Fuga a cavallo lontano nella città di Bernard-Marie Koltès

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Bernard-Marie Koltès

FUGA A CAVALLO LONTANO NELLA CITTÀ romanzo

KOLTÈS



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Narratori Francesi Contemporanei

Fuga a cavallo lontano nella cittĂ


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Dello stesso autore nella collana “Teatro” LA NOTTE POCO PRIMA DELLA FORESTA


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Bernard-Marie Koltès

Fuga a cavallo lontano nella città Romanzo

Traduzione dal francese di GIANDONATO CRICO


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Titolo originale: La fuite à cheval très loin dans la ville Copyright © Éditions de Minuit, 1984 Stampa: PRINTONWEB – Isola del Liri (FR) 1990 © Gremese Seconda edizione 2018 – Gremese International s.r.l.s. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-6692-029-8


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Félice fuggiva, inseguita dalla macchina nera. «Quei porci mi hanno piantata qui con tutti i bagagli; mi hanno scaricata sul marciapiede e tanti saluti. Mi hanno lasciata in un bel casino; indietro non ci posso tornare, mi tocca correre con tutti i pacchetti in mano». Alle sue spalle, a qualche decina di metri, la macchina nera la seguiva passo passo. «Come faccio a salire in autobus? Non so neanche dov’è la fermata, non so neanche che numero devo prendere; e poi, chi gli impedisce di venir dietro anche all’autobus? Senza contare che prima o poi mi toccherà pure scendere. Accidenti a questi stronzi di pacchetti, non riesco a concentrarmi». Félice non si voltava più, non controllava più la macchina con la coda dell’occhio; si limitava a localizzare, fra i vari rumori, il ronzio del motore che avanzava al minimo. «Che corro a fare, non riuscirò mai a liberarmene. Forse potrei chiedere aiuto, che mi diano almeno una mano a portare i pacchetti; se avessi accanto due uomini che mi portano i pacchetti, magari quello stronzo se ne andrebbe». Félice era arrivata all’ingresso del cimitero. Si voltò, irrigidita, e si appoggiò alla cancellata. La macchina nera si fermò qualche decina di metri più avanti. «Se non altro, quel porco non può entrare fin qui». E varcò la soglia. 5


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La macchina nera accostò. Il motore acceso avvolgeva l’impenetrabile carrozzeria in vortici di fumo nerastro. «Per ora va bene così. Ma quando farà buio? Fra un quarto d’ora farà buio, e quando sarà notte che farò?». Félice posò i pacchetti, si sedé e guardò, immobile, la grossa bolla di fumo nero che vegliava dietro l’ingresso del cimitero. Lungo i vialetti di bosso, Rose va alla ricerca del suo gatto. Dalle labbra unite protese in avanti, dal pertugio non più grosso di una capocchia di spillo, esce un fischio: «Micio, micio, micio; ma che ti ho fatto? Perché te ne sei andato? Perché sei scappato via dalle ginocchia di lana della tua vecchia Rose? Ti sei punto la zampa con qualche spilla vagabonda? Ti sei strappato i baffi imprigionati in qualche brutta fessura? Che cosa ho fatto per farti scappar via? Ti ho offeso? Eppure, nel profondo dei tuoi occhi non ho letto nulla, micio mio! Ce l’hai con me? Perché non dirlo, allora... Ti ho ferito in qualche modo? No, non è possibile. In ogni caso, piccolo mio, ti chiedo scusa! Ti sei stancato della tua vecchia Rose? Dove sei, micio, micio, micetto...». S’inerpica su per il pendìo della collina, percorre tutti i sentieri, protende ancor più le labbra e il suo fischio trapassa lo spessore dei cespugli.

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IL CIMITERO DELLA COLLINE AUX CRAPULES Un’intera popolazione di gatti randagi vive nel cimitero della Colline aux Crapules. Distesi sulle tombe, acciambellati sulle croci di marmo, troneggiano sulla sommità dei mausolei, sbucano grassi dagli angoli degli oratori. Ma è una comunità umana, segretissima e clandestina, a esercitare il controllo del posto – il suo potere è assoluto, le sue ramificazioni innumerevoli, le sue cellule moltiplicate all’infinito; i suoi membri, dal volto sigillato in un terribile silenzio, inafferrabili. La sola ideologia conosciuta della setta è: la sopravvivenza dei gatti nell’eternità; e la causa evidente della proliferazione di gatti in quel luogo va cercata nei grossi sacchi che, più volte al giorno, seri e furtivi gerontocrati svuotano ai piedi di cespugli isolati, facendo uscire dalle labbra fischi brevi e sottili. (Che colui che ha perduto il suo gatto, se la passione frustrata lo consuma; se il fuoco che gli morde le viscere gli fa credere di poter valicare le montagne; se i germi dell’abbandono, della disperazione e della timidezza sono stati soffocati nel profondo del suo essere da un’improvvisa, intollerabile, rivoltante solitudine; 7


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Che colui che ha perduto il suo gatto, se non ha paura dell’imprevisto; se non teme di vagare, ciecamente, in un labirinto di cui non troverà mai il filo, né di sfiorare la scoperta di un potere inquietante di cui non conoscerà mai nulla, Che costui sappia che tutti i gatti smarriti si ritrovano qui, che tutti i gatti fuggiti finiscono all’ombra dei bossi, che tutti i vagabondaggi dei gatti conducono alla porta del cimitero della Colline aux Crapules, fra le mani dei suoi vecchi brontoloni. Che s’infratti dietro mucchi di foglie, si perda fra stucchi e angioletti, spii i sacchi rovesciati e il fischio sottile e impercettibile; Che si getti allora sulla sagoma china, l’agguanti, la interroghi senza posa, minacci di strangolarla, né si lasci ingannare da artifici di sorta. Se sarà un vero terrorista, riuscirà nel suo intento. Seguirà tutta la trafila del caso, passando da un «Vede quel vecchio laggiù?» a un «Chieda alla signora in fondo al viale»; E non potrà allora non ritrovare il fuggitivo, che mangia all’ombra di un vegliardo astioso; Ma se si sentirà dire, senza esitazione: «Un fulvo maculato? Da due giorni? Impossibile», si abbandoni allora alla sua disperazione, perché il suo gatto è perduto per sempre.) Félice fu spinta fuori dal cimitero da sibili demoniaci, dal cader della notte, da ombre lungo il viale.

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Il fumo nero si era dissipato. Ciò nonostante, Félice ricominciò a correre. Scendeva giù lungo lo stretto marciapiede di una via deserta, punteggiata da lampioni su un solo lato, tagliata in due da un’ombra cupa in cui Félice si smarrì. All’improvviso, urtata da una sagoma invisibile, perse l’equilibrio, vacillò un istante, cadde lanciando un urlo. Cassius (urtando Félice): «Merda!». Félice (raccogliendo i pacchetti): «Mi scusi. Può aiutarmi?». Cassius: «Hai una sigaretta?». Félice: «Una sigaretta? Sì, certo; aspetti, gliela cerco. Mi dà una mano? Potrebbe accompagnarmi per un po’? Sto cercando la fermata dell’autobus; lei non sa dirmi dove sia?» (Si guarda furtivamente alle spalle.) Cassius: «Hai una sigaretta, sì o no?». Félice (lancia un urlo). Cassius: «Che ti prende?». Félice: «Non se ne vada!» (Lascia cadere di nuovo tutti i pacchetti.) Cassius: «Sei pazza!». Félice: «Non se ne vada! Non se ne vada, mi copra, mi aiuti! Mi abbracci. Faccia finta di abbracciarmi. Mi copra, mi copra!». Cassius: «Ma che succede?». Félice: «Si metta lei verso la strada, idiota! Mi abbracci, mi abbracci! Zitto!». (La macchina nera passa lentamente e si allontana.) Cassius: «Ce l’hai una sigaretta, sì o no?». Félice: «Aspetti! Sono sicura che tornerà. Ma lo sai che sei proprio ingenuo! Eccolo, eccolo!» (Félice si addossa al muro; Cassius la stringe fra le braccia. 9


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La macchina nera ripassa lentamente e si allontana.) Félice: «Tu credi che sia matta, vero? Stammi a sentire: ho già avuto a che fare con lui. Hai visto quella macchina nera? Hai visto le tendine nere ai vetri? Ci sta venendo dietro! Capito, imbecille? Ci sta venendo dietro! E magari cerca proprio te! Non te ne andare! Non sono pazza. Ascolta, tutte le notti fa così – lo so, ho già avuto a che fare con lui! Hai visto le tendine? Le scosta col becco, appena uno spiraglio; se guardi bene riesci a vedergli gli occhi. E un bel giorno, per quanto in fretta tu possa correre, ti raggiunge e... – hai visto il suo becco, no? Dà qualche colpetto sul vetro: toc-toc-toc-toc! e allora gli si vedono le ali, le penne; le penne!». (Si aggrappa a Cassius.) (La macchina nera ripassa e rallenta alla loro altezza. Si sente fare «toc-toc-toc-toc!» contro il vetro, poi la macchina si allontana.) Félice scivola lentamente a terra. Cassius si china su di lei, le fruga le tasche. «Questa scema non ha neanche le sigarette». E si allontana guardandosi furtivo alle spalle. Félice riposava, resa più pallida dalla sera, fra i suoi pacchetti. Cassius picchia alla porta: suona, batte coi pugni, tira calci. Barba socchiude: «Sei impazzito?». «Dammi cento franchi». Barba sorride. «Mi servono cento franchi. Non farmi perder tempo, dammeli!». Cassius tende la mano, si guarda intorno; Barba fa se10


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gno di no con la testa, indietreggia; lui pesta i piedi e lei non chiude la porta. Barba indietreggiò fino in camera, seguita da Cassius; – passando, si era guardata allo specchio. Si stese sul letto, senza fretta, controllando una per una le posizioni delle gambe, delle braccia, delle mani, delle dita, del volto; poi smise di muoversi. Cassius sorrideva, guardandosi intorno con aria da padrone. Poi si decise: si sedé per terra, vicino al letto, prese la mano di Barba e, quando alzò gli occhi su di lei, aveva uno sguardo un po’ triste, un po’ sorridente, un po’ filiale. Dice Barba: «È fatta, mi sono decisa. Quattrocento franchi al mese è un’occasione, non ho avuto dubbi: una casa in campagna, isolata, otto stanze, acqua, luce; quattrocento al mese non è la fine del mondo. Ormai è praticamente fatta. Non te l’aspettavi, vero? Otto o nove stanze, non ricordo: potremo andarci quando ci pare, fare quello che ci pare. Ho già detto di sì, è fatta, stavolta è fatta». «Mi servono cento franchi». Barba sorride, fa segno di no con la testa. Cassius: «Vuoi scherzare?». Poi, abbassando la voce: «Non con me: non darti tante arie. Fallo con chi ti pare, fallo pure con tutti, se ne hai voglia, ma non con me, intesi? Lo sai che devi darmeli: devi, d’accordo? Con me non funziona, non mi freghi, a me». Il sorriso svanì lentamente dal volto di Barba; e il resto del corpo, ancora immobile nella posizione che lei gli aveva dato, sembrò estraneo a quel nuovo volto, come un ricordo di quello che aveva appena perso e che presto avrebbe ritrovato. 11


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Intanto, guardava Cassius, intensamente. Lui la guardò a sua volta. Dopo un po’, quando lo sguardo di lei parve del tutto fisso, Cassius trasformò il suo; le carezzò i capelli, le riempì ridendo le braccia di baci, e lei sembrò scuotersi un poco. Ma il sorriso di prima non le tornava ancora alle labbra. Dice Barba: «lo non rifiuto mai niente; non ne sono nemmeno capace; mi hai mai visto dire di no? Sembra che mi cerchino solo per questo: “mi presti...” certo, non grosse somme. Ma è da non credere quanta gente venga a cercarmi quando sono in servizio: “per piacere, avresti da prestarmi...?”, “dammi una mano a venirne fuori, ti prego”, e tutto il mio stipendio se ne va così. Non so dire di no, io; mi ci sono abituata: so su quanto posso contare, so quello che mi resta dopo la sfilza dei “prestami dieci franchi”, “prestami cento franchi” a cui non so dire di no. Ma per gli altri è come se fosse una cosa normale, come se io non facessi nulla. Non fanno mai i conti, nessuno fa i conti, nessuno li sa fare; solo io sono obbligata a farli, alla fine, quando mi rimane solo quel tanto con cui devo cavarmela in qualche modo. E se fosse possibile non farmi avvicinare da nessuno, quando sono in servizio; se dicessi di no; se non fosse possibile vedermi, quando lavoro, com’è per chiunque altro, che farebbero tutti quanti con i loro “non avresti cento franchi”? Da chi andrebbero? E invece io, là dentro, non conto nulla. Se fossi io nei pasticci – metti che mi licenziano – non potrei contare su nessuno, non vedrei nessuno, non ci sarebbe più nessuno. 12


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Su questo, almeno, non mi faccio nessuna illusione, so come devo regolarmi». Dice Cassius: «Che vuoi che me ne importi? Non sprecare il tuo tempo, d’accordo? So benissimo che non potrai fare a meno di me, che mi vuoi bene. E non potrei nemmeno io. Su questo siamo d’accordo, no? Per me tu sei come un riparo, un rifugio. Sei la mia casa». Le bacia le braccia, ci infila sotto la testa. Barba spalanca gli occhi, porta la mano alla bocca: «Mi ama, lo ha detto, lo ha detto! Ma così è inutile, non ha sentito nessuno, non mi crederà nessuno! Però lo ha detto, lo ha detto!». Cassius s’innervosisce: «Se non mi dici dove sono i soldi, mi metto a frugare dappertutto». Barba fa finta di nulla. Cassius si alza, gira in tondo per la stanza, si mette a frugare rabbiosamente, mentre Barba lo guarda sorridendo. Cassius apre i cassetti, li svuota; Barba distoglie lo sguardo. Dice Barba: «Un giorno vivrò in una stanzina piccolissima, minuscola, una stanzina su misura per me, in cui non ci sarà posto per nulla all’infuori di me, e nessuno potrà più mettersi a pestarmi i piedi; una stanza modellata su di me». All’altra estremità del filo, l’uomo dal naso grosso si era azzittito. Dopo una pausa, lentamente, Tragard iniziò a rispondere con voce calma, convincente: 13


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«Che altro posso dire per tranquillizzarla? Dorma, caro signore, dorma tranquillo. Qual è il problema, la disgrazia irreparabile? È forse tarato? Non è di ottima famiglia? Che vuole che gli succeda? Me ne faccio garante io stesso: niente. Dorma tranquillo. (Profondo:) Il sudiciume, caro signore! Le origini vergognose, l’educazione in mezzo a una strada, la miseria continua, ecco cosa l’avrebbe condannato senza remissione. L’atavismo, in condizioni simili, è la sola cosa che porti all’irrecuperabile. Ma lui... suvvia, cosa potrebbe capitargli di brutto? Il giorno in cui vorrà venirne fuori: si accorgerà che gliene è stata lasciata la possibilità – da lei stesso, caro signore, da me, da noi tutti – e che questa possibilità, dopo un breve periodo di assenza, gli sarà restituita intatta. Lui lo sa, non è stupido, viene da un’ottima famiglia: vorrà venirne fuori (stia pur certo. Mi faccio personalmente garante del suo rifiuto finale, inevitabile. Qual è il problema? È forse vittima di sregolatezze che lei non comprende? Fa uso di sostanze illecite? Lo si può definire perverso? E che altro, ancora? (Ride.) Sono queste le mostruosità che le tolgono il sonno? (Freddo:) Questo non ha senso; è ridicolo, non vale la pena di perderci tempo: non ha senso, le ripeto, nessun senso. (Simpatico:) Glielo garantisco io: non gli succederà nulla, non corre alcun rischio. Me ne occupo io; lo terrò in serbo, per dopo. Che altro devo dirle? (Scherzoso e allusivo:) Che ci serviamo di questo momentaneo smarrimento, del resto comprensibile, all’occorrenza financo legittimo, per una causa che è anche la sua? Ma lei lo sa benissimo. Non ha più fiducia? Non si sente più tanto sicuro? Le sta forse venendo, caro signore, un qualche incomprensibile moto di ribellione?». (Ride, mondano.)

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Dopo aver cercato a lungo, Cassius esitò, tornò da Barba, si sdraiò accanto a lei. Si accoppiarono in fretta, spogliandosi il meno possibile. Di tanto in tanto, lui le diceva: «Che ti prende? Perché gridi come una pazza?». E lei: «Non sai far altro che triturarmi come un massaggiatore». Dice Cassius: «Se vai con un altro, ti ammazzo». Rimasero immobili a lungo. Somigliavano a due laghi contrapposti, le cui acque si sono fuse in profondità senza che nulla turbi la levigata compattezza della superficie.

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