Raffaella Carrà di Roberta Maresci - anteprima

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Roberta Maresci

RAFFAELLA CARRÀ

GREMESE


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A Massimo e Claudio: da quando siete arrivati, la mia vita è un libro straordinario scritto a sei mani. Non vedo l’ora di voltare pagina e condividerne i capitoli: vi amo con tutto il cuore, figli miei.

Copertina: Patrizia Marrocco Fotografie: © effedia Stampa: Grafiche del Liri s.r.l. – Isola del Liri (FR) Copyright: 2013 © GREMESE New Books s.r.l. – Roma www.gremese.com Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-794-8


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A come ARTISTA: «Credo di essere una grande artigiana, ma non faccio la prima della classe». Da ragazza forte di coscia a donna sola al comando del video. La storia di Raffaella Carrà è quella di un mito, di un fenomeno con oltre 60 anni di carriera. Madre di tutte le Simona Ventura, l’Italia l’ha consacrata sua Regina Televisiva, anche se ha mosso i primi passi nel cinema. Ha saputo donare la sua bellezza e la sua leggerezza all’arte, in maniera totale. Sognava di fare la coreografa come Maurice Béjart. Voleva essere una creatrice, più che un’esecutrice. Da bimba giocava con i bottoni sul tappeto persiano della mamma, immaginando che fossero ballerine e ascoltando “Una notte sul Monte Calvo” di Mussorgskij. Invece è diventata una “Garibaldi in minigonna” e, come soubrette dei due mondi, a furia di studi e costanza, è stata perfino capace di far ricredere il critico televisivo Sergio Saviane che, al tempo dei suoi fasti, la definì una «coscia egoista», arrivando nelle sue pagelle a darle 7 ed etichettandola come «la Madonna Pellegrina», in attesa di promuoverla a «Madonna», quando fosse stata in grado di «fare 5


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il grande miracolo di guarire i socialisti dalla malattia cronica del peculato». Un passaggio per lui ritenuto naturale dopo l’aver «guarito con i miracoli e i colpi di natica, tante giovanette dai brufoli e tanti pensionati dalla sciatica». Ma Raffaella non diede importanza ai giudizi di quel giornalista, che si ritrovò a collezionare (per altre descrizioni poco gradite) una settantina di querele piovute da Gustavo Selva, Maria Giovanna Elmi, Pippo Baudo, Irene Pivetti e Renzo Arbore (tra gli altri). Molte, ma mai da parte di Raffaella Maria Roberta Pelloni, come risulta all’anagrafe la signora Carrà. «Mi storpiavano sempre il cognome. Allora l’autore televisivo Dante Guardamagna mi suggerì di associare il nome Raffaella, che ricorda il pittore Raffaello, al cognome di un pittore moderno come Carlo Carrà. Inizialmente gli dissi che non mi piaceva. Però ora tutti mi chiamano la Carrà, con quel bell’accento sulla “a”. Anche se comunque non ho trovato pace lo stesso: all’estero al nome tolgono una elle, battezzandomi Raffaela e, quando l’accento sparisce, divento Carra». Parola della geniale signora dell’erotismo attenuato, della femminilità a misura di famiglia, arrivata alla nuova identità nel corso degli anni ’60, «per semplificare le cose», riferisce, visto che Pelloni lo deformavano sempre in Palloni o Belloni. Eppure il suo nome di famiglia non era proprio nuovo agli italiani. Si era appena fatta l’Italia e, per arrestare “il Passatore” (detto anche Stuvané o Malandri), la Legazione di Ravenna aveva provveduto a diffondere in tutta la Romagna i suoi connotati. Di lui si sapeva che si chiamava Stefano Pelloni e che era fi6


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glio di Girolamo, il custode del fiume Lamone. Domiciliato in Boncellino di Bagnocavallo (Forlì), era l’ultimo di dieci figli. Ufficialmente faceva il bracciante, ma la gente lo conosceva come brigante di quella Romagna che, sin dalla morte di Cesare Borgia (1507), era tornata stabilmente sotto il dominio diretto dello Stato Pontificio: uno dei più arretrati e reazionari della penisola. Capace di circondarsi anche di una fama positiva alla Robin Hood, il Passatore rapinò persino la famiglia di Pellegrino Artusi, padre della cucina italiana. Le sue imprese ispirarono Giovanni Pascoli, che ne idealizzò la figura evocandolo come “il Passator Cortese”. Ebbene, alcuni sostengono che il Pelloni sia un antenato di Raffaella. Ma questa storia non c’entra nulla con la scelta del suo nome d’arte. Tutti d’accordo sul fatto che chiamarsi signor Rossi o signor Bianchi non aiuti certo a distinguersi, ma scegliere un nome “vincente” non è poi così facile. Bisogna seguire, comunque, poche e chiare regole: semplicità, sintesi e, cosa molto importante, dev’essere facile da ricordare. Lo sa Anna Falchi, che all’anagrafe è Anna Kristiina Palomäki, nome che i suoi fan avrebbero forse memorizzato non senza qualche difficoltà. Lo sa anche Jennifer Aniston, che ha deciso di dare un taglio al suo vero cognome Anistonapoulos, decisamente un po’ troppo lungo per una ragazza desiderosa di fare carriera nel mondo del cinema. E lo sanno Jovanotti (Lorenzo Cherubini), Zucchero (Adelmo Fornaciari) o il dj Linus (nientemeno che Pasquale Di Molfetta). Una cosa però è certa: Raffaella non ha cambiato il proprio cognome per agevolar7


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si l’ingresso nel mondo dello spettacolo o prendere le distanze da possibili avi “scomodi”. Per lei è stata semplicemente una scelta obbligata dai continui refusi che, a lungo andare, avrebbero potuto creare confusione intorno al suo personaggio già lanciato verso il successo. Raffaella nasce il 18 giugno del 1943; qualche tempo fa c’è stato chi voleva attribuirle ben dieci anni in più di quanti ne abbia davvero. Ma chi è davvero Raffaella? Un aiuto per sapere chi nasconde dietro lo specchio ce lo offre l’astrologia. «Raffaella è Gemelli ascendente Scorpione con una solidissima Luna nel Capricorno, indice di longevità anche professionale. È intelligente, ha l’arte nelle sue corde anche se è “alla Gemelli”, cioè tendenzialmente dispersiva, senza una collocazione precisa. Però è una che “comunica”, ha intuito sufficiente per capire gli stati d’animo altrui, per entrare in sintonia con il pubblico. Ha un bel polso, è combattiva, diffidente, autosufficiente in amore e nel lavoro, questo senza mancare di femminilità. Non si fida di nessuno, pensa sempre al peggio e si organizza di conseguenza. Ama i cambiamenti, ma è attaccata alle radici, eccola spostarsi tra reti e paesi, ma tornare sempre all’ovile, patria e Rai. È una donna in gamba che ha sviluppato armoniosamente anche la parte maschile per il lavoro, che ha usato la sottigliezza femminile per far credere di essere indifesa, se e quando questo le ha fatto comodo. Non è una fortunata in senso stretto, è una fortunata per essere nata com’è!», dice sul suo sito (www.arcobaleno.net) Antonia Bonomi, astrologa. 8


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E lei? «Credo di essere una grande artigiana, una professionista, ma non faccio la prima della classe. Però ho un dono: so comunicare con la gente comune. Esclusi i giornalisti». Eppure ne avrà incontrati a «Il Giorno», durante la collaborazione che le è valsa l’iscrizione all’albo come pubblicista. A prescindere, che sappia intervistare a dovere e sia capace di aprire il cuore della gente è davvero sotto gli occhi di tutti. Il pubblico, anche per questo, la vede come un’icona, capace com’è di coinvolgerlo fino alle lacrime. Perle di emozione versate a fiumi, come confermato da “Target”, un programma tv in onda su Canale 5, che nel 1996 fece un calcolo delle lacrime prodotte in “Carràmba! Che sorpresa” (Raiuno), un varietà che faceva incontrare inaspettatamente amici e parenti che non si vedevano da tempo: 625.416 litri, ossia 17 cisterne! Non a caso, le “carrambate” di Raffaella hanno caratterizzato gli anni ’90 della televisione italiana. Le puntate dell’edizione a cavallo tra il 1998 e il 1999 hanno fatto registrare picchi d’ascolto stratosferici, con milioni di telespettatori. E pensare che molti anni prima, nei ’70, dal tubo catodico traspariva una televisione molto diversa, popolata di acque chete e gatte morte, capaci quel poco o quel tanto di incarnare un po’ grossolanamente una sensualità che la Carrà ha invece sempre mostrato con garbo, anche quando ha cambiato genere, esibendo tra l’altro una capacità artistica fuori dal comune. «In gioventù malizia, con gli anni pudicizia», dice un proverbio. Ma lei è brava. Accidenti se è brava. Lo è sempre stata. Sin da quando, da piccola, ha lasciato la Romagna e la 9


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mamma (suo padre aveva abbandonato presto la famiglia, quando lei aveva due anni appena e il fratello pochi mesi), per andare a vivere con una maestra di ballo. Raffaella frequentava ancora la scuola elementare quando fu affidata appunto a Jia Ruskaja, insegnante di danza fuggita dalla Russia di Stalin dopo la Seconda guerra mondiale, perché ricercata dalla polizia segreta del presidente sovietico. Non se ne sanno bene i motivi. Come non si sanno altre cose nella vita della soubrette. Prima fra tutte, addirittura dove abbia emesso il primo vagito: «Dicono che sono nata a Bellaria Igea Marina, ma non è vero. Mia madre era di Bellaria. Aveva un bar. La mia famiglia era molto benestante, quindi è inutile che io racconti la favola della piccola Cenerentola che poi ha avuto successo perché non è stato così. Per me Bellaria era il luogo della libertà, del profumo delle piadine, della gente per cui sono sempre stata la “fiola della Iris”. Mentre Bologna è il luogo dove ho vissuto, il luogo delle fatiche, del dovere, di queste cose qua insomma. Io in televisione ci sono arrivata dopo un sacco di tempo. Prima sono passata dal cinema. E dalla danza. A otto anni sono andata via da Bologna, per frequentare l’Accademia Nazionale di Danza a Roma, all’Aventino. Sacrifici a non finire, esercizi interminabili, un’ossessione. Stavo sulle punte da quando avevo tre anni: da rovinarsi i piedi. Poi a quattordici anni la Ruskaja mi disse che avevo le caviglie troppo piccole. E che avrei dovuto studiare fino a ventotto anni per fare la coreografa. Sono scappata via. Mia nonna amava l’arte, il violino, la musica, il teatro, lo spettacolo. Così 10


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feci l’esame per entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia. E frequentai il corso per diventare attrice. Ero di fatto diventata un’attrice. Ebbi una piccola parte ne La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini, nel 1960». Lo ha raccontato lei stessa più volte, anche se in realtà, un timido affaccio nel mondo dello spettacolo Raffaella l’aveva avuto prima, nel film Tormento del passato di Mario Bonnard dove – prese le prime lezioni di recitazione da Teresa Franchini – interpreta il personaggio infantile di Graziella. È la sua prima volta in un film. Appare nei titoli con il nome di battesimo insieme a Marc Lawrence, Carlo Romano, Carla Dal Poggio, Laura Gore, Renzo Borelli e Riccardo Garrone. Corre l’anno 1952. La pellicola di Bonnard – che ai tempi del muto fu un attore tanto in voga da recitare fino a quattro film in un mese (si dice che sia stato lui a ispirare Rodolfo Valentino e anche il “Gastone” di Petrolini) – rappresenta per la signora della tv come un lungo provino. E Bonnard, che era capace di vestire abiti da fantino, recitare in pigiama, in divisa militare e dare molti baci, gode già di una certa fama tra il pubblico. Tormento del passato è un drammone strappalacrime, perfetto per la gente del Belpaese. Con una trama semplice, ma di sicuro effetto: un gangster italiano latitante all’estero, tornato in patria per partecipare a un losco affare, scopre di avere una figlia di sei anni (Graziella) e vuole rimettersi con la donna che ha lasciato (Luisa). Raffaella, dopo aver interpretato Graziella, incarna Valeria ragazza poco seria, film del 1958 di Guido Malatesta, in cui affianca Maurizio Arena e Raffaele Pisu. Tra una pellicola e l’altra, la 11


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camaleontica soubrette nel frattempo inizia anche ad apparire su alcune copertine di 45 giri come ragazza immagine. Sempre consigliata dalla mamma e dalla nonna, che le fanno da impresarie, fa la comparsa in Europa di notte di Alessandro Blasetti (1958), dove canta anche Domenico Modugno. L’anno seguente il suo nome compare in Caterina Sforza la leonessa di Romagna, regia di Giorgio W. Chili. Nel ’60, dopo aver interpretato Maritza ne La furia dei barbari, regia di Guido Malatesta, è nel cast de Il peccato degli anni verdi di Leopoldo Trieste, con Alida Valli e Sergio Fantoni. Ma il vero debutto rimane quello con La lunga notte del ’43, un film drammatico che, presentato alla Mostra di Venezia, riceve il Premio Opera Prima e (nel 1961) regala a Enrico Maria Salerno il Nastro d’argento quale miglior attore non protagonista. La critica dell’epoca elogia le doti degli attori, in particolare di Belinda Lee. Di Vancini viene apprezzata la scelta di aver adattato il racconto di Giorgio Bassani, ispirato a un episodio reale. E colpisce l’impiego di un motivo allegro e di moda come “Il barattolo” di Gianni Meccia che, con un forte cambio di registro, nella parte conclusiva del film segna il balzo temporale al presente.

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