zu sein [...] ob diese Regelung, die grundsätzlich auf individuellen Heilshilfen hin orientiert ist, ein geeignetes Lösungsinstrument für unsere Situation mit ihren ganz anderen Strukturen darstellt». K. LEHMANN, Referat zur Eröffnung der Herbst-Vollversammlung der Deutschen Bischofskonferenz (cf. nt. 17). 83 La tradizione della Chiesa ha sempre messo in rilievo l’importanza della comunione spirituale. Questa tradizione viene ribadita dall’Enciclica Ecclesia de Eucharistia: «[…] è opportuno coltivare nell’animo il costante desiderio del sacramento eucaristico.
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Altri punti su cui riflettere in futuro sono: precisare il contenuto della fede eucaristica richiesta, includendo la necessità del sacerdozio ministeriale per la validità
È nata di qui la pratica della communione spirituale, felicemente invalsa da secoli nella Chiese e raccomandata da Santi maestri di vita spirituale» (EE 34). Soprattutto nei paesi anglosassoni esiste la pratica di chiedere la benedizione invece di ricevere la comunione eucaristica. «The invitation often given at Mass to those who may not receive sacramental communion – for example […] adults who are not Catholics – to receive a blessing at the moment of Communion emphasises that a deep spiritual communion is possible even when we do not share together the sacrament of the body and blood of Christ». «Reciprocal acceptance of blessings by Catholics and other Christians at each other’s Eucharistic celebrations is something which we encourage as a sign of the degree of unity we already share». CATHOLIC BISHOPS’ CONFERENCES OF ENGLAND AND WALES, IRELAND AND SCOTLAND, One Bread One Body (cf. nt. 42), nn° 43 e 84. «Blessing confirms the grace of unity received and is an expression of hope. It is an acknowledgement of what exists and an acknowledgement that in division we are called to a repentance that is full of hope. It is an expression of real but partial communion. It recognizes the partial communion in which the churches are». CATHOLIC BISHOPS’ CONFERENCE OF ENGLAND AND WALES, «Ecumenical Declaration of Welcome and Commitment from other Churches (March 2001)», http://www.catholic-ew.org.uk/ressource/EDW/index.htm (13/11/2005) 3. Nei riti orientali un non-cattolico potrà sempre prendere l’antidoron. Ambedue pratiche venivano riprese dall’Instrumentum laboris del Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia di ottobre 2005: «Lorsque des personnes non catholiques participent à une célébration eucharistique dans une église catholique, le célébrant les invite parfois à s’approcher de l’autel pour recevoir une bénédiction, et non la communion. Une pratique qui ressemble à la distribution de l’antidoron dans le rite byzantin. Dans ces occasions, la doctrine catholique à propos de la communion est présentée sans aucun compromis et observée». SYNODE DES EVÊQUES, «Instrumentum laboris de la XIème Assemblée Générale Ordinaire du Synode des Evêques, L’Eucharistie: source et sommet de
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del sacramento dell’eucaristia come elemento di fede (cf. EE 46); fare una riflessione ecclesiologica sulla situazione delle copie/famiglie miste come Chiesa domestica insieme alla valutazione del loro serio bisogno spirituale dell’eucaristia per edificare la famiglia come tale; valutare se, su base degli accordi conclusi in materia dell’eucaristia (p.es. gli accordi ARCIC con la Comunione anglicana), con certe Comunità non si è arrivati ad una fede conforme alla fede cattolica sull’eucaristia84. Un ulteriore passo sarebbe privilegiare il
la vie et de la mission de l’Eglise», http://www.vatican.va/roman_ curia/synod/documents/rc_synod_doc_20050707_instrl, n° 87. 84 Si potrebbe riferire ai famosi accordi ARCIC di Windsor (1971) – Salisbury (1979), cf. COMMISSIONE INTERNAZIONALE ANGLICANA – CATTOLICA ROMANA , «Dichiarazione concordata sulla dottrina eucaristica, Windsor settembre 1971», in Enchiridion Oecumenicum [=EO] I/16-28 e COMMISSIONE INTERNAZIONALE ANGLICANA – CATTOLICA ROMANA , «Chiarimento circa la Dichiarazione concordata sulla dottrina eucaristica, Salisbury gennaio 1979», in EO I/29-39. La Congregazione per la Dottrina della Fede sottolineava le deficienze anglicane in quanto riguarda la sostanza propria e integrale del mistero eucaristico, compreso nella sua dimensione di sacrificio propiziatorio e di presenza reale (includendo anche la riserva e l’adorazione eucaristica). Cf. CDF, Observations on the final report of ARCIC by the Congregation for the Doctrine of the Faith, AAS 74 (1982) 10651067. Questo fu ribadito nel CDF-PCUC, «Official response of the Roman Catholic Church to ARCIC I December 1991», One in Christ 28 (1992) 38-46; EO III/278-304. «The faith of the Catholic Church would be even more clearly reflected in the final report if the following points were to be explicitly affirmed: […] that the sacrifice of Christ is made present with all its effects, thus affirming the propitiatory nature of the eucharistic sacrifice […] On the question of the reservation of the Eucharist, the statement that there are those who find any kind of adoration of Christ in the reserved sacrament unac-
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criterio della validità dei sacramenti nella Chiesa separata, invece del criterio della validità dell’ordinazione del ministro non cattolico.
ceptable creates concern from the Roman Catholic point of view» (ibid., 43). Tenendo conto di queste osservazioni, i due co-presidenti di ARCIC hanno portato delle chiarificazioni al rapporto finale di ARCIC del 1982, che riguardano l’eucaristia, il ministero e l’ordinazione: «a) only a validly ordained priest, acting in the person of Christ, can be the minister offering sacramentally the redemptive sacrifice of Christ in the Eucharist; b) the institution of the sacrament of orders, which confers the priesthood […] comes from Christ. Orders are not a simple ecclesiastical institution; c) the character of priestly ordination implies a configuration to the priesthood of Christ; d) the apostolic succession in which the unbroken lines of Episcopal succession and apostolic teaching stand in causal relationship to each other». CO-PRESIDENTS OF ARCIC, «Clarifications of certain aspects of the agreed statement on Eucharist and Ministry, September 1993», One in Christ 30 (1994) 283-285. Queste chiarificazioni furono mandate in settembre 1993 al Cardinale Cassidy, Presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, che al suo turno rispondeva con una lettera del 11 marzo 1994. «On 4 September last, you sent me a document containing Clarifications of certain aspects of the Agreed Statements on Eucharist and Ministry […] This document has been examined by the appropriate dicasteries of the Holy See and I am now in the position to assure you that the said clarifications have indeed thrown new light on the questions concerning Eucharist and Ministry in the final Report of ARCIC-I for which further study had been requested […] The agreement reached on Eucharist and Ministry […] is thus greatly strengthened and no further study would seem to be required at this stage». E.I. CASSIDY, «Cardinal Cassidy’s Letter to the ARCIC co-chairmen», One in Christ 30 (1994) 286. Menzioniamo anche l’Accordo del “Groupe des Dombes” (Gruppo ecumenico di teologi in Francia) di settembre 1971 fra cattolici e protestanti sull’eucaristia. GROUPE DES DOMBES,
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Tutti questi punti possono nutrire un’ampia riflessione verso una possibile, anche se difficile, riedizione del Direttorio ecumenico del 1993, a 15 anni dalla sua pubblicazione; una ri-edizione in cui possano essere recepite le attuali sfide nel campo della c.i.s. GEORGES-HENRI RUYSSEN, S.J.
«Accord doctrinal entre catholiques et protestants sur l’Eucharistie de septembre 1971», Documentation Catholique 69 (1972) 334-337. Il paragrafo 39 menziona esplicitamente l’accesso alla comunione eucaristica su base di una fede manifestata secondo questo accordo: «Nous pensons que l’accès à la communion ne devrait pas être refusé pour une raison de foi eucharistique à des chrétiens d’une autre confession qui font leur la foi professée ci-dessus».
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ANNALES CANONICI Una recente rivista di diritto canonico dalla Polonia1 L’insegnamento e la scienza di diritto canonico hanno in Polonia una lunga e celebre tradizione, grazie anche al contributo dell’Università di Cracovia, conosciuta oggi come Università Jagellonica. È la più antica università polacca, fondata il 12 maggio 1364 dal re Casimiro il Grande (come Accademia di Cracovia) ed è quindi una delle più antiche università d’Europa e del mondo, la seconda più antica dell’Europa centrale, dopo l’Università di Praga. Già all’atto della fondazione, il diritto è stato in un certo senso privilegiato, visto che degli undici professori previsti, otto dovevano dirigere le cattedre di diritto: tre di diritto canonico e cinque di diritto romano. Con il passare del tempo, poi, con la decadenza e il successivo rinnovamento dell’Università, nel Quattrocento, è diminuito il numero delle cattedre di diritto romano ed è cresciuto quello delle cattedre di diritto canonico. In seguito, però, dalla seconda metà del Novecento circa, la Facoltà di Diritto è stata riorganizzata in base alle necessità dello Stato e il diritto
1
Annales Canonici, Czasopismo Instytutu Prawa Kanonicznego; ISSN 1895-0620; Papieska Akademia Teologiczna w Krakowie, Instytut Prawa Kanonicznego.
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canonico, con un orientamento piuttosto pastorale, viene insegnato nella Facoltà di Teologia2. Dopo la Seconda Guerra mondiale, nel 1954, il governo comunista ha rimosso la Facoltà di Teologia dall’Università Jagellonica, ma questo non ha interrotto la sua esistenza, né canonica né di fatto. Nel 1959 la Santa Sede ha emanato un decreto secondo il quale la Facoltà continua la sua esistenza e la sua attività sotto la guida dell’autorità ecclesiastica e secondo le leggi emanate dalla Santa Sede. Tale Facoltà è stata ulteriormente trasformata, nel 1981, in Pontificia Accademia Teologica, composta dalle facoltà di teologia, filosofia e storia della Chiesa. Infine, il 4 gennaio 1999, la Congregazione per l’Educazione Cattolica ha eretto presso la Facoltà di Teologia un Istituto di Diritto Canonico, il quale, sulla base delle facoltà concesse all’atto dell’erezione, ha diritto di concedere il grado accademico della licenza. Sin dall’inizio, l’Istituto di Cracovia ha condotto non soltanto l’attività didattica, ma anche quella scientifica, portando avanti l’intenzione di creare una speciale rivista scientifica, quale mezzo di comunicazione e condivisione dei risultati della ricerca svolta nell’ambito dell’Istituto, ma anche per creare legami più stretti con altri centri d’insegnamento e ricerca nel campo scientifico. Il primo numero di tale periodico, intitolato Annales Canonici3, è uscito nel 2005 e finora sono pubblicati altri
2 Cf. T. PAWLUK, Prawo kanoniczne wed¬ug Kodeksu Jana Paw¬a II, t. I, Zagadnienia wste˛pne i normy ogólne, Olsztyn 1985, 58-60. 3 Nei fascicoli finora pubblicati non si trovano le informazioni riguardanti il prezzo e l’abbonamento, ma credo che
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due numeri, con scadenza annuale. Il numero complessivo delle pagine annuali non viene precisato ed i tre fascicoli finora stampati contengono rispettivamente 222, 272 e 299 pagine. La rivista appare per ora come un annuario, ma la Redazione non preclude la possibilità di aumentare la frequenza, a seconda dello sviluppo della rivista e dei mezzi finanziari a disposizione. Secondo l’intenzione della Redazione (composta da Studiosi e Docenti dell’Istituto stesso)4, la rivista è aperta alla collaborazione con i canonisti, sia della Polonia sia dall’estero. Le lingue della rivista sono sei: polacco, inglese, spagnolo, italiano, tedesco e francese. Ogni articolo pubblicato contiene anche un sommario: in una delle lingue “straniere” se l’articolo è in polacco oppure in polacco se l’articolo è in una delle altre cinque lingue. Purtroppo, i lettori sprovvisti di conoscenza della lingua polacca, per ora possono trovare soltanto un contributo pubblicato in italiano, intitolato «Come celebrare oggi il sinodo diocesano?» (2/2006, 67-80). Trovano poi l’indice del contenuto soltanto in polacco (per essere precisi, l’indice riporta i titoli originali dei singoli articoli ecc., quindi anche il titolo dell’unico articolo in italiano non è stato tradotto). Visto che ogni articolo è provvisto ormai di un rispettivo abstract in lingua queste siano facilmente reperibili presso la Redazione: ul. Franciszkan´ska 1, 31-004 Kraków, Polonia; tel./fax (+48) 12422-60-64; e-mail: annales@pat.krakow.pl. 4 Nel Consiglio Scientifico della rivista, però, troviamo i nomi dei Professori sia dell’Istituto stesso, sia delle altre Facoltà di Diritto Canonico in Polonia, cioè di Lublino e di Varsavia.
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diversa dal testo principale, sarebbe auspicabile che nel futuro fosse inserito anche un altro indice – o in una delle cinque lingue “occidentali” (o in latino), oppure riportando semplicemente i titoli degli abstracts. Per quanto riguarda il profilo e la tematica dei singoli numeri, questi, in linea di principio, non vengono precisati da parte della Redazione, lasciando ai singoli autori la libertà di scegliere l’argomento da presentare nella rivista. Oltre agli articoli è prevista la pubblicazione delle recensioni e dei comunicati degli eventi, soprattutto quelli connessi con l’attività legislativa nella Chiesa universale e in quella particolare, ma anche notizie ed informazioni riguardanti gli esiti rilevanti nella scienza del diritto canonico. Infatti, nei tre numeri degli Annales finora stampati, troviamo un abbondante numero di articoli sui temi di vasta gamma, ma anche le recensioni dei libri e le relazioni sia circa gli eventi scientifici dell’Istituto di Diritto di Cracovia, sia sui vari Convegni canonistici in Polonia. Due volumi della rivista sono in parte tematici: uno contiene gli atti del Convegno «La sollecitudine del Legislatore ecclesiastico riguardo la protezione dell’Eucaristia» (1/2005), e l’altro gli atti del Convegno «Diritto canonico e diritto statale – armonia o conflitto» (3/2007). Il primo Convegno si è svolto il 30 maggio 2005 a Cracovia e ha radunato sia i canonisti da diversi centri accademici in Polonia sia gli operatori di diritto da diversi tribunali ecclesiastici, curie diocesane e religiose, nonché studenti di diritto canonico e teologia. Le relazioni presentate da un Professore della Facoltà di Diritto Canonico di Lublino e dai Professori dell’Istituto di Cracovia
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si sono centrate sulla problematica della protezione dell’Eucaristia: nelle norme sulla communicatio in sacris; nel divieto di ammettere alla Sacra Comunione coloro che ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto; nel diritto penale canonico; nelle norme che riguardano il ministro della Sacra Comunione; ed infine nelle norme concernenti le offerte per la celebrazione della Santa Messa (cf. 1/2005, pp. 13-92). L’altro dei menzionati Convegni, svoltosi a Cracovia il 23 novembre 2006, si è concentrato sulla problematica delle relazioni tra diritto canonico e diritto civile. I relatori, provenienti da diverse Università ed Istituti in Polonia, hanno trattato, in particolare, i seguenti temi: la ricezione del diritto canonico nell’attuale diritto civile polacco; i doveri e i diritti giuridico-canonici dei chierici ed i loro rispettivi “diritti politici”; lo statuto legale della Commissione della Proprietà e le regolamentazioni delle rivendicative della proprietà della Chiesa alla luce del diritto dello Stato in Polonia; l’autonomia del potere giudiziario della Chiesa; ed infine il diritto del cittadino-cattolico al riposo domenicale (cf. 3/2007, pp. 5-87). I tre fascicoli finora pubblicati accolgono, inoltre, gli articoli il cui spettro d’interesse va dalla teoria di diritto canonico alla storia delle istituzioni, da vari argomenti di diritto canonico al diritto concordatario e problemi particolari riguardanti la Chiesa e le sue istituzioni nell’ambito del diritto civile Polacco. Ciascun articolo, come menzionato, è fornito di un breve riassunto (2-3 paragrafi) in una delle lingue ammesse dalla rivista. Quello che, poi, risulta essere un prezioso strumento per la diffusione e la cono-
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scenza degli Annales, è il fatto che questi riassunti sono pubblicamente accessibili sulla pagina Web della Rivista5. Viste le alte visioni della nuova Rivista e la loro promettente e puntuale attuazione nei primi numeri, ci congratuliamo con l’Istituto di Diritto Canonico di Cracovia quale promotore ed editore del periodico ed auguriamo alla Redazione ed ai Collaboratori un fruttuoso e duraturo successo, degno della lunga e celebre tradizione di diritto in Polonia in genere ed a Cracovia in particolare. JANUSZ KOWAL, S.J.
5 Per ora, la Rivista ha la propria pagina Web soltanto in lingua polacca, tra le pagine della Pontificia Accademia Teologica di Cracovia, sotto il seguente indirizzo: http://www.pat.krakow.pl/ –> Wydawnictwa –> Annales Canonici (oppure: http://www.pat.krakow.pl/dzialy.php?id=annales).
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Imprimi potest: Romae, die 6 marzo 2008 R.P. GIANFRANCO GHIRLANDA, S.J., Rector Universitatis Imprimatur: Dal Vicariato di Roma, 3 aprile 2008 Mons. MAURO PARMEGGIANI Prelato Segretario Generale Direttore responsabile: SERGIO BASTIANEL, S.J. Redactio: JAMES J. CONN, S.J., Direct. - ROBERT GEISINGER, S.J., DAMIÁN G. ASTIGUETA, S.J. Autorizzazione Tribunale di Roma N. 841 del 12 Aprile 1949 Associato all’Unione Stampa Periodica Italiana Finito di stampare nel mese di aprile 2008 Tipografia “Giovanni Olivieri” Via dell’Archetto, 10 - 00187 Roma
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INDEX FASCICULI
LUIGI SABBARESE, La questione dell’autorità e le nuove forme di vita consacrata. Parte prima ................................................... 223-249 YUJI SUGAWARA, Amministrazione e alienazione dei beni temporali degli Istituti religiosi nel Codice (can. 638) ........................... 251-282 JUAN MIGUEL ANAYA TORRES, La dimissione dei religiosi. Un percorso storico che mostra l’interesse pastorale della Chiesa................. 283-324 GEORGES -H ENRI RUYSSEN , Eucaristia ed ecumenismo. Evoluzione della normativa universale e confronto con alcune norme particolari ..................................................... 325-378 JANUSZ KOWAL, Annales Canonici. Una recente rivista di diritto canonico dalla Polonia....... 379-384
Pubblicazioni periodiche dell’Editrice Pontificia Università Gregoriana
ARCHIVUM HISTORIAE PONTIFICIAE rivista annuale di Storia Ecclesiastica abbonamento vol. 45/2007: US $ 120.00 – € 80,00
GREGORIANUM rivista trimestrale di Teologia e Filosofia abbonamento 2008: US $ 90.00 – € 60,00
PERIODICA DE RE CANONICA rivista trimestrale di Diritto Canonico abbonamento 2008: US $ 90.00 – € 60,00
Amministrazione: Piazza della Pilotta 35 – 00187 Roma Tel. 066781567 – Fax 066780588 – ccp 34903005 E-mail: periodicals@biblicum.com
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REDACTIO JAMES J. CONN, S.J., Director DAMIÁN G. ASTIGUETA, S.J., ROBERT GEISINGER, S.J. Pontificia Università Gregoriana Piazza della Pilotta 4 – 00187 Roma – Italia
ADMINISTRATIO
PERIODICA
Director: PETER BROOK, S.J.
PRETIUM AB ANNO 2008 Pretium annuae subnotationis: Fasciculus vertentis anni: Volumen praeterium: Fasciculus praeteritus
US $ 90.00 24.00 96.00 24.00
Euro 60,00 17,00 68,00 17,00
VOL. IIIC – fasc. 2
97 2
periodicals@biblicum.com
2008