Il cinema di Bernardo Bertolucci

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Anton Giulio Mancino Piero Spila

Il cinema di

Bernardo Bertolucci


IL CINEMA DI

BERNARDO BERTOLUCCI

N.B. Fino a diversa indicazione (ossia fino all’attuale pagina 18 del capitolo IV) si può stampare in bianco e nero. Salvo che nel gioco dei sedicesimi “avanzi” la disponibilità di ulteriori pagne a colori: nel qual caso alcune immagini anche dei primi 4 capitoli potrebbero essere stampate a colori.


«CineAlbum» Monografie di cinema e spettacolo per la scuola e l’università Collana diretta da Enrico GiacovElli


Piero Spila

IL CINEMA DI

BERNARDO BERTOLUCCI A cura di Enrico GiacovElli


L’autore desidera esprimere la sua riconoscenza e il suo ringraziamento a Enrico Giacovelli, compagno appassionato e inarrivabile di un’avventura editoriale andata ben oltre la consueta dimensione professionale grazie all’ammirazione e all’affettuosa amicizia per una persona e un maestro indimenticabile come Bernardo Bertolucci. Un ringraziamento esteso all’editore Gianni Gremese, sempre vicino e paziente in tutte le fasi della lavorazione, anche lui legato da un’antica amicizia con Bernardo, nata addirittura sui banchi di scuola. Un grazie particolare a Nathalie Baldascini, insostituibile assistente personale di Bernardo Bertolucci, in particolare per le notizie e i rari materiali forniti. Infine un pensiero devoto a Clare Peploe, in ricordo dei bellissimi momenti vissuti con Bernardo sotto il segno della cinéphilie, mai considerata come un banale esercizio del sapere ma sempre come un sentimento capace di rendere più lieta e leggera la vita.

Copertina: Francesco Partesano In copertina: In alto a destra e in basso: fotogrammi da Novecento (1976). Al centro fotogramma da Il conformista (1970). Fonti iconografiche: La gran parte delle immagini è tratta da fotogrammi delle pellicole citate. Quanto alle altre foto, per quanto possibile l’Editore ha cercato di risalire al nome del loro autore così da darne la doverosa menzione, ma le ricerche si sono rivelate infruttuose. Nel chiedere dunque scusa per qualunque eventuale omissione, l’Editore si dichiara disposto sin d’ora a revisioni in sede di eventuali ristampe e al riconoscimento dei relativi diritti ai sensi dell’art. 70 della legge n. 633 del 1941 e successive modifiche. Stampa: FP Design, Pavona (Rm) 2020 © Gremese International s.r.l.s. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-6692-086-1


I fascisti non sono mica come i funghi che nascono così, in una notte. No, i fascisti sono stati i padroni a seminarli, li hanno voluti, li hanno pagati, e con i fascisti i padroni hanno guadagnato sempre di più, al punto che non sapevano più dove metterli i soldi. Così hanno inventato la guerra, ci hanno mandato in Africa, in Russia, in Grecia, in Albania, in Spagna. Ma chi paga siamo sempre noi, il proletariato, gli operai, i contadini, i poveri… [...] Compagni, la vittoria è come una sbronza. Quando hai bevuto dici le cose che hai nel cuore, le verità più nascoste, ma alla fine c’è sempre qualcuno che ti viene a mettere la testa sotto il rubinetto e ti viene a gridare: sveglia! sveglia!. [...] E va bene, domani ci diranno che è un’utopia, ma anche se i fatti vorranno farci credere che il padrone è vivo, non dobbiamo crederlo, perché noi, noi lo abbiamo visto, con i nostri occhi: il padrone è morto! (Gérard Depardieu: Novecento, 1976).



Introduzione Il cinema contemporaneo di Bertolucci e il sentimento della cinéphilie

Si diverte a dire di essere nato come Judy Garland in È nata una stella, «dentro un baule in un teatro di Parigi». In effetti Bernardo Bertolucci è un vero figlio d’arte perché suo padre, Attilio Bertolucci, poeta tra i più grandi del secolo scorso, amante di Proust, Conrad e Svevo, insegnava storia dell’arte in un liceo e ha fatto a lungo il critico cinematografico per la «Gazzetta di Parma» e altri giornali. La madre, Ninetta Giovanardi, insegnante di Lettere e studiosa di Catullo, nata a Sydney, figlia di un’irlandese e di un ingegnere emigrato in Australia alla fine dell’Ottocento per motivi politici, dopo il matrimonio con Attilio si era dedicata completamente alla famiglia accontentandosi di vivere all’ombra del marito. Bernardo nasce il 16 marzo del 1941 e cresce tra i boati della guerra e la biblioteca fornitissima del padre. È un bambino sensibile ed educato, che Attilio osserva con affetto e trepidazione descrivendolo nelle sue poesie con versi lungimiranti e precisi: «Bernardo, che pure / ha lingua sciolta, è di quelli / che attaccano discorso, tu lo sai. / Anche lui per timidezza… / è una timidezza la sua che passerà / come una malattia della prima infanzia / lasciando piccole cicatrici rosate». Cercando di imitare il padre, Bernardo inizia molto presto a scrivere poesie e lo farà per molti anni, anche con ottimi risultati. Poi, sempre grazie al padre, comincia a frequentare e amare il cinema. La casa di famiglia è a pochi chilometri da Parma, a Baccanelli, una frazione abbastanza isolata sull’Appennino e sulla strada che sale verso la Cisa, un luogo sospeso fra le colline e i boschi di castagni e le chiese e le torri di una città fra le più eleganti e colte d’Italia (la «Petite Capitale d’autrefois»). Andare al cinema per Bernardo ragazzo significa andare in città con il padre, e quando càpita le visite finiscono quasi sempre nel chiuso di una delle due sale cittadine, il Lux o l’Orfeo, dentro un buio particolare che da bambino non sa ancora definire ma che anni dopo comincerà ad avvicinare a «quello amniotico». Esperienze indimenticabili, perché i film a lui piacciono tutti, come anche le poesie, quando per gioco prova a mettere sul foglio delle parole e quelle, quasi fossero immagini, lentamente, magicamente, prendono una forma. Quindi, sin dai primi anni, la poesia e il cinema sono per lui una presenza costante, un connubio naturale frequentato con piacere e disinvoltura. Bernardo confessa nelle interviste che la sua grande fortuna è stata di poter interagire sin

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Il cinema di Bernardo Bertolucci dai primi anni con una cultura solida e radicata nella vita di tutti i giorni. Suo padre è un maestro disponibile e carismatico, capace di parlare di tutto senza mai apparire teorico. Se gli legge una poesia in cui la madre viene paragonata alla rosa bianca in fondo al giardino «visitata dalle ultime api», Bernardo può fare una piccola corsa e accorgersi che la rosa bianca è esattamente come descritta sulla pagina. E se il padre gli spiega che la facciata della stalla, costruita all’inizio del secolo, ha una chiara derivazione con lo stile romanico che sta studiando su un libro, quando va sulla piazza del Duomo, a Parma, si convince che quell’edificio maestoso ha davvero qualcosa di familiare. Una cultura antica e dalle radici profonde, da cui però già sa, inconsciamente, che deve liberarsi appena possibile. Se ha scritto poesie per imitazione del padre, smette di scriverle per distaccarsi da lui, e lo fa in modo netto e definitivo non appena comincia a realizzare dei film. Questo accade molto precocemente, come tutte le cose della sua vita. A 21 anni vince il premio Viareggio opera prima per la poesia con il suo unico libro di versi, In cerca del mistero (Longanesi), ed esattamente negli stessi giorni viene presentato alla Mostra del Cinema di Venezia il suo film d’esordio da regista, La commare secca, girato dopo un breve apprendistato come aiutoregista sul set di Accattone di Pasolini. Forse è un po’ troppo per non suscitare invidie e malevolenze e infatti sia il libro sia il film ebbero un’accoglienza tutt’altro che serena da parte della critica. Non è giusto, c’è un po’ di delusione ma è comunque l’inizio di un viaggio che non si sarebbe più fermato. Per Bertolucci, in quel momento, 1962, il passaggio dalla poesia al cinema è uno sviluppo del tutto naturale, soltanto con il cinema gli sembra di poter dare corpo alle emozioni sfiorate con la poesia, di riuscire a prolungare e completare ciò che le parole riescono a definire solo in parte. Nella poesia – dice – ci sono «valori semantici» che nel cinema possono diventare «emozioni liriche», dunque è un campo di creatività che attrae e vale la pena frequentare. Nelle prime interviste torna spesso su questo punto come a voler precisare un’idea che lentamente sta prendendo forma. Riflettendo sul linguaggio del cinema dice che tutto parte dalle inquadrature, che sono da considerare come delle monadi e quindi degli oggetti autonomi, e che ogni inquadratura, concepita in un certo modo, è o può essere già un film, e che la relazione fra le inquadrature può anche essere indipendente dall’esigenza della storia da raccontare ma deve invece corrispondere a una musica interna che bisogna assolutamente seguire, un ritmo, un respiro. Al di là dell’aspetto creativo più volte indagato, nel passaggio al cinema ci sono probabilmente ragioni più intime e stringenti. D’altra parte, confessa, non è destino dei figli dei poeti tentare di visualizzare ciò che i padri hanno evocato con le parole? Più tardi, ovviamente, scoprirà che i film sono molto diversi dalla poesia, se non altro perché le sue poesie – come quelle paterne – sono soprattutto basate sul fluire del tempo e sulla presenza della memoria, sulla riconsiderazione mitizzata del passato, mentre i suoi film, in particolare i primi, sono abitati da un’inquietudine profonda alla ricerca di un altrove possibile, esperienze febbrili «utili a fargli abbandonare un’adolescenza fin troppo prolungata». In ogni caso l’impronta di partenza rimane presente a lungo e il cinema sarà concepito sempre come una straordinaria forma di scrittura poetica, immagini, movimento e luce. Lentezze e accelerazioni improvvise, panoramiche, controtempi, carrelli interminabili e movimenti aerei con il dolly. Dunque il

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Introduzione linguaggio cinematografico inteso già nella sua essenza più alta: un modo di esprimersi nuovo, scoperto, esplorato e messo alla prova con lo slancio del neofita e il gusto della sfida. Alla figura del padre poeta subentreranno poi altre presenze altrettanto importanti: Pier Paolo Pasolini (l’apprendistato del cinema), Jean-Luc Godard (il cinema come passione assoluta, la cinefilia), poi ci saranno il Sessantotto e la sua bella utopia, il marxismo, la psicoanalisi, l’Oriente e la scoperta del buddhismo, ma a contare sarà sempre soprattutto il cinema inteso come forma artistica e dimensione di vita, il modo migliore per esprimersi e raccontare tranches de vie e intermittenze del cuore, la condizione naturale per trovare ispirazione e mettere in pratica opportunità creative, esattamente come respirare o camminare. Poco più che ventenne, Bertolucci non ha bisogno di altro per vivere, anzi è così a suo agio con il cinema che sembra non aver mai fatto altro fino ad allora (come testimoniano Pasolini, il primo regista che lo vide al lavoro, e il suo primo produttore Tonino Cervi). Quindi è una sofferenza insopportabile quando, all’inizio della carriera, dopo l’insuccesso commerciale del suo film forse più personale, Prima della rivoluzione (dileggiato in patria, apprezzato all’estero), alcuni ostacoli e impedimenti produttivi lo costringeranno per qualche anno lontano dal set, a rimuginare progetti che non si realizzano e a sviluppare e ridefinire ossessivamente la sua idea di cinema. Poi, però, ancora una volta rapidamente, tutto si sblocca e nel giro di pochi anni arriveranno il successo e addirittura i trionfi, le grandi produzioni internazionali, le frequentazioni dello star system hollywoodiano, i viaggi per il mondo (Cina e Tibet, India e Africa), gli Oscar, la definitiva consacrazione mondiale, insomma tutte le tappe di una travolgente e straordinaria carriera cinematografica.

L’infinito presente del cinema Almeno all’inizio la poesia è per Bernardo Bertolucci un elemento fondante del suo modo di filmare: costruire le inquadrature come fossero versi e in questa operazione dare corpo e forma a ciò che da spettatore ama di più vedere nel cinema: l’elemento tempo (dilatazione, sovrapposizione, elisione) e la luce, ogni volta variabile eppure sempre riconoscibile, miracolosamente precisa. Lo spiega in termini teorici già nel 1968, in un articolo scritto per «L’Avant-scène du cinéma», che è già un progetto estetico: «Tutta la vita di Madame O-Haru, giovinezza, maturità, vecchiaia, in trecento metri di pellicola1; l’unità di tempo in Missione in Manciuria2 di Ford: un giorno o due, come nelle tragedie greche; […] e la luce, quella della Regola del gioco di Renoir che annuncia l’inizio della guerra, un’altra in Viaggio in Italia di Rossellini che annuncia L’avventura di Antonioni e con quella tutto il cinema moderno; e una luce di Fino all’ultimo respiro3 di Godard che annuncia gli anni Sessanta». Non si può capire il cinema di Bertolucci senza tenere conto del mondo a cui fa costante riferimento. Di fatto ogni suo film ha una luce che lo identifica e qualifica, spesso proveniente da mondi “altri” resi però complementari al suo cinema: la “luce carnale” di Ultimo tango a Parigi, La vita di O-Haru, donna galante (Saikaku ichidai onna, 1952, di Kenji Mizoguchi). Seven Women (1966). 3 À bout de souffle (1960). 1

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Il cinema di Bernardo Bertolucci rubata alle tele di Francis Bacon (citato con due ritratti nei titoli di testa); la “luce azzurra” di certe notti padane, ripresa dalle notti di Magritte, in Strategia del ragno; le linee déco che ripetono i raggi luminosi filtranti da una tenda, il bianco dei marmi dei palazzi dell’Eur e il ferro affumicato della Gare du Nord nel Conformista. Luci, dialoghi, sentimenti, malesseri che appartengono a un infinito presente, il “qui e ora” che è il tempo del cinema e, in assoluto, di tutti i film di Bertolucci, pur nella loro oggettiva diversità espressiva e produttiva: dalla storia collettiva alla cronaca familiare, dal respiro epico del kolossal al minimalismo del racconto quotidiano, dai canoni del romanzo ottocentesco (Novecento, L’ultimo imperatore) alla misura del teatro da camera (L’assedio, The Dreamers, Io e te), c’è sempre un legame, più o meno esplicito, con la grande memoria del cinema declinata e fatta rivivere nel presente. Non è mai semplice citazionismo però, semmai è una forma di artistic appropriation, cioè arricchimento e recupero di esperienze e conoscenze “altre” che contribuiscono a dare una struttura postmoderna, plurale e onnicomprensiva al discorso. Ne sono testimoni certi personaggi narrativamente e psicologicamente immotivati, utilizzati da Bertolucci come puro materiale espressivo e che improvvisamente irrompono nel corpus dei suoi film, intempestivi o spiazzanti, per imporre una parentesi (poetica e astratta) al racconto, per suggerire una possibile svolta oppure per segnalare malesseri e allarmi. È il caso di Puck (Cecrope Barilli), il malinconico aristocratico che ad un certo punto di Prima della rivoluzione celebra il suo addio al Po: «Bisogna dimenticarlo il fiume. Verranno qui con le macchine, con le loro draghe, ci saranno uomini diversi, e rumore di motori». Ed è il caso di Monsieur Guillaume (Jean Marais) in Io ballo da sola, quando annuncia che gli «uomini diversi» alla fine sono arrivati e li vediamo infatti innalzare sullo skyline delle colline senesi una gigantesca antenna televisiva. Il gruppo di bohèmiens ospiti della villa assiste scandalizzato e impotente a quello spettacolo mentre l’unico a compiere un gesto di ribellione è proprio Jean Marais, principe dei révenants e icona dei cinéphiles, che però brandisce solo una ridicola pompa dell’acqua. O, ancora, è il caso dell’ultima scena di Un tè nel deserto, quando inaspettatamente appare in scena, seduto in un caffè di Tangeri, Paul Bowles, l’autore del romanzo da cui è tratto il film, che accoglie Kit sperduta nella sua avventura e le confida che è solo l’inganno ad aiutare gli uomini a vivere. In questa “infinitudine”, che lega la vita alla sopravvivenza (già evocata in Prima della rivoluzione), c’è forse la magia che lega lo spettatore amante del cinema allo schermo, ma c’è anche l’elemento che percorre gran parte dei film di Bertolucci, dando loro anima e sostanza. È il miracolo del cinema che sa andare oltre il cinema, con le sue storie e i suoi luoghi che a loro volta diventano storie e luoghi “altri”, sospesi nel tempo, sconfinati. Da questo punto di vista i film di Bertolucci sono sempre figli del nostro tempo e quindi restano per sempre contemporanei, sia quando parlano del fascismo che nasce e muore nella pianura padana o dei furori del Sessantotto, dell’utopia di un possibile 25 aprile che non è stato (Novecento) o della cupezza degli anni di piombo che ha ferito un’intera generazione (La tragedia di un uomo ridicolo), sia quando vivono nel cuore della Cina, nel Nepal, nel deserto del Sahara, o in una villa lussuosa del Chiantishire (Io ballo da sola) come nello scantinato di un palazzo borghese di Roma (Io e te): sempre instaurano una linea diretta,

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Introduzione un’intesa quasi telepatica con quello spettatore ideale che «sognando desidera ancora sognare» e in questa onirica euforia prolunga desideri e a volte scopre verità sorprendenti. È in questo infinito presente che tutto si lega: il sogno effimero del giovane Pu Yi dell’Ultimo imperatore con la grande Utopia del socialismo messa in scena dai contadini di Novecento; Kit che nel Tè nel deserto insegue una difficile rinascita tra le dune del deserto, ma prima si toglie le scarpe con il gesto di Marlene Dietrich in Marocco, con il goffo musicista inglese, Kinski, che nell’Assedio consuma nella rinuncia e nell’autodistruzione la sua ossessione amorosa per la bella Shandurai. Un cinema onnicomprensivo e plurale in cui il Terzo Mondo pasoliniano convive con il futurismo urbanistico e tecnologico di Seattle (Piccolo Buddha), con una sapienza visiva che ha radici profonde e fertili, che parte dai miracoli dell’ottica e della meccanica inventati da Edison e Lumière per arrivare fino alle nuove meraviglie del 3D. Meglio rifugiarsi nel cinema, e infatti, in tutti i suoi film, Bertolucci sceglie di stare dalla parte di chi guarda la realtà attraverso il filtro della memoria cinematografica e insieme frequenta l’immaginario più estremo. Sempre di set e personaggi si tratta, ma sono luoghi, uomini e donne, storie, momenti, che in Bertolucci si rincorrono di film in film, prolungando, rivelando o intrecciando itinerari inattesi e proficui. In un’intervista di qualche anno fa Bertolucci, parlando della sua ingordigia bulimica di spettatore, ha confessato che per lui «i film sono tutti legati, nel bene e nel male» e che l’intera storia del cinema è «un lungo e unico film». Nel suo caso è una dichiarazione di poetica ma anche la messa in pratica di un’idea di cinema nata, insieme al suo esordio, negli anni Sessanta e con la cinéphilie: mischiare e vivere intensamente cinema, politica e privato.

I contadini sono poeti e i borghesi dei prosatori Da Prima della rivoluzione e Partner fino a The Dreamers e Io e te non c’è immagine di Bertolucci che non sia il frutto di un artificio espressivo, scenografico o luministico, che si accontenti di riproporre il vecchio equivoco della realtà così come è senza intervenire invece per trasformarla e sublimarla (un carrello complicato o un primo piano fisso che duri oltre misura, un taglio particolare dell’inquadratura, una quinta che renda più dinamico un fotogramma, un attacco di musica inatteso o viceversa un silenzio che sconcerta). Quello di Bertolucci è un cinema dell’oltranza, un’idea visiva del “tutto è possibile” e del “tutto ritorna”, dell’altrove e dell’impasse. Un cinema postmoderno, linguisticamente complesso, stratificato, che si mette continuamente alla prova, inventa o suggerisce analogie, insegue e realizza suggestioni azzardate, progetti all’apparenza quasi impossibili, come quando, sulla spinta del successo planetario ottenuto con Ultimo tango a Parigi, Bertolucci osa abbandonarsi al sentimento dell’onnipotenza produttiva e per Novecento costruisce un cast debordante e miliardario (che è anche un museo dedicato alla più pura passione cinefila, in cui far convivere star hollywoodiane come Burt Lancaster e Robert De Niro con dive del cinema muto come Francesca Bertini), per poi sfidare le regole e i dogmi delle Majors americane realizzando un racconto di ben oltre cinque ore che insegue lo scorrere delle stagioni e mette in scena, in un tripudio di bandiere rosse, un processo politico al capitale. Cinema cinefilo e tuttavia mai astratto o, peggio, banalmente autoreferenziale,

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Il cinema di Bernardo Bertolucci perché i film di Bertolucci sono sempre legati alla contemporaneità, anche se parlano del passato. In questo senso il suo cinema non è moderno, almeno non lo è nel senso in cui lo definiva Bazin. Bertolucci si rifà piuttosto al grande cinema classico, quello che negli anni Sessanta si respirava alla Cinémathèque di Langlois e sulle pagine dei «Cahiers du cinéma», ma è anche irresistibilmente attratto da tutto quello che riguarda il futuro delle tecnologie. Non ama inventare né percorrere strade nuove da sperimentare, preferisce recuperare, trasformare e far rivivere cinematograficamente quello di cui è giusto far tesoro. Se il fine giustifica ogni mezzo, il suo cinema non si stanca di “rubare” materiali e suggestioni da vari universi espressivi (letteratura, musica, pittura), se ne appropria creativamente, e in questo suo procedere asseconda le attese più segrete dello spettatore che più gli somiglia, colui che vede il film e lo reinterpreta pensando ai film che ha più amato ma soprattutto a quelli che desidererebbe ancora vedere.

Irretiti dalle ombre È la macchina del tempo (Cocteau) il vero motore del cinema, e nei film di Bertolucci sono soprattutto i sognatori e i revenants i veri protagonisti, anche quando interpretano parti di contorno. In Prima della rivoluzione Agostino (Allen Midgette), il folletto biondo dai «capelli come piume di canarino», invece di andare al cinema a vedere Il fiume rosso o andarsi a prendere la tessera del PCI come gli consiglia l’amico Fabrizio (troppo moralistico per lui), si esibisce in un numero da circo in bicicletta e poi va a morire buttandosi nel fiume (lo ritroveremo però, vestito da marinaio, che attraversa allegro le notti padane di Strategia del ragno, o vagabondo, martire innocente dei fascisti, in Novecento). E nelle prime scene di The Dreamers, sulla scalinata della Cinémathèque, vediamo materializzarsi un Jean-Pierre Léaud giovanissimo, pronto a correre su un set di Truffaut, ma insieme con lui anche il Jean-Pierre Léaud di trent’anni dopo, invecchiato e disilluso, che sembra aver bruciato ogni ponte alle spalle e si ostina a declamare inutili petitions. Gente che va e che viene, che esce di scena (morendo o mettendosi in fuga) e che riappare. È sempre un problema di desideri più o meno inconsci e di sguardi più o meno concupiscenti. Giacobbe in Partner, nella sua veste di insegnante di teatro, diventa a un certo punto addirittura didascalico con i suoi allievi: «Se trovate che alla vostra vita manchi qualcosa, rubate una macchina da presa e cercate di dare uno stile alle vostre giornate, fate delle lunghe panoramiche o inquadrature fisse, in bianco e nero se vi piace Godard prima maniera, oppure film in sovrimpressione», e già pensa alla Factory di Mekas e Warhol. E Gianni Amico, il loquace cinefilo di Prima della rivoluzione, all’infelice Fabrizio in preda alle pene d’amore non trova di meglio che parlare di Rossellini e delle inquadrature a 360° di Nicholas Ray. Non ha torto, perché forse non c’è di meglio – per combattere certe delusioni sentimentali – che l’immagine di Anna Karina che danza in Questa è la mia vita4, una cosa di cui ci si ricorderà per sempre, esattamente come ci si ricorda della coppia Bogart-Bacall quando si pensa all’ultimo dopoguerra, o dei film di Douglas Sirk con Dorothy Malone per gli anni Cinquanta inventati da 4

Vivre sa vie (1962) di Jean-Luc Godard.

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ratificato da un enorme successo internazionale, il cinema di Bernardo Bertolucci è per molti aspetti inimitabile. Da Prima della rivoluzione (1964) a Io e te (2012) non c’è immagine di un suo film che non sia il frutto di un artificio espressivo, scenografico, luministico, o che si accontenti di riproporre il vecchio equivoco della realtà così com’è senza intervenire, invece, per trasformarla e sublimarla. Quello di Bertolucci è un cinema del “tutto è possibile”, dell’altrove e dell’impasse. Un cinema spettacolare e complesso che si mette continuamente alla prova, che guarda la realtà con concupiscenza e meraviglia, come la Terra vista dalla Luna. Dal respiro epico del kolossal al minimalismo del racconto quotidiano, dai canoni del romanzo ottocentesco (Novecento, L’ultimo imperatore) allo scandalo del sesso più trasgressivo (Ultimo tango a Parigi) fino alla misura del teatro da camera (The Dreamers), c’è sempre un legame con la storia del cinema fatta rivivere nel presente. In questa “infinitudine”, che lega la vita all’immaginario, c’è forse il suo segreto più prezioso. I film di Bertolucci sono sempre contemporanei, sia quando parlano del fascismo che nasce e muore nella pianura padana (Novecento) o della cupezza degli anni di piombo (La tragedia di un uomo ridicolo), sia quando vivono nel cuore della Cina (L’ultimo imperatore), nel Nepal (Piccolo Buddha), nel Sahara (Il tè nel deserto), oppure in una villa del Chianti-shire (Io ballo da sola) o nelle cantine di un palazzo borghese di Roma (Io e te): sempre instaurano una linea diretta con quello spettatore ideale che «sognando desidera ancora sognare» e in questa onirica euforia prolunga i suoi desideri e, con il cinema, a volte scopre delle verità. A un anno dalla scomparsa di un grande Maestro del cinema, questo libro propone un lungo viaggio in compagnia dei suoi film, dall’opera d’esordio La commare secca (1962) a The Echo Chambers (2018), purtroppo lasciato incompiuto. Tutti i film sono accompagnati da analisi critiche e da brevi interventi dello stesso Bertolucci. A corredo del libro un apparato iconografico ricco di centinaia di foto e fotogrammi scelti dai film in funzione del testo scritto.

PIERO SPILA è vicepresidente del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici

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€ 27,00 (i.i.)

Italiani (SNCCI) e direttore di «Cinecritica». Autore e curatore di volumi e monografie di cinema, per questo editore ha pubblicato un libro su Pier Paolo Pasolini e su Aurora di Murnau. Nel corso di una lunga amicizia con Bernardo Bertolucci, ha scritto numerosi saggi sul suo cinema e ha curato tra l’altro un volume che raccoglie i suoi scritti.

978-88-6692-086-1


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