Un mattino d'inverno

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Philippe Vilain

UN MATTINO D’INVERNO romanzo


Narratori Francesi Contemporanei

Un mattino d’inverno


NARRATORI FRANCESI CONTEMPORANEI

Collana diretta da Philippe Vilain


Philippe Vilain

UN MATTINO D’INVERNO Romanzo

Traduzione dal francese di

DIANA DI COSTANZO


Titolo originale: Un matin d’hiver © Éditions Grasset & Fasquelle, 2019 Copyright dell’edizione italiana: 2020 © Gremese International s.r.l.s. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualunque modo e con qualunque mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-6692-101-1


Alla confidente di un giorno



Tre anni fa, in occasione di un seminario al quale mi era stato chiesto di intervenire, feci amicizia con una donna che, forse perché sono uno scrittore, mi raccontò la sua storia. Una storia d’amore bella e incredibile che, nel tempo, non ha mai abbandonato la mia mente. Ho atteso molti mesi prima di ricontattarla e chiederle il permesso di poterla raccontare. Ci eravamo incontrati a Parigi, un mattino d’inverno. La donna parlava con la voce rotta dall’emozione, senza guardarmi. Io non osavo farle troppe domande, non volendo né metterle fretta né tantomeno carpirle chissà quale altra confidenza imbarazzante. Al di là dei sentimenti e dell’eroismo di quella donna, delle peripezie e delle altre prove d’amore che aveva affrontato, quello che più m’interessava della sua storia era il soggetto, il suo coefficiente romanzesco, la capacità che aveva di andare oltre i labili confini tra realtà e finzione. Io non ho inventato nulla, mi sono solo limitato a trascrivere il vero romanzo di un amore adattandolo alle esigenze della narrazione, sviluppando pensieri e idee, situazioni e dialoghi già contenuti in germe, camuffando i nomi, spostando luoghi e date affinché la persona in questione non venisse riconosciuta. A ben vedere non è d’invenzione che si tratta, piuttosto di un lavoro di ricomposizione e di dissimulazione proprio al genere del romanzo. Non mi sono appropriato della storia ma, al contrario, è stata quest’ultima a impossessarsi di me. Ben presto per me è diventato necessario raccontarla, restituire ai lettori, usando la prima persona, la voce di quella donna, che è forse la voce di tutte le donne innamorate.


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1.

Quindici anni, sono passati già quindici anni dal mio primo incontro con Dan Peeters. Ci conoscemmo all’università di Jussieu, dove iniziavamo entrambi la nostra carriera di insegnanti. Dan stonava in mezzo agli altri colleghi con quell’aria disinvolta, i jeans e le scarpe da ginnastica, la camicia stropicciata, i capelli castani che ricadevano spettinati sul collo del giubbotto. Ogni volta dava l’impressione che si fosse appena svegliato e avesse scelto i vestiti all’ultimo momento, ma in realtà si prendeva semplicemente gioco delle apparenze. Sembrava smarrito in quell’ambiente così convenzionale. Parlava poco, con un’aria assorta che gli conferiva una certa serietà, concedendo a tutti lo stesso grado di attenzione. La maggior parte delle persone non ascolta, ama sedurre, brillare, avere ragione, ostentare il pro–9–


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prio sapere o riportare la conversazione su di sé. Pochi sono capaci di intrattenere uno scambio profondo. Dan Peeters, invece, s’interessava agli altri, cercava di capirli, poneva loro delle domande prima di esprimere pacatamente la propria opinione. Prima di quella fatidica mattina, alla vigilia delle vacanze d’autunno, ci incontravamo di tanto in tanto alle assemblee didattiche riservate ai docenti – lui insegnava sociologia, io letteratura –, ma non avevamo mai avuto occasione di parlare. Voleva sapere come andavano le lezioni, se riuscivo a cavarmela con gli studenti, a conciliare la preparazione delle lezioni con le ricerche del dottorato. Lui diceva di essersi trovato in difficoltà durante le prime settimane; in particolar modo trovava strano «passare dall’altro lato», da dottorando a insegnante in pochi mesi. Quella mattina non aveva molto tempo perché in giornata doveva prendere l’aereo per Atlanta, dove vivevano i suoi ma, se volevo, sarebbe stato felice di riprendere il discorso al suo rientro. «Perché no, – dissi, – perché no, certo!». Mi chiese il numero di telefono, novembre iniziò con il suo sorriso. Questo ricordo non è così lontano, ma ho come l’impressione che una vita intera me ne separi. Sono avvenute talmente tante cose in quindici anni, che non ricordo più neanche cosa accadde nel mondo in quel 2004, ne ho solo un

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ricordo sfocato: George W. Bush fu rieletto presidente degli Stati Uniti d’America, Yasser Arafat morì, un Boeing 737 si schiantò nel Mar Rosso, un attentato fece molte vittime in una stazione della metropolitana di Mosca, l’uragano Jeanne causò più di mille morti ad Haiti. Di quell’anno ricordo bene solo il mio incontro con Dan Peeters e devo dire che, al di là di quegli avvenimenti drammatici, ne conservo un’impressione gioiosa. Avevo appena compiuto trent’anni. Avevo incontrato alcuni uomini senza conoscere l’amore, il grande amore intendo, quello dei romanzi che, dicono, ti travolge facendoti vibrare il cuore e l’anima. Avevo avuto alcune relazioni, ovviamente, storie più o meno lunghe, avventure e amori fatti soltanto di attrazione fisica, ma non sentivo di aver veramente amato qualcuno né di essere stata amata. E non mi sentivo portata per la vita coniugale. Si dice che le donne siano risolute ma, a quel tempo, a me invece sembrava di non sapere né quello che volevo né cosa cercavo e non riuscivo a decidermi su niente. Le mie amiche, fidanzate o sposate, amanti o già tradite, alcune di loro madri, dicevano che ero una sognatrice, un’idealista, troppo esigente, e che forse ero rimasta, in fondo al mio corpo di giovane donna, una ragazzina sognante alla ricerca del principe azzurro. Per punzecchiarmi, dicevano che sarei – 11 –


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rimasta single, ma tutto sommato quella fine non mi sembrava così terribile. Ero indecisa anche nel mio lavoro. Ho finito per fare l’insegnante un po’ per caso, qualche ora mal retribuita per parlare di letteratura, Stendhal, Flaubert, Proust e qualche altro amico. Non avrei mai pensato di trasformare la mia passione per la letteratura in un lavoro se non me l’avessero proposto al termine del dottorato, perché ai miei occhi la letteratura non ha mai rappresentato una professione: piuttosto la definirei una compagna fedele, un aiuto necessario, un’amica che posso chiamare a notte fonda, quando soffro d’insonnia, in quelle ore in cui tutti stanno sognando. La letteratura è la mia ossessione, un malessere esistenziale, un’emicrania lancinante. Come posso dire? Se dovessi rappresentarla con un’immagine, direi che la letteratura è un po’ come l’ispettore Colombo quando l’indagine sembra sfuggirgli di mano e alla fine torna dal presunto colpevole dicendogli: «Ancora un’ultima domanda!». Per me la letteratura è questo, un’ultima domanda, ancora un’ultima domanda. Adesso non era più la letteratura a farmi delle domande, ma ero io a interrogare gli studenti: giovani che per la maggior parte sembravano essersi iscritti a Lettere senza interesse, perché bisognava pur fare qualcosa, perché Lettere offre

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«Tornai a Parigi con il cuore a pezzi. Lo spirito di Dan pervadeva l’appartamento. La sua assenza si ammucchiava nei documenti sulla scrivania, si faceva polvere sui mobili, si aggrappava agli appendiabiti negli armadi, si abbigliava con vestiti e cappotti senza testa, si smarriva con le scarpe sotto il divano e s’intrufolava in un rialzo della moquette diventando irrecuperabile [...]. Eppure, avevo la sensazione, o la speranza, che mio marito potesse ricomparire all’improvviso, riemergere da dietro una porta, che la sua assenza non fosse altro che un gioco, un nascondino durato troppo a lungo, ma no, non era un gioco, nessuna porta si apriva e lui non riappariva da nessuna parte».

Traduzione dal francese: Diana Di Costanzo

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€ 16,00 (i.i.)

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978-88-6692-101-1


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