Rossini - Codice di sangue

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ROSSINI

il codice di sangue


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Enrico Stinchelli

ROSSINI

Codice di sangue Romanzo


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Entro il 31 gennaio 2018, l’acquisto di questo volume dà il diritto di ricevere gratuitamente l’e-book del romanzo. Per accedere al file, digitare http://extra.gremese.com/it/rossini e seguire le istruzioni.

Copertina: Patrizia Marrocco Stampa: FP DESIGN – Roma Copyright: 2017 © Gremese International s.r.l.s. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-981-2


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CAPITOLO PRIMO 20 marzo 1860. Parigi, Barrière d’Enfer, oggi Piazza Denfert-Rochereau.

Tre uomini avvolti in un ampio mantello stavano

scendendo per quasi venti metri da una stretta scala a chiocciola. Il sotterraneo, che pareva angusto, al termine della scala si allargava in un inatteso spiazzo, sovrastato da ampie volte a cupola. I tre avanzarono verso un antico portale, formato da due pilastri e da una lastra di marmo ingrigita dal vento e dalle intemperie. Era notte. Uno dei due entrò rapidissimo, senza perdere un solo istante e senza voltarsi. L’altro, quello dalla stazza più imponente, restò indietro in evidente affanno e si fermò proprio davanti al cancello. I suoi movimenti erano lenti e trascinava un po’ i piedi. Un giovane servitore lo sosteneva per un braccio. La pioggerella che incessantemente scorreva all’esterno, sottile, era entrata persino tra le cuciture del pastrano, ormai completamente fradicio, e qualche goccia riusciva a 5


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insinuarsi e a scivolare dalla nuca alla schiena. «Tempo da cani… James!… Jaaaames!! Non correre!» L’uomo che aveva oltrepassato la soglia si voltò. La tenue luce di una lanterna posta in cima all’entrata ne illuminò la figura: sulla sessantina, prestante, elegante. Il volto tesissimo… che rivelava tutta la preoccupazione di quel frangente. Negli occhi l’ansia, il terrore e un fortissimo senso di responsabilità nei confronti dell’amico, cui rivolse uno sguardo carico di compassione. «James… in nome di Dio… ma dove siamo, come ti è venuto in mente di portarmi qui?» L’omone lanciò un’occhiata di fuoco al compare, fermo al di là della soglia, e continuò: «Non riesco a starti dietro, ho il fiatone e sono zuppo dalla testa ai piedi!» Con un fazzoletto il servitore cercò di asciugargli la nuca. Sollevando la testa nel farlo, lesse sulla volta marmorea della cancellata: ARRÊTE! C’EST ICI L’EMPIRE DE LA MORT (Fermati! Questo è l’Impero della Morte). Poi sussurrò: «Maestro, guardi…» «James, accidenti, bello è il gioco che dura poco. O mi dici adesso perché mi hai condotto qui o me ne ritorno a casa!» «Perdonami Gioachino, ma ti avevo avvisato: è una cosa grave, molto grave. Ti prego, non fare domande e seguimi.» «Ma ti rendi conto o no di dove siamo? Del freddo che fa? Dei pericoli ai quali siamo esposti? Sai benis6


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simo che non sto bene. Vuoi vedermi schiantare qui a terra, seppellirmi qui? O magari farci ammazzare da qualcuno dei cataphiles che si divertono a entrare in questo postaccio?» «Non corriamo alcun pericolo, Gioachino. Non seguiremo il percorso ordinario. È un dedalo pieno di ingressi nascosti a chiunque, abbi fede. So cosa ci aspetta e l’ultimo problema, credimi, è quello di qualche malintenzionato che voglia derubarci. Hai fiducia in me? Sono sempre il tuo prezioso amico, come hai avuto più volte la bontà di definirmi?» «Sì lo sei, ma per amor del Cielo…» «Seguimi e non fare domande.» Oltrepassato il cancello, un corridoio abbastanza umido e tenebroso faceva intuire che ci si inoltrava in quella che in origine doveva essere una cava. Procedendo a passo un po’ più lento e aiutando l’amico in affanno, il barone James de Rothschild spiegava a bassa voce: «Fin dai tempi dei Galli questi corridoi sotterranei, usati per l’estrazione di calce o materiali argillosi, venivano incessantemente scavati e si estendevano sotto l’originaria Lutetia Parisiorum. Si diramano per centinaia di chilometri». «Perché Impero della Morte?», fece Gioachino scrollandosi l’acqua dal mantello. «Fai conto di essere in compagnia di circa sei milioni di defunti in questo momento», rispose immediatamente James. «Quando le chiese di Parigi e i cimiteri annessi non riuscirono più a contenere le salme, si decise di trasferirne una gran parte qui.» 7


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«Quando?» «Verso la fine del Settecento, quasi cento anni fa. Il governo stabilì di ristrutturare le vecchie cave e in un paio d’anni procedette alla traslazione di tutti i morti. Ma non fu un lavoro svolto senza fantasia… guarda…», e indicò una grande parete, che si ergeva da un lato per una incalcolabile lunghezza. «Mio Dio…», fu l’unica esclamazione che Gioachino ebbe il coraggio di emettere, poi… solo un’espressione terrificata. Davanti ai due visitatori si ergeva un colossale muraglione color antracite, molto simile a quei muri a secco che cingono le proprietà dei contadini. Ma non era pietra quella che componeva la parete, bensì crani, femori, rotule… ossa umane. Un teschio sopra l’altro, incastonati a regola d’arte per formare un tragico mosaico. «Non è possibile, è spaventoso!», esclamò Gioachino terrorizzato. «Non conoscevi questa triste architettura? Se guardi bene non riesci a ipotizzare un numero… sono migliaia e migliaia di crani, moltissimi dei quali mozzati a Place de Grève durante la Rivoluzione… quello lì per esempio, spaccato a metà, potrebbe essere Robespierre… quell’altro, invece, potrebbe benissimo appartenere al deputato Jean-Baptiste Carrier… perché no?» Queste ultime frasi suonavano sinistre ma la sua voce conteneva una lieve, malcelata ironia. «È una cosa terribile… un oltraggio ai defunti, trasformarli in trofei, peggio… in mattoni. Quel horreur!», 8


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esclamò spazientito Gioachino e continuò: «E mi hai portato qui per farmi conoscere queste orribili costruzioni? A quest’ora di notte?». «No Gioachino, quello che vedrai è ben più terribile e dovrai avere moltissimo coraggio, te lo assicuro. Ma, come già ti dissi, non potevo più tacere e la sola condivisione con il mio più grande amico è il vero, unico motivo che mi ha spinto a organizzare questa nottata. Un solo membro della mia Confraternita sa di questa mia iniziativa, ma non posso coinvolgerlo. Ti chiedo scusa ma ho scelto te in nome della confidenza e della fiducia che abbiamo sempre condiviso, l’uno con l’altro.» Gioachino tacque e avvertì nel tono grave dell’amico il senso profondo di una verità nascosta, la volontà di svelare qualcosa di grande e di spaventoso. Da parte sua, James Mayer de Rothschild, già consigliere reale di Francia e potentissimo finanziere, filantropo, amico personale di Chopin, Balzac, Ingres, uno degli uomini più ricchi della Terra, se ne stava, inzaccherato, all’interno di uno dei luoghi più macabri e terrificanti di tutta Parigi, circondato da ossa ed energie malefiche, parlando di rivelazioni terribili, con gli occhi sbarrati e il tono fermo, risoluto, di chi vuole assolutamente portare a compimento il proprio progetto. Gioachino non riusciva a distogliere il pensiero da quella situazione assurda, da quell’incubo del quale era partecipe, suo malgrado. Né avrebbe potuto mai sospettare nulla del genere, quando osservava sereno e beato il barone James con la sua consorte a Villa 9


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Beauséjour a Passy, o durante i divertentissimi fine settimana musicali nel salotto della Chaussée d’Antin, o persino durante le più noiose riunioni della confraternita, denominata pomposamente “Les Amis de la Paix et de l’Harmonie”, alle quali era straordinariamente ammesso in virtù del nome e dell’amicizia personale con il barone de Rothschild. In quelle occasioni aveva davanti l’uomo colto, il brillante conversatore, il raffinato mecenate, il sostenitore di tante iniziative benefiche, un elegante banchiere che mai e poi mai avrebbe potuto immaginare aggirarsi tra teschi e femori all’interno di un maleodorante sotterraneo. “E cosa ci faccio qui anch’io…”, meditava Gioachino senza riuscire a darsi una risposta. Stanco, infreddolito, spinto da una strana e inspiegabile curiosità a infrangere le ferree regole imposte dalla sua proverbiale pigrizia, il Maestro Gioachino Rossini si trovava a venti metri sotto terra in compagnia di topi e scheletri. «Maestro…», fece timidamente il servitore, «…è molto tardi… ho avvisato la signora che saremmo tornati nel giro di un paio d’ore, non vorrei che…». «Madame Rossini aspetterà, con pazienza, come sempre. Siamo in ballo, ormai, dunque balliamo. James, per favore, svelami l’arcano e facciamola finita, qui l’atmosfera è insopportabile, mi pare di essere sepolto in una fossa comune…» «Gioachino, non siamo lontani, seguimi. Dobbiamo raggiungere il luogo del convegno…» «Quale convegno?» «Vedrai…» 10


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Un dedalo inimmaginabile di gallerie si dipana come una tela di ragno sotto la città di Parigi. Nel 1785 erano iniziati i lavori di traslazione delle salme dai cimiteri, una delle imprese più faticose e paurose conosciute dalla Ville Lumière in tutta la sua storia. Si può solo lontanamente immaginare il quantitativo immane di resti umani trasportati dai cimiteri e dalle fosse comuni, con carri carichi di ossa che transitavano di continuo per poi scaricare il triste fardello nelle cave, producendo un rumore terrificante. Sedici lunghissimi mesi in cui gli operai non si erano fermati un solo giorno, riempiendo ogni angolo, ogni recesso di lapidi e monumenti funebri. Squadre specializzate di becchini selezionavano le ossa, dividendo tra loro teschi, femori, giunture varie, a seconda della loro grandezza o del loro stato, fino a comporre, nel corso dei successivi decenni, quegli orridi capolavori di architettura funebre. Gioachino Rossini era impressionato dalla sicurezza con cui il barone si muoveva in quelle gallerie. Ne percorsero un paio in tutta la loro lunghezza, forse due, trecento metri, poi continuarono per altri interminabili minuti, dieci o venti almeno, seguendo un corridoio più stretto, posto alla sinistra del rudere di un portale. «Ma come fai a orientarti?» «Ah, la mente lineare come ci acceca…», sospirò il barone. «Tu come fai a distinguere le varie tonalità quando componi? Come riesci a combinare le note? Seguirai un percorso armonico, un contrappunto, adottando una simbologia ad hoc, che è appunto 11


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quella musicale. Guarda attentamente… cosa vedi qui?». James indicò un piccolo graffito appena visibile, posto ai lati dell’ingresso della galleria. «Vedo un mattone roso dall’umidità e vecchio di secoli….» «No, questo non è un segno casuale, guarda attentamente: è un cordone intrecciato a spirale, il “cordone d’amore”. Amore fraterno, l’amore che lega ognuno di noi e collega direttamente al Grande Architetto dell’Universo, simbolo alchemico dell’Infinito. Questo è il nostro filo d’Arianna, seguendo questa traccia arriviamo a destinazione, presso la Cripta della passione.» «Vuoi farmi credere che tu sai decifrare questi segni?» «Ognuno di noi è tenuto a conoscerli bene, altrimenti sarebbe impossibile trovare il luogo segreto. Questo è un labirinto che percorre l’intera città di Parigi.» «James, mi ha sempre incuriosito e divertito la tua affiliazione: non mi sono mai accostato ad alcuna confraternita quando avevo il mondo ai miei piedi, figurati. Mi è bastato sapere che Mozart ne fece parte, così come il mio vecchio amico Meyerbeer, che non so a quante logge appartenga, ormai avrà perso il conto anche lui…» «Hai fatto bene, amico mio…» «Pensa che mi sono limitato ad accettare il 22 febbraio scorso la nomina a Socio Corrispondente dell’Accademia dei Quiriti a Roma, tutto qui… mi spediranno il diploma a casa…» 12


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«Muoviti…» Questa volta il tono del barone era perentorio. Dopo pochi metri un nuovo vicolo buio, che venne illuminato dalle lampade. Qualche passo, poi una nuova deviazione, il solito segno ai lati dell’entrata giusta e un corridoio abbastanza lungo, forse una quarantina di metri. Alla fine di questa ultima corsia un grande spazio esagonale e nulla più, solo tre grandi lapidi fissate alla parete, con incise delle scritte sbiadite. Ogni lapide era alta almeno quanto il più alto dei visitatori notturni. «Adesso? Siamo arrivati?», chiese spazientito Gioachino. «Sì, ordina al tuo servo che ci aspetti qui e che per nessuna ragione al mondo ci segua.» «Ma seguirci dove? Non è questa la cripta di cui dicevi prima? Non vedo altre uscite, dove dovremmo andare?» «No, una di queste lapidi nasconde un passaggio segreto.» Gioachino si mise a osservare con crescente apprensione le tre grandi lapidi. Ognuna di esse era sovrastata da un pentagramma, una stella a cinque punte. «Una di queste lastre di marmo è un portale, una sola. Guarda… una sola di queste stelle ha una piccola G al centro…avvicina la lanterna…» Gioachino sollevò il braccio e fece luce sulla lapide a destra, che recava una piccola e quasi invisibile G proprio al centro del pentagramma. «Cos’è?» 13


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«God… Dio… Geometria… Genitrice… Gnosi… Genesi… i significati sono tanti», sussurrò James fissando l’amico. Poi, dopo una breve pausa, con voce ancora più sottile «…Gog… l’Anticristo… in una parola… Satana». «James, mi fai paura…» «Amico mio, seguimi…» James estrasse da una tasca uno strano oggetto metallico. Sembrava un chiavistello, da una parte dotato di un manico di ferro e dall’altra di un pentagramma delle stesse identiche misure della stella posta in cima alla lapide. Lo appoggiò, combaciava perfettamente e grazie a una leggera pressione, si poteva introdurre nei solchi impolverati della stella incisa sulla lastra di marmo. Il chiavistello ruotò con un leggero cigolio, fece uno… due scatti. La lapide, come spinta da misteriosi contrappesi, si aprì in avanti. Il rumore fu appena percettibile, i meccanismi erano certamente ben oliati e comunque sottoposti a continui movimenti: la situazione si presentava abbastanza orribile. Sottoterra, circondati da milioni di morti sparsi in ogni dove… «Mio Dio!», esclamò Gioachino in preda al terrore. «Io non entro in questa tomba!». «È l’ultima fatica che ti chiedo. Non temere, non saremo visti, non ci accadrà nulla, ma il mondo deve sapere…» «Sapere cosa, per Diana! James, devi parlare, adesso, non intendo continuare questa assurda spedizione verso non si sa quale abisso, mi hai preso per un giovanotto?? Tu stesso… ma come ti salta in mente, è uno scherzo…» 14


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«No, amico mio carissimo… purtroppo non è uno scherzo. Seguimi, entriamo, i soffitti sono abbastanza alti e tutto è abbastanza pulito e ordinato in questo passaggio, non troverai teschi o topi, ma due panche dove potremo persino sederci. Gioachino, tra mezz’ora sarà tutto finito e saremo di ritorno a casa.» James passò per primo porgendo il braccio all’amico. Questi rivolgendosi al fido servitore: «Bada, se entro venti minuti non ci vedi tornare… consideraci ospiti definitivi di questo triste consesso…». «Sì Maestro…», sussurrò disperato il poveretto, ben conscio di non avere altra scelta: in che modo avrebbe potuto percorrere a ritroso quel labirinto? La soglia venne varcata. Stranamente l’odore di muffa e di stantio che aveva caratterizzato fino a quel momento la discesa agli Inferi era quasi completamente scomparso. Dietro al portale segreto la pietra si era fatta più levigata, il pavimento meno accidentato e rudimentale, un vaghissimo profumo d’incenso arrivava da lontano… acre, penetrante… Bracieri in peltro antico costeggiavano e delimitavano un corridoio abbastanza lungo e sufficientemente largo. In fondo, una seconda porta, stavolta lignea, ornata da robuste borchie in ferro e una grossa serratura. James estrasse una seconda chiave e girò due mandate, ma stavolta con molta circospezione, quasi temendo di far troppo rumore. «Parbleau! James… sei peggio di San Pietro!», un barlume di ironia in quella situazione così poco allegra ed edificante. 15


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Passato quel secondo portone, si apriva davanti ai due amici una saletta decisamente più accogliente seppur tenebrosa, per via di una diffusa luce ambrata, avvolta da una finissima nebbiolina che odorava d’incenso. Dalla saletta si dipartivano due diversi corridoi, uno contrapposto all’altro, e al centro due divanetti sdruciti, vecchie dormeuses provenienti da chissà dove. «Vieni, siediti un attimo Gioachino, riposati. Quello che vedrai tra poco avrà bisogno di tutte le tue forze», disse frettolosamente James. «Ho già visto abbastanza, dovrai davvero inventarti non so cosa per farti perdonare…» «Gioachino, ci siamo. Non abbiamo molto tempo, voglio essere chiaro, sintetico e diretto quanto più mi sarà possibile.» «Dimmi…» «Tu sai che la Confraternita ha sempre trattato temi cari al mondo dell’arte, promuovendo ottimi sentimenti quali la fratellanza delle genti, l’amore verso il prossimo… uno stile di vita che potesse rendere attuabile la convivenza serena degli uomini. Religione, politica, filosofia, la stessa organizzazione pubblica… sono mezzi inventati dall’uomo per poter comprendere e sopportare i suoi simili. Io mi sono iscritto e ho versato grandi somme per trovare la sintesi e l’armonia, per superare tutte le differenze…», il tono si faceva sempre più concitato. «James, capisco ma…» «Lasciami finire, non abbiamo tempo. Ascolta: stasera ti verrà rivelato un orrendo segreto, qualcosa che grida vendetta davanti a Dio e agli uomini tutti. 16


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Io sono anziano, ho avuto tutto dalla vita, la mia famiglia è padrona di mezzo mondo. Mi hanno destinato a un ruolo impegnativo, a una attività che in cuor mio avrei preferito non svolgere. Per alleviare il fardello dell’esistenza che mio malgrado ho vissuto, ho fatto finta di non sapere, di non vedere e mi sono aggrappato all’Arte e soprattutto alla musica, alla “tua” musica, Gioachino.» «Mi onori e mi lusinghi ma non capisco…» «Aspetta, tu conosci il potere della musica, tu padroneggi il codice dell’Armonia e del Contrappunto, tu ti muovi agilmente in quel mondo meraviglioso fatto di note. Tu sai cosa può determinare una melodia che arriva ai cuori e che scuote l’anima. La musica può tutto, amico mio, è il ponte arcobaleno che congiunge questa misera Terra al Cielo.» Nel dire queste ultime parole gli occhi di James si erano fatti piccoli, simili a due fessure, ma la pupilla brillava e trafiggeva come la punta di una lama lo sguardo attonito di Rossini. «Non abbiamo più tempo. Gioachino, quello che vedrai è l’orrendo segreto che la nostra società, anzi direi tutta l’umanità, si porta dietro, come una maledizione, dalla notte dei tempi. Io non posso morire senza che un’anima pura, pulita, benedetta dagli dèi, sappia la verità e trovi il modo di svelarla agli uomini… vieni, amico, e sii forte…». Detto ciò prese per un braccio Gioachino e lo aiutò a sollevarsi dal canapè, poi lo condusse lentamente verso il corridoio di sinistra. Un lento mormorio sembrava cadenzare ogni 17


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passo, forse il suono soffocato di un organo, che man mano si faceva più intenso. I due amici stavano percorrendo il corridoio, senza voltarsi, diretti verso una grande stanza circondata da grandi drappi di velluto nero e illuminata da un lampadario di ferro. Guardandolo con attenzione Gioachino si avvide che ogni lume era supportato da strane forme molto simili ai gargouilles di Notre Dame, realizzate perfettamente in ferro battuto. James si avvicinò a uno dei tendaggi e lo aprì a metà, scoprendo un grande quadro. Gioachino sobbalzò dallo spavento. L’immagine dipinta rappresentava un essere mostruoso con torso umano e serpi al posto delle gambe, come tanti cobra. Portava un copricapo anch’esso simile a un cobra e al centro della fronte, sul ventre e sul mento spuntavano altri due cobra. «Avvicinati…», disse James. Poi iniziò ad armeggiare con qualcosa che si trovava al centro del dipinto, la testa del serpente posta sul ventre del mostro. Dopo una lieve pressione la testa si spostò, mostrando come un piccolo oblò, una finestrella che lasciava intravedere al di là del dipinto, oltre la parete a cui era appeso. Il barone de Rothschild vi guardò attraverso per primo, per pochi istanti. Poi si voltò verso Rossini e gli fece cenno di guardare a sua volta. La musica d’organo si era fatta più sonora, il mormorio molto più presente e cupo, come la ripetizione ossessiva di un mantra. La lente del piccolo oblò deformava leggermente 18


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l’immagine, ma ciononostante dava una visione abbastanza completa di quanto stava accadendo all’interno di quella cripta. «Non… non è possibile… Dio mio… non è possibile…» Queste furono le poche parole che Gioachino riuscì a balbettare, con voce rauca. Rimase come pietrificato: la mente si rifiutava di credere. Poi si mise le mani in faccia per non vedere altro.

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CAPITOLO SECONDO 21 marzo 1860. Parigi, Passy, Villa Beauséjour.

Adagiato su una grande poltrona, con il capo avvolto

da un asciugamano e lo sguardo fisso su una delle ampie finestre che mostravano le lunghe sagome arboree del Bois de Boulogne, Gioachino Rossini non riusciva a non pensare a quella notte terribile. La mente era invasa dalle peggiori visioni, il cervello martellava senza sosta e non gli permetteva di riprendere la quotidianità della sua vita appartata, scandita da orari sempre meticolosamente osservati. La notte era passata in un continuo, drammatico dormiveglia, assistito dalle cure amorevoli e dalle tisane di Olympe. Non era una novità per la consorte: già quindici anni prima aveva dovuto fare i conti con gli effetti devastanti della depressione da cui Gioachino era afflitto, attacchi d’ansia incontenibili uniti a un’autentica ossessione per le malattie, il terrore di essere lasciato solo, le manie di persecuzione, le frequenti crisi d’insonnia che passavano all’epoca per 21


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le tipiche fisime di un artista, a maggior ragione se importante e famoso come lui. Alle sette era riuscito a trascinarsi in bagno, per iniziare, come ogni giorno, la lunga e accurata toilette, cui avrebbe fatto seguito qualche veloce lettura e, se ispirato, la scrittura di qualche battuta musicale. Tutto ciò avveniva nella camera da letto adibita a studio, che il compositore tendeva a non abbandonare mai se non per fare colazione al piano di sotto. Una passeggiata nel parco dopo l’una e poi di nuovo a studiare, a leggere e a comporre, in attesa del fine settimana da trascorrere nell’appartamento parigino, alla Chaussée d’Antin, dove il grande salone era consacrato ormai da due anni, e per tutti i mesi invernali, alle irrinunciabili accademie musicali, ritrovo mondano della Parigi che conta. Pochi giorni prima, aveva avuto un incontro straordinario con Richard Wagner, un lungo colloquio privato che aveva destato non poche emozioni nel suo sopito estro, come ben avrebbe testimoniato l’unico eletto presente all’evento, il giovane compositore belga Edmond Michotte. Ma la fatidica notte appena trascorsa aveva cambiato tutto. Qualcosa di pauroso e al tempo stesso inaccettabile, inumano, mostruoso, aveva scosso i suoi fragili nervi. Si riaffacciava lo spettro di quel terribile male oscuro, l’ansia che lo aveva più volte gettato nel baratro dell’astenia . Le immagini sbirciate attraverso la finestrella del quadro scorrevano orrende e vivide nei suoi ricordi e quanto più cercava di distogliere il pensiero, sperando 22


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in un incubo, tanto più si rendeva conto che quanto vissuto poche ore prima era tragicamente vero. Gioachino guardava le finestre e ripensava alle ultime parole che gli aveva confidato James, dopo averlo riaccompagnato a casa: «Ora hai un grande compito. Io non posso parlare né scrivere nulla, sono uno di loro, mi toglierebbero di mezzo senza che io me ne accorga. Ma con il tuo aiuto, ne sono certo…» …e quel bigliettino da visita ingiallito che l’amico gli aveva infilato rapidamente in tasca. Vi era scritto: Adrien Auguste de Montpellier, antiquario, 12, Rue Coquillière. «Vai a fargli visita, ti aspetta e ci aiuterà», gli aveva detto prima che la carrozza venisse inghiottita dal buio. Nella sua mente turbata si agitavano due idee contrapposte: prendere il coraggio a due mani e recarsi presso il più vicino posto di polizia, denunciare tutto, compiere il suo dovere di cittadino e liberarsi di quel peso sconvolgente. Questa gli sembrava l’unica soluzione ragionevole, ma dall’altra parte vi era il terrore di smuovere qualcosa di molto più grande di lui, e a quel punto la paura prendeva il sopravvento: «No, io non devo fare nulla, non ho visto nulla, non so nulla. Sono malato, vecchio, distrutto. Cosa vogliono da me?», pensava e ripensava giocherellando con quel biglietto da visita e fissando gli alberi scossi dal vento. Al piano di sotto si stava svolgendo un colloquio serrato. 23


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«Jean, per cortesia, cosa è accaduto stanotte, voglio i dettagli!», il tono di Madame Olympe Pélissier in Rossini era fermo e perentorio. Il giovane servitore cercava timidamente di trovare le parole adatte: «Madame, je vous en prie, ho detto tutto quello che sapevo». «Ripeti, da capo!» «Il Maestro è stato accompagnato da Sua Eccellenza il barone de Rothschild all’interno delle Catacombe, alla Barrière d’Enfer. Siamo entrati, hanno percorso una specie di labirinto, poi hanno attraversato un passaggio segreto di cui il barone aveva la chiave, io li ho attesi fuori per circa mezz’ora, mi avevano ordinato di non seguirli. Quando sono tornati… et bien… il Maestro era sconvolto, pallido, non ha più detto una sola parola. Il barone mi ha solo ordinato di sorreggerlo fino alla carrozza parcheggiata all’esterno davanti al cancello d’ingresso, siamo saliti… e siamo tornati a casa… il barone ha continuato fino a casa sua, immagino…voilà, c’est tout…» «Jean!!! Ti rendi conto dell’assurdità di quello che mi stai raccontando?? Le Catacombe, di notte?? Ma sono impazziti tutti…», la signora Rossini si tratteneva dal gridare a pieni polmoni, non voleva assolutamente che il marito udisse il suo sfogo. «Madame, capisco…» «Jean, il Maestro ha impiegato anni per riprendersi da una lunga, terribile depressione e so quale immane fatica è costata la sua quasi completa guarigione. Nelle sue condizioni questa avventura notturna è stata solo una pazzia, sono incredula e molto delusa 24


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dal barone de Rothschild, che alla sua età e con la posizione che ricopre se ne va in giro di notte a fare questi scherzi…» Jean guardava la padrona di casa con fare contrito, il capo leggermente abbassato. Un raggio di sole colpiva di taglio il volto spigoloso di Madame Olympe Pélissier, illuminandone i tratti. Si intuivano, in quella signora poco più che sessantenne, l’antico fascino e la risolutezza di un carattere forte come pochi, oltre al fare determinato di chi deve sostenere non soltanto il fardello della propria esistenza ma anche quello di un marito assai impegnativo. Uno dei musicisti più importanti e acclamati al mondo, ma al contempo uomo complesso, dagli sbalzi umorali continui, dovuti a frequenti esaurimenti nervosi e vari malanni, tra cui una fastidiosa infezione all’uretra, che si portava dietro da anni. Olympe era stata una delle più belle demi-mondaines parigine, contesa da grandi personaggi quali il pittore Vernet, gli scrittori Honoré de Balzac ed Eugène Sue, che aveva lasciato dopo una lunga e travagliata relazione. Aveva conosciuto Rossini nel 1830 ma l’amore sarebbe esploso solo due anni dopo, durante un soggiorno galeotto presso gli stabilimenti termali di Aixles-Bains, in cui si era dedicata con infermieristica passione a curare gli acciacchi del famoso compositore. Riuscì a sposarlo finalmente nel 1845, dopo la scomparsa della prima moglie, Isabella Colbran, di cui era diventata persino amica. Da allora, nel bene e nel male, Olympe e Gioachino erano diventati inseparabili. 25


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«Va bene, Jean. Parlerò io con il Maestro. Ora voglio solo che si riprenda da questa follia… puoi andare.» Olympe attese con infinita pazienza la levée du Roi. Passarono almeno quattro, cinque interminabili ore prima che il Maestro si affacciasse pigramente nel salone del primo piano. Somigliava a un fantasma. Pallido, lo sguardo perso nel vuoto, silente, dopo qualche passo strascicato riuscì a malapena a sprofondare nella sua poltrona preferita, collocata strategicamente davanti al quadro che ritraeva Padre Mattei, il suo adorato insegnante di Bologna. Olympe sapeva bene che non avrebbe ottenuto alcuna risposta in merito a quanto accaduto la notte precedente. Erano passati vari anni dai terribili attacchi d’ansia che avevano prostrato Gioachino fino a ridurlo a una larva. Ricordava ancora vividamente le lunghe nottate passate a sostenerlo e a curarlo come la più paziente delle infermiere. Le tornavano alla mente gli sbalzi d’umore, le sfuriate per un nonnulla, persino i capricci isterici. Attaccò il discorso, da brava moglie premurosa, prendendola alla larga: «Sto predisponendo la lista degli invitati per la prossima soirée. Abbiamo i soliti della settimana scorsa, più Ambroise Thomas, il vecchio Daniel Auber, Marietta Alboni con il suo malandato marito, poi Alexandre Lavignac, Louis Diémer, i coniugi Pillet-Will e James de Rothschild… sempre che si riprenda, pure lui, dai bagordi notturni…» Una grande pausa teatrale e un’occhiata di fuoco fecero seguito al nome del barone. 26


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«No, lui no…», mormorò quasi senza voce Rossini. «Perché? Avete litigato?» «Lui no… non adesso…» «Gioachino, non capisco… mi pare un grave sgarbo non invitare il più assiduo e leale tra i tuoi sostenitori.» «Olympe… è accaduto un fatto, ieri sera, che…», parlava a fatica ma il silenzio e lo sguardo severo della moglie gli indicavano tre sole vie d’uscita: parlare, tacere o sviare il discorso. Rossini scelse la terza possibilità: «Parlerò io con lui, Olympe, non preoccuparti. Piuttosto, chi suonerà sabato? Io non me la sento…». «Il giovane Lavignac… ci tiene particolarmente.» «Benissimo. Meglio così. Non voglio sentirmi obbligato a esibirmi, come un fenomeno da baraccone.» «Ma tu sei Rossini! Ci sono persone che pagherebbero oro per essere presenti a un tuo samedi musical, ed è il primo che organizziamo qui in villa. Sono due anni che devo scusarmi e rimandare indietro schiere di personaggi, tutti ansiosi di venerarti e applaudirti. Lo sai questo?» Rossini guardava inebetito il ritratto di Padre Mattei… per un terribile attimo vide materializzarsi nuovamente quel pertugio a forma di testa di cobra… «Gioachino, mi ascolti?» «…Olympe, sono arrivati i maccheroni? Mi è stata finalmente recapitata la siringa d’argento e avorio per farcirli…» 27


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Olympe aveva perfettamente capito che la conversazione era terminata. Il marito si era chiuso a riccio e qualsiasi tentativo di indagine su quanto accaduto sarebbe miseramente naufragato. Avrebbe parlato di foie-gras, di tartufi, di salami, di pettegolezzi vari ma nulla sarebbe trapelato. Era il suo modo di fare: cortine di nebbia, voli pindarici, battute… la grande maschera che Rossini indossava per non mostrarsi, per non svelarsi. Preferiva far credere a tutti di essere un grande cuoco piuttosto che il sommo musicista adorato in tutta Europa. Olympe lo amava anche per questo, un po’ madre di un bambinone viziato, un po’ infermiera di un vecchio malato e fortemente ipocondriaco. Ormai i tempi della passione e dei viaggi di piacere tra un’opera e l’altra erano solo un ricordo. Dal canto suo, Rossini non aveva il coraggio di iniziare un racconto surreale, che non sarebbe stato recepito se non come il delirio di un anziano depresso. Furono proprio gli sguardi severi di Olympe, che cercava di carpire tra le righe ogni minimo indizio di quel che poteva essere accaduto, a indurre Gioachino a risolvere in modo drastico l’impasse: «Va bene, invita pure il barone». Era un modo come un altro per porre fine alla discussione senza ulteriori domande. La moglie lo sapeva bene, ma per quieto vivere si allontanò scuotendo il capo, così come faceva da sempre. La mente di Gioachino tornava alla spaventosa visione notturna, al terribile segreto e al misterioso bigliettino lasciatogli da James. 28


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Non poteva starsene inerte. Se il barone era stato costretto al silenzio, pena la morte, da un solenne giuramento, da un patto o semplicemente dalla propria posizione… questo era anche comprensibile. Ma perché lo stesso ora parlava di un alto compito? E quale? Rivelarlo forse? E come? Tante domande con troppe risposte possibili. Tornò presso lo scrittoio posto tra il letto e il pianoforte. Negli ultimi anni aveva centellinato le sue composizioni, limitandole al minimo: la “Cantata per Papa Pio IX”, l’“Inno alla pace” e qualche pagina di vocale e strumentale, i “Péchés de vieillesse”, album di pezzi vocali con accompagnamento di pianoforte composti tra il serio e il faceto, per se stesso e per quella dozzina di convitati di lusso pronti ad acclamarlo e ad adorarlo, nel tranquillo rifugio del proprio salone. Lo scrittoio era abbastanza ordinato ma tra le pagine sparse non perfettamente allineate faceva capolino un inno liturgico, composto tre anni prima, “O salutaris hostia”, su testo di San Tommaso d’Aquino: O salutaris Hostia quae caeli pandis ostium, bella premunt hostilia; da robur, fer auxilium. Uni trinoque Domino sit sempiterna gloria, qui vitam sine termino nobis donet in patria. 29


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(Ostia di salvezza, che spalanchi la porta del cielo, aspre battaglie ci stringono da ogni parte; donaci forza e aiuto. Sia gloria in eterno al Signore uno e trino che ci donerà la vita senza fine nella patria celeste.) Quella preghiera da elevarsi nella festa del Corpus Domini era diventata la sua preghiera ed era esattamente quella forza che ora cercava in se stesso. “O salutaris hostia”… “O salutaris hostia”… la melodia distribuita per le voci miste del coro, in Sol maggiore, ripetuta nella sua mente si trasformava pian piano in un accorato assolo del tutto differente… Sol-Sol-Sol-Si-Re-Fa-Mi-Re… un canto alato affidato alla sua intonatissima voce baritonale. Si ritrovava da solo a chiedere la forza e l’aiuto del Cielo per combattere i demoni da cui era afflitto. La mano destra, bianca e affusolata, si allungò verso la tastiera, la voce accennata ripeté non meno di una decina di volte quel disegno sublime, mosso dall’estro e dalla disperazione: “O salutaris Hostia… da robur, fer auxilium…”. Appuntò su una pagina pentagrammata quella melodia sgorgata dal cuore, poi abbassò il coperchio del pianoforte e si assopì, sopraffatto dal sonno.

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CAPITOLO TERZO 21 marzo 1860. Parigi, 12, rue Coquillière, ore ventuno.

Rue Coquillière è una delle più antiche strade di

Parigi a un passo dal Louvre e dal Palais Royal, costruita nel 1292 sui terreni appartenuti alla famiglia Coquillier, da cui il nome. Il brulicare frenetico delle vie circostanti sembra non lambire questa vecchia strada, percorsa da poche carrozze e da alcuni avventori, in cerca di negozi particolari o smaniosi di raggiungere arterie più importanti, come rue du Louvre che la taglia a metà. La carrozza di Rossini si fermò esattamente davanti al civico 12. Gioachino scese a fatica, aiutato dal fido Jean, che lo accompagnò davanti al portoncino dell’austero palazzotto parigino in stile classico. Una targhetta in ottone recava la scritta: A.A. de Montpellier. «Aspettami qui Jean, spero di non doverti fare attendere a lungo», disse senza crederci troppo, quindi si soffermò a guardare con curiosità il particolare 31


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battente posto al centro del portoncino. Un grande sole in bronzo dorato molto bello nonostante fosse stato annerito dal tempo. Senza esitare oltre batté due volte. Dopo poco la porta si aprì e fece capolino il bellissimo volto di una giovane donna, incorniciato da sottili capelli biondi e illuminato da lunghi occhi azzurri. La ragazza, elegantemente vestita, chiese: «Buongiorno Monsieur, chi devo annunciare?» «Sono il Maestro Gioachino Rossini, cercavo Monsieur Adrien de Montpellier.» «Si accomodi Maestro, era atteso», rispose immediatamente la ragazza e gli fece subito strada. La delicata silhouette della giovane non lasciò indifferente Gioachino, che non poteva dimenticare i suoi trascorsi da bon vivant. Non si avvide neanche dei quadri e delle stampe appesi alle pareti del lungo corridoio che stava percorrendo, tanto era intento ad ammirare le curve ancheggianti di quella graziosa creatura che lo scortava verso un primo ampio salone. «Maestro, abbia la compiacenza di attendere qui. Vado ad avvertire mio zio del Suo arrivo.» Lo zio! Gioachino avrebbe giurato si trattasse di una giovane fantesca, sebbene la sobria eleganza degli abiti avrebbe dovuto suggerirgli una diversa mansione. Si sedette su un sofà ed ebbe finalmente modo di osservare con più attenzione il singolarissimo luogo in cui si trovava. Intanto un quantitativo impressionante di oggetti, 32


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sparsi un po’ ovunque ma in un disordine solo apparente: orologi di ogni forma e grandezza, ognuno perfettamente funzionante, come dimostrava il ticchettio incessante di decine e decine di meccanismi diversi. Quadri raffiguranti svariati soggetti e poi mobili, sedie, poltroncine, alcune lise di vecchiaia, almeno due grandi biblioteche talmente piene di libri da piegare leggermente le mensole sotto il loro peso, un lungo tavolo basso in radica, totalmente occupato dall’argenteria, vassoi, vasi, tabacchiere intarsiate, fermacarte, persino una grande lente d’ingrandimento retta da un piedistallo e unita a un candeliere. Su un tavolino basso, un’enorme lampada in bronzo, raffigurante una rana gigante che reggeva un grande ombrello a forma di fungo… «È tutto interamente in guscio di tartaruga…», disse qualcuno alle spalle di Gioachino, che stava ammirando lo strano oggetto. «Ouff… che spavento…», Rossini reagì d’istinto e si voltò. Un anziano signore avvolto in una vestaglia di velluto rosso, con gli orli dorati, seduto su una sedia a rotelle più vecchia di lui, munito di spessi occhiali, osservava l’ospite con un sorriso appena accennato . «Perdoni Maestro, chi direbbe mai che queste gambe artificiali possano essere tanto silenziose. Non volevo spaventarla, mi creda.» «Non fa nulla… Monsieur de Montpellier, immagino?» «Sì, sono io ed è un onore per me ospitare un genio della musica come lei.» 33


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«La ringrazio, forse lo sono stato, adesso sono solo un pianista di quarta categoria.» «Oh no, non dica questo, Maestro Rossini. Il nostro comune amico James de Rothschild mi ha tanto parlato di lei e ho avuto modo di apprezzare qualcuna delle sue eccezionali opere, quando ancora ero in grado di frequentare i teatri.» «La ringrazio, ne sono molto lusingato, è un musicista anche lei per caso?» «No, assolutamente. Da giovane ho studiato per un po’ violino e pianoforte, ma sono rimasto un eterno dilettante. Mi consideri un cultore delle arti, uno studioso dell’Armonia delle Sfere… ne ha mai sentito parlare?» «Se non erro ne parlavano gli antichi filosofi greci», rispose Gioachino sfoggiando i ricordi, invero un po’ sbiaditi, dei suoi studi bolognesi. «Pitagora… il grande Pitagora… armonia e numero, i pilastri che reggono il mondo, macrocosmo e microcosmo strutturati in base a rapporti proporzionali ideali, esprimibili in melodie.» «La dottrina dell’Armonia delle Sfere… ma certo, Pitagora», replicò Gioachino, come se gli fossero appena tornate alla mente le antiche conversazioni con Padre Mattei. «Esattamente Maestro. Una perfetta armonia regola il mondo, anzi… costituisce il mondo. Terra e Cielo sono separati da un intervallo di ottava, i quattro elementi, Terra, Acqua, Fuoco, Aria, collegati alla Santa Trinità… e così abbiamo le sette note, che il Grande Accordatore combina con la Sua infinita sag34


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gezza… Keplero assegnò addirittura delle note ai singoli pianeti…» Le parole dell’anziano Adrien de Montpellier affascinarono talmente Rossini al punto da stordirlo, e a ciò contribuiva anche la calda luce che avvolgeva quel singolare ambiente, così denso di elementi e di suggestioni strane, di energie sottili che sembravano animare ogni singolo oggetto. Un’atmosfera nuova eppure familiare; quello strano personaggio, fino a quel momento sconosciuto, sembrava in realtà un amico di lunga data, a metà strada tra un saggio e un confidente. Com’era possibile? «Ah… magari avessi potuto comporre o solo ascoltare la Musica delle Sfere», disse sospirando Rossini. «Il grande Beethoven disse che ero nato per l’opera buffa, Richard Wagner pochi giorni fa mi ha ripetuto il medesimo concetto e adesso finalmente ne sono convinto anch’io…» «Lei, Maestro, conosce tanti segreti, più di quanto immagina…», gli occhi del vecchio si erano fatti simili a fessure, da cui partivano due aghi luminosi, perforanti. Un brivido percorse Gioachino. Segreti… alludeva forse a “quel” segreto? È un amico di James… mio Dio… sa tutto anche lui? Riaffiorarono come lampi le visioni terrificanti della notte trascorsa nelle Catacombe. «Vede, Maestro Rossini, non è un caso che lei sia qui da me e proprio oggi, il 21 marzo. Né è un caso che ieri sia stato altrove…» 35


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«Monsieur, non capisco», disse Gioachino fissando quegli occhi a fessura, sempre più aguzzi. «Il 21 di marzo corrisponde, come lei forse saprà, all’equinozio di primavera, la cosiddetta fine dell’inverno. La luce dopo le tenebre, la rinascita dopo la morte, la aequa-nox latina… equinozio. Tutto ha origine dal culto solare: le energie del Sole assorbite dalla Terra vengono da essa trasformate in elementi nutritivi, prima di essere rispedite al Sole, attraverso lo spazio cosmico. Dal giorno alla notte e viceversa, la Terra riceve e al tempo stesso proietta energie positive e negative, che influiscono fortemente sulle nostre cellule creando nuove forze e nuovi slanci vitali. L’uomo e la natura vivono in perfetta armonia e nulla avviene per caso… mi segue?» «Certo… La sto ascoltando con molto interesse…» «L’equinozio non va confuso con il solstizio, cioè il momento in cui il Sole raggiunge la sua massima o minima declinazione, ossia i due giorni rispettivamente più lunghi e più corti dell’anno, il 20 o 21 giugno e il 21 o 22 dicembre, le cosiddette Porte dei Padri e degli Dei di cui parlavano i Greci… l’istante critico in cui la luce ferma la sua corsa perenne e inverte il ciclo, lasciando il posto alle tenebre per poi risorgere con nuova forza… la luce che consente all’uomo di discernere il Bene dal Male…» Il ticchettio costante dei tantissimi orologi presenti nella stanza contrappuntava le parole dell’anziano padrone di casa con un ritmo sinistro e inesorabile. Per una strana coincidenza, alla parola “Male” un pendolo posto ad angolo, nel punto meno illuminato 36


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del salone, scandì l’ora che però non coincideva assolutamente con quella reale. Rossini si avvide allora che ogni orologio segnava un’ora diversa e la cosa lo incuriosì oltremodo: «Come mai gli orologi indicano ore differenti?». «Ah ah… buffo, vero? No, non è la mania d’un vecchio pazzo, come molti credono. Vede… per me, come per Sant’Agostino, il tempo è solo una convenzione. Dio è fuori dal tempo. Passato, presente e futuro sono un tutt’uno, ma il passato non è più e il futuro non è ancora… per cui… ho deciso di non tarare ognuno di questi piccoli meravigliosi meccanismi secondo le nostre misere scansioni. Ore diverse, passato presente e futuro che convivono felicemente, il futuro come attesa presente di ciò che sarà e il presente come attenzione presente a ciò che è.» «Complimenti Monsieur de Montpellier. Un concetto che mi rappresenta: essendo nato il 29 febbraio del 1792, anno bisesto, posso consentirmi il lusso di festeggiare il mio vero compleanno una volta ogni quattro anni. A mio modo anch’io ignoro le convenzioni umane. Lei ha di fronte a sé un anziano diciassettenne!» «Ha ragione, Maestro. Solo i pazzi possono considerare il tempo. Eraclito diceva che il tempo è un gioco, giocato magnificamente dai bambini. Ma che pessimo padrone di casa che sono, non le sto offrendo nulla da bere… gradisce qualcosa in particolare o posso consigliarle una meravigliosa tisana preparata da mia nipote?» «Con molto piacere.» 37


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«Julie!... Julie!…», il vecchio percosse per tre volte un piccolo gong collocato su un tavolino basso e poco dopo riapparve la bellissima ragazza che aveva condotto l’ospite in quello strano posto. «Julie… una tisana al tiglio e boccioli di rosa per me e per il Maestro Rossini.» La ragazza annuì con un lieve sorriso e lasciò subito soli i due uomini. «Mia nipote è il mio unico vero sostegno. Ha sedici anni ma è come se ne avesse cinquanta: senza di lei sarei perduto», sottolineò l’anziano padrone di casa con un certo orgoglio. «Monsieur de Montpellier, posso chiederle quale sia la sua attività e per quali vie conosce il barone James de Rothschild?», domandò deciso Gioachino. «La mia attività, come può vedere, consiste nel restare inchiodato a questa sedia a rotelle e rovistare tra le mie scartoffie, aggiustando qualche orologio mal funzionante, oliando qualche meccanismo arrugginito, meditando. Da giovane facevo l’antiquario. In questa casa può vedere ciò che resta delle mie collezioni, dei miei incunaboli. Alcuni sono preziosi, più unici che rari… Ecco, tenga questo, voglio farle un piccolo regalo.» E detto ciò ripose nelle mani del Maestro un volume ingiallito ma molto ben conservato. «È un compendio della monumentale Musurgia Universalis di Athanasius Kircher, oltre mille pagine di pura sapienza suddivise in dieci ponderosi tomi, si parla di musica divina, musica delle sfere, come le dicevo prima.» 38


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«Grazie, ma non doveva disturbarsi, lo acquisto volentieri… a quanto vedo è un libro molto prezioso e antico…» «Antico di ben duecento anni, sebbene questo ampio compendio sia stato scritto più recentemente. Guardi che meraviglia questa immagine…» Il vecchio antiquario mostrò a Gioachino il bellissimo frontespizio. «La sfera al centro rappresenta la musica mundana ossia la musica cosmica, che a sua volta è solo una debole lontana parvenza della musica divina, rappresentata dai nove Cori angelici… eccoli qui in alto, vicini al triangolo che irradia luce… Dio…» Rossini era affascinato da quel volume, lo sfogliava delicatamente senza parlare. «La musica delle sfere, Maestro Rossini… un sogno idealizzato da molti. Copernico, Tycho Brahe, Keplero… il quale capì che i pianeti si muovono intorno al Sole e che l’Universo è guidato letteralmente da regole musicali, risonanze tra le orbite dei pianeti o meglio legate alla velocità angolare dei pianeti lungo la loro orbita… non è straordinario?» «Devo ammettere che è un argomento difficile ma affascinante.» «No, perché difficile? Prenda come esempio il nostro pianeta: al perielio ha una velocità pari a 16/15 rispetto a quella che ha all’afelio, del tutto simile a quella che c’è tra le frequenze di un Mi e di un Fa. La musica della Terra è una sequenza di Mi e di Fa, secondo quanto affermato da Keplero.» «Lo stesso vale per ogni pianeta?» 39


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«Esattamente. Secondo Keplero a ogni pianeta non corrisponde precisamente un singolo suono bensì un intervallo, la cui nota più grave corrisponde alla velocità minima e quella più acuta alla massima. I pentagrammi rappresentano acusticamente la struttura armonica del cosmo: l’ampiezza degli intervalli è direttamente proporzionale all’eccentricità dei pianeti.» «Le sue teorie sono molto interessanti, Monsieur de Montpellier. Mi è sempre piaciuto immaginare l’Universo come scaturito da un suono e quindi in perpetua armonia.» «Giusto Maestro, lei ha applicato l’intuito geniale tipico dell’artista che spesso si avvicina più alla verità che secoli di studi da parte della cosiddetta Scienza. L’Universo ci parla e usa la musica per parlarci. Tutto vibra nel nostro Universo, come una corda di violino più o meno tesa genera un numero praticamente infinito di toni musicali. Potremmo arrivare ad affermare che tutto è musica o che la musica è Dio, volendo.» «Credo di sapere chi è riuscito a mettere in musica l’armonia delle sfere…», disse Rossini guardando fisso il suo interlocutore. «Mozart?» «Anche, ma prima di lui c’è Bach… basta studiare la sua musica, soprattutto quella per organo. Ma questo libro di Kircher spiega i concetti di cui mi sta parlando?» «Avrà tempo di consultarlo con calma. Kircher fu un personaggio estremamente versatile, poligrafo, 40


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scienziato, professore di matematica e fisica, detentore – a suo dire – di tutto lo scibile umano.» «Una bella pretesa, credere o illudersi di sapere tutto…» «Sì, ma in ogni caso seppe davvero moltissimo. Nel nono libro, per esempio, trattò in modo assai interessante i misteriosi effetti della musica e le sue proprietà taumaturgiche… diceva che la musica poteva persino curare la peste… ma il capitolo più interessante è il decimo, in cui teorizzò che il mondo intero vibrasse grazie all’armonia di tutti gli esseri e che Dio ne fosse il grande accordatore, come un fantastico, onnipotente organista. Ma… la sto forse annoiando Maestro?» Gioachino si rese conto di essere sembrato piuttosto disinteressato e distratto e cercò subito di rimediare: «Ma no, nella maniera più assoluta. Ero talmente incantato dalle pagine di questo volume e dalla squisitezza del suo dono che…» «Non deve giustificare nulla, né cercare di ringraziarmi. Piuttosto… non è curioso di sapere perché si trova qui in questo momento?» «James mi ha detto che lei avrebbe potuto essermi d’aiuto… posso gentilmente sapere come e perché?», chiese Gioachino fissando intensamente il suo interlocutore. Il vecchio antiquario tacque qualche istante, poi si diresse verso una porta, la aprì e disse: «Si accomodi Maestro, questo è il mio studio, parleremo meglio.» 41


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CAPITOLO QUARTO Parigi, 12, rue Coquillière.

Varcata la soglia che divideva il salone dallo studio,

Gioachino fece il suo ingresso in un altro mondo. Ogni ticchettio era svanito, se ne udiva solo una lieve eco in lontananza; le pareti della stanza erano rivestite di stampe antiche che riproducevano mappe terrestri, planetari e strane geometrie, che in apparenza sembravano schizzi di progetti architettonici. All’interno dello studio c’era una teca basculante in palissandro, stipata di quarzi e di pietre grezze dai fantastici colori; una singolare collezione di mongolfiere in ceramica, dalla più grande in alto a tante minuscole, poste sopra un elegante caminetto, libri su libri sistemati dove possibile, alcuni impilati in colonne che poggiavano direttamente sul pavimento come tante torri pendenti e impolverate. Due grandi finestre munite di pesanti tendaggi in broccato illuminavano molto poco un tavolo lungo, anch’esso pieno di oggetti, tra 43


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cui spiccavano un astrolabio in ottone, un leggio intarsiato di pregevole fattura, una scatola aperta da cui emergeva un’enorme bussola e un sestante da vascello, lucidati a dovere, insieme ad altre pietre grezze sistemate sopra eleganti vassoi dorati. Lo studio del dottor Faust, pensava Gioachino tra sé e sé, scrutando con curiosità gli oggetti più strani e luccicanti. «Si sieda pure Maestro. Immagino voglia sapere come ho conosciuto il barone James de Rothschild. La scena è molto teatrale: riunite attorno un tavolo, bendate, tante persone diverse e tra loro in gran parte sconosciute, una stanza costellata di simboli, un grande candelabro a sette braccia sullo sfondo, musica rituale, mistici incensi. Una volta tolta la benda ho visto accanto a me un signore distinto, il barone de Rothschild, rampollo illustre della gloriosa omonima schiatta. Sì, io e il barone siamo membri della stessa Confraternita, forse lei ne è a conoscenza…» «Certamente. James mi ha a lungo parlato di questa affiliazione e non nascondo che sono stati tanti i tentativi di convincermi a farne parte. Poi…» «Poi…», lo interruppe l’antiquario, «un po’ per pigrizia, un po’ per timore di Dio e un po’ per paura di cadere vittima di loschi affari, lei vi rinunciò…» «No, Monsieur de Montpellier, non furono queste le uniche ragioni. All’epoca ero un compositore molto impegnato e ancora in piena attività, non avrei avuto il tempo di dedicarmi a questa nuova impresa, il barone mi aveva spiegato che vi erano obblighi di presenza a riti, a incontri in date stabilite… la mia vita, i miei continui spostamenti mi avrebbero impe44


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dito di essere assiduo e costante, condizione essenziale, a quanto pare, per far parte del gruppo. Tra l’altro non era il barone l’unico componente che conoscevo, vi erano tantissimi amici e conoscenti, molti appartenenti al mondo musicale.» «Lo so, lo so… il rito non tollera approssimazioni, la costanza e l’osservanza rigorosa dei tempi e delle modalità sono componenti basilari affinché avvenga un’azione costruttiva, la cosiddetta edificazione del tempio interiore. La ritualità è il mezzo di comunicazione più importante, perché rende operante il simbolo. Ogni cerimonia è una fonte zampillante di energia, come una sua ouverture… caro Maestro…» «In tutta franchezza Monsieur… non pensavo che il rito potesse avere risvolti anche malefici, nefasti. Con James si parlava di luce, di cammino verso la perfezione…», il tono di Gioachino si era fatto cupo. Doveva capire se Monsieur de Montpellier era al corrente di ciò che avveniva nelle cripte sotterranee di Parigi. «La Confraternita non c’entra assolutamente nulla, figuriamoci: un gruppo di crapuloni che si riuniscono in case private, per bere, mangiare e parlare di donne… Lei stesso è stato ammesso a queste riunioni senza problemi, senza segreti, nulla di occulto… o sbaglio?» «È così, lo ammetto. Ma proprio per questo non potevo immaginare…» «…di assistere a qualcosa di tanto orrendo e mostruoso da non poter essere nemmeno descritto…», proseguì il vecchio, fissando Gioachino. «Esattamente… purtroppo…» 45


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«Maestro Rossini… noi possiamo porre fine a questo orrore. Ma il percorso non sarà facile. Loro sono ovunque e ben collegati con chiunque: non basta una normale denuncia, anzi. Con i legami occulti presso le alte sfere dell’esercito e della polizia rischieremmo noi stessi di essere imprigionati e puniti, forse persino con la pena capitale…» «Ma “loro” chi?», fece Rossini d’impulso. La tensione venne interrotta da due colpi alla porta seguiti da una voce delicata: «Pardon, la vostra tisana…» «Entra Julie!», rispose il vecchio, continuando a fissare Rossini. La ragazza depose il vassoio con due grandi tazze fumanti sul tavolo, poi, molto timidamente e a bassa voce, disse: «Chiedo scusa, zio Adrien, io tornerei a casa se non occorre altro…» «Nulla cara, vai pure, salutami Joséphine.» La ragazza baciò lo zio, rivolse un sorriso cordiale all’ospite e scomparve senza più dire una parola. L’anziano antiquario aspettò di sentire il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva, poi riprese il discorso: «Maestro Rossini, io sono un grande appassionato di esoterismo. Mi interesso di poteri occulti, dottrine segrete, conoscenze antiche… molto antiche, questioni che vengono raccontate in un modo ma che in realtà sono tutt’altro.» «Molto interessante. Non è tuttavia la mia materia: sono un vecchio rococo, posso parlare di musica, di 46


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cucina se vuole, ma per il resto… sono davvero negato.» Per nulla scomposto dalla risposta secca di Rossini, l’antiquario sorrise e continuò imperterrito: «Lei sa che esiste un’altra monarchia, diciamo così “élitaria”, che sta al di sopra di ogni Re e Imperatore della Terra? È frutto di un potere che viene tramandato addirittura geneticamente dai tempi dei Sumeri e dei Babilonesi, sto parlando di cinquemila anni prima della nascita di Cristo. Un potere divino che dà diritto a regnare, delle vere e proprie stirpi reali che con ossessiva e meticolosa attenzione perpetuano la loro discendenza, mantenendo intatti i rituali e le caratteristiche del loro quadro genetico.» «No, non lo sapevo. Del resto io non ho mai amato la politica e quelle poche volte in cui mi sono trovato a dover fare i conti con questa brutta bestia ne ho subito tragiche conseguenze.» «Davvero? In qual modo?» «La censura asburgica, prima, che mi creò problemi per la tonaca di Don Basilio nel Barbiere di Siviglia, poi addirittura quella borbonica, cui dettero fastidio alcune arie nell’innocua Italiana in Algeri, cose tipo “Pensa alla patria”, perché appariva la parola “patria”… ed eravamo nel 1815… poi ancora non si tollerarono le morti violente di Desdemona in Otello e di Semiramide… per non parlare di quello che accadde a Bologna, pochi anni or sono…» «Cosa successe?» «Quei dannati moti del 1848, che mi costrinsero ad abbandonare per sempre la mia adorata città. Al47


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cuni fanatici politici ebbero l’ardire di ingiuriarmi con violenza sotto le finestre di casa, accusandomi di non sostenere le loro rivoluzioni. Venni tacciato di essere un cinico conservatore, insultato, linciato quasi. La mia salute mentale ne risentì moltissimo, tanto che ci vollero anni prima di riprendermi del tutto.» Il volto di Gioachino si era fatto paonazzo nel rammentare quei tristissimi episodi e di ciò si avvide immediatamente l’anziano antiquario, degustando lentamente la tisana. «Maestro, quello che sto per rivelarle è assai più grave e terribile della censura napoletana o dei facinorosi bolognesi, mi creda. Ma se vuole non proseguo…» «No, vada avanti, Monsieur de Montpellier. Mi stava dicendo di questi poteri occulti che governano alcuni paesi del mondo…» «Queste stirpi sono fortemente legate a determinate date e a precisi simboli, da cui traggono forza ed energia: soprattutto draghi e serpenti. Ha mai sentito parlare del Culto dei Draghi Progenitori, il Thir?» «No, mai.» «Tre Draghi progenitori, tre potenze primordiali, tre forze cosmiche tra loro contrapposte. Nel linguaggio draconiano, Thir vuol dire appunto Tre. Il caos, la legge e l’equilibrio. Il bene, il male e la neutralità. Per i molti studiosi dell’argomento, Thir sarebbe il ciclo perpetuo della Creazione e gli Dèi Dragoni i creatori di tutto ciò che noi conosciamo. I quali tutto osservano dall’alto, in altre dimensioni e un giorno 48


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torneranno, palesandosi in tutta la loro eccezionale potenza.» Gioachino osservava attentamente l’anziano e stravagante personaggio. La veemenza dell’eloquio, oltre che la luce sprigionata dai suoi occhi nel dire cose tanto strane quanto inquietanti, dimostravano una conoscenza molto profonda degli argomenti affrontati. «Continui, la prego.» «Troverà immagini e simboli legati ai draghi ovunque, deve solo osservare con attenzione: stemmi, monumenti, statue, bandiere, vessilli… sono dappertutto. Vi sono sette confraternite legate al culto dei Draghi e molte anche legate al culto del Serpente. Mosé debellò una terribile epidemia diffusasi tra gli Israeliti utilizzando un serpente di rame, nel Vangelo di Giovanni si fa dire a Gesù: “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così dev’essere innalzato il Figlio dell’uomo, affinché chi crede in lui avrà la vita eterna”. Il Serpente come origine della vita, il serpente sacro degli Incas, Yawirka…» «Un serpente d’oro?» «Così si dice. Gli spagnoli lo cercarono ovunque arrivando persino, poveri illusi, a prosciugare il Lago Titikaka. Pare fosse una colossale treccia di lana interamente laminata d’oro, lunga oltre settecento piedi e utilizzata per onorare la Dea Luna, un oggetto rituale di grandissima importanza. Il serpente è sempre stato presente nella mitologia e in tutte le culture del passato. Lo ritroviamo nell’antica Grecia, in Mesopotamia, in Australia, presso gli Indiani d’America 49


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e ancora in India. L’Uroboros, il Dio Serpente, il Serpente piumato dei Maya, fino agli Egizi.» «Accidenti, Monsieur de Montpellier, siamo tutti avvolti nelle spire dei serpenti!» «Ha notato, Maestro, come i copricapo degli antichi faraoni egizi risultino simili alla testa di un cobra? È un simbolo molto importante riferito alle loro deità.» Gioachino collegò immediatamente: «Ma io ho visto esattamente un’immagine di questo tipo nelle Catacombe, ed è proprio dietro a quel quadro che potei assistere a quel che lei sa!». «La cosa non mi stupisce, lo so bene. Vede, anni fa ai tempi del suo Barbiere di Siviglia, venne a trovarmi, qui a Parigi, un giovane venditore di oggetti sacri e stranezze varie, tale Belzoni. Era di Padova, un colosso alto due metri, dai modi rudi ma a suo modo geniale. Poco dopo divenne molto famoso: scoprì in Egitto alcuni dei più importanti reperti archeologici e divenne persino un membro di altissimo grado presso una loggia inglese, che ben conoscevo. Fu lui a vendermi una statuetta raffigurante un dio dalla testa umana e il corpo di serpente, diceva che era egiziano. Guardi, è quella lì…» , l’antiquario indicò una teca alla sua destra contenente il piccolo idolo in questione. «Mio Dio!», esclamò Gioachino. «È lo stesso mostro del dipinto…» «…un ibrido, un essere per metà umano e per metà… no. Ma vorrei proseguire nelle mie considerazioni e per questo devo necessariamente parlarle 50


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della famiglia di James, il nostro comune amico James… alias Jakob Mayer de Rothschild.» «Jakob?» «Sì, è il suo vero nome. Jakob detto James: ultimo figlio di Amschel Mayer Rothschild.» Gioachino intervenne d’impeto: «James è un amico eccezionale, un filantropo sostenitore di innumerevoli iniziative legate al mondo artistico, ed è proprio questo che mi ha sconvolto. Proprio lui ha tentato in tutti i modi di convincermi e mi ha portato alla Barrière d’Enfer… ma perché?». «Se mi ascolta con attenzione lo saprà presto e capirà a fondo il vecchio barone.» Monsieur de Montpellier depose la tazza con la tisana da una parte e afferrò una serie di carte, zeppe di appunti. «Quella dei Rothschild non è tanto una famiglia quanto una dinastia, capitanata da un uomo tanto furbo e intelligente quanto veloce negli affari, per l’appunto il padre di James, Mayer Amschel Rothschild, nato nel ghetto ebraico di Francoforte nel 1744 e rapidamente asceso ai vertici della finanza europea ai tempi di Napoleone. I cinque figli, spediti in altrettanti paesi, compaiono stilizzati nello stemma di famiglia, come cinque frecce puntate verso diverse direzioni ma strette in un unico pugno.» «Perché il nome Rothschild?» «Scudo rosso. Deriva da un’immagine impressa sullo stemma di un avo tedesco. Quando scoppiò la Rivoluzione in Francia, i Rothschild erano già ricchissimi e a oggi posseggono una delle più grandi se non la più grande fortuna esistente al mondo. Non 51


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sarebbe mai stato possibile accumulare un simile patrimonio senza dei particolari accorgimenti: intanto la geniale abilità di mantenere segretissimi i conti personali, ma anche quella di non allargare troppo il cerchio dei collaboratori, conservando il controllo delle banche in ambito familiare, con matrimoni controllati e combinati a dovere. Può immaginare la valanga di invidie che poté suscitare tale smisurata ricchezza. Si arrivò ad accusare Nathan Mayer Rothschild, fratello di James, di aver speculato indegnamente sulla battaglia di Waterloo, di cui effettivamente seppe l’esito un giorno prima della notizia ufficiale. L’immensa somma che incassò in quell’occasione non fu frutto dei giochi in borsa, come sentenziarono i maligni, poiché Nathan si peritò di informare immediatamente le autorità governative a Londra della vittoria di Wellington. Fece esattamente il suo dovere e successivamente, grazie alla sua abilità nelle manovre finanziarie, accumulò una gigantesca fortuna agendo direttamente sul piano di ristrutturazione previsto per l’immediato dopoguerra. Quello che avrebbe fatto qualsiasi banchiere al suo posto.» «Posso immaginare quante calunnie prodotte dall’invidia… un tremuoto, un temporale direbbe Don Basilio!» «Per fortuna James de Rothschild ha saputo gestire ogni maldicenza con estrema oculatezza, forte della sua intelligenza e del suo amore per l’arte, venerata come fonte di bellezza e di energia positiva. Con questo stesso spirito James si iscrisse alla loggia che lei 52


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conosce e a cui varie volte le propose di aderire.» «Cascò male… io sono più avvezzo ai loggioni che alle logge…», Gioachino si lasciò sfuggire una composta ma compiaciuta risatina. «Gli intenti di base sono molto elevati ma le società segrete sono tantissime e alcune di queste non hanno le stesse aspirazioni. Ha mai sentito parlare della Lega Tugenbund?» «No…» «Fu creata nel 1786 in Germania, ufficialmente per decantare le virtù dell’autentico spirito prussiano… in realtà nascondeva orge e rituali a sfondo sessuale, in cui venivano coinvolte le mogli e le figlie degli adepti.» Gioachino tacque, spaventato. «Maestro… James mi ha detto tutto, prima ancora che voi vi incontraste per quella terribile ricognizione notturna. Lui vuole solo impedire che vi sia un nuovo 20 marzo, giorno di Santa Claudia, ma soprattutto evitare il 24 marzo… giorno di San Gabriele Arcangelo…» «Cosa…», balbettò Gioachino in preda al terrore, «…cosa dovrebbe avvenire il 24 marzo? Tra appena tre giorni?». «Quello che lei immagina, Maestro. Non abbiamo tanto tempo ma possiamo fare qualcosa e, per Diana, sia pure impedito come sono, stavolta voglio arrivare a fondo della questione. Non continueranno… no… questa volta non riusciranno nella loro sporca impresa…», il vecchio aveva improvvisamente alzato il tono della voce e si era infervorato, a tal punto da ro53


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vesciare con il braccio la grande tazza di tisana, posta sul tavolo. «Monsieur… io non so cosa intende fare esattamente né cosa accadrà il 24 marzo e né se sono la persona più adatta a intervenire in una faccenda tanto losca. Io credo che sia il caso di rivolgerci – e perdoni se insisto – alle forze dell’ordine. Tra i miei amici vi sono alcuni importanti esponenti della gendarmerie nationale i quali non esiterebbero a…» «Le ho già detto che “loro” hanno conoscenze e appoggi superiori ai nostri, ovunque!», proruppe l’antiquario con veemenza. «No… il piano è diverso… non dobbiamo denunciare nulla per ora, anche perché nessuno crederebbe ai nostri racconti, dobbiamo coglierli sul fatto…» «Ma lei ha parlato di due date… il 20 marzo e il 24… cosa deve succedere il 24, non lo ha detto…» Il Maestro Rossini non aveva terminato l’ultima frase che due, tre, quattro poderosi colpi alla porta principale scossero violentemente la stanza e interruppero la conversazione. L’antiquario si mosse per primo non senza aver prima afferrato una pistola riposta in un grande cassetto sotto al tavolo, poi mulinando vorticosamente le braccia indirizzò la sedia a rotelle verso l’ingresso, seguito a passi più lenti e pesanti da Gioachino, fortemente scosso. «Cos’è stato?», disse ansimando mentre continuava a seguire il vecchio verso la porta principale. Questi urlò: «Chi è? Rispondete! Chi è!!??». Da dietro la porta nemmeno il più lieve dei sospiri. Guardò allora dallo spioncino che si trovava poco 54


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più in alto in corrispondenza del centro del battente. Nessuno. Davanti alla porta nemmeno un’anima. «Sarà uno scherzo… qualche stupido di passaggio…», disse a voce bassa Rossini, per tranquillizzare il padrone di casa. Questi, dopo un grande respiro, spalancò la porta con la pistola puntata e guardò subito fuori, a destra e a sinistra della strada. Non si avvide di ciò che era stato infilzato nella parte alta del portone di casa e di cui invece si era subito accorto Gioachino, rimasto sulla soglia: una busta attaccata alla porta tramite un lungo affilatissimo pugnale. «Mi dia quella busta Maestro…», disse Monsieur de Montpellier, agitatissimo. Gioachino staccò il pugnale, prese l’involucro e lo passò al vecchio, tremante. Questi lo aprì senza indugiare un solo secondo, lesse il contenuto, quindi passò la lettera nelle mani di Rossini, bianco in volto. Con stupore osservò il testo, erano poche righe incomprensibili scritte a mano e con uno strano inchiostro rosso: Nonci dsonf babage od chis OB, hubaio tibibp, allar atraah od ef. Drix fafen MIAN ar enay ovof, soba dooain aai i vonph. Zacar gohus od zamran: odocicle qaa: zorge lap zirdo noco mad, hoath iaida. 55


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All’interno della busta una ciocca di capelli biondi finissimi… «Julie…», mormorò Adrien de Montpellier, con un filo di voce. «… Loro hanno preso la mia Julie…», poi svenne.

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CAPITOLO QUINTO 22 marzo 1860. Parigi, chiesa di Saint-Merri, rue Saint-Martin incrocio con rue de la Verrerie.

Soltanto il turbinio angosciante di quei giorni che

sembravano non finire mai potevano spingere l’esimio autore del Guillaume Tell e della Semiramide, dopo un’altra notte quasi del tutto insonne, a precipitarsi in incognito in quella antica strada parigina, davanti alla chiesa che i francesi amano chiamare Notre-Dame la petite. Non c’era voluto molto per tranquillizzare Madame Olympe sugli ultimi accadimenti. Stranamente l’ansia depressiva che attanagliava il Maestro da anni, da quel maledetto giorno a Bologna in cui era stato contestato dalla folla irredentista, si era prodigiosamente attenuata e un inusuale vigore accompagnava ogni movimento del pigro musicista. «Non temere Olympe», aveva detto dopo un frugale pranzo alla premurosa consorte, «vado a trovare un amico a Saint-Merri, una vecchia conoscenza… 57


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quattro chiacchiere e mi vedrai tornare più sereno e gioioso di sempre». «Se fossi gelosa dovrei seguirti, ti comporti come se avessi un’amante!», aveva bofonchiato in tono falsamente burbero Madame Rossini, che da tempo immemore ormai coltivava la pace dei sensi dopo un’assai brillante attività amatoria esibita negli anni migliori. Gioachino, del resto, aveva detto una mezza verità. La sera prima, dopo averlo accompagnato in ospedale con la sua carrozza, a seguito del malore accusato per il rapimento della nipote, aveva promesso al vecchio antiquario di recarsi presso la chiesa di SaintMerri per parlare con il canonico e tesoriere della stessa, l’abate Gabriel Marineau, suo caro e fidatissimo amico. Un nuovo personaggio si aggiungeva dunque alla più drammatica e terribile delle vicende: stavolta, però, Rossini non si trovava alle prese con una nuova Opera, non c’era un testo e una musica da comporvi sopra, ma solo indizi e tanti tasselli sparsi di un mosaico che rischiava di rivelare un’immagine ancora più spaventosa del previsto. Gioachino era stupito dalla forza improvvisa che lo animava e dalla curiosità di scoprire dove lo avrebbero condotto quegli incredibili indizi; al tempo stesso sentiva il bisogno urgente di intervenire, di sventare nuovi spaventosi delitti. Ma quali? E perché? Il vecchio Monsieur de Montpellier aveva tracciato un solco profondo nell’animo scosso ma pienamente ricettivo di Rossini. Una conversazione che, pur toccando svariati argomenti apparentemente assurdi e 58


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sconnessi tra loro, per di più lontanissimi dai suoi interessi, aveva in qualche modo toccato corde molto sensibili del suo animo determinando pensieri e riflessioni davvero inattesi. Il rapimento di Julie e quella sinistra scritta incomprensibile, poi, avevano instillato in lui il desiderio di reagire: era intollerabile quanto aveva visto e quanto stava accadendo, non potevano continuare a subire. “Loro” – come aveva detto il barone James nei sotterranei –andavano fermati. Questi pensieri, gli uni sovrapposti agli altri, affollavano la mente del compositore già invasa da altre centinaia di preoccupazioni: per fortuna non doveva comporre e al samedi musical avrebbe pensato la bravissima Olympe. Ma un pensiero su tutti non cessava di tormentarlo: il 24 marzo qualcosa di terribile sarebbe dovuto accadere e sul suo letto d’ospedale, in stato di profonda prostrazione, Adrien de Montpellier aveva associato il rapimento di Julie a quella fatidica data: «Vogliono uccidere la mia Julie… è lei la sposa… è lei… la sposa.» Queste le parole dell’antiquario mormorate a Gioachino in preda al delirio. “Perché Julie? La sposa? Cosa significa… quella dolcissima e innocente creatura… perché tutta questa cattiveria… perché colpire quel povero vecchio, che male ha fatto… chi sono questi mostri?”, si chiedeva Rossini scendendo dalla carrozza e ammirando la facciata in stile gotico fiammeggiante di Saint-Merri. In effetti si trattava di una piccola Notre-Dame, 59


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con il portone centrale formate da tre porte a ogiva, decorate con ampie volute floreali, tra le quali fanno capolino, d’un colore più chiaro rispetto alle nicchie, le statue dei dodici Apostoli. «Sono d’un marmo più chiaro perché sono nuove.» La voce ferma e profonda dell’abate Gabriel si fece udire accanto a Gioachino. «Maestro Rossini, suppongo? Lieto di fare la sua conoscenza, sono l’abate Gabriel Marineau, canonico e tesoriere, nonché custode dei segreti di questa bella chiesa. Aspettavo la sua visita», aggiunse . «Sono lieto a mia volta, come ha fatto a riconoscermi?» «La sua silhouette, Maestro, è unica, non credo che esista un altro grande musicista come lei in tutta Parigi.» «Vuol dire così grosso?», rise Gioachino. «Non mi permetterei. Si vede che è una buona forchetta, ma alludevo alla sua grandezza. Io sono stato tra gli spettatori del suo immortale capolavoro, Guillaume Tell, l’estate del 1829, tanti anni fa ormai.» «Non fu un trionfo immediato, ma agli intenditori piacque e tanto mi bastò…», aggiunse il Maestro sorridendo. «Quale potenza drammatica, quale originalità nello stile, un capolavoro. Ricordo che restai deluso nel non vederla uscire in proscenio per gli applausi finali e ora mi pare quasi impossibile averla di fronte a me…» Gli occhi lucidi del canonico provavano che non 60


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stava mentendo e Rossini se ne accorse. La sua straordinaria sensibilità si era acuita con gli anni e ormai sapeva riconoscere al volo un normale, banale flatteur da un ammiratore sincero. «Maestro, vogliamo accomodarci in canonica? Le mostro alcune meraviglie di questa vecchia gloriosa chiesa e poi… ho molte cose da dirle, spero abbia un po’ di tempo da dedicarmi.» Più che una gentile richiesta a Gioachino parve un obbligo, una necessità assoluta. «L’edificio che lei vede data il 1612, ma in realtà San Mederico di Autun, il primo abate che dà nome alla chiesa, visse in una caverna come eremita, nel 700 d.C. Oggi le sue reliquie sono conservate in una cassa d’argento sormontata da due angeli, posta sopra l’altare. Fu un uomo straordinario, un vero asceta, portò il cilicio e si nutrì tutta la vita di solo pane bagnato. Quando infine trapassò, questo luogo venne considerato sacro, con continui pellegrinaggi e parecchi miracoli determinati dalla fede. Lei conosce Maestro la frase di Gesù “Va’, la tua fede ti ha salvato”?» «Sì, certamente…», rispose a voce bassa Gioachino, che di quelle cose non era un grande esperto. «La fede in effetti opera miracoli, è testimonianza del ricongiungimento dell’uomo con Dio, ma direi piuttosto la prova definitiva che ognuno di noi possiede la scintilla divina, la possibilità di connettersi e persino di essere Dio. Quante persone guariscono da sole da mali terribili, magari semplicemente osservando un salutare digiuno?» 61


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L’abate Gabriel squadrò severamente Gioachino, che si sentì in forte imbarazzo per il sovrappeso dovuto a un’alimentazione decisamente poco osservante di quei santi precetti. «Non credo si possa sopravvivere senza mangiare, almeno non per troppi giorni…», osò rispondere Rossini. «Sbaglia Maestro, mi permetta. Lei non ha mai osservato un digiuno, in tutta evidenza. Si può vivere benissimo senza mangiare cibi solidi, carni, pesci, roba cucinata. Il nostro corpo ha bisogno di ciò che Dio indicò chiaramente in un passo della Genesi: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo”. Il corpo umano, macchina perfetta poiché divina, conosce la capacità di ristrutturarsi e di eliminare ogni male, anche il peggiore, attraverso il digiuno, nutrendosi dei frutti della Terra. Avevamo tutti le informazioni esatte, Dio fu chiarissimo ma i demoni si sono ben presto impadroniti del nostro spirito e ci siamo avventati sugli animali… e sugli uomini persino…» Gioachino sentì raggelarsi il sangue ma prese coraggio e con apparente tranquillità disse all’abate: «Non potrò mai invitarla alle mie cene allora… le troverebbe disdicevoli.» «Maestro, cosa dice, ne sarei lusingato. Perdoni se la sto tediando con queste considerazioni ascetiche. Guardi attentamente la torre campanaria…», disse indicando la facciata della Chiesa. «Lo sa che al suo interno è custodita la più antica 62


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campana di Parigi? È una campana del Trecento. Osservi i portali, che meraviglia di intrecci e di proporzioni…» «Come mai le statue nelle nicchie sono più chiare?», chiese il Maestro. «Sono i dodici Apostoli. Vennero distrutti durante la Rivoluzione e sono stati rifatti. Gliel’ho detto prima, Maestro, lei è distratto. Vogliamo entrare?» L’abate Gabriel fece per oltrepassare il grande portale a ogiva quando qualcosa di strano e di inquietante attirò l’attenzione di Rossini. «Cos’è quello?», domandò indicando una singolare figura scolpita proprio al centro della grande porta centrale. Si presentava come un piccolo diavolo baffuto, provvisto però di un seno prosperoso e di due grandi ali da pipistrello. Cosa ci faceva un diavolo sul portale di una chiesa cattolica? «Ah quello… le dirà tutto una persona che ci aspetta in canonica. Lui sa qualsiasi cosa riguardi quell’esserino… Lei Maestro ha sentito parlare di occultismo, magia nera?» Rossini trasalì nuovamente. «Dalla sua reazione posso già indovinare la risposta, certo non è un argomento affine a un autore come lei, più incline ai concertati e ai rondeau di bravura. Eppure deve sapere che noi tutti viviamo immersi in una realtà che è solo apparenza: esiste una magia divina, certamente, ma anche una magia infernale, che si nutre ed è fatta di tenebre. Il nostro compito è di rivelare la prima e di smascherare la seconda, con ogni mezzo che abbiamo disposizione. 63


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L’occultismo sonda quelle regioni in cui la luce non arriva.» Gioachino stava rivivendo l’incubo di due giorni prima. Come in uno dei suoi meravigliosi concertati, in cui ogni personaggio canta cose diverse ma partecipa alla stessa situazione drammatica, così anche in questa vicenda tutto e tutti sembravano collegarsi a un’unica, lunga linea di terrore. Varcò la soglia dopo aver osservato ancora una volta la scultura diabolica posta in cima, che sembrava ghignare sadicamente. La navata centrale di Saint-Merri si presentò in tutto il suo slancio verso l’alto, con le grandi arcate a ogiva che sembravano tante vele sciolte al vento. In fondo all’abside cinque archetti a sesto ribassato, retti da piccole colonne, il tabernacolo e le immagini dei dodici apostoli a formare l’altare maggiore. Gioachino si fermò a guardare le splendide vetrate, in particolare quella al centro dell’abside, raffigurante la Resurrezione di Cristo. «Maestro, ha visto l’organo in fondo? È del 1647, ma è stato completamente restaurato da Monsieur Cavaillé-Coll, un grande artigiano, appena tre anni fa. Per quattro anni abbiamo avuto un bravissimo organista al nostro servizio, il maestro Camille SaintSaens.» Rossini osservò il maestoso strumento con grande interesse e nel bel mentre si udì echeggiare per tutta la chiesa un poderoso accordo in minore, con una successione di passaggi fugati. «È il maestro Darnault, il nostro organista in carica, 64


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che le dà il benvenuto», sentenziò divertito l’abate. «Prego Maestro, la canonica è da questa parte.» Qualche passo, cadenzato dalle volute melismatiche dell’organo, e in men che non si dica, i due si ritrovarono all’interno di un’ampia stanza arricchita da mobili antichi e dipinti preziosi, certamente collezionati con cura e competenza dai vari prelati in forza presso Saint-Merri. Superata la prima stanza, l’abate aprì una porta secondaria e i due entrarono in un ambiente più raccolto, illuminato in maniera più discreta. La parete era adorna di un solo crocefisso, si notavano due grandi librerie e un tavolo pieno di carte accumulate. Seduto da una parte, silenzioso, stava un grosso signore barbuto, calvo, vestito di nero come fosse in abito talare. «Maestro Rossini» disse l’abate Gabriel «le presento Monsieur Alphonse-Louis Constant, alias Eliphas Lévi Zahmed». I due si salutarono con leggero sussiego. Gioachino non aveva ben capito chi aveva davanti, un altro personaggio stravagante, pensava. A sua volta il misterioso uomo in nero lo squadrava senza quella devozione, magari apparente, che ben si confaceva al musicista più importante di Parigi. A togliere entrambi dall’imbarazzo ci pensò senza mezzi termini l’abate, che entrò subito in medias res. «Signori, il fatto che voi siate qui in questo momento non è casuale. Qualcosa di grave incombe su tutti noi e dobbiamo trovare la migliore delle solu65


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zioni possibili. Il maestro Rossini è stato testimone, suo malgrado, di una notte terribile e tra breve seguirà un’altra faccenda come quella. Non possiamo permetterlo. Il barone James de Rothschild e Monsieur de Montpellier, ora ricoverato, mi hanno informato di tutto e…» «Abate Marineau, con tutto il rispetto», proruppe Rossini con inattesa veemenza, «né io né lei né alcuno dei nomi che ha fatto siamo membri della gendarmerie o dell’esercito… non vedo altra soluzione che avvertire chi di dovere e finalmente porre fine a questi scempi…» «Monsieur de Montpellier non vi ha dunque spiegato con chi abbiamo che fare?», intervenne deciso il signore in nero. «Lei chi è, di grazia, e cosa c’entro io con tutto ciò?», rispose molto seccato Rossini. «Maestro, mi perdoni… Monsieur Eliphas Lévi è uno dei più importanti studiosi di esoterismo, quattro anni fa ha pubblicato un saggio molto importante Dogme et Rituel de la Haute Magie, un testo fondamentale per comprendere molte realtà nascoste alla maggior parte delle persone…» «Mi stupisco di lei, abate Marineau… la Chiesa dovrebbe combattere le superstizioni e i rituali profani…», sentenziò Rossini. «Non mi occupo di superstizioni, maestro Rossini», replicò con voce sostenuta Lévi. «Esiste una scienza occulta, madrina di tutte le religioni esistenti, capace di compiere prodigi pari se non superiori ai miracoli esposti dalle religioni conosciute. La magia esiste, 66


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come esistono maghi e ciarlatani. La magia svela i segreti della Natura e la Natura… è Dio.» Le parole di Eliphas Lévi suonavano cupe e perentorie all’interno della canonica. L’abate osservava i suoi ospiti senza intervenire. Per il prelato avevano ragione entrambi. Lévi era un prete spretato: si era innamorato di una giovanissima catechista ed era stato costretto ad abbandonare il sacerdozio a ventisei anni. Tuttavia, grazie ai suoi studi e ai contatti con gli occultisti più famosi del suo tempo, aveva accumulato una quantità incredibile di conoscenze, molte delle quali riassunte nei suoi celebri scritti. Rossini era un sommo musicista, rispettato e venerato a Parigi e nel mondo, e la musica è il ponte che collega l’uomo a Dio. L’abate sapeva bene che sarebbe bastata una parola di troppo per vanificare il senso di quel delicatissimo incontro. «Signori, calmiamoci… siamo qui per risolvere un problema, non per crearne altri», l’abate cercò di placare le acque e di dare un ordine alla conversazione usando un tono bonario: «Il maestro Rossini ha tutte le ragioni per esigere delle spiegazioni più complete e io desidero che Monsieur Lévi lo aiuti a capire.» «Bene… Monsieur Lévi… Lei dunque sostiene, come Monsieur de Montpellier, che non possiamo fidarci di nessuno, perché siamo in gabbia, circondati da pazzi criminali e assassini.» Il tono di Gioachino era adesso più disteso. «Maestro… per capire dove siamo dobbiamo sa67


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pere dove e cosa eravamo, ogni risposta è nella storia passata e soprattutto nella storia non raccontata, quella occulta per l’appunto.» Lévi parlava ora con toni moderati e ispirati, aveva capito che aveva di fronte a sé una persona totalmente ignara di parecchi fatti e che a questi fatti bisognava dare un ordine preciso, come giustamente chiedeva l’abate. «La ascolto, Monsieur…», disse rassegnato Gioachino Rossini. L’abate tirò un sospiro di sollievo e si concentrò totalmente su Eliphas Lévi, che per una strana coincidenza si trovava seduto proprio ai piedi del grande crocefisso appeso alla parete, in perfetta simmetria. «Monsieur Lévi… vuole spiegare al Maestro Rossini cosa rappresenta quella piccola scultura metà donna metà pipistrello, posta al centro del portale di questa Chiesa?», chiese l’abate. «Quella strana scultura non è nient’altro che il Bafometto, una divinità cara ai Templari che lo venerarono come apportatore di fertilità e benessere. Il nome va letto al contrario: tem. o. h. p. ab. per Templi omnium hominum pacis abbas, ossia “abate del tempio della pace di tutti gli uomini”.» «Questa zona era un tempo cara ai Templari», aggiunse l’abate. «Una sorta di quartier generale, poi, come sappiamo, l’ordine venne sciolto e…» «…e i Templari vennero torturati e massacrati per ordine di Filippo il Bello e Papa Clemente V, smaniosi di impossessarsi dei loro tesori… vero abate?», sogghignò ferocemente Lévi. 68


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«Il processo ai Templari rappresentò in effetti una pagina molto dolorosa per la Chiesa», replicò subito l’abate. «Tuttavia ci sono documenti che attestano colpe come la sodomia, l’eresia e l’idolatria… nonostante ciò il Papa avrebbe cercato fino all’ultimo di graziarli.» «Abate Marineau, queste confessioni furono estorte utilizzando le più atroci torture, roba da far rabbrividire: i Templari vennero arsi vivi, anche cinquanta per volta, alcuni vennero messi alla ruota, altri scarnificati… e così via, le loro confessioni portarono allo scioglimento dell’ordine e alla tanto agognata confisca dei beni… così stanno le cose…», Eliphas Lévi scandì queste ultime parole con tono terribile. Fu Gioachino a interrompere la piccola diatriba riportando la discussione su argomenti più attuali: «Per caso siamo qui per riaprire processi vecchi di almeno cinque secoli? Mi sembra invece che abbiamo la grande urgenza di salvare alcune vite umane, tra cui quella della povera Julie, la nipote di Monsieur de Montpellier…» «Maestro…», disse Lévi fissandolo negli occhi, «lei possiede qualche indizio a riguardo, vero?». «Io…??… Io, sì… in effetti… questo foglio lasciato dai rapitori…», rispose l’interpellato tirando fuori dalla tasca lo scritto affisso alla porta del vecchio antiquario. Eliphas Lévi osservò con molta attenzione la carta e iniziò a scandire lentamente le parole che vi erano impresse: 69


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«Nonci dsonf babage od chis OB, hubaio tibibp, allar atraah od ef. Drix fafen MIAy ar enay ovof, soba dooain aai i vonph. Zacar gohus od zamran: odocicle qaa: zorge lap zirdo noco mad, hoath iaida.» «Sono parole senza senso… senza senso», mormorò sconsolato l’abate. «Purtroppo un senso c’è… è in chiave enochiana. Corrisponde a un’invocazione rivolta ad angeli e arcangeli, oltre che a Dio stesso», rispose con molta decisione Lévi. Poi allungò il braccio verso la pila di documenti e volumi sistemati sul tavolo… traendone un libercolo ingiallito, dalla copertina nera. Iniziò a sfogliarlo velocemente ed esclamò: «Voilà!… come pensavo, è una delle quarantotto invocazioni enochiane, la dodicesima per l’appunto… chiamata La chiave della vendetta». «…non molto angelica come preghiera…», commentò Rossini, fulminato da un’occhiataccia di Monsieur Lévi, che aggiunse: «Significa all’incirca: O Voi che regnate nel Sud e siete le 28 Lanterne dell’Angoscia, venite e visitateci! Portate il vostro corteo. 70


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Che il Signore sia magnificato, il cui Nome tra voi sia Ira. Muovetevi io dico, e mostratevi. Schiudete i misteri della vostra Creazione. Siatemi benevoli! Perchè io sono il servitore dello stesso Vostro Dio, il fedele adoratore dell’Altissimo. La preghiera fa riferimento a ventotto entità che abitano il Sud, evocate nel nome di Dio, personificato come Dio dell’Ira. Un Dio vendicatore, appunto». «Mai udita una preghiera del genere!», disse con convinzione l’abate Gabriel. «Nemmeno io», replicò Rossini. Dopo una breve pausa studiata, che agli altri due presenti parve fin troppo teatrale, Eliphas Lévi chiuse il libricino. «È una preghiera rivolta a Satana.» Nella canonica di Saint-Merri piombò un silenzio sepolcrale. Dopo qualche istante Eliphas Lévi riprese la parola: «Poco fa ho mentito a entrambi, o meglio: ho sottaciuto una verità. Quella statuetta posta al centro del portale, il Bafometto, non è solo un simbolo alchemico, templare, legato alla saggezza o alla fertilità. I suoi risvolti negativi esistono: quell’esserino metà donna e metà pipistrello appartiene a tutti gli effetti alla gerarchia dei diavoli e rappresenta esattamente la metà oscura, il mondo delle tenebre. Il foglio che vi ho appena decifrato non deve trarvi in inganno: 71


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ogni evento straordinario, magico, miracoloso può avvenire solo per intercessione angelica o divina. Quella scritta in rosso non è di inchiostro… ma è sangue. Probabilmente quello della stessa Julie. Guardate la grafia… è tutto scritto in fretta, di corsa… sicuramente chi l’ha rapita non ha avuto il tempo necessario per sedersi a un tavolo. Signori… la dodicesima chiave enochiana, La chiave della vendetta, precede il rito successivo, previsto dalla procedura: il sacrificio. Il sacrificio della povera Julie». «…ma di quale procedura parla, Monsieur Lévi?», disse l’abate in preda all’ansia. L’occultista rispose senza esitazioni: «Una messa nera».

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CAPITOLO SESTO 22 marzo 1860. Parigi, canonica della chiesa di Saint-Merri.

Il vento tipico delle giboulées di marzo produceva

una vibrazione leggera e persistente sulle vetrate di Saint-Merri e un suono cupo, che echeggiava attraverso le navate della chiesa, giungeva ancor più minaccioso nella stanza in cui si trovavano Rossini, l’abate Marineau e il più noto occultista di Parigi, Eliphas Lévi. Gioachino stava silenzioso sul suo scranno, dal suo volto trasparivano una serie di emozioni: tristezza, angoscia e un senso di forte impotenza davanti a questioni tanto delicate quanto pressanti. L’abate Marineau fingeva di riordinare le scartoffie sul suo grande tavolo, mettendo in pila i volumi sparsi e raccogliendo le carte in una unica risma, senza alzarsi e scuotendo il capo di tanto in tanto, come rimuginando sulle cose udite poco prima. Chi invece mostrava di conoscere assai bene l’ar73


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gomento in discussione era Lévi, per nulla turbato dal silenzio degli astanti. «Signori, le messe nere non sono nate oggi. È una pratica comune molto più diffusa e antica di quanto ognuno di noi riesca a immaginare e non coinvolge contadini incolti o analfabeti, bensì avvocati, medici, militari, uomini d’affari e politici, persone che ricoprono spesso cariche importantissime, cui si uniscono a livelli più bassi prostitute e persino studenti. Religione, società segrete e satanismo sono strettamente collegati tra loro e operano come una vera e propria organizzazione.» «Sarei uno sciocco a negare queste pratiche», disse mestamente l’abate, «quando anche i bambini sanno che Satana ha il potere di trasformarsi e di favorire le peggiori e più facili lusinghe, bocconi prelibati per l’uomo che vive solo di superficie…» «Mi pare di ricordare un Dio bramoso di ricevere in sacrificio il sangue di Isacco…», disse Lévi guardando il canonico. «Un Dio nel nome del quale sono state compiute guerre, stragi, atti abominevoli. Purtroppo il satanismo poggia le sue basi sul sacrificio umano esattamente come quel Dio antico, di cui capovolge e sbeffeggia il culto.» «Che il Signore vi perdoni, Monsieur Lévi. Ogni occasione è buona per incolpare la Chiesa!», esclamò l’abate inalberandosi. «Il culto di Lilith prescinde da tutte queste considerazioni…» «Lilith…?», disse timidamente Gioachino. «Sì… la prima sposa di Adamo… Eva è arrivata dopo …», ridacchiò Lèvi. 74


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L’abate si fece serissimo: «I miscredenti, facendo leva sulla Cabala ebraica, pensano che in realtà Lilith fosse la donna creata per Adamo, non già dalla sua costola ma direttamente dalla Terra. Una favola…» «Una favola dimostrata dai fatti e dai testi più antichi della Genesi, quelli di origine mesopotamica, caro abate Marineau», disse Lévi e con aria ispirata iniziò a declamare: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza. E Dio creò l’uomo a sua immagine. A immagine di Dio li creò. Maschio e femmina li creò. Capite? Maschio e Femmina… la storia della costola è successiva… per le anime pie…». «Sta di fatto», proseguì l’abate visibilmente irritato dalle continue interruzioni, «che questa Lilith mostrò di non gradire molto l’autorità di Dio e abbandonò il Paradiso… vuole continuare lei, Monsieur Lévi?». «In realtà le versioni sono molte: Lilith avrebbe generato Caino… Lilith sarebbe stata in realtà il famoso serpente tentatore, tant’è che in molte raffigurazioni appare come metà donna e metà serpente. Altri sostengono che si sarebbe unita con un demone, Asmodeo, generando altri demoni, altri ancora che tali demoni nacquero dall’unione con Adamo… insomma… il tipo ideale per rappresentare il Male nella sua forma femminile. I satanisti la venerano come sposa di Lucifero e addirittura l’unione dei due rappresenterebbe persino il nostro Bafometto, che ci sorride dal portale di questa stessa Chiesa.» Il tono di Lévi si fece improvvisamente grave e minaccioso, gli occhi sembravano sprizzare scintille verso 75


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i presenti: «Loro sono ovunque, rassegnatevi. Loro ci stanno ascoltando, loro sanno e tengono in pugno l’umanità. Noi tutti siamo solo marionette nelle loro mani. Siamo circondati dai simboli che li rappresentano e nemmeno ce ne accorgiamo!». «Quali per esempio?», disse Rossini. «Il nome Lilith viene collegato al giglio, il Lilium, il fleur-de-lis caro ai monarchi spagnoli, francesi, inglesi. Un innocuo tenue fiorellino che nella tradizione occulta è legato alla “Grande Madre”, al demone-serpente. Ma anche al gufo, un animale simpatico tutto sommato, che oltre a simboleggiare Lilith viene associato a un’altra mostruosa divinità, Moloch o Molec. In onore di questi mostri vengono sacrificate vergini e bambini, allora come oggi.» «A quando risalgono le prime pratiche sataniste?», domandò con un filo di voce Rossini. «I primi sabba? Non lo sappiamo», rispose l’abate senza alzare lo sguardo, come un guerriero sconfitto, «ma è certo che il maresciallo di Francia Gilles de Rais, condottiero di un certo valore, giunse a torturare, stuprare e uccidere oltre centoquaranta bambini per le sue cerimonie dedicate al demonio. Questi sono fatti, purtroppo…». «Era il 1440: questo signore pensava di evocare Satana offrendo a lui in dono il cuore, le mani, gli occhi e il sangue dei bambini, ovviamente dopo aver abusato di loro», aggiunse Lévi e senza scomporsi, poi continuò: «Incantesimi d’amore, fatture di morte, tentativi di veder esaudito ogni desiderio per intercessione 76


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del Diavolo, furono le specialità di Catherine Deshayes Monvoisin, una fattucchiera abbastanza richiesta ai tempi di Luigi XIV. Questa signora era famosa per utilizzare il grasso d’impiccato quale ingrediente base delle sue misture…». «Atroce, disgustoso…», sibilò Rossini. «In effetti… ma purtroppo non fu il solo elemento stravagante dei suoi cerimoniali», continuò Lévi. «Con la complicità del suo amante, l’abate Guibourg, celebrava rituali utilizzando come altare il corpo di donne nude, sulle quali venivano trucidati i bambini, senza alcuna pietà. Adolescenti, neonati, vergini: le entità demoniache si nutrono delle energie sprigionate da questi poveri corpi nel momento in cui muoiono. Si verifica in sostanza una sorta di deflagrazione energetica, di cui si nutrono, avidamente, gli abitanti delle tenebre.» «Monsieur Lévi, vi sono molti studi sul culto celebrativo del Maligno, non tutti rappresentano il sabba come un omaggio con sacrificio umano… in taluni casi fu una sorta di ribellione, di rivolta sociale, di sfogo, di vendetta del popolo contro l’oppressione della Monarchia…», aggiunse l’abate d’impeto. «Più che contro la Monarchia, contro la Chiesa… caso mai…», brontolò Lévi. «Sì, esistono queste teorie, alle quali credo poco in realtà, secondo cui Satana non sarebbe una vera e propria entità da evocare bensì un archetipo mentale… Il sabba, inteso come sfogo rituale, servirebbe non tanto a convocare, tra urla e orrori vari, un signore cornuto e mostruoso, ma a creare attraverso un rito collettivo ben preciso 77


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una serie di energie da convogliare e sfruttare, per modificare leggi naturali.» «È realmente così?» «Sono teorie confutabili. Basta osservare come si struttura il rito dopo la parte introduttiva, che prende palesemente in giro una normale Messa: confessioni strampalate, comunioni con la mano sinistra, ostie lordate di materie impure, preghiere infernali, maledizioni del crocefisso e ovviamente la preparazione del sacrificio. Badate bene: in molti sabba il sacrificio non è umano ma limitato a poche gocce di sangue raccolte dall’officiante, così come l’accoppiamento sessuale è raramente previsto e sempre in forma consensuale… tuttavia… vi sono casi molto più… estremi e credo sia proprio il caso di cui stiamo discutendo.» «Come fa a sapere queste cose?», chiese Rossini. «Ho parlato con decine di satanisti pentiti e anche con qualcuno ancora attivo o costretto a esserlo», rispose Lévi. «Alcuni genitori non hanno esitato a uccidere il proprio primogenito, taluni padri a ingravidare le proprie figlie prima di sacrificarle. Ci sono persone che si nutrono di sperma e sangue, per rigenerare il proprio corpo corrotto. Chi osa denunciare tali pratiche può considerarsi già morto, a parte il fatto che nessuno gli crederebbe.» L’abate Gabriel Marineau aveva una voglia matta di cambiare discorso ma non riusciva a fermare Lévi, che si era fatto trascinare da quegli argomenti terribili e ora era come un fiume in piena. Sentì tuttavia forte il bisogno di ricordare ai suoi due ospiti le ragioni di quella riunione: 78


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«Il tempo corre, miei signori, veniamo al dunque. Il Maestro è già abbastanza terrorizzato da queste rivelazioni e abbiamo una missione da compiere, prima che sia troppo tardi». «Avete pienamente ragione abate», disse Lévi. «Volevo solo aggiungere alcuni dettagli importanti. I satanisti sono ossessionati dai rituali e dalla precisione del loro personale calendario, legato a movimenti astrologici e astronomici terrestri, lunari e planetari. Tra il 24 e il 29 ottobre, per esempio, vi sono i grandi rituali legati al Sabba e alla Festa del Fuoco… il 7 settembre, per la Santa Vergine Regina, si svolgono i riti di sangue e sesso con fanciulle sotto i 21 anni… il primo maggio il rituale di sangue e fuoco…» «…e nel mese di marzo?», chiese Rossini «…per Sant’Albino l’omaggio ai demoni, il 20 marzo, per Santa Claudia il sabba con riti di sangue e sesso, poi c’è San Gabriele Arcangelo… il 24 marzo… tra due giorni…», Lévi si interruppe. «…cosa succede il 24 marzo, Monsieur Lévi?», incalzò Rossini. «…hanno bisogno di una sedicenne… la sposa di Satana.» «Julie!», quasi urlò Rossini. L’abate si mosse repentinamente in direzione di Gioachino immaginando una reazione incontrollata. Si avvicinò e fece per afferragli un braccio, Rossini si era alzato e guardava dritto negli occhi ora l’uno ora l’altro. «Non abbiamo un solo istante da perdere, non vi sarà nessuna sposa, nessun rito, niente di tutto ciò… 79


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abbiamo il dovere morale di intervenire e subito!», l’anziano Maestro non riusciva più a contenere la sua agitazione. Lévi non si scompose affatto. Era impressionante il self control di quell’uomo così austero e misterioso, metà prete e metà stregone, incarcerato per aver partecipato a un’insurrezione e quasi fucilato per questo, addentro come nessuno alle segrete cose. Senza farsi impressionare minimamente dalla reazione esagerata di Rossini, dopo una pausa che sembrò durare un secolo, l’occultista si rivolse al canonico: «Abate Marineau, abbiate la bontà di spiegare al Maestro Rossini che non accadrà nulla prima che scocchi la mezzanotte del 24 marzo. Noi oggi non possiamo far altro che riflettere, meditare attentamente. Poi chi dovrà intervenire lo farà, ma non certo seguendo le strade suggerite dalla mente lineare. Quelle terminano in un tunnel senza luce e senza via di uscita.» «Si spieghi meglio, Monsieur», rispose piccato Gioachino, sedendosi nuovamente sul vecchio scranno della canonica. Questa volta fu l’abate a prendere la parola, mostrando la tipica pazienza e capacità diplomatica di Santa Romana Chiesa: «Monsieur Lévi ha ragione, non abbiamo mezzi e strumenti per impedire un nuovo misfatto ma sappiamo che questo misfatto avverrà: è già moltissimo…» «E IO SO DOVE AVVERRÀ!» Una voce tuonò all’interno della canonica. Tutti si girarono verso la porta sul cui uscio si stagliava una figura facilmente riconoscibile. 80


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«James! Tu qui?!», fece Gioachino alzandosi. Il barone James de Rothschild fece il suo ingresso teatrale, depose cappello e marsina su una sedia e si avvicinò a un attonito Gioachino. «Sì, credevo mancasse un solista essenziale a completamento di questo prestigioso quartetto!», disse sorridendo il barone. «Barone, sono lieto che abbia accettato il mio invito», chiarì subito l’abate Gabriel. «È un po’ in ritardo, ma abbiamo avuto modo con il Maestro e Monsieur Lévi di discutere in maniera approfondita su argomenti molto complessi e di non facile acquisizione.» «Immagino… Gioachino… come stai?», chiese il barone rivolgendosi all’amico, ancora scosso da quell’apparizione. «Se ti rispondo “bene”, dico la più grande delle menzogne, James. Ancora non mi sono ripreso da quella notte e quello che è potuto accadere in questi due giorni ha del surreale.» «Lo so e ti capisco. Chi non è addentro a taluni argomenti stenta a credere. Sappi comunque che farò di tutto per aiutarvi… abate Marineau, Monsieur Lévi… accomodatevi, ho qualcosa da dirvi.» James de Rothschild si sedette allo stesso modo degli uomini d’affari prima d’un consiglio d’amministrazione particolarmente turbolento. Dall’espressione presente sul suo viso e da un lieve ansimare, si capiva che non solo era ben cosciente di aver attirato su di sé l’attenzione dei presenti, ma anche che avvertiva la solennità del momento e la responsabilità di ciò che stava per dire. 81


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«Chiedo la vostra massima attenzione, non sarà un discorso facile. Vedete, io ho vissuto tutta la mia esistenza portando il peso di un nome importante, forse il più importante che esista. Non è semplice chiamarsi Rothschild e soprattutto non è semplice essere un Rothschild. La mia famiglia, la mia educazione hanno sempre seguito regole molto rigide: per prima cosa mantenere la massima segretezza su ogni questione, gestire con oculatezza gli affari creando continue occasioni di guadagno, costi quel che costi… e soprattutto cercare di avere il più ampio controllo su tutto e tutti…» «Un progetto ambizioso», disse l’abate. « Ma a quanto pare ci siete riusciti…» «Le nostre ricchezze sono sconfinate, probabilmente sono incalcolabili, è vero… ma a che prezzo?» «A qualsiasi prezzo, lo ha detto lei barone, costi quel che costi…», sentenziò pacatamente Eliphas Lévi, sfogliando con apparente noncuranza uno dei tanti volumi accumulati sul tavolo. «Sì, è vero. Nel corso degli anni, frequentando le società segrete, sono entrato in contatto con persone e conoscenze superiori che vanno ben al di là del sapere tramandato ai comuni mortali. Così ho potuto apprendere le verità celate, quelle che nessuno ci insegna a scuola e che alcun precettore sensato oserebbe inculcare nella mente di un ragazzo in formazione. Abate… lei sa per esempio quanti nomi illustri siano iscritti alle società segrete? Quali ne siano le regole, i rituali e soprattutto quanti misteri circondino le loro riunioni? Sono certo di no…» 82


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L’abate abbassò lo sguardo per qualche istante. «Ne restereste sconvolti. All’interno di queste organizzazioni trovereste il fior fiore del sistema bancario, della politica, dell’esercito, degli affari, dei servizi segreti di tutto il mondo, una vera e propria Babele con due regole principali: segretezza e confusione.» «Perché confusione?», chiese Gioachino. «Perché dove c’è confusione c’è paura e profitto. Mi spiego meglio: il miglior sistema al mondo per guadagnare, e quindi trarre profitto da qualcuno o da qualcosa, è quello di creare delle problematiche e poi di offrirne la soluzione, a caro prezzo s’intende. I giornali distraggono e invece di concentrare l’attenzione del pubblico su autentici affari sociali, ne obnubilano le menti con notizie sciocche o non rilevanti. I libri, le scuole, le accademie non insegnano la vera storia, la vera economia, la vera legge ma versioni di comodo, atte a rendere tutti più ignoranti; teatri, sale da concerto e spettacoli di vario genere rendono la vita più allegra e spensierata; il lavoro impegna allo spasimo tutti, come api impazzite, nessuno ha mai davvero il tempo di riflettere e magari… di svegliarsi.» «Eh già…», disse Lévi. «Un torpore generale che fa comodo ai poteri occulti e che favorisce la manipolazione delle persone, una vera e propria ipnosi collettiva, una guerra biologica…» «Non è questo lo scopo della mia vita. È vero, sono a conoscenza di tante cose losche, tante truffe e raggiri, ma voglio dimostrare a me stesso e a tutti che se si ha il coraggio di dire “basta”, allora la vita 83


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può avere un senso. Vedi, Gioachino… io e te abbiamo alle spalle vite lunghe e onerose, io impegnato nell’arte di creare immensi profitti, tu impegnato nell’arte straordinaria dei suoni. Siamo entrambi grandi, abbiamo vissuto cercando soluzioni ai problemi, ma ora siamo prossimi a dover affrontare quell’unico problema che soluzione non ha… io non voglio terminare la mia vita roso dai morsi della coscienza…» «Nemmeno io…», aggiunse Rossini. Il barone de Rothschild fissò il suo sguardo negli occhi dell’amico. Era determinato come mai prima d’allora. Poi volse gli occhi all’abate… che se ne stava silenzioso dietro al tavolo, seminascosto dalle pile di libri. Infine scrutò con attenzione Eliphas Lévi a sua volta molto teso e concentrato. Un silenzio pesante invase la stanza di Saint-Merri, prima che il barone riprendesse la parola con tono risoluto: «Signori, prima di passare all’azione devo aggiungere alcuni dati importanti e non trascurabili. Il Maestro Rossini e io siamo stati testimoni di qualcosa di spaventoso, perpetrato con inaudita freddezza e mostruosa determinazione, all’interno di una cripta presso le Catacombe. Questi fatti si ripeteranno, puntuali e inesorabili, il giorno 24 marzo, dopodomani, in un luogo diverso appositamente designato. Una nuova giovane vittima è destinata alle più oscene pratiche, il suo sangue servirà a nutrire i partecipanti e Dio solo sa quali altri orrori sono previsti. Noi dobbiamo predisporre un piano d’azione contando solo sulle nostre forze e di pochi fidatissimi amici…» 84


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«James…di nuovo là sotto? Io non sono in grado, è una follia…» «Gioachino, noi dobbiamo agire e coordinare l’azione dall’esterno e in ogni caso il luogo designato non è all’interno delle Catacombe. Il rito si deve compiere in una grotta, presso le cave di Buttes-Chaumont.» Una folata di vento più forte delle altre fece tintinnare i vetri della canonica.

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CAPITOLO SETTIMO Parigi, chiesa di Saint-Merri, 78, rue de St. Martin.

L’uscita dalla canonica di Gioachino Rossini, Eli-

phas Lévi, James de Rothschild e dell’abate Marineau fu salutata da un inatteso brulicare di persone all’interno della chiesa di Saint-Merri. «È la messa delle diciannove», disse subito l’abate volgendosi verso Monsieur Lévi, ma senza più vederlo. In men che non si dica l’occultista era scomparso, come assorbito da un angolo buio della navata. «Che personaggio interessante», disse Rossini al barone. «Un perfetto Alidoro per la mia Cenerentola…». «Sì, lo credo anch’io…» Il barone de Rothschild accennò un timido sorriso, ma dal suo volto traspariva una costante preoccupazione. Un bellissimo accordo fuoriuscì dalle canne dell’organo, situato sulla cantoria in controfacciata, segnando così l’inizio della sacra funzione. Rossini non poté fare a meno di guardare verso la 87


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cantoria, ammirando le favolose campate, due delle quali, le più grandi, erano sostenute da due statue angeliche. La musica, con le sue vibrazioni così arcane e solenni al tempo stesso, sembrò spazzare via per un attimo i sentimenti contrastanti e le angosce che turbavano il suo animo. «Che suono meraviglioso, è la voce di Dio che canta in questo momento…», seppe dire a stento. «È bravo il nostro Benjamin Darnault. Da tre anni ha sostituito egregiamente il maestro Saint-Saens. La valentia del virtuoso si unisce perfettamente alla bellezza dello strumento. Figuratevi: sessantaquattro registri di cui cinquantotto reali su quattro manuali a pedale, per un totale di settantatré file. Ai tempi della Rivoluzione servì come deposito di salnitro… ignoranti…», l’abate proferì quest’ultima frase con sommo disprezzo. Rossini ascoltava rapito i suoni che riempivano la chiesa e il pensiero tornava indietro, ai tempi in cui studiava a Bologna musica sacra e si produceva, come cantore, in duo con una ragazzina quasi coetanea dotata di una voce meravigliosa. Si chiamava Gertrude Righetti Giorgi e il suo splendido timbro di contralto, anni più tardi, avrebbe caratterizzato per la prima volta i ruoli di Rosina in Barbiere di Siviglia e di Angelina in Cenerentola. I ricordi si affastellavano uno sull’altro e poco a poco estraniavano Gioachino, concedendo alla sua anima turbata una pausa fatta di emozioni allo stato puro. Ecco apparire l’ombra gradita dei primi importanti precettori della sua adolescenza, quei dotti e intraprendenti frati cui era de88


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mandato il compito, in Italia, di curare la formazione musicale in termini di preparazione tecnica per non lasciare al solo estro e all’istinto la responsabilità di un corretto apprendistato. Certo, di istinto naturale Gioachino ne aveva avuto a iosa, oltre al dono di una bella e facile voce da contralto prima, baritonale da adulto. In virtù di quel particolare timbro vocale aveva potuto cantare con successo la parte di Maria Maddalena nell’oratorio La passione di Cristo scritto dal suo insegnante, Padre Mattei, nel 1806. Gioachino rimembrava quei tempi ascoltando le volute melismatiche dell’organo nell’Introito e guardando il crocefisso in marmo bianco sull’altare maggiore. Accanto a lui, il barone James de Rothschild pareva rapito a sua volta, quasi ipnotizzato da quella musica monumentale. La gente sfilava lungo la navata della chiesa occupando man mano le panche, una processione lenta, scandita come una marcia trionfale da quei suoni meravigliosi. Gioachino pensava: “Poveri ignari. Sono qui riuniti, mossi dalla loro devozione e da slanci formidabili di fede ma non sanno cosa li circonda, quali mali si insinuano in ogni dove”. «Le preghiere sono un concentrato altissimo di energia positiva, che erge barriere invalicabili contro la materia oscura. Il libero arbitrio consiste proprio in questo: puoi scegliere se evocare la luce e nutrirtene o se farti assorbire dal buio e dal Male.» Queste parole sembravano essere uscite dalla bocca di James de Rothschild o dell’abate seduto al suo fianco… 89


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Gioachino li guardava eppure non parlavano, stavano anche loro fissi a mirare l’altare maggiore. Chi aveva parlato? Quali arcane presenze si erano manifestate? «Questo Introito è bellissimo», disse Gioachino all’abate. «Chi è l’autore?» «Lo stesso maestro Darnault. È un lento maestoso in Mi bemolle maggiore, dopo quei poderosi tre accordi si sviluppa un tema, quasi una marcia, con le sue brave variazioni…» «Tre accordi, Mi bemolle maggiore ha detto…?» «Tre… il numero su cui si fonda la Massoneria…», mormorò il barone senza smettere di guardare l’altare centrale. «Tre è il numero abbinato alla figura dell’apprendista, tre colpi alla porta danno il via ai lavori massonici assieme all’accensione delle tre luci, che rappresentano la saggezza, la forza e la bellezza. Mi bemolle maggiore, con tre bemolli in chiave disposti a forma di triangolo…» «Non ti facevo esperto in armonia, James…» «Ho appreso molte cose, strada facendo.» Un ricordo, come un lampo, attraversò la mente di Gioachino. Si rivide giovanissimo, durante il tirocinio con Padre Mattei, smanioso di apprendere per proprio conto e rapidamente le sacre regole dell’armonia e del contrappunto… si ricordò di quelle interminabili ore passate a trascrivere le partiture di Haydn e Mozart, a parti separate, spesso reinventando interi passaggi e riuscendo così a impadronirsi non solo della tecnica ma dello stile, dell’anima di quegli eccelsi esempi. Lo aveva colpito in modo particolare Il flauto magico di Mozart, che reputava un vero e pro90


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prio miracolo musicale. Si ricordò che all’interno di quella straordinaria composizione vi erano continui riferimenti al numero tre. I ricordi riaffioravano nella mente di Gioachino, uno dietro l’altro, con una singolare nitidezza: tre sono gli accordi dell’Ouverture dell’opera, tre sono gli squilli che dividono la prima dalla seconda parte… Tamino, il principe protagonista della storia, viene aiutato da tre Dame nel primo atto, sono tre i genietti che lo accompagnano fino alle porte del Tempio, tre sono le porte che danno accesso ai tre templi, quello della Ragione, della Natura e della Saggezza… E tre sono i tuoni che segnano il ritorno della Regina della Notte, la cattiva, nel regno delle tenebre. E poi… quella tonalità di Mi bemolle maggiore… così luminosa… è continuamente utilizzata da Mozart nel suo ultimo capolavoro. L’opera inizia e termina in Mi bemolle maggiore, tutte le invocazioni amorose di Tamino rivolte all’amata Pamina sono in questa tonalità. La messa era in pieno svolgimento e la chiesa, essendo quasi piena, pareva ancora più bella. Gioachino volgeva lo sguardo un po’ ovunque, godendosi quella pausa inattesa e così anche il barone de Rothschild. Sembrava davvero un rito propiziatorio, prima di un’impresa difficile e drammatica. Gioachino si soffermò sulla bellezza del deambulatorio, che cingeva l’abside, lunghissimo, quanto la navata centrale. L’originaria struttura gotica era stata ricoperta da una decorazione barocca, in stucco dipinto a finto marmo, che nascondeva le arcate a sesto acuto sotto archi a tutto sesto. L’altare maggiore poggiava su cinque ar91


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chetti sostenuti da piccole colonne, poi il tabernacolo con le immagini dei dodici apostoli. Mentre contemplava queste figure, Rossini si sovvenne degli stessi apostoli, posti nelle nicchie tra i portali esterni. Poi guardò il maestoso crocefisso in marmo bianco e la ricchissima decorazione dietro di esso, che raffigurava un trionfo di angeli e nuvole. In quel momento l’organo riprese a suonare. «È un graduale di Johann Sebastian Bach…», mormorò l’abate. Gioachino chiuse gli occhi e iniziò a seguire la linea musicale come se la stesse componendo lui stesso, in quel momento. Nota per nota, secondo un percorso che gli sembrava l’unico possibile, avvolto in quell’armonia perfetta, come in una tela di ragno dalla quale non si poteva fuggire. Il Maestro si sentì pervaso da una sensazione indescrivibile, da quell’intuito che non lo aveva mai tradito nel corso della vita. Riaprì gli occhi di scatto e rimase per un momento frastornato dal bagliore tenue dei candelabri, posti affianco dell’altare maggiore. Quella luce ne accese un’altra, più forte e più intensa: «Una messa… una messa come un percorso iniziatico verso la luce… una messa per cancellare i mali della Terra…». Si cerca l’ispirazione lontano mentre essa è nel cuore. È un lampo, un sogno, un gioco… come dice e canta Cenerentola al termine dell’opera. Gioachino si sentì stranamente euforico, felice, come se fossero passati mille anni da quegli strani giorni carichi di emozioni contrastanti. «È tempo di andare, mia moglie sarà in pensiero», 92


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disse rivolgendosi a James e all’abate. «Appuntamento dopodomani… alle cave di Buttes-Chaumont… ma non per noi. Noi ci vedremo a Vincennes. Da lì partirà tutto», disse il barone con fare sbrigativo. «Speriamo di ritrovarla viva, James.» I due si abbracciarono, poi Gioachino si accomiatò dall’abate, scusandosi: «Non posso seguire il resto della messa, è già tardi e mia moglie non può più attendere…». «Ma certo, Maestro Rossini, è stato un grande onore poter discorrere con lei, sebbene in circostanze così drammatiche. Siate prudenti dopodomani e che Dio vi accompagni e vi benedica.» «Abate, vi aspetto con il maestro Darnault sabato prossimo a Villa Beauséjour, per il primo concerto della mia stagione personale. Sarò lieto di offrirvi dei piatti prelibati e della buona musica dal vivo.» «Sono onorato dell’invito, Maestro.» Dopo un ultimo cenno di deferenza, Rossini e il barone de Rothschild abbandonarono in gran fretta la chiesa di Saint-Merri. Le carrozze procedettero per strade opposte, Rossini verso Passy, il barone verso la sua residenza parigina, rue Saint-Florentin su Place de la Concorde.

Bisognava attraversare mezza Parigi per raggiungere la villa di Passy, nel quartiere di Beauséjour ai confini del Bois de Boulogne. La magione di campagna era stata inaugurata da poco, dopo che il muni93


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cipio della città aveva offerto all’esimio Maestro l’uso gratuito del terreno e della villa, vita natural durante: alla sua morte tutto sarebbe ritornato al municipio. Gioachino si trasferiva in quel posto meraviglioso dopo i rigori dell’inverno. Adorava quella campagna, quella tranquillità. Aveva seguito i lavori giorno per giorno, aveva chiamato artisti da Bologna e da Ravenna per decorarla a proprio piacimento, con i medaglioni sul soffitto del salone in cui campeggiavano le effigi di Palestrina, Cimarosa, Mozart, Haydn, e poi ancora Beethoven, Grétry, Boieldieu e l’immagine di Padre Mattei al centro di questo ideale empireo. In cima al cancello compariva una lira a significare che i coniugi Rossini erano nuovamente in casa, dando così inizio alla loro villeggiatura. Persino i “sabati musicali” tradizionalmente collocati presso i saloni della Chaussée d’Antin, sarebbero stati trasferiti d’estate presso la villa di Beauséjour, e il concerto inaugurale era previsto proprio per il sabato successivo. «Ti sembra questa l’ora, Gioachino?! La cena è ormai fredda!» Rossini era abituato ai toni burberi di Madame Olympe. «Cosa ti sta succedendo? Sei stato fuori per ore!» «Olympe mia cara, mi vedi? Sto benissimo. Ho incontrato persone molto importanti che ho invitato al nostro primo concerto in villa. Sprizzo energia da tutti i pori.» «Tu mi nascondi qualcosa, non me la conti giusta. Sono giorni che ti comporti in un modo che non mi 94


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piace, avanti… siedi a tavola, ti faccio servire la tua cena fredda…» «Mi basterà un po’ di quello stracchino eccezionale inviato dal marchese Busca e un piatto d’insalata… mangerò su, in camera… ah, mi raccomando Olympe: prendete dell’olio di Provenza, mostarda inglese, aceto, un po’ di limone, pepe, sale, battete e mescolate il tutto; poi aggiungete qualche tartufo tagliato a fette sottili. I tartufi danno a questo condimento una sorta di aureola, fatta apposta per mandare in estasi un ghiottone. Il cardinale segretario di Stato, che ho conosciuto in questi giorni, per questa scoperta mi ha impartito la sua apostolica benedizione.» Olympe restò di sasso a guardarlo mentre saliva le scale. Gioachino entrò in camera e si avvicinò allo scrittoio. Da un cassetto laterale tirò fuori la pagina pentagrammata scritta il giorno prima, “O salutaris Hostia”… quel motivo non cessava di suonare all’interno della sua mente. Doveva svilupparlo: divise le battute sulla carta con rinnovato estro, il tema si dipanava naturalmente e sgorgava, una nota dopo l’altra, come un ruscello dalla sua fonte. Un tempo di andantino grazioso era quello giusto per dare al tema quella freschezza e quella libertà innocente che doveva caratterizzare l’invocazione… poi… la fervida mente del Maestro correva alle rivelazioni ricevute, alle battaglie e alle ostilità che si pongono davanti all’uomo… il tempo si fa più animato… la voce grida “Bella premunt hostilia”, due volte, con forza… Gioachino pose un forte sul Mi bemolle e sul Re della parola “Bella” e 95


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poi una supplica, ma con forza crescente “da robur fer auxilium”… dà a noi la forza… una, due, tre, quattro… cinque volte in progressione prima di tornare al pianissimo e al tempo primo, per riprendere quella celestiale melodia. Ecco, ancora una volta la musica conteneva il messaggio e, come in uno scrigno tempestato di diamanti, proteggeva il codice intimo delle sensazioni, delle emozioni e dei contrasti dell’anima. Trascinato dalla sua vena artistica inesauribile, il grande Rossini era al lavoro, come ai tempi della sua giovinezza impetuosa, quando riusciva a comporre anche quattro o cinque opere liriche l’anno. Lo sguardo cadde sul vecchio volume ingiallito, la Musurgia Universalis, dono del vecchio antiquario de Montpellier. Spinto dall’istinto, senza apparente motivo, Gioachino aprì a caso una pagina e lesse: «La mensa tonographica: il sistema dei toni… dodici scale riconducibili a una bipolarità fra modo maggiore e modo minore. Dodici toni, in totale quattro scale maggiori (Do, Sol, Fa, Sibemolle) e le loro relative minori (La, Mi, Re, Sol)». Dodici… ancora quel numero… dodici… “I dodici Apostoli della chiesa di Saint-Merri… i dodici toni di Kircher… starò mica diventando matto!?”, pensò Rossini e guardò in direzione dell’orologio posto sul camino, che in quel preciso momento segnò la mezzanotte.

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CAPITOLO OTTAVO Parigi. Hôpital de la Pitié-Salpêtrière, boulevard de l’Hôpital.

Il palazzo dell’Hôpital de la Pitié-Salpêtrière si pre-

senta come un imponente mausoleo, dominato dalla grande cupola centrale della cappella. Venne costruito sotto il regno di Luigi XIV laddove si ergeva un arsenale adibito a fabbrica di munizioni e inizialmente fu utilizzato come ricovero di donne indigenti, mendicanti, prostitute. Dopo la Rivoluzione si caratterizzò invece come centro ospedaliero specializzato per pazzi incurabili e persone comunque afflitte da gravi malattie mentali. Grazie all’impegno di uno psichiatra illuminato, Philippe Pinel, verso la fine del Settecento vennero adottate terapie meno crudeli e umilianti di quelle fino ad allora praticate all’interno della struttura, quali docce gelate, catene e altre vessazioni insopportabili. In quel luogo era stato ricoverato l’anziano Mon97


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sieur de Montpellier, a seguito del malore che lo aveva colto due giorni prima. Gioachino Rossini venne fatto accomodare in una ampia sala d’attesa, tanto grande da far pensare a quella di una stazione ferroviaria. Gli ospedali hanno sempre qualcosa di macabro e fastidioso, con quel senso di apparente pulizia e di finta asetticità. In quei luoghi si tocca con mano, pensava tra sé Gioachino, il sentimento dell’impotenza umana di fronte alle malattie, viste non già come alterazioni di uno stato di salute, ma spesso come inesorabili sentenze, virus sconosciuti da debellare, misteriose battaglie da combattere a suon di farmaci, più o meno efficaci. Talvolta inutili. «Prego Maestro, può entrare», una solerte infermiera di proporzioni smisurate fece strada e introdusse l’ospite in una grande camera occupata da quattro letti, ognuno separato dall’altro da un tendaggio bianco, per il mantenimento di quel minimo di privacy che spetta al paziente. Accanto a ogni letto un comodino, con un vaso da notte in ceramica posto al di sotto e una brocca d’acqua, qualche bustina contenente strane polveri, un bicchiere mezzo pieno. «Monsieur de Montpellier, mi riconosce?», Rossini si avvicinò al secondo letto, indicatogli dall’infermiera. «Buonasera caro Maestro…» Il vecchio antiquario era seduto al centro del letto, lo sguardo stanco e un po’ perso nel vuoto, due cuscini a sorreggerlo. La sedia a rotelle sulla sinistra conferiva alla scena un 98


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aspetto ancora più tragico. Sopra al comodino una pila di vecchi libri, ve ne saranno stati almeno otto, nove… uno sopra l’altro. «Stupito di trovarmi qui, vero? In un ospedale per dementi, per isterici, per gente giudicata senza più il controllo delle proprie facoltà mentali…» «Ma infatti, è assurdo, perché la tengono qui?» «Perché per il mondo, caro Maestro, io sono pazzo. Mi hanno detto che in ambulanza deliravo, ancora traumatizzato dalla notizia di Julie… mia figlia Joséphine ha colto l’occasione al volo, chissà cosa ha detto ai medici su di me… ed eccomi qui.» «Ma non è possibile, parlerò io con loro e con sua figlia. Si tratta di uno spiacevole equivoco, come si sente adesso?» «Non si preoccupi. Adesso va meglio, ma non riesco a non pensare a mia nipote… domani…» «Domani…», Gioachino abbassò il tono della voce, «…domani non accadrà niente, stia pur tranquillo… esiste un piano…» «Maestro… loro sono terribili e sono ovunque, niente e nessuno può impedirgli di raggiungere i loro maledetti scopi…» «Non si agiti Monsieur…» Gioachino doveva trovare alla svelta un argomento per distrarre quel povero vecchio ricoverato, contro la sua volontà, in un istituto per malati di mente. Guardò la cartella clinica appesa al letto, sopra campeggiava il numero dodici. Monsieur Adrien de Montpellier, numero dodici… incredibile, ancora quel dannato numero. Fu allora che, per associazione 99


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d’idee, pensò bene di iniziare un discorso su quelle singolari coincidenze. «Perdoni la domanda, Monsieur Adrien, Lei è sicuramente in grado di aiutarmi a risolvere una curiosità, diciamo pure un assillo inspiegabile. È possibile che un numero, un semplice numero ricorrente possa contenere dei significati occulti?» «Quale numero?» «Il numero dodici… mi appare ovunque… se fossi un frequentatore di casinò lo avrei già giocato alla roulette…» Il vecchio antiquario abbozzò un sorriso, poi allungò il braccio verso i libri posti sul comodino e ne trasse uno dalla copertina in pelle rossa venata, rifinita in oro. «Guardi… questa è una rarissima edizione, risalente a circa sessant’anni fa… del The Magus, scritto da un noto occultista inglese, Francis Barrett. Con l’aiuto di un buon amico ho potuto chiosare e tradurre molti passi che mi interessavano, soprattutto riguardo argomenti come il potere delle erbe e delle pietre, il magnetismo, i talismani, l’alchimia… la numerologia…» «Numerologia?» «Per mezzo dei numeri si è aperta la strada alla comprensione oltre che alla scoperta di tutta la sapienza umana. I numeri hanno una loro entità, possono rappresentare il Bene o il Male… i numeri hanno una grandissima influenza sull’anima, Maestro Rossini.» «Mi sta spaventando… sapevo che i numeri hanno 100


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uno rapporto stretto con la musica. Ne parlava spesso Padre Mattei a Bologna… citando Pitagora, ne parlammo durante il nostro primo incontro, ricorda?» «Ovviamente. La musica, come lei sa bene, deve avere regole certe. Musica e matematica hanno una relazione strettissima, essenziale, fondamentale. Arrivo a dire che un numero possa possedere addirittura un suono precipuo…» Il vecchio antiquario aprì una pagina del volume di Barrett, contrassegnata da un segnalibro dai bordi rovinati, molto vecchio anch’esso, e lesse: «I numeri semplici stanno a indicare le cose divine; i numeri delle decine le cose celesti; quelli delle centinaia le cose terrestri; i numeri delle migliaia le cose che avverranno in futuro…». «Quindi il dodici è un numero celeste?», chiese Rossini sempre più affascinato da quelle rivelazioni. «Il dodici è un numero sublime. Dodici sono gli Apostoli, dodici le fatiche di Ercole, dodici i Cavalieri della Tavola Rotonda, dodici gli dèi dell’Olimpo, dodici i mesi dell’anno, dodici i segni dello Zodiaco, dodici le lunazioni…» «Dodici semitoni formano un’ottava, in musica… », aggiunse Rossini. «Sì certo, ma non basta: dodici sono gli ordini degli spiriti sacri, dodici gli angeli delle falangi celesti, dodici gli ordini dei dannati, dodici le tribù di Israele. Dodici è un numero sacro, Maestro…» «Vi sono simboli occulti?» «Glieli sto elencando man mano… il dodici è un numero di grazia e perfezione, legato alla visione 101


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profetica. I suoi simboli occulti sono Giuda, Prometeo incatenato, l’olocausto… la vittima.» «La vittima, l’olocausto… c’è forse qualche riferimento a Julie e al barbaro rito previsto per domani?» «Domani sì… a mezzanotte. Alle dodici post meridiem. Se non riuscirete a salvarla… bisogna intervenire prima di quell’ora…», il vecchio antiquario iniziò a tossire in modo convulso. Dovette respirare profondamente e sorseggiare in fretta dell’acqua, per non soffocare. «Monsieur, si calmi, non si agiti inutilmente… deve avere fiducia, Julie verrà salvata. Il barone de Rothschild si è messo a completa disposizione affinché tutto vada nel migliore dei modi e questo orrore venga finalmente interrotto…» «Io lo spero con tutto il mio cuore, Maestro.» «Monsieur, vorrei lasciarla riposare, magari chiamo un’infermiera per somministrarle le medicine…» «Quali cure? Queste?», il vecchio indicò alcune bustine poste sul comodino in ordine sparso. «Questo è veleno! Sa cosa vuol dire la parola farmaco? Vuol dire veleno. È chiaro che mi vogliono uccidere!» «Si calmi Monsieur Adrien, stia tranquillo, nessuno vuole farle del male, io sono qui per aiutarla…» Pian piano l’antiquario smise di agitarsi, e ricominciò a respirare regolarmente. «Maestro, lei è un predestinato. Dio stabilisce in modo imperscrutabile chi è destinato alla salvezza, al Bene, e chi alla perdizione. Non le ho rivelato tutto sul numero dodici… non è un caso che lei ne sia, diciamo così, benevolmente perseguitato…» 102


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«Mi dica…» «Secondo quanto narra la mitologia, Prometeo venne incatenato a una montagna del Caucaso da Efesto, per aver rubato il fuoco sacro e averlo donato agli uomini. Ogni giorno un’aquila andava a divorargli il fegato, che ricresceva immediatamente dopo. Solo attraverso una grande sofferenza si può ottenere il massimo grado di conoscenza. Lei ha avuto in dono il fuoco sacro dell’arte e lo ha consegnato agli uomini attraverso la sua musica sublime…» «Dunque, nulla di quello che sta accadendo in questi giorni è casuale…» «Nulla. Il caso è Dio.» Rossini e l’antiquario de Montpellier si guardarono a lungo negli occhi. «Maestro Rossini… in che anno è nato?» «Nel 1792… perché?» «Un anno bisestile…» «Difatti io ho il compleanno ogni quattro anni, attualmente ho diciassette anni…», ridacchiò Gioachino. «Lei sa che anche il 1212 fu un anno bisestile? E che quest’anno, il 1860, è un altro anno bisestile?» Gioachino tacque. «Gli antichi Romani dicevano anno bisesto, anno funesto alludendo a quello che consideravano un mensis feralis, il mese dei morti e delle disgrazie…», seguì una lunga pausa. «Maestro, salvi Julie…» «Glielo prometto.»

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Passy, Villa Rossini.

Quella sera il Maestro fu di buona compagnia. Seduto a tavola vicino a Madame Olympe, mostrò di gradire il menu predisposto in suo onore. «Dopo il non far nulla, io non conosco occupazione per me più deliziosa del mangiare, mangiare come si deve, intendiamoci. L’appetito è per lo stomaco ciò che l’amore è per il cuore. Lo stomaco è il maestro di cappella che governa e aziona la grande orchestra delle passioni. Lo stomaco vuoto rappresenta il fagotto o il piccolo flauto in cui brontola il malcontento o guaisce l’invidia; al contrario lo stomaco pieno è il triangolo del piacere oppure i cembali della gioia. Quanto all’amore, lo considero la primadonna per eccellenza, la diva che canta nel cervello cavatine di cui l’orecchio s’inebria e il cuore viene rapito. Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne. Chi la lascia fuggire senza averne goduto è un pazzo.» «Diciamo pure che di “atti”… forse ne è rimasto uno solo…», ironizzò Olympe. In tavola campeggiavano una selezione di formaggi e una bottiglia di vino pregiato, da fare invidia al più fastoso dei ristoranti. Gioachino aveva un vero e proprio culto per la buona cucina, pari se non addirittura superiore a quello per la musica. Prima che morisse, nel 1833, tra i suoi amici v’era stato anche il celebre chef Antonin Carême, primo cuoco 104


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di James de Rothschild, un vero campione nel suo genere. «Mi è tornato in mente quello che fu il trionfo di Carême, qualcosa di incredibile», disse pomposamente Gioachino alla moglie. «Mi riferisco al menù del pranzo offerto nel 1817 dal principe reggente d’Inghilterra, al Brighton Pavillon: quattro brodi tra cui il famoso “garbure aux choux”, quattro piatti di pesce, tra cui l’immancabile “matelote au vin de Bordeaux”; quattro “pièce de resistence” tra cui “l’oie brassée aux racines glacée” con attorno trentasei entrées, tipo “le boudin de volaille à la béchamel”, cinque “assiettes volantes” con filetti di sogliola o di francolino di monte, poi otto pezzi fissi grandiosi, anche di pasticceria, con nomi come “le rovine di Antiochia”, seguiti da trentadue entremets (indispensabili le uova strapazzate con tartufi), e altre dieci “assiettes volantes” tutte di soufflés, di patate o di cioccolato.» «Frugale, non c’è che dire…», Olympe rideva di quelle fissazioni gastronomiche. «Tu non sai cosa ti sei persa non avendo visto i capolavori di Carême, cos’era per esempio la carpa “à la Chambord” decorata con quaranta filetti di sogliola e lamelle di tartufi… una squisitezza… era capace di costruire torte giganti a forma di tempio, alte anche più di un metro e con una fantasia degna del migliore architetto…» «…e tu le riducevi a metà, immagino…» «Aaah… i suoi croquembouche fecero impazzire Tayllerand e lo stesso Napoleone. Mi adorava il buon Antonin, aveva capito che parlavamo la stessa lingua. In 105


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occasione del Guillaume Tell confezionò per me una torta di mele enorme sormontata da una mela trafitta da una freccia di zucchero.» «Non fu lui a insegnarti la ricetta dei tournedos?» «Sì, esatto…» «Non ho mai capito il perché di quel nome…» «Perché al termine della lavorazione dovevo girarmi di schiena per nascondere ai commensali il segreto finale…» «E quale sarebbe questo segreto?» «Madera, ma chèrie, una spruzzata di Madera su questi meravigliosi bocconcini di carne, foie gras e tartufi!» «Accontentati oggi di questa scelta di formaggi, ci sono anche gli stracchini di gorgonzola e i tartufi spediti da Ascoli… gradisci un po’ di Lacrima?» Olympe indicò la preziosa bottiglia di Lacrima Christi. «No, grazie. Niente lacrime per adesso: ho pianto solo tre volte in tutta la mia vita, quando fischiarono la mia prima opera in teatro, quando morì Paganini e quando, durante una gita in barca, cadde in acqua un tacchino farcito ai tartufi.» Mentre Olympe rideva di cuore a quella battuta, udita un miliardo di volte, Gioachino guardò la data sul quadrante dell’orologio da taschino: 23 marzo.

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CAPITOLO NONO Passy, Villa Rossini a BeausĂŠjour.

L’ansia toglie il sonno quanto un pasto abbondante

e difficile da digerire. Quella sera Rossini sentÏ tutto il peso degli ultimi accadimenti, delle tante rivelazioni apprese e di ciò che sarebbe successo quel dannato 24 marzo. La sola idea di rivivere le orrende visioni della notte nelle Catacombe lo atterriva al punto tale da farlo pentire di tutte le azioni intraprese in quei giorni assurdi e di tutte le parole udite e dette. Si sentiva in trappola, coinvolto in un turbine assolutamente inatteso e imprevedibile, in una rete di personaggi, luoghi e situazioni tra loro intimamente collegati, che probabilmente non avrebbe mai incontrato se non fosse stato per uno stranissimo scherzo del destino. Una vita da salvare, uno scempio cui porre fine, sembrava impossibile che fosse offerta proprio a lui, persona mite e fino a quel momento ignara di tante 107


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questioni, la possibilità di intervenire e magari risolvere il delicatissimo intrico. In quelle ore che sembravano non trascorrere mai, Gioachino si interrogò su chi era realmente e su quanto poco sapeva del mondo, degli uomini, della storia e delle sottili relazioni tra il reale e l’occulto. Seduto alla scrivania guardava il pianoforte e la sua vita passata gli scorreva rapidamente davanti, con la velocità delle silhouettes in una lanterna magica. La musica lo aveva assorbito totalmente sin dall’infanzia, dalle prime lezioni di canto ai lunghi esercizi al clavicembalo, una totale esclusiva concessa all’arte di modulare i suoni piacevolmente. Una vita da zingaro di lusso, tra primedonne, ballerine, impresari disperati e assillanti, successi trionfali, fiaschi clamorosi, lauti guadagni e innumerevoli pagine di musica, alcune commoventi e memorabili, altre meno ispirate ma sempre seguendo un percorso grandioso e unico nel suo genere, certamente destinato a restare scolpito negli annali della storia. La musica, vivere nella musica, con la musica e per la musica, attimo dopo attimo, senza sosta. Un treno che corre dritto velocissimo verso la sua destinazione, senza quasi che si possa ammirare per bene i panorami circostanti e soffermarsi su molteplici dettagli, che pure compongono il complesso mosaico della vita. Successo, denaro, donne a profusione ma infiniti tormenti interiori, malanni, fisime, quella maledetta depressione mai del tutto superata e fortunatamente tenuta a bada negli ultimi anni, in virtù di un equilibrio ritrovato a Parigi, città degna di un re 108


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come lui, pigro e riverito, circondato da una corte allegra di amici dediti alla bella vita, agli agi, alla spensieratezza. E adesso? Tutto s’infrange come lo scoppio d’una bolla di sapone davanti alla più cruda e dura delle realtà. Tutto si rivela diverso: sotto la crosta della cosiddetta normalità, della visione lineare, si celano mostri e verità nascoste. Non esiste una sola verità, così nella vita come nella musica, pensò Gioachino. Aveva ragione il vecchio antiquario citando Pitagora… la musica delle sfere, qualcosa di più lontano e sublime rispetto alle consuetudini, qualcosa che collegava tutto magicamente: l’armonia, i numeri, i pianeti. Preso da una smania improvvisa, Gioachino si ricordò di un passo che aveva letto nella Divina Commedia di Dante, una delle sue letture preferite. Cominciò a sfogliare velocemente il Paradiso e giunto alla terza cantica, quella in cui Dante e Beatrice entrano nel primo cielo, quello della Luna, ritrovò quei versi: Quando la rota, che tu sempiterni Desiderato, a sé mi fece atteso, Con l’armonia che temperi e discerni, Parvemi tanto, allor, del cielo acceso De la fiamma del sol, che pioggia o fiume Lago non fece mai tanto disteso. «Temperi e discerni… l’armonia che temperi e discerni… ma certo! Temperare vuol dire accordare… qui vengono stabiliti i rapporti matematici che rego109


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lano e compongono lo spazio sonoro, come diceva Pitagora! Dante parla esplicitamente dell’armonia delle sfere!» Gioachino sentì la mente librarsi verso l’alto e connettersi a nuove realtà, prima impensabili. Andò oltre, continuando a leggere con nuovi occhi: iniziò a contare i versi delle due terzine, si partiva dal verso settantasei e si arrivava al verso ottantuno. Iniziò a considerare le parole in relazione al numero: «Vediamo un po’… dalla prima all’ultima parola sono esattamente trentanove parole che compongono tutto il passo… trentanove… tre e nove… tre più nove… dodici! Ancora dodici! Incredibile…». Il gioco ormai lo appassionava, tutti i tasselli sembravano sempre tornare al loro posto, rivelando man mano un’immagine più completa. «Il primo cielo… Dante e Beatrice sono nel primo cielo… è il cielo della Luna, sede degli Angeli.» Nella mente di Gioachino si affacciò l’immagine dei due grandi angeli a fianco del crocefisso sull’altare di Saint-Merri, mentre l’organo suonava l’Introito. «Una Messa cantata da Angeli! Il suono del Cielo, l’armonia delle sfere esiste è una vibrazione arcana, meravigliosa che si propaga nell’aria e colpisce il nostro udito, non è solo un atto intellettivo…» Afferrò un piccolo taccuino, dove soleva annotare idee musicali, spunti, battute di spirito, aneddoti. Iniziò a scrivere: Dodici angeli… una Messa costruita sull’armonia delle sfere… L’idea lo affascinava e lo turbava al tempo stesso. 110


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Ma il solo fatto di poter contrastare la violenza e il dilagare del Male con l’unico grande rimedio a noi concesso, quella poderosa barriera chiamata Amore, Amor che move il Sole e l’altre stelle, produceva nel suo animo una fibrillazione positiva e l’estro dei giorni migliori. Con Amore, annotò: musica scritta Con Amore. La musica può dunque contenere altri codici che non siano quelli immediatamente reperibili dai sensi? Codici legati all’energia che sprigiona il Cosmo? Ma certo! Lévi parlava di mente olistica contrapposta alla stolta, limitata, banale mente lineare: questa è la chiave per capire e aprire nuove porte. «Mozart?! Il divino Mozart non faceva esattamente questo? Andando contro ogni convenzione, immaginando, sognando e infine realizzando i suoi capolavori?» Gioachino conosceva a memoria le sue opere, quando studiava a Bologna lo avevano chiamato, non senza ironia, “il tedeschino” perché si nutriva della musica di Mozart (che non era tedesco ma austriaco). Era notte fonda a Villa Rossini e gli alberi del Bois de Boulogne parevano nel buio oscuri giganti dalle braccia lunghissime, paurosamente mosse dal vento. Da lontano l’ululato di un cane, il ticchettio dell’orologio sul camino, comicamente circondato dalle parrucche del compositore, poste in bella mostra come trofei di caccia. Rossini prendeva veloci appunti, non voleva dimenticare quanto aveva appreso; sul suo scrittoio il Clavicembalo ben temperato di Bach, pagine di Mozart, Palestrina, Paisiello, i maestri di quella misura e di 111


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quella eleganza armonica, di quell’ordine che aveva sempre contrapposto al disordine di altri, di coloro che volevano stupire e non commuovere, com’era solito sostenere. Quanti anni erano passati dalla temperie compositiva che lo vedeva produrre pagine su pagine musicali, anche cinque titoli l’anno. Non tantissimi ma a Gioachino parevano secoli. I tempi cambiavano velocemente: dopo il Guillaume Tell, congedo regale ma pur sempre definitivo, dal suo osservatorio privilegiato, Rossini vedeva corrompersi la purezza del gusto, smarrirsi l’unità e la naturalezza delle composizioni con l’apparire di quelle che amava definire “stranezze e arbitrii, passaggi artificiosi, accordi strani, novità ardite”, per non parlare delle libertà che si prendevano i cantanti, con gorgheggi non autorizzati, invenzioni, acuti e sopracuti fuori ordinanza, tra cui quell’orrendo “Do di petto” che veniva simpaticamente da lui definito come “l’urlo del cappone sgozzato”. Dai suoi saloni pieni di bella gente pronta a riverirlo come un papa, Rossini assisteva suo malgrado all’avanzare della cosiddetta musica dell’Avvenire, rappresentata in primis da un singolare personaggio dall’indubbio carisma, Richard Wagner. Il pensiero correva a quell’incontro di pochi giorni prima, avvenuto grazie ai buoni auspici di un comune amico, Edmond Michotte, un giovane compositore belga che Gioachino considerava quasi come un figlio. Wagner si trovava a Parigi per predisporre la versione francese dell’opera Tannhäuser, scritta quindici anni prima, ed era stato ben lieto di varcare la 112


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soglia dell’appartamento della Chaussée d’Antin per conoscere il glorioso padrone di casa. Una visita indimenticabile, l’incontro di due titani: Rossini e Wagner, l’alfa e l’omega, il Belcanto e la sua apparente negazione. Gioachino ripensava ridacchiando alla chiacchierata con Wagner. Lo aveva accolto nel suo studio privato, dopo aver tranquillamente terminato il pranzo. «Dunque il novello Orfeo non teme di varcare questa pericolosa soglia? Voglio subito dire che tutte le cattiverie su di lei che mi vengono attribuite sono frutto di falsità! Nella mia vita sono infastidito solo da due cose: i catarri e i giornalisti!» Questo era stato l’inizio, assai promettente, di uno dei colloqui più amabili e distesi che si possano immaginare. «Ha conosciuto Beethoven?», fu una delle tante domande poste da Wagner, molto incuriosito. «Certamente, a Vienna. Mi raccomandò di non abbandonare mai l’opera buffa, per la quale ero nato. Gli dissi che avevo composto già parecchie opere serie ma lui fu irremovibile. L’opera seria non è per gli italiani, mi disse, non hanno sufficiente scienza musicale. Già, come potrebbero acquisirla in Italia? Chiaro e preciso.» «Fortunatamente, Maestro, non ha seguito il consiglio di Beethoven.» «Sì, ma aveva ragione lui, ho sempre avuto un’attitudine maggiore per l’opera buffa. Potevo scriverne anche quattro in un anno, il Barbiere lo composi in quindici giorni.» 113


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«Incredibile, complimenti!» «Vede, io ho sempre avuto due doti: la facilità nel comporre e l’istinto. Con queste ho sopperito alla mancanza di una tecnica compositiva approfondita, del resto impossibile in Italia. Quel poco che ho appreso l’ho desunto da partiture tedesche: La Creazione di Haydn, Le nozze di Figaro e Il Flauto magico di Mozart, di cui trascrivevo la parte vocale e poi inventavo a piacimento un mio personale accompagnamento… ah, se avessi avuto modo di studiare in Germania, quanti vantaggi ne avrei tratto…» «Nulla di meglio di quanto abbia già fatto nella scena delle tenebre del Mosé, nel giuramento del Guillaume Tell o nel Quando corpus morietur, per cambiare genere…» «Cita a proposito dei buoni quarti d’ora della mia carriera, ma cosa sono davanti a Haydn, o Mozart, o Bach? Guardi lì sul tavolo, vedrà solo pagine della loro musica. Studiarli è il mio maggior diletto…» «Vedo, vedo…», Wagner gettò un’occhiata curiosa sullo scrittoio invaso di pagine musicali. «Maestro Wagner, si parla tanto di musica dell’avvenire, spesso con ironia… non da parte mia si intende… cosa vuol dire esattamente?» «Vede Maestro, fin dai miei primi lavori ho cercato di uscire dalle convenzioni e dalla routine scontata delle successioni di arie di bravura, duetti insipidi, concertati, che interrompessero l’azione drammatica. Quei settimini con tutti i cantanti schierati in fila davanti al proscenio…» «Come tanti carciofi in fila! Non lo dica a me, ho 114


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sempre detestato questo sistema, ma che dovevamo farci? Era il gusto dei tempi, se non avessimo obbedito a questa routine ci avrebbero tirato mele marce…» Wagner non si curò dell’interruzione e continuò imperterrito: «Senza tener conto della banalità degli accompagnamenti orchestrali, privi di colori, convenzionali, ripetitivi… l’esatto contrario di quello che dovrebbe essere il rispetto per una forma d’arte così nobile e alta come l’Opera». Rossini si stava infervorando: «Non mi parli di arie di bravura, primedonne, primi uomini… erano arrivati al punto di contarsi le battute a vicenda per vedere chi ne cantava di più. Un incubo!» «Convenzioni, nient’altro che convenzioni, ovviamente necessarie fino a che non si scade nel grottesco, nell’eccesso. Ecco cosa ho cercato di combattere, spesso incompreso in questa mia battaglia. L’Opera, per me, deve essere un tutt’uno: arte poetica, musicale, plastica, decorativa. L’autore non può e non deve essere un semplice illustratore musicale di testi altrui: l’ideale è che se li scriva in proprio…» «Non è cosa semplice, direi quasi impossibile…», rilevò Rossini. «E perché mai? Non mi dica che componendo la scena del giuramento in Guillaume Tell, lei si sia attenuto solo alle parole del libretto, pedissequamente… non ci credo…» «È vero, ha ragione. Sono intervenuto sul testo e non senza fatica, per ottenere l’effetto drammatico di cui avevo bisogno…» 115


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«Vede Maestro Rossini? Mi dà ragione. È una naturale evoluzione che porta queste conseguenze. Perché ho ragione a dire che la musica dell’avvenire altro non è che l’avvenire del dramma musicale, che dovrà cambiare per gli autori, i cantanti e il pubblico.» «Mmmh… e lei pensa che questa rivoluzione porterà all’abolizione delle arie di bravura in virtù d’un declamato? E che cantanti e pubblico si abitueranno facilmente a ciò? Non credo…» «Quando i cantanti e il pubblico si abitueranno a caratterizzazioni più profonde, a drammaturgie più vere ed emozionanti, allora anche la declamazione apparirà più nobile e autentica rispetto a trilli e gorgheggi, mi creda.» Rossini osservava assai perplesso il suo prestigioso ospite: «Maestro Wagner… e che fine farà la melodia? Lei ne sta recitando l’orazione funebre, mi pare…» «Al contrario! La melodia è determinante, ma la melodia che voglio io deve essere libera, indipendente, in stretta relazione con il testo poetico e che possa esaltarne il senso, estendendosi allargandosi o restringendosi, alla bisogna, come ha fatto lei, Maestro, nella sublime aria del baritono, “Sois immobile”, nel Guillaume Tell» «Quindi ho fatto musica dell’avvenire senza saperlo?», ridacchiò Rossini. «Lei ha scritto musica per ogni tempo, passato presente e futuro, che è la cosa migliore!» Dopo questa battuta Rossini si rese conto di avere 116


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davanti a sé un sincero ammiratore e un musicista con le idee ben chiare. «Ah, se solo fossi stato meno pigro e indolente, quanta musica dell’avvenire avrei potuto ancora scrivere… dopo il Guillaume Tell, c’era una possibilità per Faust ma la cosa non andò in porto…» «Maestro Rossini, avrei un’ultima curiosità da soddisfare, approfittando della sua disponibilità: lei è un grande esperto di voci e volevo sapere quale fosse, allo stato attuale, la situazione del Canto. È giusto parlare di decadenza?» «Sì, certamente, e le dirò anche la ragione: ciò è dovuto alla progressiva sparizione dei castrati. Erano cantanti preparatissimi, educati severamente a questa difficile disciplina, vi erano accademie straordinarie. Poi, dopo i vari decreti, questo tipo di cantore scomparve e i conservatori, mi creda, non insegnano il bel canto come io lo conoscevo. Si va verso una deriva autentica.» Rossini si alzò allora dalla poltrona facendo intuire che la conversazione, per quanto piacevole, era giunta alla sua naturale conclusione: «Carissimo Maestro Wagner, la ringrazio per la visita e per la chiacchierata. Io ho un’età in cui non si pensa più alla composizione bensì alla decomposizione, ma le sue idee sono molto interessanti e stimolanti per i giovani, per la nuova generazione. In musica le idee portano avanti: dopo Mozart si poteva prevedere un Beethoven? Dopo Gluck un Weber? Lei ha le idee chiare e deve sostenerle, alla faccia dei suoi detrattori. Del resto chi non ne ha? Io potrei 117


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fare una lista infinita dei miei! Maestro, la saluto e le auguro ogni bene…» L’incontro durò oltre mezz’ora, Wagner restò affascinato dalla semplicità, dalla naturalezza e dalla disponibilità a scherzare del Maestro, ma anche dal suo autentico interesse per le novità che andava manifestando con le sue opere. “Che testone questo Herr Wagner”, rifletté Gioachino, sorpresosi a sorridere nel ripensare al singolare incontro. Del resto, bastava osservargli il mento, così prominente e volitivo. “Ma che idee bislacche… creare melodie infinite o minimali, libere… che si allargano o si restringono… no, no, che si diverta pure a farle lui queste stramberie. La melodia all’italiana deve essere piana e regolare, l’armonia non deve essere pretenziosa, l’ascoltatore non ne deve essere distratto… la melodia deve prima di tutto esprimere la bellezza della propria linea, il bel canto, ma al tempo stesso deve sorprendere, far ridere, commuovere. Questo è il segreto: molti staccati, molte pause di breve durata e poi i crescendo…” Il ricordo dell’incontro con Wagner lo aveva stimolato in senso contrario: non già l’acquisizione di nuove idee viste come il progresso contro il glorioso passato, bensì l’affermazione, più che mai convinta, di quelle idee che furono da sempre gli ingredienti vincenti. La semplicità contro la complicazione, la sorpresa contro la linearità prevedibile, l’armonia fondamentale contro il caos, canto staccato e legato in orchestra. Confusione nei gruppi di battute, cadenze finali ripetute all’inizio di un brano… il con118


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trario esatto di ciò che un ascoltatore si aspetterebbe: tentativi di chiudere quando in realtà si inizia! In quegli istanti, solo nella sua stanza e davanti al fedele pianoforte, Gioachino provò un profondo senso di orgoglio ripassando mentalmente alcune memorabili pagine del suo prodigioso catalogo. Altro che opere buffe… accanto al Conte d’Almaviva e a Mustafà, c’erano Tancredi, Semiramide, Ermione, Mosé. Lo stesso Wagner non aveva potuto fare a meno di nominare con sincera ammirazione il Guillaume Tell. La cosa lo lusingava parecchio. Ancor più lo divertiva l’idea che la gente si era fatta del suo improvviso silenzio, dopo l’ultimo capolavoro. Il pensiero vagava e fantasticava, come un vortice di terzine e di sillabati stretti, quando lo sguardo tornò a posarsi sul vecchio orologio e sulla data che, dopo la mezzanotte, era apparsa nel quadrante: 24 marzo. Ci siamo, il giorno è arrivato. Gioachino cercò invano conforto nel sonno.

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CAPITOLO DECIMO Parigi, 45, rue de Raynouard.

In uno dei quartieri più eleganti di Parigi, all’interno

di un sontuoso appartamento tra la Senna, Passy e la Muette, fecero il loro ingresso il barone de Rothschild, Gioachino Rossini e l’abate Marineau. All’interno di un sobrio ma elegante studio, abbellito da una lucida boiserie zeppa di libri e documenti allineati con ordine certosino, li attendeva il prefetto di polizia di Parigi, Symphorien Boittelle. Il prefetto è un uomo alto, sulla settantina, dai grandi baffi aerodinamici e dallo sguardo tagliente, l’espressione perennemente severa e corrucciata, come di qualcuno che ne ha viste di ogni tipo nel corso della propria avventurosa esistenza. «Symphorien è un nome molto musicale», esordì Gioachino nonostante l’occhiataccia del barone, lanciata troppo tardi. «Mio padre era un commerciante devoto a San 121


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Symphorien, un martire cristiano, non credo pensasse a qualcosa di sinfonico quando mi battezzò…» La risposta del prefetto fu abbastanza perentoria e provocò la discesa di un imbarazzante silenzio tra i quattro interlocutori. «Signori… mi onoro di ricoprire la carica di prefetto da due anni, a seguito della rimozione del mio predecessore dopo il fallito attentato ai danni del nostro imperatore, Sua Maestà Napoleone III. Ho creato un’organizzazione interna molto solida, con polizia e servizi segreti impegnati su tutti i fronti in modo continuativo. Ho rinforzato tutti i reparti, sia di polizia normale che speciale: siamo passati dalle cinquemila unità iniziali a ben dodicimila uomini, creando un dipartimento di polizia atto a controllare gli umori e i movimenti della gente, l’esistenza di possibili cospiratori, il controllo di porti e dogane, in generale l’amministrazione e i servizi pubblici. Ora, il caso che abbiamo davanti e di cui mi ha reso partecipe il mio amico, Monsieur de Rothschild, è particolarmente grave e scottante. Non escludo che, mal gestito, possa determinare pericolosissime ripercussioni di ordine politico e sociale, cosa che noi non vogliamo nella maniera più assoluta…» «…È per questo che siamo qui riuniti», intervenne il barone de Rothschild. «Abbiamo tutto l’interesse a evitare scandali, ma allo stesso tempo bisogna agire d’autorità perché cessino questi abominevoli reati e si salvino vite umane.» «Non penso che questi reati avranno mai termine del tutto…», mormorò sconsolato l’abate. 122


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«Cominciamo da oggi, in ogni caso», scandì il prefetto con voce sostenuta. «Ho incaricato un bravissimo commissario speciale, Monsieur Valentin Aubert, che verrà coadiuvato nell’azione dall’ispettore Dubois e da un gruppo scelto di agenti. Ovviamente tutti sono tenuti a mantenere il massimo riserbo su ciò che avverrà stanotte.» Rossini ascoltava con attenzione le parole del prefetto, che lo riportavano inevitabilmente indietro nel tempo, quando le prefetture erano impegnate a controllare ed eventualmente a censurare le sue opere. Un sorriso appena abbozzato, più interno che visibile, illuminava il volto di Gioachino al ricordo della burrascosa vicenda che lo aveva coinvolto ai tempi dell’opera L’Equivoco stravagante, nell’ormai lontano 1812. Al pubblico l’opera era piaciuta, ma il clero bolognese bacchettone aveva impedito lo svolgimento degli spettacoli dopo la terza replica a causa del libretto, pieno zeppo di doppi sensi sottolineati dalla musica impertinente. In quell’occasione, anche se per accertamenti di rito, Rossini era stato trattenuto in prigione e quindi rilasciato su ordine del prefetto di Bologna. «Maestro Rossini», disse il prefetto, «lei è stato testimone, assieme a Monsieur de Rothschild, di un reato gravissimo che non lasceremo impunito. Lei saprebbe riconoscere le persone coinvolte in quel macabro cerimoniale, qualora le venissero mostrate?». «No… no… non credo proprio… osservavo da una fessura, era buio, le circostanze non certo favorevoli, molti erano incappucciati… no, signor prefetto… non sarei in grado…» 123


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Il prefetto continuò a fissare Gioachino negli occhi in modo talmente severo da costringerlo ad abbassare lo sguardo. «Abate Marineau… ha mai sentito parlare, o per caso conosce, l’abate Joseph-Antoine Boullan, fondatore della cosiddetta Società per la salvezza delle anime?» «Non lo conosco personalmente. Ho sentito parlare di lui: un prete ordinato presso il seminario di Montauban e poi vicario della stessa parrocchia. Avrebbe miracolato una conversa di Soissons, restituendole la vista…» «Questa suora, Adèle Chevalier, è la sua amante nonché presunta complice in alcuni misfatti che stiamo tenendo d’occhio da tempo.» «Prefetto, mi lascia senza parole. Sapevo che erano a capo di una congregazione religiosa, a Sèvres, autorizzata e benedetta dal vescovo di Versailles!» Rossini ascoltava con sgomento la conversazione. «Purtroppo le pratiche di queste due persone non sono propriamente degne di benedizioni. Da alcuni informatori abbiamo appreso di guarigioni ottenute con ostie consacrate ricoperte di urina e materie fecali, riti satanici di vario genere, abusi sessuali; e non si escludono persino sacrifici umani!» «Dio Santissimo! Non avete ancora imprigionato questo infame sacrilego?» «Non abbiamo ancora prove certe. Sarebbe uno scandalo di proporzioni notevoli, come immagina, ma le indagini sono a buon punto.» «Sembra, in chiave macabra s’intende, un rifaci124


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mento del mio Comte Ory…», disse Rossini in tono sornione. «Non capisco Maestro… perdoni, non sono un esperto d’Opera…» «Mi perdoni lei, prefetto, era una battuta. Nella mia pochade il Conte Ory entra con un gruppo di cavalieri mascherati da suore nel convento di Formoutiers, per far piacere alle monache e scacciare la noia…» «Capisco, ma qui non si tratta di scacciare la noia… qui dobbiamo impedire degli orrendi delitti e il dilagare di pratiche che nulla hanno di umano. Barone de Rothschild, il commissario Aubert e l’ispettore Dubois vi attendono stasera con il loro corpo speciale, intorno alle 23.30, presso le cave di ButtesChaumont, come convenuto. L’azione è coperta dal massimo segreto. Io seguirò e coordinerò il tutto a debita distanza, potete contare su una protezione assoluta.» «Grazie prefetto», rispose il barone. «Signori, vi ringrazio. Mi auguro che tutto vada bene e che la signorina Julie non corra alcun pericolo. Conosco la situazione nei dettagli, non dovete temere. Ho già provveduto a rassicurare Monsieur de Montpellier, che sta meglio e verrà dimesso dall’ospedale nei prossimi giorni. Che Dio ci assista.» Il prefetto si alzò in piedi e porse la mano ai tre ospiti, abbozzando un sorriso assolutamente formale. L’abate Marineau si avviò per primo verso l’uscita, aggiungendo al suo saluto qualche parola in più: «Perdonerete tutti se mi asterrò dal partecipare 125


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all’azione direttamente. Non vorrei essere di intralcio e del resto non saprei esattamente come poter essere di aiuto, come testimoni basterete senz’altro voi e le forze dell’ordine. Vi seguirò con il pensiero e nelle mie preghiere». Nell’abbandonare lo studio lo sguardo di Rossini si posò casualmente sulla vetrina di uno stipo e in particolare su uno strano oggetto scuro, seminascosto da alcuni libercoli posti a fianco. Guardando meglio si accorse di aver già visto quell’immagine… e trasalì. «Le piace questo mobile, Maestro?», chiese il prefetto avvicinandosi. «È molto bello…» «È un portagioie in massello di cirmolo, creato appositamente da uno scrigno che conteneva in precedenza un orologio a pendolo. Una cosa molto particolare, vero?» «Sì… molto», disse Rossini, fingendo di interessarsi al mobile e non al piccolo oggetto che in realtà lo aveva colpito. «L’ho acquistato non molto tempo fa proprio nella bottega dell’antiquario Adrien de Montpellier, insieme ad alcuni ninnoli annessi, messi un po’ alla rinfusa al suo interno. Alcuni libri di scarso interesse, una statuetta piuttosto bruttina…» «Cosa rappresenta?», chiese Rossini fissando negli occhi il prefetto. «Non saprei esattamente, è chiamato Bafometto… un simbolo di saggezza, a quanto dicono. Mi creda: una dote davvero rara ai nostri giorni.» 126


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Rossini si congedò, raggiungendo il barone e l’abate che già si erano avviati verso la carrozza. Le cave di Buttes-Chaumont si trovano a nord-est di Parigi, al diciannovesimo arrondissement. Dal primo gennaio 1860 le circoscrizioni erano passate da dodici a venti, includendo molti sobborghi che via via si erano estesi entrando a far parte del vero e proprio centro di Parigi. Il panorama che si offrì agli occhi di Rossini e del barone de Rothschild era abbastanza desolante. L’ora tarda e un vago bagliore lunare che lambiva le antiche cave, da cui i parigini traevano gesso e pietre per la costruzione dei loro palazzi, conferivano alla roccia un aspetto sinistro. La cava più grande sembrava, nella notte, un grande fantasma di pietra, con rifrazioni di luce spettrali, dovute al fogliame mosso dal vento. «Perché hanno scelto questo posto per i loro riti?», chiese Rossini al barone de Rothschild, scendendo dalla carrozza. «Pare che le cave siano al centro di un pentacolo mistico, quindi cariche di energia. Il pentacolo è legato all’antico culto della dea Venere, associata alla sessualità mistica… poi se ne impossessarono gli adoratori di Satana, che fanno uso del pentacolo rovesciato, visto come il rifiuto dell’uomo di sottomettersi a una divinità.» «Il culto di Satana, sacrifici umani… ma è mai possibile nel nostro secolo? Pensavo che gli orrori a Parigi fossero terminati con la Rivoluzione francese, qui si passa ogni limite…» 127


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«Non credo che quelli che tu chiami “orrori” finiranno mai, caro Gioachino. Se pensi che i sacrifici umani hanno origini antichissime e talvolta persino avallate dall’Altissimo…» «Vuoi dire il sacrificio di Isacco richiesto ad Abramo? Ne parlava Monsieur Lévi durante il nostro colloquio a Saint-Merri…» «Sì, esattamente, è un culto che risale alla preistoria, quando si pensò di ingraziarsi gli dèi con ogni mezzo possibile, ed è andato avanti nel tempo, includendo civiltà anche molto importanti come gli antichi Greci, i Romani, i Babilonesi, gli Aztechi, i Maya. Figurati che, per la consacrazione di una loro piramide, gli Aztechi giunsero a sacrificare anche ottantamila persone!» «Inaudito!» «Normalissimo per loro. Un popolo colto e profondo come quello dei Celti poteva utilizzare il sacrificio umano per predire il futuro: l’agonia delle vittime, portate a morte lentissima, determinava queste visioni…» «Atroce… sei preparatissimo sull’argomento. Pensavo ti occupassi solo di affari, mio caro James…» «Sono una persona curiosa e ho conosciuto tante persone nel corso della mia esistenza. Frequentare dei circoli esclusivi mi ha permesso di espandere i miei orizzonti ben oltre le comuni nozioni che impariamo a scuola.» Rossini guardò impazientemente l’orologio: mancavano quindici minuti all’ora prestabilita dal prefetto e quindi all’incontro con la polizia segreta napoleo128


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nica. Le cave brillavano ancora di più, colpite dai raggi della luna. Il silenzio totale, interrotto a malapena dai versi di qualche uccello notturno. «James… quello di stasera è dunque un sabba? Cosa vogliono fare questi assassini?» «Non lo so, non ho mai partecipato, Gioachino», rispose un po’ urtato il barone. «Ne sentivo parlare, all’inizio non ci credevo. Poi… fui condotto ad assistere a una di queste cerimonie, esattamente nello stesso luogo dove ti condussi io, alle Catacombe…» «Da chi?» «Da Adrien de Montpellier, l’antiquario…» «Lui era a conoscenza??? Ma perché non li ha denunciati prima, avrebbe evitato il rapimento della nipote!» «Non poteva. Aveva ricevuto varie minacce e poi…», il barone abbassò lo sguardo e smise per qualche secondo di parlare. «E poi?» «…iniziarono a ricattarlo. Adrien de Montpellier aveva comunque partecipato ad alcuni di quei riti… in qualche modo era stato loro complice…» «Terribile…» «La cosa più tragica è che questi convegni hanno varie sedi nella nostra città e tutte difficili da scoprire, in grotte, sotterranei, scantinati…» «Insomma James, riassumendo: Parigi è un colabrodo, un dedalo di sotterranei dove si danno convegno i peggiori delinquenti?» «Gioachino, Parigi la dolce, come tante altre città, cela infiniti segreti, ma non da adesso, bensì dalla 129


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notte dei tempi. Da quando ho iniziato a interessarmi di esoterismo, prima pour parler poi più seriamente, ho appreso che la Terra così come la conosciamo offre una superficie abitabile molto ridotta, invasa com’è dall’acqua degli oceani. La vita non esiste solo sulla crosta terrestre, si parla di altri reami diffusi nel sottosuolo, infinitamente più grandi e misteriosi.» «Sì, ricordo. Mi accennasti a queste vecchie credenze orientali… Aga… Agar… se non sbaglio…» «Agharti, esattamente. Il regno sotterraneo mitizzato dai Templari e dai Rosacroce, un luogo incontaminato popolato da esseri straordinari, dotati di poteri sovrumani.» «Ti brillano gli occhi a parlarne… cos’è? Il Paradiso?», rise Rossini. «Di più Gioachino, di più. Un tempo questi semidei abitavano in superficie, forse nell’antica Atlantide, forse sul Monte Olimpo o la favoleggiata Thule… non sappiamo. Erano volti al bene, ignoravano il male, comunicavano attraverso la telepatia, compivano riti magici sulla base di conoscenze straordinarie.» «Poi cosa accadde?» «Secondo i corsi e i ricorsi storici, la materia oscura iniziò a dilagare e a prevalere. Gli abitanti di Agharti preferirono scomparire e rifugiarsi nel sottosuolo. La loro capitale ha un nome bellissimo: Shambhalla, la città di Smeraldo, governata dal Consiglio dei Dodici Saggi.» «Ancora il numero dodici!!! James… questo numero mi perseguita, mi appare da tutte le parti!» «Ti sembra casuale? » 130


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«No, adesso non più. Non può essere un caso…» «Infatti non lo è. Il caso è Dio.» «Ma c’è modo di entrare in questo regno sotterraneo?» «Pare che vi siano vari ingressi, in ogni parte del mondo. Nel Deserto del Gobi, in Mongolia, al Polo Nord e Sud, in Egitto, in Brasile, persino in Italia presso Ischia o il lago di Bolsena… organizziamo una gita?» «Troppo complicato per me ti ringrazio… preferirei andare sottoterra il più tardi possibile.» Rossini rise di cuore. Il barone rise a sua volta ma prima di poter aggiungere altro vide arrivare a passo veloce un omino bardato di nero, seguito da altri quattro uomini spuntati fuori silenziosamente dagli anfratti. Gioachino guardò l’orologio, erano le ventitré e trenta precise. «Permette? Sono il commissario Aubert e questo è l’ispettore Dubois, con tre funzionari dei servizi segreti di Sua Maestà…» «Vi aspettavamo commissario, ma gli altri?», fece il barone «Sono già all’interno della grande cava. Signori, l’operazione è ufficialmente iniziata.»

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CAPITOLO UNDICESIMO Parigi, cave di Buttes-Chaumont.

«Monsieur de Rothschild, Maestro Rossini, al-

cuni dei nostri migliori uomini stanno aspettando all’ingresso della grande cava, abbiamo bisogno di alcune indicazioni fondamentali per rintracciare il luogo del rito. Non c’è molto tempo.» Rossini e il barone si guardarono, poi James de Rothschild prese la parola: «Commissario, entrerò io insieme ai vostri uomini. Esiste un percorso segreto tra le varie gallerie indicato esclusivamente da simboli, uno porta a quello successivo ma bisogna fare attenzione a non sbagliarsi, ve ne sono parecchi fasulli messi di proposito per depistare eventuali intrusi.» «Lo sappiamo bene, per questo vi abbiamo convocato qui, di solito per questi inter venti ce la caviamo benissimo da soli», brontolò il commissario mostrando la spocchia tipica dei tutori della legge. 133


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Il gruppetto si avviò verso la grande cava, ora illuminata anche dalle grandi lampade a gas dei poliziotti. «Gioachino tu resta qui, non vi è ragione che tu debba entrare…», disse il barone. «Ci mancherebbe, sono arrivato fin qui, voglio portare a termine l’impresa!» «Maestro», proruppe il commissario, «tempo che il barone e la squadra irrompano nella sala rituale, lei avrà avuto la bontà di raccontare per filo e per segno gli eventi a cui ha assistito nelle Catacombe e quelli successivi…» «Ma…» «La sua testimonianza sarà decisiva ai fini dell’inchiesta, la prego di non insistere. La lascio con l’ispettore Dubois e tre uomini…» «Cedo. James, che Dio ti aiuti e protegga tutti voi. Resterò qui in compagnia di questi amabili signori…» Il barone, il commissario Aubert e la squadra di polizia si affrettarono a entrare nella cava, che si presentava enorme all’ingresso. La volta di roccia scavata era tanto grande da riuscire a contenere, per lo meno, un palazzetto di tre piani. All’interno la situazione si presentava in modo diverso: un cumulo incredibile formato da materiali rocciosi, pietraia e vecchi ammassi di gesso anneriti dal tempo sembrava ostruire ogni passaggio, in più l’ambiente era pervaso da un odore nauseabondo di muffa e detriti organici. «Che tanfo insopportabile!», protestò il commissario. 134


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«È il guano depositato dai piccioni e dai pipistrelli, più qualche topo defunto in decomposizione…», spiegò il barone per nulla sconvolto. Le lampade dei poliziotti iniziarono a esplorare ogni anfratto ma non si vedevano che cumuli di pietra, rottami, sporcizia, qualche cespuglio ingiallito e almeno sei, sette gallerie abbastanza grandi che si diramavano da quell’immenso androne. «Dobbiamo cercare i simboli, illuminate i fianchi di ogni galleria!», disse il barone al commissario, che riportò l’ordine ai suoi uomini. La ricerca fu rapida ma risultò vana. Quando a un tratto: «Ehi, guardate qui!». Un poliziotto illuminò due vecchie ante di legno, appoggiate a un altro ampio foro praticato nella roccia. Il barone si avvicinò e non tardò a scoprire quello che tutti stavano cercando. «Eccolo! Il Sigillum Diabolus, il Sigillo di Satana!» La mano del barone de Rothschild spolverò un piccolo triangolo rovesciato, che si intersecava con un secondo triangolo, seguendo una sorta di forma a clessidra. «Vedete questa X? È il potere e il regno sul piano fisico. Il triangolo rovesciato è l’acqua, fondamentale per la vita. La V in fondo al sigillo è la dualità presente in ogni cosa, luce e tenebre, maschile e femminile, male e bene.» Il commissario nemmeno ascoltò le ultime parole, già aveva oltrepassato la porta, forzata dai ferri di due poliziotti. 135


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La galleria si presentava particolarmente buia e non tardò a biforcarsi. «Metà di voi a destra, metà a sinistra!», si affrettò a ordinare Aubert. «No, un momento, è inutile disperderci… lasciatemi guardare…», disse il barone scrutando attentamente ovunque… «Ho trovato il segno!», disse un poliziotto indicando una piccola croce rovesciata posta in cima alla galleria di destra. Già il gruppo si era lanciato di corsa all’interno quando il barone si soffermò su un particolare all’apparenza insignificante, posto a fianco dell’ingresso di sinistra. «Tornate indietro! Non è l’entrata giusta!», gridò. Abbastanza contrariato, il commissario fece dietrofront e prima che potesse parlare venne preceduto dal barone: «I segni devono essere consecutivi e avere una logica che rimandi l’uno all’altro, completandosi alla fine. La croce rovesciata è in realtà il simbolo di Pietro, nessun vero satanista ne fa uso, è un falso indizio. Qui, invece, guardate…» Il barone indicò un altro triangolo, stavolta posto in obliquo. «Questo è un altro sigillo di Satana… mi chiedo perché sia posto di lato, non per dritto come l’altro…» «Ma no, questo è un segno casuale, forse il colpo di scalpello di un minatore…», disse il commissario scettico. 136


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«Commissario… casualmente riporta una X e un V al suo interno, come l’altro?» «Ehm… può darsi, non so… comunque, entriamo!» Il gruppo entrò e percorse la galleria velocemente, lottando contro ragnatele e lastroni di pietra disseminati lungo il percorso. Dopo circa centocinquanta metri ecco un nuovo bivio, stavolta diviso in quattro diverse entrate. Le lampade illuminarono i lati e gli stipiti di questi ingressi, inquadrati da grandi travi infilate nella roccia. Ogni trave recava inciso un segno simile: erano tutti e quattro triangoli, posti in diverse posizioni! «C’è da diventare matti!», esclamò il commissario. «Qui sono tutti triangoli, qual è quello giusto?» «Ragioniamo Monsieur Aubert: noi abbiamo trovato finora il Sigillo di Satana, che ha la punta verso il basso, e un triangolo con la punta rivolta verso il basso a sinistra. Qui abbiamo quattro diversi sigilli a forma di triangolo, tutti con la X e la V al loro interno, ma hanno le punte rivolte verso direzioni diverse. Dobbiamo escludere quindi almeno due di questi segni: quelli simili ai precedenti.» «Giusto, per Diana!», esclamò il commissario. «La galleria di sinistra e quella centrale vanno escluse, ma restano altre due gallerie con lo stesso triangolo scolpito nella trave, entrambe hanno la punta rivolta verso destra…» «Sì è vero, ma se guardiamo con attenzione troveremo delle differenze…» 137


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«No… no… sono identiche… tutt’e due hanno la X e la V…» «Commissario, mi stupisco di lei: osservi la punta della V di questa… è liscia, retta… nel Sigillo di Satana le punte della V hanno come un prolungamento a forma di trattino…» «Mais c’est pas possible!!! Barone, lei è un genio!» A passo ancor più veloce il plotoncino si introdusse nella galleria contrassegnata dal terzo sigillo, leggermente più tortuosa della precedente ma più breve in lunghezza. Superata una cancellata arrugginita, mezza aperta, s’intravide una sorta di piazzola, poi una piccola serie di scale in discesa, intagliate nella pietra, che vennero percorse rapidamente da tutti. Infine, ecco nuovamente uno spiazzo da cui si dipartivano tre diverse gallerie sormontate da tre lastroni in granito. Su ogni lastrone era inciso nuovamente il triangolo, stavolta due con la punta rivolta verso l’alto a sinistra, corrispondenti alle gallerie laterali, e uno con la punta verso l’alto a destra, la galleria centrale. «Commissario, a lei l’onore di optare per la via giusta… ora non dovrebbe esserle difficile…», disse sornione James de Rothschild. «Elementare… l’ingresso è questo.» Aubert indicò la galleria centrale. «Ha sbagliato commissario, non è stato attento. Guardi la X del triangolo scelto da lei: è più corta, non è come quella allungata del Sigillo.» «Parbleau… ha nuovamente ragione…» «La via giusta è una delle due con la punta a sinistra, controlliamo bene i dettagli… sembrano en138


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trambe identiche, accidenti… avvicinate di più la luce…» I poliziotti si affrettarono a porre accanto ai sigilli almeno cinque diverse lampade. «Io non noto differenze…», disse sconsolato il barone. «Se posso permettermi, Eccellenza… quella è rossa, l’altra è viola…», mormorò un po’ timidamente il poliziotto apparentemente più giovane, puntando il dito verso uno dei due segni. «È vero!! Bravo ragazzo, occhio di falco! Infatti il sigillo è rosso quando indica Satana e viola quando indica Lucifero!!! Andiamo da questa parte, non c’è tempo da perdere, è quasi mezzanotte.» All’esterno della cava, Rossini non si era nemmeno accorto che il numero magico era apparso sul quadrante dell’orologio: era scoccata la mezzanotte ma il Maestro era nel pieno di una conversazione per lui decisamente più interessante di qualsiasi altra questione. «Figliolo, se lei pensa di poter cantare emettendo i suoni in modo tanto sgraziato, le tolgo subito questa illusione… continui pure a fare il funzionario di polizia!» «Maestro… il mio sogno è cantare il Barbiere di Siviglia all’Opéra o magari il suo Guillaume Tell… ascolti ancora, la prego, ho un Do facilissimo: Ah! Maaaathilde! Idoooole de non âme!». Le grida scomposte del giovane funzionario echeggiavano nell’ampia volta della cava, scatenando gli ululati di alcuni cani randagi in lontananza. 139


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«Nooo, no… così non va caro… questa è l’école du cri, non è belcanto. Questi sono i danni prodotti dalla scuola attuale, da esempi esecrabili di urlatori che nulla hanno a che vedere con la grande tradizione italiana del canto morbido, flessuoso, elegante.» Il giovane poliziotto ascoltava attentamente Gioachino Rossini, un’occasione così non se la sarebbe mai aspettata. «Ascolta, mon chèr ami, se tu pensi che emettere un suono cantato sia equivalente a spingere, a ingrossare, a gonfiare la tua voce… allora sei sulla strada sbagliata. Un suono corretto deve essere libero, staccato dalla carne, dalla materia: le corde vocali sono come una bella donna, vanno trattate con delicatezza, non vanno aggredite. Con chi studi?» «Nel tempo libero con il maestro Ducros… lo conosce?» «No, ma non deve essere un buon maestro da quel che sento e vedo…» Rossini guardò il giovane negli occhi e li vide brillare di quella stessa luce che ogni vero amante d’Opera possiede quando parla della sua grande passione. È uno sguardo molto particolare, a metà strada tra l’estatico, l’esaltato e il folle: i cantanti d’Opera sono appunto folli e romantici, egocentrici ma al tempo stesso legati a valori antichi, a tradizioni inveterate. Rossini si riconosceva nel giovane e vedeva nel luccichio dei suoi grandi occhi neri la stessa emozione che aveva provato lui durante gli anni di studio a Bologna, quando duettava con Gertrude Righetti Giorgi o ascoltava i grandi interpreti in teatro. 140


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«Ragazzo mio, ricordati. È più difficile cantare male che cantare bene. Il meccanismo del canto è di per sé molto semplice, credimi: l’importante è non forzare i suoni, essi devono sgorgare limpidi e puri dalla nostra gola, senza contrazioni e senza altri ostacoli che si frappongano al fluire naturale del fiato. La voce è fiato, noi siamo strumenti a fiato, certo, ma proprio per questo non bisogna pressare o pretendere di creare una voce diversa da quella che il buon Dio ha voluto donarci. Io sono stato un bravo bambino cantore, con voce di contralto, poi con la muta sono passato al registro di baritono, con risultati decorosi. Ho ascoltato alcuni celebri castrati, tra cui il Velluti, per esempio, per il quale composi l’Aureliano in Palmira. Questi evirati cantori avevano un grande pregio: studiavano moltissimo. Anni e anni di esercizi vocali per rendere ancor più duttili le loro voci, perfetti i loro trilli, mirabolanti le cadenze… in cui spesso tendevano a esagerare, a dire la verità.» «Maestro… Lei crede che io non abbia doti necessarie per continuare lo studio?» «No, assolutamente. Tutti abbiamo una voce, bella o brutta che sia. Ma pochi diventano dei grandi artisti: la selezione naturale la fanno il teatro e il pubblico, non si scappa. Dai… riprova il passaggio di prima, ma non voler strafare… affrontalo sul fiato con maggior dolcezza, non pensare che sia un Do acuto…» Il ragazzo non ci pensò due volte, si concentrò e partì di nuovo con un sonoro: «Ah! Maaathilde, idooole de non âme!», stavolta in 141


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maniera più dolce ma con una inevitabile stecca sul Do acuto. «Bravo!», disse Rossini, felice. «Ma come Maestro!!?? Ha sentito che mi si è spezzata la nota??» «Benissimo!!! Non importa: meglio una nota che si spezza ma emessa con grazia, che un urlo da cappone sgozzato! Non devi pensare al Do acuto, pensa che sia una nota bassa… dai… riprova…» «Aaah! Maaaathilde, idooole de mon âme!», stavolta la nota non si spezzò, anzi. Vibrò in tutta la cava con il doppio del volume. «Ecco! Vedi??» «Maestro… è incredibile: ho pensato che fosse il Do all’ottava inferiore, non ci ho pensato ed… ed è uscito facilissimo!» «Hai visto?» «Ma l’ho sentito molto flebile, in teatro non avrebbe effetto…» «Sbagli di grosso. Un suono piccolo per noi, è grande per gli altri, è un controsenso lo so ma è così. Più un suono è grande per il tuo orecchio interno, più arriva striminzito al pubblico e viceversa.» «Maestro, non so come ringraziarla…» «Figurati, di nulla. Curioso luogo per parlare di canto, vero? Ma devo dire che questa cava, riadattata, potrebbe trasformarsi in un bellissimo teatro naturale… piuttosto… sono preoccupato… cosa starà accadendo là dentro?» La galleria indicata dal quarto sigillo era molto di142


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versa dalle altre. Il pavimento lastricato abbastanza regolarmente lasciava intuire un frequente afflusso di persone. Alcuni segni inequivocabili di tale percorso erano costituiti da leggere impronte situate un po’ ovunque nei punti più polverosi, e persino da una sciarpa in seta, rimasta appesa a uno spuntone di roccia. Terminata la strada il commissario Aubert, il barone de Rothschild e gli uomini della polizia speciale si ritrovarono davanti a un vicolo cieco, chiuso da un grande muro senza porte né altre aperture di alcun tipo. «Fine della corsa… abbiamo sbagliato qualcosa!», disse il commissario con rabbia contenuta. Il barone era in procinto di ammettere la sconfitta, quel muro ostruiva ogni possibile passaggio. Poi: «Ciò che in basso è in alto e ciò che è in alto è in basso», la massima di Ermete Trismegisto gli rimbalzò nella mente senza alcun motivo apparente. «Non troveremo nulla su questo muro, guardiamo in alto, sul soffitto», disse allora ai poliziotti, armati di pale e picconi. Non fu difficile, l’intuizione era esatta: al centro della volta rocciosa ecco l’ultimo sigillo, stavolta completo. Le cinque punte costituite dai cinque sigilli di Satana formavano un perfetto pentagramma inverso. Alla luce delle lampade a gas il simbolo brillava nel suo disegno argenteo su base nera, con al centro l’inconfondibile volto del Bafometto. «Che significa?» «È il simbolo degli stregoni di Satana, i satanisti di primo livello, i peggiori. Il pentacolo con le punte 143


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verso il basso rappresenta il disprezzo totale del demonio verso Dio, mentre le tre punte rovesciate sono la negazione della Trinità. Qui c’è un grosso gancio, infilato nella roccia, al centro del pentacolo, sembra appartenere a una specie di botola. Dobbiamo tirarlo verso il basso…» «Credo che occorra questo…», disse un poliziotto afferrando una lunga asta di ferro posta al lato del muro e culminante in una morsa particolare. Non si sbagliava: la morsa s’incastrava perfettamente al gancio posto sul soffitto e consentiva facilmente di tirarla. Uno strattone deciso, un cigolio e finalmente una grande scala in legno lavorato, avvitata con bulloni robusti scese giù dal soffitto poggiandosi al suolo secondo un meccanismo sofisticato e molto ben congegnato. «Forza ragazzi, entriamo, svelti e senza far rumore!», disse il commissario Aubert al culmine dell’eccitazione. Uno a uno salirono tutti, compreso il barone de Rothschild: la scala era abbastanza comoda da consentire una salita senza acrobazie. Questo passaggio portava a qualcosa di inatteso e straordinario: un grande spazio di forma ovale, simile all’androne di un palazzo nobiliare, circondato da colonne scolpite nella roccia, con il pavimento in pietra levigata e intarsi in marmo di vari colori. «Ma chi può aver organizzato, pagato e soprattutto autorizzato simili lavori????», si chiese sgomento il commissario. «Già…», sospirò il barone. 144


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Sulle pareti si potevano notare quadri blasfemi che riproducevano congiungimenti carnali di Lucifero e Satana, vicendevolmente con animali e donne legate o anche streghe, avviluppate assieme in orge paurose. Uno di questi quadri proponeva il Diavolo con un aspetto orrendo mezzo uomo e mezzo caprone, assiso su un trono in ebano, con alcune streghe intente a baciargli il piede sinistro e i genitali. Tutt’attorno, tra un quadro e l’altro, dei bracieri ardenti. Al centro della grande stanza ovale si ergeva una porta in ferro battuto, delimitata da un pesante tendaggio, aperto, in velluto nero. «Ci siamo, quattro di voi, con le armi in pugno, restino qui insieme al barone, gli altri sei con me…», ordinò il commissario Aubert. Poi si voltò verso James de Rothschild: «Chi troveremo dietro quella porta? Sono tanti? Sono armati?». «Non dovrebbero essere più di venti, massimo trenta persone. Qualcuno avrà dei pugnali, l’Officiatore magari, non so se vi siano altre armi, ma non credo. Non vi aspettate giovani soldati addestrati… Non si sentono voci da qui, solitamente questi riti prevedono preghiere blasfeme ripetute più volte da tutti, a ciclo continuo. Suppongo non si trovino esattamente dietro quella porta. Il mio consiglio è: entrate con circospezione e non fate rumore nell’aprirla.» «Bene, la ringrazio. Ragazzi, aprite quella dannata porta…» Fortunatamente non ci volle molto, la serratura venne svitata e rimossa senza far rumore e la polizia poté passare dall’altra parte. 145


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Il commissario andò per primo insieme ad altri due agenti, le pistole ben puntate davanti a loro, ma si ritrovò, con sua estrema sorpresa, su un ballatoio, simile alla galleria di un teatro. La grande porta ne era il centro e immetteva direttamente sulla parte più alta, in fondo. Da questa galleria si dipartivano, a destra e a sinistra, due grandi scalinate in legno che immettevano nella zona sottostante. L’immenso ambiente, ricavato in una caverna, era arredato come una sorta di chiesa o di teatro di corte, con colonne alternate a drappeggi scuri. Ovunque bracieri accesi e torce appese alla roccia. La fiamma viva emanava bagliori sinistri e illuminava quelle pareti rendendole simili a tizzoni ardenti, con molte zone in ombra o al buio completo. Da sotto il ballatoio si udivano strani gemiti, voci sommesse. Con un gesto della mano, il commissario ordinò ai suoi di accovacciarsi a terra e si sporse tra una colonnina e l’altra del ballatoio per osservare meglio. Nella lunga navata si potevano scorgere una quarantina di persone, alcune incappucciate altre completamente nude e bendate, inginocchiate a terra, altre stese, poche in piedi ai lati con altre torce in mano. Il mormorio era dato da strane formule, che suonavano come preghiere dal testo incomprensibile. Una decina di donne, alcune anche anziane, tenevano le mani tese dietro alla schiena, con i palmi rivolti verso il basso e si muovevano ritmicamente in avanti e indietro, sempre mormorando strani versi. Il commissario Aubert intimò ai suoi uomini di restare fermi e stesi nella penombra del ballatoio, come 146


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cani da punta. Non era quello il momento di intervenire. La sala rituale si presentava dunque come la navata di una chiesa, con un corridoio centrale occupato dagli adepti e una zona rialzata con quattro larghi gradoni, al cui centro vi era un grande pentagramma con cinque fiammelle accese su ogni punta. Il pentagramma era realizzato con marmi di diverso colore ed era posto sotto una specie di altare. Il commissario si spostò leggermente per guardare meglio: sopra l’altare vide distintamente una grande statua in legno dipinto, annerita dai fumi dei bracieri, che rappresentava un’orrenda figura, metà uomo metà caprone, alta non meno di tre metri e circondata da ceri votivi nerastri. Quattro figure incappucciate, ma senza abiti sotto al cappuccio, imbrattate di rosso, si mossero verso la statua recitando orazioni senza senso apparente e depositando bacili ricolmi di materiali organici non ben distinguibili. Dopo aver cosparso i tre recipienti di una sostanza oleosa, un adepto gli dette fuoco, producendo una fiammata ben visibile a tutti, cui seguì un urlo terribile e corale. Come risvegliati da quel segnale, tutti i partecipanti al rito iniziarono a ballare: alcuni giravano su se stessi, da sinistra a destra; altri si univano schiena contro schiena, sostituendo le orazioni mormorate prima a canti modulati in maniera sconnessa e dalle parole oscure. Due figure femminili giravano tra questi ossessi porgendo loro vassoi con cibo e nappi ricolmi, che venivano svuotati barbaramente e subito riempiti. Fu allora che da dietro la statua comparvero quat147


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tro sacerdoti, in apparenza, trascinando una figura femminile bionda, molto giovane, totalmente svestita e con strane figure disegnate sul corpo. La ragazza sembrava tramortita, drogata, comunque non totalmente in sé perché non si reggeva sulle gambe e la testa era reclinata in avanti. «Julie», mormorò a bassissima voce il commissario. La ragazza venne distesa al centro del pentagramma e legata, polsi e caviglie, con appositi ganci in ferro. I quattro sacerdoti si allontanarono, facendo largo all’ingresso di un altro figuro, interamente ammantato di nero con due grandi conchiglie ricamate in oro sul soprabito, una mitra vescovile sul capo e il volto celato da una maschera d’oro. Tra le mani reggeva un cuscino di velluto nero sul quale era adagiato un lungo pugnale ritorto. Il commissario ebbe un fremito ma si avvide subito che l’arma era stata deposta su un cippo marmoreo e che il personaggio si era fermato davanti alla statua come assorto. La giovane scuoteva leggermente il capo in evidente stato di semincoscienza. Il ritmo del mantra recitato dagli adepti iniziò ad accelerare e il tono delle voci si fece sempre più alto. Il sacerdote recitò a gran voce alcuni versi incomprensibili… eccitando ancora più i suoi seguaci. Le voci di tutti ora riecheggiavano nella caverna in modo quasi insopportabile. Al culmine del parossismo alcuni, una decina di persone almeno, iniziarono ad accoppiarsi, senza distinzione di sesso e senza alcun ritegno, come animali infoiati. Fu allora che il sacerdote si diresse verso il 148


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cippo su cui aveva poggiato il cuscino con il pugnale dalla lama ritorta. Per il commissario ciò equivalse a un segnale preciso, non si poteva più attendere. «Fermi tutti! In nome della legge!», urlò Aubert con quanto fiato aveva in corpo e iniziò a sparare in aria. I poliziotti discesero come furetti le due scalinate irrompendo nella sala e sparando in aria all’impazzata. Tutti furono, ovviamente, colti di sorpresa e non cercarono nemmeno una via di fuga, vennero subito accerchiati e bloccati sotto la minaccia delle rivoltelle. Solo il sacerdote si avventò sulla sventurata Julie e urlò disperato: «Fermi o l’ammazzo!». La situazione era drammatica, il pugnale puntato alla gola di Julie, i poliziotti bloccati dal commissario… pochi secondi che sembrarono un’eternità. «Ora voi farete la fine che meritate…», gridò il sacerdote di Satana, inginocchiato davanti alla ragazza con il pugnale pericolosamente puntato sul collo della sciagurata. «Morrete tutti, per la gloria di Satana nostro Signore!» Non aveva terminato l’ultima frase che tre colpi secchi di rivoltella squarciarono il silenzio terribile che aveva invaso la caverna. Tre colpi mirati, precisi, che conficcarono i proiettili esattamente al cuore e al volto dell’orrido figuro, lacerandone la maschera e facendolo stramazzare al suolo, come una marionetta cui avessero tagliato i fili. «Hai finito di spargere sangue innocente!», si udì 149


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dal ballatoio. Il commissario Aubert levò lo sguardo verso quella voce e vide il barone James de Rothschild con in mano una pistola ancora fumante. «La mira è ancora buona, le tante giornate spese al poligono di tiro hanno dato i loro frutti!», aggiunse fieramente. «Arrestate queste persone! In manette, tutti!», ordinò il commissario. «Liberate la ragazza e prestatele i primi soccorsi!» Lo spettacolo non era ancora finito. Il commissario si premurò di togliere il cappuccio ad alcuni dei membri di quella infame setta. Quale stupore nel riconoscere alcune personalità, gente ben nota: funzionari di Stato, due membri dell’avvocatura, persino un alto prelato completamente svestito e imbrattato di sangue.

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CAPITOLO DODICESIMO 14 marzo 1864. Parigi, palazzo della contessa Pillet-Will, rue de Moncey.

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na discussione molto animata agitava Madame Rossini, appena scesa dalla carrozza: «Ti rendi conto? Quindici milioni di franchi in eredità!! Certe persone nascono con la camicia!». Olympe Péllissier non era nuova a certe gaffes, soprattutto quando aveva di fianco l’illustre marito. «Eh già… ma non illuderti, con me non ti andrà così di lusso, quindi augurati ch’io campi altri cento anni per arrivare a queste cifre!» L’ingresso dei coniugi Rossini nel palazzo del banchiere Alexis Pillet-Will non poteva che avvenire tra sorrisi di circostanza e battutine. Un mese prima era scomparso il padre di Alexis, il ricchissimo Frédéric Pillet-Will, presidente della Banca di Francia dal 1828. Nonostante i tanti anni trascorsi tra importanti frequentazioni, salotti ed etichette da rispettare, Madame Olympe mostrava spesso il lato meno nobile 151


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delle sue origini spettegolando senza ritegno su presenti e non. Non che i nobili non amassero spettegolare, tutt’altro, ma c’era modo e modo. Le ex cortigiane lo facevano in maniera speciale, diciamo più sfacciatamente, dando al danaro un valore che per chi non deve guadagnarselo… è differente. «Quante arie si dà Louise… che poi… contessa… un titolo piovuto dal cielo grazie al re Carlo-Alberto…» «Olympe, ti prego, ci guardano tutti… ma non lo sai che la nobiltà si acquista vivendo e non nascendo: io, di un uomo, guardo alle azioni, non al nome! Osserva piuttosto che ricevimento fastoso hanno riservato alla mia modesta persona. Quanta inutile pompa… mi sento come Don Magnifico in Cenerentola: Abbia sempre pronti in sala trenta servi in piena gala, due staffieri, sei cocchieri… cento sedici cavalli, duchi, conti e marescialli, a dozzine convitati, pranzi sempre coi gelati, poi carrozze, poi bombè…», Rossini si mise a canticchiare allegramente. «Smettila! Poi io farei brutte figure!! Ti metti a cantare quando Louise è in lutto!!» «Il lutto per la morte di qualcuno, caro che sia, è una pura follia perché ferisce i viventi e i morti… non sanno cosa sia.» «Ti ricordo che siamo qui per assistere alla prima esecuzione della tua Messa solenne, non per un’accademia giocosa!!» «Petite Messe Solennelle, Olympe… sii precisa.» Era un evento molto atteso, lo si intuiva dalla qualità degli ospiti presenti in casa Pillet-Will e dalla par152


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ticolare deferenza con cui il Maestro e la sua consorte erano riveriti. «Quanta bella gente, vero Olympe? Mi fa piacere la presenza di Meyerbeer… ieri alla prova generale mi ha abbracciato commosso e mi ha definito, bontà sua, il Giove Rossini. Mi hanno detto che ci sarà anche Thomas, Carafa e Daniel Auber, ma finora non li ho visti…» «Povero Meyerbeer, sempre acciaccato… lo vedo molto giù…» «Pensa che si preoccupa sempre della mia salute. Giorni fa l’ho incontrato e gli ho detto che stavo malissimo, che avevo mal di cuore e fortissimi mal di testa… così, per fargli uno scherzo… poverino, si è prodigato in affettuosi auguri di pronta guarigione, premure…» «Gioachino, sei di un cinismo insopportabile! Così perderai tutti gli amici!» «Ma no, ti sbagli invece: sono così poche le soddisfazioni che puoi dare ai tuoi amici che quando è possibile… guai a negarle!», Rossini scoppiò a ridere di cuore. Nei saloni del palazzo era riunita la Parigi che conta: il nunzio del Papa, monsignor Flavio Chigi, alcuni ministri, il principe Giuseppe Poniatowski, musicista e operista egli stesso, letterati, poeti, finanzieri, cantanti, illustri amici personali dell’Autore. «Olympe, ti presento due carissimi amici: il prefetto Boittelle e il commissario Aubert!» Rossini si illuminò nel vederli presenti alla sua soirée. 153


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«Madame, sono onorato.» Al formalissimo baciamano del prefetto seguì un saluto meno cerimonioso da parte del commissario Aubert. «Lieta di fare la vostra conoscenza», rispose Madame Rossini, interrompendo brevemente la conversazione con una nobildonna vestita in modo piuttosto pacchiano, come una mongolfiera, per poi riprendere le chiacchiere subito dopo. «Prefetto, voglio che lei e Monsieur le commissaire siate seduti qui, in prima fila. So che non siete un melomane ma posso assicurarvi che per l’esecuzione di stasera ho personalmente selezionato artisti di prima grandezza: le sorelle Carlotta e Barbara Marchisio, il tenore Italo Gardoni e il basso Luigi Agnesi, tutte vocalità meravigliose che ho preparato io stesso.» «La ringrazio Maestro, non sono un intenditore, ma so che lei offre garanzie assolute, ascolterò con molta attenzione questa sua ultima fatica.» «Vi sono alcune sorprese in serbo? Così mi diceva nella sua lettera d’invito, Maestro Rossini…» «Beh sì… questa Messa è un po’ particolare, diciamo che contiene un codice.» «Un codice? Di che genere?» «Oh, non si preoccupi: non si tratta di un codice per noi musicisti, fatto di note e pentagrammi. È un codice… di sangue.» L’espressione del Maestro era terribilmente seria, tanto da obbligare il prefetto a voltarsi verso il commissario Aubert in cerca di una qualsiasi risposta che gli fosse d’aiuto. Vana richiesta, poiché Aubert non 154


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poteva esibire altro che il suo solito sguardo da solerte funzionario, un po’ ebete e un po’ annoiato. Rossini se ne avvide e si affrettò a congedarsi dai due convitati, alquanto interdetti, con un largo sorriso rassicurante. Il prefetto si allontanò ma in men che non si dica altre due figure molto familiari si accostarono a Rossini, circondato dall’attenzione di molti convitati. «Abate Marineau!!! Quale gioia! Maestro Darnault!», un abbraccio entusiasta siglò l’incontro con gli amici della chiesa di Saint-Merri. «Maestro… sono emozionato e commosso per questo invito», disse l’abate con gli occhi lucidi. «Lei sa bene quanto io ammiri la sua arte e l’idea di una nuova composizione sacra mi ha particolarmente colpito…» «Sì… ha colpito anche me… Lei sa che l’ispirazione mi venne data dal nostro incontro?» «Davvero? Ma perché Petite Messe Solennelle? È un titolo desueto, pare contraddittorio…», disse l’abate. «Non è né piccola né solenne, vedrà… Il maestro Auber ha selezionato i migliori giovani cantanti del Conservatoire per il coro, abbiamo due valenti pianisti, Georges Mathias al primo pianoforte e Andrea Peruzzi al secondo. Poi il maestro Albert Lavignac all’armonium, io stesso darò gli attacchi seduto accanto al maestro Mathias.» «Eccellente. Piano e armonium insieme… che singolare combinazione.» «In effetti, abate, può sembrare un azzardo ma riporta, se pensa bene, al concetto di semplicità asso155


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luta cui tengo molto. Due pianoforti, il secondo di ripieno e l’armonium, danno quel carattere asciutto, sobrio, chiaro che mi pare adatto alla circostanza, mi comprende maestro Darnault?» «Certamente Maestro, l’armonium lo suoniamo spesso in chiesa quando non abbiamo l’organo… appoggio pienamente la sua idea e sono curiosissimo di ascoltare questo nuovo lavoro!», rispose emozionato il giovane organista di Saint-Merri. «Ho anche cercato di contenere le esuberanze vocali dei quattro solisti. Niente grida, niente acuti da primedonne: i solisti canteranno tutte le parti d’assieme con gli altri, spesso a mezza voce. Non si prega urlando, vero abate?» «Ah ah ah… in linea di principio no…» «Complimenti Maestro Rossini!» Rossini si girò di scatto: «Monsieur de Montpellier, sapevo che non sareste mancato!» Il vecchio antiquario, comodamente assiso sulla fedele sedia a rotelle, spinta da una splendida ragazza bionda di nome Julie, sorrise felice. «Monsieur de Montpellier, ho un regalo per lei…», Rossini allungò un plico. «Maestro… perché? Sono confuso… io…» «La prego apra… ci tengo. Voglio ricambiare un vecchio favore.» L’antiquario si affrettò a rompere il voluminoso incartamento e restò di sasso nell’ammirare il frontespizio: 156


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Petite Messe Solennelle à quatre Parties, avec accompagnement de Piano et Harmonium, dédiée a Madame la Comtesse Louise Pillet-Will. Par G.Rossini, Passy 1863 «È una copia dell’autografo, è sua.» «Maestro, non so come ringraziarla…» «La prego: legga più avanti, volti la prima pagina… c’è un altro frontespizio…» Petite Messe Solennelle, à quatre Parties, avec accompagnement de 2 Piano et Harmonium, composée pour ma villégiature de Passy. Douze chanteurs de trois sexes, hommes, femmes et castras, seront suffisants pour son exécution, à savoir : huit pour les Choeurs, quatre pour les Solos, total Douze Chérubins. Bon Dieu, pardonne-moi le rapprochement suivant; douze sont aussi les Apôtres dans le célèbre fresque Coup de Mâchoire peint par Leonard,dit la Cène , qui le croirait! Il y a parmi tes disciples qui prennent des fausses notes!! Seigneur, rassure-toi, j’affirme qu’il n’y aura pas de Judas a mon déjeuneur et que les miens chanteront juste et Con Amore tes louanges et cette petite composition qui est hélas le dernier peché mortel de ma vieillesse. G. Rossini, Passy 1863. (Piccola Messa Solenne, a quattro parti, con accompagnamento di due pianoforti e armonium, composta per la mia villeggiatura a Passy. Dodici cantori di tre sessi, uomini, donne e castrati basteranno per la sua esecuzione, otto per il Coro e quattro per i Solisti, in tutto dodici Cherubini. Mio Dio, perdonami questo paragone: dodici sono anche gli Apostoli nel capolavoro affrescato da Leonardo detto La 157


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Cena, chi lo crederebbe! C’è qualcuno tra i tuoi discepoli che prende note false!!! Signore, rassicurati: affermo che non vi sarà alcun Giuda al mio desco e che i miei canteranno bene e Con Amore le Tue lodi e questa piccola composizione che purtroppo è anche l’ultimo peccato mortale della mia vecchiaia. G. Rossini, Passy 1863.) L’antiquario lesse a voce alta questa dedica, scandendo bene le parole. Il silenzio del piccolo gruppo di ospiti fu bruscamente interrotto: «Dodici Cherubini… dodici… uno più due uguale tre, il numero perfetto! Ha trovato il sistema di infilare il numero dodici anche nella sua musica, a quanto pare!». Rossini quasi non ascoltò questa battuta, preso com’era a stringere forte la bella Julie. «Julie… che bello ritrovarsi in questa occasione, ho detto alla contessa di riservarvi un posto speciale, siete proprio davanti al quartetto dei solisti, spero solo che il basso non vi urli troppo addosso, mi sono raccomandato!» Poi il Maestro si rivolse a Monsieur de Montpellier: «Sa che i pezzi della mia Messa erano dodici in origine, poi ho pensato di aggiungere il Preludio religioso per solo armonium durante l’Offertorio, che dice? Ho fatto bene?». «L’iniziato ha superato le prove fisiche e mistiche ed è passato da un livello inferiore, ordinario, a uno superiore: questo è il significato del dodici. Maestro, lei ha superato brillantemente i suoi esami!», disse con orgoglio il vecchio antiquario. «Ho fatto di più, Monsieur de Montpellier. Si ri158


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corda, nel suo studio, lei mi disse che vengono divulgate nel mondo notizie false e fuorvianti, per tenere le persone all’oscuro di determinati poteri occulti. Ebbene, noi musicisti di un certo rango non abbiamo solo il compito di sollazzare nobili annoiati o ricchi mecenati, come quelli che vediamo qui riuniti. No. Con questo mio ultimo “peccato di vecchiaia” io voglio raccontare la terribile esperienza che ho vissuto ma anche le nuove conoscenze acquisite. Nella Messa che ascolterà stasera c’è un codice segreto che lei dovrà decifrare.» «Non posso crederci! Lei ha superato ogni mia più rosea previsione: Maestro… non mi dica che ha utilizzato la Musica delle Sfere?!» «Oh, troverà anche quella, almeno è quello che mi auguro: ma dovrà scoprire la chiave per decifrare il codice segreto, solo lei può farlo.» Rossini e il vecchio antiquario si erano appartati in un angolo piuttosto tranquillo del grande salone, dove l’andirivieni dei camerieri, distratti dal loro lavoro, non avrebbe ostacolato la privacy dei due amici. Julie osservava da lontano: si era allontanata con delicata discrezione. «La prego Maestro, mi dia qualche indizio…», Adrien de Montpellier era letteralmente divorato dalla curiosità, i suoi occhi brillavano e non smettevano di fissare Rossini. «Le ho dato il più grande indizio, ora tocca a lei.» «Maestro…», Julie si avvicinò e guardò negli occhi Rossini. «Se sono qui… lo devo a lei…» «Ma per carità figliola, dobbiamo ringraziare una 159


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squadra, io non sono che un’inconsapevole pedina, mio malgrado…» «Si ricompone dunque un gruppo molto speciale», disse Adrien de Montpellier, con soddisfazione. «No, manca il pezzo forte…», fece Rossini scrutando la folla ormai accalcata attorno a lui. Poi, il volto pacioso s’illuminò in un largo sorriso. Il Maestro esclamò: «James!! Dove ti eri cacciato?» Il barone de Rothschild si affrettò a salutare prima le dame, tra cui la giovane nipote dell’antiquario a cui si rivolse con particolare fervore, poi naturalmente l’abate e infine prese sottobraccio Gioachino Rossini, allontanandolo dal gruppo: «Parigi è ai tuoi piedi Gioachino. Una bella risposta per chi considerava esaurita la tua vena creativa! Ti porto i saluti particolari dell’Imperatore… si scusa per la sua assenza, trattenuto da improrogabili impegni di Stato…» « Non ti preoccupare… sai… tra sovrani ci intendiamo…» La sonora risata del barone riempì il salone, che nel frattempo vedeva gli invitati spostarsi man mano all’interno della cappella privata dei conti Pillet-Will, dove a breve sarebbe iniziata l’esecuzione. «Prendi posto, sarà meglio ch’io inizi a dare fuoco alle polveri», disse frettolosamente Rossini all’amico e si andò a sedere accanto al primo pianoforte, scortato da un manipolo di servitori in livrea. 160


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Difficile descrivere la forza, la potenza che sprigionò la musica del Maestro in questa occasione così poco fastosa. Non ci si trovava in una cattedrale né in una basilica, né in una grande sala da concerto, ma si stava stretti gli uni attaccati agli altri, in una cappella. Eppure un’energia particolare, un flusso creativo non umano sembravano scaturire da quelle note così sapientemente combinate. Il pubblico mostrò una crescente emozione sin dal misteriosissimo attacco in pianissimo del Kyrie, cui seguì il Christe in doppio canone, tutto sottovoce e legato, eseguito benissimo dai solisti e dal Coro istruito dal maestro Cohen. Rossini seguiva concentratissimo l’esecuzione e con precisione infallibile dava gli attacchi a ognuno, come un provetto direttore d’orchestra. La musica ha uno straordinario potere ipnotico. È un fiume che scorre contenuto all’interno dei precisi argini dell’armonia, ma al tempo stesso può travolgere, può esasperare. I passi imitativi costituiti dalle fughe poderose del Gloria e del Credo costituiscono l’esplosione e l’espandersi del fiume armonico, che prima si mostra ligio al rigore e alla tradizione, poi si scrolla di dosso le regole e se ne libera, creando nuovi affluenti. Così le arie e i terzetti, desunti dal repertorio operistico, si lanciano a mostrare gli effetti più classici. Eroica e baldanzosa l’aria del tenore, Domine Deus, nobile e scorrevole il trio del Gratias agimus tibi, cantabile e commovente il Quoniam del basso e il Crucifixus del soprano. Dalla sua posizione, accanto al primo pianoforte, Rossini poteva ogni tanto osservare le espressioni del 161


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pubblico. Quanto sono importanti quegli sguardi talvolta persi nel vuoto, quegli occhi socchiusi, quelle lacrime che solcano i volti dei più sensibili. Alcuni spettatori, senza accorgersene, iniziano a battere il ritmo dirigendo la musica con un dito, i più audaci usano addirittura tutta la mano, come farebbe un direttore d’orchestra. La musica esalta ed esaspera, stabilisce una stretta relazione tra l’esecutore, impegnato sulle note scritte e sui segni dinamici apposti dall’Autore, e chi ascolta, che nei momenti più belli e coinvolgenti si sente Autore egli stesso o vorrebbe esserlo, ed è grato verso chi lo porta in Paradiso in un modo così piacevole. Perché la Bellezza esiste e Rossini lo sapeva: la Bellezza è oggettiva così come la Bruttezza. Il giovanissimo Lavignac fu splendido nel Preludio religioso affidato al solo armonium, evidente omaggio a Bach, salutato da approvazioni silenziose del pubblico e da un timido tentativo di applauso, subito represso. Memorabile l’Agnus Dei, affidato alla voce che Rossini aveva più amato in tutta la sua vita, quella del contralto. La voce che mostra la luna riflessa nel pozzo, il canto che prorompe dall’anima, la morbida dolcezza d’una cavata scura e vellutata. L’Agnus Dei si libra tre volte sul Coro, che risponde mestamente sottovoce «dona nobis pacem». È una scrittura di disarmante e apparente semplicità, riconducibile al Mozart delle ultime composizioni, ma con un afflato e una disperazione interiori che lasciano intuire qualcosa di ancora più profondo e intimo. Una profondità senza fine raggiunta con la leggerezza sconfinata della superficie. Giunti alla terza risposta del Coro, 162


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davanti al silenzio attonito e commosso degli uditori, Rossini si rese conto che i suoi occhi si velavano… stava piangendo, ma non volle che il pubblico se ne accorgesse. Allora si voltò, come per cercare qualcosa caduto a terra, in modo da nascondersi e poter velocemente tergere le lacrime. La musica non aiuta in questi casi, bensì peggiora la situazione. Seguendo un altro dei suoi infallibili dogmi, Rossini conclude la melodia dell’Agnus Dei con un grandioso crescendo. «Qui tollis», inizia piano il Coro… il Maestro non dirige più, chiude gli occhi, è tutto troppo bello, troppo intenso. Il Coro vola adesso, rinforzando il suono, poi ricomincia pianissimo la progressione, stavolta con tre “p”: tu che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace. A volte la Bellezza, guardata intensamente e toccata con mano, è come il Sole: acceca e brucia. Senza saperne la ragione, perché ragione non v’è, proprio nel momento apicale della sua meravigliosa creazione, Rossini tornò col pensiero a ciò che aveva visto attraverso quel pertugio nelle Catacombe, quella fessura che gli aveva permesso di assistere a un rito che di sacro e di umano non aveva assolutamente nulla. La tonalità di Mi maggiore irrompe a tutta forza, il pianoforte sembra voler far crollare la volta della cappella; il Coro, i solisti e la voce della Marchisio tuonano: «Dona nobis pacem!». Sono le cateratte del cielo che si aprono, le voragini che mostrano l’Inferno: «James, non voglio guardare… cosa fanno??» «Gioachino, devi sapere e devi aiutarmi, sarà un’impresa difficile…». All’interno della cripta segreta una setta di mostri, 163


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assetati di sangue, sacrificava sull’altare di Satana bambini neonati, smembrandoli e nutrendosi del loro sangue, delle loro carni. Una spaventosa realtà, vecchia di secoli e di millenni, ora ben visibile in tutta la sua cruda efferatezza. Nascosto dietro quell’orrendo quadro, davanti ai suoi occhi, il sacerdote satanico munito della mitra di Dagon beveva il sangue di bambini innocenti, rapiti a povere madri o forse addirittura comprati… Spaventato, sudato, imbarazzato da quei pensieri così terribili, legati a ricordi a lungo rimossi e ora riaffiorati violentemente, Rossini si volse nuovamente al pubblico, cercando di uscire dall’incubo. Guardò il barone de Rothschild, la contessa Louise, Olympe che si era commossa e reggeva un fazzoletto in mano, vide Julie emozionata anche lei, l’abate, Meyerbeer, Auber… ancora otto battute e la musica sarebbe terminata, per fortuna. Gli ultimi accordi in fortissimo. Pubblico in piedi, urla di giubilo: «Bravo, bravo Maestro! Viva Rossini! Bravo!Bravi!». L’antiquario, che aveva seguito tutta la composizione sulla copia della partitura donatagli da Rossini, era in uno stato confusionale. Si può dire che nel corso dell’intera esecuzione non aveva fatto altro che elucubrare, numeri, date, circostanze, elementi che potessero ricondurlo all’agognata decodificazione. “Cosa diavolo avrà voluto identificare Rossini come codice? Forse il numero dodici? Ma no, questo riconduce ai dodici Apostoli, non c’entra… c’è qualcosa di più. Forse vanno sommate assieme le battute e poi scomposte in numeri singoli da sommare a loro volta? 164


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Forse bisogna scavare nelle parole e nelle tonalità combinate assieme?” Il vecchio cervello dell’antiquario stava esplodendo e mentre già si stava rassegnando a espletare le sue ricerche più in là, nel suo studio e con la necessaria calma, rifletté: “Il Maestro mi ha detto di avermi dato in mano l’indizio più grande per decifrare il codice. In mano io ho la copia della partitura autografa, devo studiarmela tutta, accidenti…”. Rilesse la dedica un paio di volte, poi notò alcune righe di un post-scriptum: Bon Dieu…la voilà terminée cette pauvre petite Messe. Est-ce bien de la Musique sacrée, que je viens de faire, ou bien de la Sacrée musique? J’étais né pour l’Opera Bouffe, tu le sais bien! Un peu de science, un peu de cœur, tout est là. Soit donc beni et accordemoi le Paradis. G. Rossini. Il vecchio antiquario iniziò a tradurla nella sua mente, mentre alle sue spalle esplodevano i festeggiamenti per il divino Rossini. (Buon Dio… ecco terminata questa povera piccola Messa. È musica sacra, quella che ho composto, o della dannata musica…? Ero nato per l’Opera Buffa, tu lo sai bene! Un po’ di scienza, un po’ di cuore, è tutto. Sii dunque benedetto e concedimi il Paradiso. G. Rossini.) 165


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Adrien de Montpellier rigirava tra le mani il postscriptum, osservandolo con avidità. Quanti incunaboli aveva esplorato nel corso della sua lunga vita, quanti testi occulti, quanti codici. Eppure questo enigma lo appassionava oltremodo, soprattutto dopo lo sconvolgente ascolto di quell’ultimo capolavoro di Rossini. “Musique sacrée… ou bien de la sacrée musique… è un gioco di parole… musica sacra o forse una dannata musica…” Mentre si stava scervellando, alle sue spalle un giovane ospite di casa Pillet-Will esclamò verso un suo amico: «Sacrebleu! Quel Rossini è davvero un genio!» Le illuminazioni nascono a volte da una semplice interiezione. “Sacrebleu!!! Come ho fatto a non capirlo!! L’aggettivo sacré. Sacrée ha il significato letterario di sacro, ispirato al rispetto intangibile e inviolabile del religioso, ma usato in modo familiare, nel gergo popolare…indica l’esatto opposto, il suo sinonimo è… maledetto… satanico. È musica sacra quella che io ho composto o musica maledetta? Rossini ha descritto il più orribile dei misfatti all’interno della più elevata delle sue composizioni, collocando la tragedia nel suo testamento. Una piccola Messa Solenne composta su una terribile linea di sangue…” FINE

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Biografia

di Gioachino Rossini Sommo musicista, considerato uno dei Geni della storia della Musica, nasce a Pesaro il 29 febbraio 1792 e muore a Passy, Parigi, il 13 novembre 1868. Figlio di un suonatore di trombetta e di un soprano, iniziò gli studi di clavicembalo e canto a Lugo con don Giuseppe Malerbi, poi a Bologna nel 1804 con il famoso maestro Tesei, allievo di Stanislao Mattei. Qui egli divenne un buon suonatore di viola e ottimo accompagnatore al cembalo. Nel 1806, presso il liceo musicale bolognese, completò gli studi di violoncello, pianoforte e contrappunto. Tra le sue prime composizioni si ricorda la cantata Il pianto d’Armonia sulla morte d’Orfeo (1808) per la chiusura dell’anno scolastico, e le arie per un Demetrio e Polibio, che fu rappresentato nel 1812. Già prima di allora Rossini aveva fatto eseguire altre opere, scritte dal 1810 al 1812, avendo lasciato il conservatorio per lavorare con vari impresari. La prima opera fu la farsa in un atto La cambiale di matrimonio (Venezia, 1810); seguì, nell’autunno 1811 a Bologna, l’opera L’equivoco stravagante, da cui trasse poi le pagine per La pietra di paragone. Il 1812 iniziò, per Rossini, con una nuova farsa, L’inganno felice, applaudita a gennaio a Venezia, e proseguì prima con l’opera seria (impropriamente chiamata oratorio) Ciro in Babilonia, rappresentata con scarso successo a Ferrara, poi con la poco fortunata farsa La scala di seta (Venezia, 5 maggio), seguita dalla prima rappresentazione del Demetrio e Polibio (Roma, 18 maggio), e infine con La pietra di paragone (Milano, 26 settem-

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bre), melodramma giocoso che a tutti gli effetti consacrò il genio rossiniano, suscitando l’entusiasmo del pubblico per oltre cinquanta repliche. Del 1812 è anche la farsa L’occasione fa il ladro (Venezia, 24 novembre), non molto apprezzata nonostante la preziosa fattura. Nel 1813 venne rappresentata a Venezia un’altra farsa: Il Signor Bruschino ovvero il figlio per azzardo, ulteriore passo in avanti in un processo compositivo che punta alla brillantezza delle idee e alla grazia melodica. Grandi entusiasmi suscitò la nuova opera seria: Tancredi (“melodramma eroico”, rappresentato a Venezia il 6 febbraio dello stesso anno), nel quale Rossini dimostrò una raggiunta padronanza tecnica e una felicissima vena, in piena sintonia con il gusto musicale europeo. La stessa importanza che ha il Tancredi nel genere serio può essere riconosciuta, nel genere comico, alla nuova opera, L’Italiana in Algeri, rappresentata a Venezia il 22 maggio 1813. Alcune opere scritte dal 1813 al 1814 (Aureliano in Palmira, seria, Milano, 26 dicembre 1813; Il Turco in Italia, buffa, Milano, 14 agosto 1814; Sigismondo, seria, Venezia, 26 dicembre 1814) non ebbero lo stesso successo delle precedenti ma non intaccarono la prorompente vitalità e la fama man mano conquistata dal compositore. Il famoso impresario Barbaja gli affidò la direzione dei teatri napoletani di S. Carlo e del Fondo, con l’obbligo di scrivere due opere l’anno. Rossini andò quindi a Napoli, dove ben si adattò all’ambiente teatrale della città (qui, tra i cantanti, vi era Isabella Colbran, sua futura moglie), conquistando subito, con l’Elisabetta regina d’Inghilterra (4 ottobre 1815), l’entusiasmo generale. Rossini scrisse poi per Roma, Torvaldo e Dorliska (26 dicembre 1815), che non andò benissimo, e un’opera comica commissionatagli per l’Argentina il 15 dicembre: Almaviva ossia l’inutile precauzione. Almaviva non era altro che il Barbiere di Siviglia, il cui titolo era stato così modificato per rispetto al Barbiere del glorioso Paisiello, all’epoca vivente. L’esito dell’opera fu disastroso alla prima rappresentazione (20 febbraio 1816) ma migliorò via via nelle repliche, e il nuovo Barbiere passò presto, acclamato, in tutti i teatri d’Italia. La partitura fu scritta in circa venti giorni e, contrariamente a quanto dissero alcuni, non con-

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tiene musica d’altri maestri. Qua e là però compaiono spunti di altre opere rossiniane e la sinfonia che oggi si conosce è quella dell’Aureliano in Palmira (poi trasmigrata anche nell’Elisabetta), mentre quella composta, su temi spagnoli, per il Barbiere, è andata perduta. Tornato a Napoli, Rossini creò due nuove opere: La Gazzetta (comica, 25 settembre 1816), ben presto caduta in oblio, e Otello, ossia il moro di Venezia (seria, 4 dicembre), magnifica affermazione del genio rossiniano che procurò un nuovo trionfo ai cantanti (Colbran, Nozzari) e all’autore. Il 25 gennaio 1817 Rossini dette al Teatro Valle di Roma La Cenerentola, non inferiore al Barbiere per pregi musicali, per quanto su libretto poco consistente in confronto a quello, eccellente, dell’altra opera. L’insuccesso alla prima andò poi mutando fino al trionfo. Da Roma Rossini passò a Milano, dove venne applaudito per un altro capolavoro, La gazza ladra (semiseria, 31 maggio 1817). Tornò quindi a Napoli, e vi rappresentò Armida (eroica, 11 novembre 1817), accuratamente elaborata, ma non bene accolta e tornata con successo sulle scene solo più di un secolo dopo. Altro insuccesso, quello della seria Adelaide di Borgogna ovvero Ottone re d’Italia (Roma, 27 dicembre 1817). Rossini compì un decisivo salto di qualità con l’“azione tragico-scenica” del Mosè in Egitto (seria, Napoli, 5 marzo 1818). Seguì un nuovo periodo di lavori mediocri, alcuni dei quali, però, all’epoca ebbero una discreta fortuna: Adina o Il Califfo di Bagdad (comica, rappresentata a Lisbona nel giugno 1826); Riccardo e Zoraide (seria, Napoli, 3 dicembre 1818), applauditissima; Ermione (seria, Napoli, 27 marzo 1819), caduta presto nell’oblio nonostante la densità e la carica drammatica della musica; Edoardo e Cristina (seria, Venezia, 24 aprile 1819 ), che ebbe molto successo. Di grande importanza La donna del lago, opera seria composta sulla trama dell’omonimo romanzo di W. Scott, con la quale Rossini entra per la prima volta in contatto con il romanticismo europeo. La prima rappresentazione (Napoli, 24 settembre 1819) non andò benissimo, ma divenne ben presto popolarissima. Mediocre, invece, Bianca e Falerio (seria), rappresentata a Milano il 26 dicembre 1819, mentre il Maometto II (seria, Napoli, 3 dicembre

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1820), pur non molto applaudito, segnava un notevole passo in avanti verso una maggiore coerenza drammatica. A Roma seguiva, con esito contrastato, Matilde di Shabran (seria, 24 febbraio 1821). Infine le ultime musiche per Napoli: due cantate e l’opera Zelmira (16 febbraio 1822), il cui grande successo si rinnovò nelle numerose repliche in tutta Italia e a Vienna (1822) ove Rossini si recò dopo le nozze con Isabella Colbran. Tornato in Italia, ebbe un’importante consacrazione ufficiale con l’invito a Verona (dicembre 1822) per eseguire le sue musiche al Congresso delle Nazioni. Nacquero così quattro cantate (Il vero omaggio; L’augurio felice; La sacra alleanza e Il Bardo). Seguì l’ultima opera italiana: Semiramide (seria; Venezia, 3 febbraio 1823), nuovo saggio nel genere del monumentale pannello storico, che, sulle prime, disorientò il pubblico ma non tardò poi ad assicurarsi un successo mondiale. Nell’ottobre 1823 i coniugi Rossini partirono per Parigi e vi si trattennero per un mese, proseguendo poi per Londra dove li attendeva un contratto col King’s Theatre. Vi rimasero circa sei mesi tra il favore della corte e l’entusiasmo del pubblico. Per Londra, Rossini non scrisse nulla di nuovo, tranne una cantata: Il pianto delle Muse in morte di Lord Byron. Ritornato da Londra in possesso di una fortuna ormai notevole, il maestro si stabilì a Parigi quale direttore della musica e della scena al Teatro Italiano. Il 19 giugno 1825 egli dette una piccola opera di circostanza, Le voyage à Reims, per festeggiare l’incoronazione di Carlo X (la musica di quest’opera verrà trasfusa in Le comte Ory). Rossini, libero da ogni preoccupazione e da ogni obbligo, puntava a scrivere a modo suo, elaborando, attraverso successivi saggi, uno stile nuovo che non s’accontentasse soltanto della brillante e fitta successione di arie e concertati, ma assicurasse allo spettacolo una continuità drammatica, un’omogeneità di colore e d’ambiente, secondo quanto avevano mostrato, un tempo, i lavori di C. W. Gluck e ora l’Olympia di G. Spontini e il Freischütz di C. M. von Weber. Primo tentativo in questo senso fu Le siège de Corynthe (trasformazione del Maometto II, 9 ottobre 1826). Nel 1827 Rossini curò un rifacimento del Mosè (Moïse et le pharaon), riportando un vero trionfo.

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Ma l’opera nuova, che il pubblico parigino sempre più ansiosamente richiedeva, arrivò con Le comte Ory. Quest’opera comica, che trionfò all’Opéra il 20 agosto 1828, è permeata da una straordinaria vena di fine, raffinato umorismo, e mostra, in ogni battuta, un’arguzia diffusa oltre a una grande eleganza e nobiltà espressiva; qualità che avranno un’enorme influenza su tutta la scuola ottocentesca e in particolare nell’opera francese. Seguì, l’anno dopo, (prima rappresentazione, 3 agosto 1829), il Guillaume Tell, di cui De Jouy aveva preparato il libretto: anche i più accaniti antirossiniani, come J. F. Fétis, H. Berlioz e altri, riconobbero la bellezza e l’enorme importanza del capolavoro. Rossini pareva essersi impadronito di uno stile nuovo, adatto all’ambiente e ai tempi. Non a caso, anni più tardi, Wagner mostrò un particolare entusiasmo per questo capolavoro e ne parlò privatamente con lo stesso Rossini. Fu l’ultima opera lirica che egli scrisse. Più che l’avversione per il nuovo gusto musicale che si stava affermando, sembra che una naturale indolenza, unita a molte fastidiose contrarietà pratiche e allo stato precario della sua salute – nel 1831 Rossini era stato colpito da una grave forma di esaurimento nervoso sfociato in depressione cronica –, avesse fatto svanire a poco a poco, nel maestro, quello stato di tensione creativa in cui fino ad allora l’avevano tenuto le varie necessità: egli si limitava ormai a inventare brevi pagine umoristiche per canto o per pianoforte (Soirées musicales, 1835) o si dedicava a rifinire, con una calma e un’accuratezza che l’agitata vita operista non gli aveva mai consentito, due capolavori: lo Stabat Mater e la Petite Messe Solennelle. Dopo il Tell, Rossini tornò per qualche tempo in Italia, sostando a Milano e a Bologna, ovunque acclamatissimo. Intanto, però, la caduta di Carlo X veniva a complicare la sua situazione a Parigi, e soltanto grazie a lunghe liti e peripezie egli riuscì, perdendo ogni carica ufficiale, a ottenere la dovuta pensione. Da quel momento la vita di Rossini può essere divisa in quattro periodi: il primo dal 1829 al 1836, in cui egli visse solo a Parigi e iniziò lo Stabat Mater. Si era intanto separato dalla Colbran per convivere con Olympe Pélissier, che avrebbe sposato il 16 agosto 1846, poco dopo la morte della Colbran (7 ottobre 1845). Il secondo dal 1836 al

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1848, in cui Rossini tornò in Italia, e si stabilì a Bologna dove completò lo Stabat. Eseguito per la prima volta a Parigi nel gennaio 1842, e poi nel marzo di quell’anno a Bologna, all’Arciginnasio, con la direzione di Gaetano Donizetti, con lo Stabat mater si rinnovò l’entusiasmo per il genio rossiniano. Veniva intanto acuendosi la reciproca incomprensione tra il vecchio maestro e i nuovi spiriti liberali e patriottici, incomprensione che si esasperò nel 1848 fino a determinare manifestazioni contro di lui e, di conseguenza, la sua fuga a Firenze. Rossini non dimenticherà mai questo oltraggio. Dal 1848 al 1855 si svolse il terzo periodo, appunto “fiorentino”: periodo rattristato specialmente dall’aggravarsi dei suoi malanni fisici, per curare i quali tornò a Parigi, dove rimase dal 1855 fino alla morte. Una volta che le sue condizioni fisiche furono migliorate, Rossini poté assumere, a Parigi, quella posizione di incontrastato prestigio che tenne fino alla fine, attorniato, nella sua villa di Passy, dal rispetto e dall’ammirazione di tutti. Viveva ormai della sua gloria, assistendo all’universale omaggio che tutti i musicisti gli tributavano: non ultimi, i più giovani e ambiziosi rivoluzionari, quali Wagner e Berlioz. L’esecuzione, in sede privata, della sua ultima composizione importante, la Petite Messe Solennelle (marzo 1864), si risolse in un commovente tributo d’ammirazione dei maggiori musicisti francesi del tempo: Meyerbeer, Gounod, ecc. Parimenti giungevano dall’Italia omaggi e inviti: tra l’altro, il ministro Broglio, in una lettera del 1868, lo invitò a presiedere una “Società rossiniana” per contribuire al miglioramento dell’opera lirica italiana. Per un improvviso inesorabile aggravarsi delle sue condizioni di salute – da tempo soffriva di cancro al retto –, Rossini morì la sera del 13 novembre 1868 e fu sepolto al cimitero Père-Lachaise. La salma fu poi riportata in Italia nel 1887 e tumulata nella basilica di Santa Croce a Firenze. Dal genio straordinario di Rossini derivarono tutti i più grandi operisti coevi e successivi, da Bellini a Verdi, da Auber a Meyerbeer, mentre nei paesi tedeschi gli stessi oppositori, lo stesso Weber, finirono col subire la sua influenza. Rossini nominò il comune di Pesaro erede universale delle

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sue ingenti fortune. L’eredità fu utilizzata per l’istituzione di un Liceo Musicale cittadino. Quando, nel 1940, il liceo fu statalizzato, diventando il Conservatorio Statale di Musica Gioachino Rossini, l’Ente Morale a cui erano state conferite proprietà e gestione dell’asse ereditario rossiniano fu trasformato nella Fondazione Rossini. A Rossini, la città di Pesaro dedica, dal 1980, un importante festival estivo, il Rossini Opera Festival. Le opere rossiniane sono, inoltre, modernamente edite, secondo aggiornati criteri filologici, a cura della Fondazione Rossini di Pesaro.

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Cronologia delle opere Opere liriche Tra parentesi luogo e data della prima rappresentazione. - Demetrio e Polibio (composta dall’autore tra il 1806 e il 1808, ma rappresentata al Teatro Valle, Roma, il 18 maggio 1812). - La cambiale di matrimonio (Teatro San Moisè, Venezia, 3 novembre 1810, sua prima opera rappresentata). - L’equivoco stravagante (Teatro del Corso, Bologna, 26 ottobre 1811) - L’inganno felice (Teatro San Moisè, Venezia, 8 gennaio 1812). - Ciro in Babilonia, o sia La caduta di Baldassare (Teatro comunale, Ferrara, 14 marzo 1812). - La scala di seta (Teatro San Moisè, Venezia, 9 maggio 1812) - La pietra del paragone (Teatro alla Scala, Milano, 26 settembre 1812) - L’occasione fa il ladro, ossia Il cambio della valigia (Teatro San Moisè, Venezia, 24 novembre 1812). - Il signor Bruschino, ossia Il figlio per azzardo (Teatro San Moisè, Venezia, 27 gennaio 1813) - Tancredi (Gran Teatro La Fenice, Venezia, 6 febbraio 1813). - L’Italiana in Algeri (Teatro San Benedetto, Venezia, 22 maggio 1813). - Aureliano in Palmira (Teatro alla Scala, Milano, 26 dicembre 1813)

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- Il Turco in Italia (Teatro alla Scala, Milano, 14 agosto 1814) - Sigismondo (Teatro La Fenice, Venezia, 26 dicembre 1814). - Elisabetta, Regina d’Inghilterra (Teatro di San Carlo, Napoli, 4 ottobre 1815). - Torvaldo e Dorliska (Teatro Valle, Roma 26 dicembre 1815). - Il barbiere di Siviglia (Teatro Argentina, Roma, 20 febbraio 1816, col titolo Almaviva, o sia l’inutile precauzione). - La gazzetta (Teatro dei Fiorentini, Napoli, 26 settembre 1816). - Otello, ossia Il moro di Venezia (Teatro del Fondo, Napoli, 4 dicembre 1816). - La Cenerentola, ossia La bontà in trionfo (Teatro Valle, Roma, 25 gennaio 1817). - La gazza ladra (Teatro alla Scala, Milano, 31 maggio 1817). - Armida (Teatro San Carlo, Napoli, 11 novembre 1817). - Adelaide di Borgogna (Teatro Argentina, Roma, 27 dicembre 1817). - Mosè in Egitto (Teatro San Carlo, Napoli, 5 marzo 1818). - Adina (Teatro Reale São Carlos, Lisbona, 22 giugno 1826, composta nel 1818). - Ricciardo e Zoraide (Teatro San Carlo, Napoli, 3 dicembre 1818). - Ermione (Teatro San Carlo, Napoli, 27 marzo 1819) - Eduardo e Cristina (Teatro San Benedetto, Venezia, 24 aprile 1819). - La donna del lago (Teatro San Carlo, Napoli, 24 ottobre 1819). - Bianca e Falliero, o sia Il consiglio dei Tre (Teatro alla Scala, Milano, 26 dicembre 1819). - Maometto secondo (Teatro San Carlo, Napoli, 3 dicembre 1820). - Matilde di Shabran, o sia Bellezza e cuor di ferro (Teatro Apollo, Roma, 24 febbraio 1821). - Zelmira (Teatro San Carlo, Napoli, 16 febbraio 1822). - Semiramide (Teatro La Fenice, Venezia, 3 febbraio 1823). - Ugo, Re d’Italia (progettata a Londra nel 1824, forse ne compose un atto – perduta).

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- Il viaggio a Reims, ossia L’albergo del giglio d’oro (Théâtre des Italiens, Parigi, 19 giugno 1825). - Ivanhoé (Teatro dell’Odéon, Parigi 15 settembre 1826, pastiche). - Le siège de Corinthe, rifacimento di Maometto secondo (Académie Royale de Musique [Opéra], Parigi, 9 ottobre 1826). - Moïse et Pharaon, ou Le passage de la Mer Rouge, rifacimento di Mosè in Egitto (Académie Royale de Musique [Opéra], Parigi, 26 marzo 1827). - Il Conte Ory (Académie Royale de Musique [Opéra], Parigi, 20 agosto 1828). - Guillaume Tell (Académie Royale de Musique [Opéra], Parigi, 3 agosto 1829). • Robert Bruce, pastiche con musiche di Rossini sulla figura di Roberto I di Scozia (Académie Royale de Musique [Opéra], Parigi 3 dicembre 1846). Musiche di scena - Edipo a Colono, prima del 1817: musiche per l’Edipo a Colono di Sofocle tradotto da Giambattista Giusti. Cantate - Il pianto d’Armonia sulla morte di Orfeo (1808). - La morte di Didone (forse 1811, eseguita nel 1818). - Dalle quiete e pallid’ombre (1812). - Egle ed Irene (1814) conosciuta anche come Non posso, oh Dio, resistere. - L’Aurora (1815). - Pel faustissimo giorno natalizio di Sua Maestà il Re Ferdinando IV, nostro augusto sovrano (detta anche Giunone, prima esecuzione 1816). - Le nozze di Teti, e di Peleo (prima esecuzione 1816). - Omaggio umiliato a Sua Maestà dagli artisti del Real Teatro S. Carlo, in occasione di essere per la prima volta la M.S. intervenuta in detto Real Teatro dopo la sua felicissima guarigione (prima esecuzione 1819).

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- Cantata da eseguirsi la sera del dì 9 maggio 1819 in occasione che Sua Maestà Cesarea Reale ed Apostolica Francesco Imperatore d’Austria ec. ec. ec. onora per la prima volta di sua augusta presenza il Teatro (prima esecuzione 1819). - La riconoscenza (prima esecuzione 1821). - La Santa Alleanza (1822). - Il vero omaggio (1822). - Omaggio pastorale (1823). - Il pianto delle Muse in morte di Lord Byron (1824). - Cantata per il battesimo del figlio del banchiere Aguado (1827). - Giovanna D’Arco (1832) - Cantata in onore del Sommo Pontefice Pio Nono (composta 1846, prima esecuzione 1 gennaio 1847). Inni e cori - Inno dell’Indipendenza: (“Sorgi, Italia, venuta è già l’ora”) (1815). - De l’Italie et de la France (1825). - Coro in onore del Marchese Sampieri (1830). - Coro per il terzo centenario della nascita del Tasso (“Santo Genio de l’itala terra”) (1844). - Grido di esultazione riconoscente al Sommo Pontefice Pio IX (“Su fratelli, letizia si canti”) (1846). - Coro della Guardia Civica di Bologna (“Segna Iddio né suoi confini”) (1848). - Inno alla Pace (“È foriera la Pace ai mortali”) (1850). - Hymne à Napoléon III et à son Vaillant Peuple (“Dieu tout puissant”) (1867). Musica sacra - Messa (Bologna 1808). - Messa (Ravenna 1808). - Messa (Rimini 1809) (di dubbia autenticità). - Messa (Lugo primi anni dell’Ottocento). - Laudamus. - Quoniam (1813). - Miserere.

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- Messa di Gloria, Napoli 1820. - Preghiera (“Deh tu pietoso cielo”) (probabilmente 1820). - Tantum ergo (1824). - Stabat Mater (1832-’42). - Trois chœures religieux: La Foi, L’Espérance, La Charité (1844). - Tantum ergo (1847). - O salutaris hostia (1857). - Laus Deo (1861). - Petite messe solennelle (1863). - Dixit Dominus dubbia autenticità. Musica vocale - Se il vuol la molinara (1801). - Dolce aurette che spirate (1810). - La mia pace io già perdei (1812). - Qual voce, quai note (1813). - Alla voce della gloria (1813). - Amore mi assisti. - Pezzi per il Quinto Fabio (1817). - Il Trovatore (“Chi m’ascolta il canto usato”) (probabilmente 1818). - Il Carnevale di Venezia (“Siamo ciechi, siamo nati”) (1821). - Beltà crudele (“Amori scendete propizi al mio cuore”) (1821). - Canzonetta spagnuola (“En medio a mis colores” o “Piangea un dì pensando”) (1821). - Infelice ch’io son (1821). - Addio ai viennesi (“Da voi parto, amate sponde”) (1822). • Dall’oriente l’astro del giorno (1824). • Ridiamo, cantiamo che tutto sen va (1824). • In giorno sì bello. • Tre quartetti da camera. • Les adieux à Rome (“Rome pour la dernière fois”). • Orage et beau temps (“Sur le flots incostants”) (1829-30). • La passeggiata (Anacreontica) (“Or che di fior adorno”) (1831). - La dichiarazione (“Ch’io mai vi possa lasciar d’amare”) (probabilmente 1834).

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- Soirées musicales Collezione di 8 ariette e 4 duetti (1830-1835). - Deux nocturnes (1835 circa). - Nizza (“Nizza, je puis sans peine”) (1836 circa) - L’ame délaissée (“Mon bien aimé”) (probabilmente 1844). - Inno popolare a Pio IX (1846). - Francesca da Rimini (“Farò come colui che piange e dice”) (1848). - La separazione (“Muto rimase il labbro”) (probabilmente 1857). - Deux nouvelles compositions (circa 1861). Musica strumentale - Sei sonate a quattro (1804). - Duetti per corno. - Sinfonia in Re maggiore (1808). - Sinfonia in Mi bemolle maggiore (1809). - Variazioni in Fa maggiore a più strumenti obbligati (1809). - Variazioni in Do maggiore per clarinetto obbligato e orchestra (1809). - Andante e tema con variazioni per clarinetto (probabilmente 1812). - Andante e tema con variazioni per arpa e violino (probabilmente 1815-22). - Passo doppio per banda militare (1822). - Valzer in Mi bemolle maggiore (1823). - Serenata (1823). - Duetto per violoncello e contrabbasso (1824). - Rendez-vous de chasse (1828). - Fantasia per clarinetto e pianoforte (1829). - Mariage de S.A.R. le Duc d’Orléans; Trois marches militaires (1837). - Scherzo per pianoforte, in la minore (1843 e 1850). - Tema originale di Rossini variato per violino da Giovacchino Giovacchini (1845). - Marcia (pas-redoublé) (1852). - Thème de Rossini suivi de deux variations et coda par Moscheles Pere (1860). - La Corona d’Italia (1868).

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Péchés de vieillesse I cosiddetti Péchés de vieillesse sono una raccolta di vari pezzi distribuiti in quattordici volumi: - Volume I – Album italiano. - Volume II – Album français. - Volume III – Morceaux réservés. - Volume IV – Quatre hors-d’œuvres et quatre mendiants. - Volume V – Album pour les enfants adolescents. - Volume VI – Album pour les enfants dégourdis. - Volume VII – Album de chaumière. - Volume VIII – Album de château. - Volume IX – Album pour piano, violon, violoncello, harmonium et cor. - Volume X – Miscellanée pour piano. - Volume XI – Miscellanée de musique vocale. - Volume XII – Quelques rien pour album. - Volume XIII – Musique anodine. - Volume XIV – Altri péchés de vieillesse.

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Volumi usciti nella collana “Grandi Romanzi”

ANDREA CANNIZZARO I’M ALL IN

ZÜLFÜ LIVANELI L’EUNUCO DI COSTANTINOPOLI

MIGUEL DALMAU LA NOTTE DEL DIAVOLO

GIUSEPPE MANFRIDI CRONACHE DAL PAESAGGIO

CLAIRE DOWIE CHAOS

VLADIMIR PISTALO MILLENNIO A BELGRADO

NICOLE FABRE LA NOTTE ITALIANA

CARLO SGORLON LO STAMBECCO BIANCO

MARC FIORENTINO IL DENARO NON MUORE MAI

CARLO SGORLON IL VENTO NEL VIGNETO

MINE G. KIRIKKANAT IL SANGUE DEI SOGNI

EWAN WRIGHT GENERATION KILL

ZÜLFÜ LIVANELI FELICITÀ

EWAN WRIGHt GENERATION KILL – DA NASIRIYAH A BAGHDAD


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Volumi usciti nella collana “Narratori Francesi Contemporanei”

Nelly ALARD – MOMENTO DI UNA COPPIA Vassilis ALEXAKIS – IL RAGAZZO GRECO Nelly ARCAN – FOLLE Nelly ARCAN – PUTTANA Antoine CHOPLIN – L’AIRONE DI GUERNICA N. DAVID-WEILL – LE MADRI EBREE NON MUOIONO MAI Jean-Paul DUBOIS – LA SUCCESSIONE David FOENKINOS – IMAGINE. IO, JOHN LENNON Irène FRAIN – L’AMANTE SEGRETO DI MADAME CURIE Gaëlle JOSSE – L’ULTIMO GUARDIANO DI ELLIS ISLAND Dany LAFERRIÈRE – L’ENIGMA DEL RITORNO Yanick LAHENS – BAGNO DI LUNA J.M.G. LE CLÉZIO – STORIA DEL PIEDE E ALTRE FANTASIE Hélène LENOIR – CORPO ESTRANEO Hélène LENOIR – IL SUO NOME DA RAGAZZA Gilles Leroy – NINA SIMONE Diane MAZLOUM – BEIRUT LA NOTTE Marie NIMIER – IO SONO UN UOMO Jean-Pierre ORBAN – VERA Gisèle PINEAU – CENTO E PIÙ VITE Emmanuelle PIREYRE – INCANTESIMO GENERALE Jacqueline RAOUL-DUVAL – KAFKA IN LOVE Nicolas ROBIN – ROLAND È MORTO E… Jocelyne SAUCIER – PIOVEVANO UCCELLI Laurent SEKSIK – GLI ULTIMI GIORNI DI STEFAN ZWEIG Laurent SEKSIK – LA STRAORDINARIA EREDITÀ DEL DOTTOR KOTEV Romain SLOCOMBE – LE SPIE DI RAPALLO Philippe VILAIN – NON IL SUO TIPO Philippe VILAIN – LA MOGLIE INFEDELE Isabelle WÉRY – MARILYN DENUDATA


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