Vita di Totò di Ennio Bìspuri

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dialoghi

VITA DI TOTÒ


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Nel catalogo Gremese Antonio de Curtis (Totò) – A’ livella Ennio Bìspuri – Totò Kolossal Ennio Bìspuri – Totò in 100 parole Ennio Bìspuri – Totò attore Orio Caldiron – Totò Orio Caldiron – Il Principe Totò Giancarlo Governi – Il pianeta Totò Ruggero Guarini – TuttoTotò


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Ennio Bìspuri

VITA DI

TOTÒ


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A mia moglie Francesca e a tutti coloro che amano Totò.

Ringraziamenti: Si ringraziano vivamente la signora Liliana de Curtis e la signora Paola Agostini per l’aiuto, l’assistenza e la collaborazione prestati. Un particolare ringraziamento desidero esprimere nei confronti della signora Franca Faldini, che, con sempre amabile cortesia, mi ha permesso di ricostruire con dettagli importanti gli ultimi quindici anni della vita di Totò. Ringrazio infine Mario Monicelli, Carlo Croccolo e Giacomo Gambetti per alcune indicazioni preziose di prima mano sulla personalità e il metodo di lavoro di Totò, ed esprimo un debito particolare, per i suoi contributi sempre intelligenti e illuminanti, nei confronti di Alberto Anile.

Crediti fotografici: Le foto a pag. 2 in basso dell’inserto sono di Foto Unione.

Per quanto possibile l’Editore ha cercato di risalire al nome dell’autore di tutte le foto pubblicate in questo volume per darne la doverosa segnalazione le ricerche però non sono state premiate dal successo ed è pertanto con vivo rammarico che l’Editore chiede scusa degli eventuali errori od omissioni, dichiarandosi disposto a revisioni in sede di eventuali ristampe e al riconoscimento dei relativi diritti ai sensi dell’art. 70 della legge n. 633 del 1941.

Copertina: Francesco Partesano Stampa: FP DESIGN – Pavona (Roma) 2018 © Gremese International s.r.l.s. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-8440-999-7


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«Principe? Altezza Reale? Poco importa che lo fosse o meno. Antonio de Curtis era nobile di fatto, nell’animo e nel cuore, a prescindere da qualunque appartenenza a un casato illustre. Il suo titolo più bello è racchiuso nelle quattro lettere del suo nome d’arte: Totò». Franca Faldini


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Prefazione

Per quanto possa sembrare sorprendente, nonostante il moltiplicarsi, in questi ultimi anni, di libri e di studi, talora anche molto pregevoli, su Totò e i suoi film, fino ad oggi non esisteva una biografia seria su di lui, che potesse spiegare meglio, guardandola per così dire dall’interno, l’evoluzione del suo carattere e della sua storia privata, offrendo allo stesso tempo una dettagliata ricostruzione della sua straordinaria carriera professionale. In verità lo stesso Totò scrisse, insieme ad Alessandro Ferraù, nel 1952 una brevissima autobiografia (Siamo uomini o caporali?), del tutto superficiale, con qualche enfatizzazione di maniera, che si ferma, tra l’altro, al 1930, anno del suicidio della soubrette Liliana Castagnola, innamoratasi perdutamente, non corrisposta, del giovane attore. Pertanto, della sua infanzia, come anche delle vicende private fondamentali della sua vita, delle tappe importanti della sua carriera e delle sue scelte artistiche e personali, nulla o quasi nulla si conosceva. Da quando Totò è diventato universalmente noto, hanno cominciato a circolare molte leggende e amplificate alterazioni, a volte anche del tutto sbagliate, delle quali il pubblico si è innamorato e alle quali non vuole rinunciare. Ma se si guarda più da vicino, con fonti “di prima mano”, ci si accorge che il personaggio-Totò, quello tanto venerato dal pubblico di ogni età e di ogni ceto sociale, era lontano anni luce dall’uomo-Totò, principe Antonio de Curtis e Altezza Reale, con le sue nevrosi, le sue paure, le sue debolezze e la sua incredibile generosità. Così anche il suo metodo recitativo, il suo rapporto con il cinema, il suo incondizionato e irrinunciabile amore per il teatro possono sorprendere e risultare persino incredibili. Eppure, analizzando minuziosamente le singole fasi della sua carriera dai primi passi fino agli ultimi giorni della sua vita, ci si accorge che egli è stato, è rimasto e ha sempre voluto essere un attore di teatro. Questo libro ricostruisce dunque la vita di Totò cercando sempre, per quanto possibile, di cogliere i nessi tra la sua vicenda biografica e l’evoluzione del personaggio da lui creato, dapprima in campo teatrale e poi, definitivamente, in quello cinematografico.


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Vita di Totò

È indubbio che ancora oggi resiste un mito che ruota intorno alla figura del grande attore. La sua statuina è entrata nel presepe napoletano e molte persone quotidianamente si recano sulla sua tomba, al cimitero del Pianto a Napoli, per deporvi non solo fiori freschi, ma bigliettini e suppliche con la richiesta di grazie, quasi come fosse un santo. Certo, le leggende e i miti sono troppo belli per essere disvelati razionalmente e attraggono proprio perché ci consentono di sognare e di immaginare come vorremmo che fosse l’oggetto della nostra ammirazione. Ma sono altrimenti convinto che, conoscendo da vicino la vita reale di Totò, anche i suoi grandi ammiratori, che magari ignorano quasi tutto delle sue vicende personali o conoscono in modo approssimativo o distorto i passaggi cruciali della sua vita, potranno avvicinarsi al loro mito per comprenderlo meglio e amarlo ancora di più. Ennio Bispuri


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Capitolo I

NAPOLI BELLE EPOQUE I PRIMI ANNI DI TOTÒ (1898 – 1908)

Napoli si diverte Quando Totò nasce, alle 7 del mattino del 15 febbraio 1898, al numero 107 di via Santa Maria Antesaecula, in una fredda casa di un basso del quartiere Stella (oggi Sanità), Napoli è un importante punto di riferimento per la cultura italiana e per la storia dello spettacolo. Il cinema, che era nato appena tre anni prima in un celebre caffè di Parigi, fa la sua prima comparsa a Napoli nel 1896, mentre il teatro, sia quello serio che quello leggero, unitamente all’opera lirica e all’operetta, rappresenta ancora l’unico punto di attrazione a livello di massa. La Belle Epoque, che ha il suo epicentro a Parigi, si irradia per tutta l’Europa, esprimendosi nello spirito, nella cultura e nelle tradizioni regionali dei singoli Paesi. Totò nasce lo stesso anno in cui Edoardo Di Capua, in un attacco di nostalgia, compone nella lontana Odessa ‘‘O sole mio”, che farà presto il giro del mondo, infiammando gli animi di oltre un milione di emigranti italiani che, tra il 1880 e il 1900, hanno lasciato l’Italia per cercare fortuna in America e in Australia, e suscitando la curiosità del pubblico straniero, che troverà in quella canzone la sintesi perfetta dello stereotipo dell’Italia. Nello stesso anno 1898 nasce anche Titina De Filippo, mentre Lina Cavalieri inaugura la sua stagione di cantante lirica alle Folies Bergère di Parigi; Gennaro Pasquariello, idolo incontrastato del café-chantant di Napoli, si esibisce sui più importanti palcoscenici d’Italia, d’Inghilterra e di Francia e


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Nicola Maldacea (1870-1945) furoreggia nei teatri napoletani con le sue “macchiette”, che saranno una delle grandi attrazioni del cosiddetto teatro di varietà, o “delle varietà”, che era nato a Parigi nel 1770 e si era diffuso in Inghilterra con il nome di “Pub-Theatre”, affermandosi poi a livello popolare a Napoli trent’anni dopo, all’inizio dell’’800. Rispetto al teatro serio e al melodramma, il “teatro delle varietà” aveva avuto una rapida e straordinaria affermazione soprattutto perché durante lo spettacolo era permesso al pubblico di fumare e di entrare ed uscire senza aspettare l’intervallo tra un’esibizione e l’altra, continuando ad ammirare liberamente le gambe delle ballerine. Tra la fine dell’’800 e l’inizio del ’900, Napoli, con i suoi settantacinque luoghi di spettacolo, tra teatri, cinema, sale concerto e café-chantants, è la città italiana che offre la maggiore possibilità di divertimento, sia per il numero dei locali sia per la varietà dei generi che vi si rappresentano, e in Europa rivaleggia con Parigi per il titolo di “ville lumière”. Il Teatro delle Varietà, situato in piazza Castello, proprio di fronte all’attuale Mercadante, viene inaugurato nel 1875; il Gran Circo delle Varietà, situato in via Chiatamone 65, nello stesso stabile dove oggi si trova la sede del quotidiano «Il Mattino», viene inaugurato nel 1880, seguito nel 1890 dal Salone Margherita, dei fratelli Marino. Il Caffè Scotto Jonno, situato nella Galleria Principe, e il Rossini, situato dietro piazza Dante, vengono inaugurati nel 1894; il Caffè Diodati, situato in piazza Dante, vede la luce nel 1895 come primo caffè-concerto all’aperto. Negli ultimi tre anni del secolo nascono l’Eden dei fratelli Resi; la Fenice, dell’impresario Musella; la Sala Umberto I, dell’ingegner Del Piano; l’Eldorado a Santa Lucia, di Nobile e Argeri, che è contemporaneamente anche stabilimento balneare, e molti infimi locali periferici costruiti in legno, che si raccolgono intorno alla ferrovia. Lo stesso Eduardo Scarpetta, contemporaneamente alla sua operazione tesa a trasformare l’antico Pulcinella nel più moderno Sciosciammocca, aveva sentito l’esigenza di intervenire anche sulle strutture architettoniche dei teatri napoletani, facendo restaurare completamente, nel 1880, il teatro San Carlino, sede ideale per gli attori di molte generazioni, che vi avevano recitato nel ruolo di Pulcinella. Il teatro verrà poi demolito del tutto nel 1885, nell’ambito del programma nazionale chiamato “Risanamento”, che costituirà il primo episodio, nella storia dell’Italia unita, di quegli scempi edilizi vòlti a cancellare l’identità di Napoli, come ha poi ben descritto Francesco Rosi nel suo Le mani sulla città, nel 1962.


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Verso la fine del secolo comunque l’elaborazione teatrale trova in Napoli il centro più evoluto e dinamico a livello di invenzioni, di creazione di nuovi generi e di nuovi linguaggi. Le invenzioni introdotte dagli artisti napoletani nell’ambito del “teatro delle varietà” sono inesauribili. All’inizio del secolo il comico e improvvisatore Berardo Cantalamessa (1858-1917), con la reiterata interpretazione della canzone “’A risa”, introduce la cosiddetta “risata a crepapelle”, sottolineata da una musica appropriata, consistente in una risata ininterrotta, che poteva durare anche dieci minuti, con la quale l’attore era capace di contagiare e trascinare tutto il pubblico in una risata collettiva irresistibile. Seguiranno, nello stesso periodo, l’invenzione della “sceneggiata”, ad opera di Mimì Maggio (1879-1943), grande patriarca della numerosa famiglia di attori napoletani, e la trovata eroticamente allusiva della cosiddetta “mossa”, eccezionale punto di attrazione per il pubblico, introdotta dalla sciantosa Maria Campi (1877-1963), subito ribattezzata dai francesi “coup de ventre”. Anche gli spettacoli dei burattini a braccio, le “guattarelle”, espressione di una tradizione secolare che si tramandava di generazione in generazione, troveranno solo a Napoli un punto particolare di attrazione e di originalità. Nella storia dello spettacolo napoletano tra la fine dell’’800 e gli inizi del ’900 gioca un ruolo fondamentale la grande e mai interrotta scuola del “teatro dell’arte”, che affonda le sue radici nella commedia antica, nelle atellane, nella satura lanx e nella fescennina iocatio di latina memoria, mentre trova un rinnovato impulso, dovuto alla ripresa della festa di Piedigrotta, nel 1880, la canzone napoletana, sorretta dai testi di grandi poeti e destinata ad assurgere ai vertici della fama mondiale proprio tra la fine del secolo e la prima guerra mondiale. La Napoli “Belle Epoque”, quando Totò vede la luce e muove i primi passi in una condizione insieme di miseria e di nobiltà, aumenta il suo potenziale immaginativo con l’introduzione del cinema. Nel 1903 la prima donna regista italiana, la napoletana Elvira Notari, intuisce che il cinema può essere utilizzato come spettacolo popolare capace di affascinare il pubblico che abitualmente frequenta il café-chantant. Molti cortometraggi, girati a Napoli allo stesso modo dei fratelli Lumière, prodotti dalla Dora Film e colorati a mano, vengono utilizzati da Elvira Notari come diversivi tra un tempo e l’altro del café-chantant, in un rapporto rovesciato rispetto a quello che sarà negli anni Trenta “l’avanspetta-


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colo”, il varietà che precede la proiezione del film, di solito in locali di terz’ordine, e che dura meno di un’ora. La parola “film” è ancora femminile (“la film”), come anche è al femminile plurale l’espressione “teatro delle varietà”, che è un solido punto di attrazione per un pubblico che ha voglia di distrarsi con le belle donne, le barzellette, la musica leggera e il teatro dialettale. Negli ultimi anni dell’’800, ma già a partire dal 1896, il grande Leopoldo Fregoli, maestro di Gustavo De Marco e primo attore di teatro a sfruttare il cinema, si fa riprendere in tempo reale in scene filmate di trasformismo, e poi, primo esempio di doppiaggio, si nasconde dietro il telone e dà la voce alla sua immagine che muove la bocca, destando lo stupore degli spettatori estasiati dal miracolo. Fregoli, nato a Roma nel 1867, può essere considerato, insieme a Primo Cuttica (in arte Bidoni), come il precursore di tutti i comici del varietà approdati poi al cinema, quali Buster Keaton, i fratelli Marx, Nicola Maldacea, Ettore Petrolini e lo stesso Totò, che passeranno tutti prima attraverso l’esperienza del varietà, poi dell’avanspettacolo, della rivista, del musichall, del cabaret, del vaudeville, ecc. Fregoli rappresenta inoltre un momento di trapasso e di sviluppo dal teatro dialettale, soprattutto meridionale, a quello che sarà il teatro leggero fino alla sua massima stagione negli anni Quaranta. È Fregoli infatti, insieme a Elvira Notari, ad intuire per primo le enormi possibilità offerte dal cinema e a creare il “cinema-chantant”. Questo tipo di rappresentazione teatrale, che si collegava al cinematografo, aveva visto la luce per la prima volta a Parigi, nei cinema Ciel, Paramount e Gaumont, dove la chanteuse Jeannette MacDonald ballava, cantava e recitava durante l’intervallo tra una proiezione e l’altra del film. La stessa storia del vaudeville si sviluppa soprattutto in Francia, per irradiarsi lentamente nel resto dell’Europa. Tra la fine del ’400 e l’inizio del ’500 l’espressione “vaudeville”, che forse deriva da “voix de ville” (voce di città), stava a significare un complesso di melodie facili e popolaresche che venivano cantate nei borghi. Successivamente, a partire dal ’600, queste stesse arie popolari e orecchiabili divennero il supporto musicale di opere teatrali a sfondo comico e irriverente fino alle soglie della rivoluzione francese, quando, durante il Direttorio, Pierre Barrè fondò a Parigi il club dei Diners du Vaudeville e il Thèatre du Vaudeville. Secondo Anton Giulio Bragaglia e altri, invece, l’origine del vaudeville dovrebbe essere connesa con l’espressione “Chants des Vaux de Vire” (“Canti delle valli del


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[fiume] Vire”) che si diffusero in tutta la Francia a partire dalla fine del ’400. Bragaglia aggiunge che «nel 1576 Jean le Houx, chansonnier, pubblicò le sue composizioni con questo nome popolare. Ma le “comédies de chansons”, che solo alla metà del XVII sec. esistettero in Francia, erano già da noi nelle piazze, e non si chiamavano “vaudeville”. Il nostro mimo giullaresco mescolato di strofe premeditate e canto, tra scenette in prosa all’improvviso, era la stessa cosa»1. Intorno alla metà dell’’800, questo genere sfociò nella moderna “operetta” della Belle Epoque e in Italia si trasformò nella “pochade”, dal francese “pocher”, fare uno schizzo, disegnare con pochi tratti di matita, chiamata a Napoli “’a posciada”, che consisteva nel vaudeville privo di musica, ossia in una rappresentazione scenica dominata dall’esasperazione dell’intreccio, con frequenti scambi di persona, adultèri ed equivoci a ripetizione. Il cinema italiano degli albori trovò a Napoli il suo massimo punto di riferimento, perché Napoli fu la città italiana che meglio aveva saputo cogliere tutte le potenzialità spettacolari del cinema e aveva saputo collegarle al teatro. Già nel 1906 alla Sala Umberto I si erano proiettati film di una lunghezza inferiore ai cento metri, che si alternavano alle esibizioni canore e ai numeri dei comici. Nel 1907 viene proiettato al cinema Elgè di Napoli uno dei primi film italiani a lungo metraggio, Il delitto delle Fontanelle, della Partenope Film. Il 22 settembre dello stesso anno esce il primo numero della prima rivista di critica cinematografica italiana, diretta da Alessandro Pappalardi, «La lanterna», che ha un nome esplicitamente evocativo delle prime macchine cinematografiche precedenti i fratelli Lumière. Di anno in anno aumentano le sale cinematografiche di Napoli, che diventeranno ventisei negli anni Venti, mentre il Salone Margherita, fondato nel 1890, è il primo teatro italiano “delle varietà” che, come diranno poi i futuristi, «distrugge il Solenne e il Sacro, il Serio, il Sublime dell’Arte con la A maiuscola». Agli inizi del secolo vedono la luce a Napoli la Galleria Umberto I e la Sala Recanati, entrambe predisposte per alternare i film allo “spettacolo delle varietà”. Oltre ad essere una straordinaria fucina di innovazioni tecniche e lingui-

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Anton Giulio Bragaglia, Pulcinella, Sansoni, Firenze, 1953, pag. 201.


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stiche sul piano dello spettacolo, la Napoli fine secolo è anche un punto di riferimento straordinario per l’arte figurativa e per l’elaborazione filosofica, musicale e letteraria. L’Accademia di Belle Arti, fondata a Napoli nel 1752 e chiamata anche Reale Accademia di Disegno, nel corso dell’’800 aveva attratto numerosi artisti stranieri, tra i quali il tedesco Filippo Hackert e l’olandese Anton Smink van Pitloo, e aveva prodotto dal suo interno l’importante Scuola di Posillipo, che, nata poco prima degli eroici anni dell’impresa dei Mille e dell’unità d’Italia, con la sua intensa produzione pittorica ci permette di conoscere quasi fotograficamente quegli squarci di Napoli e della sua campagna prima della devastazione operata dal cosiddetto “Risanamento”, votato dal governo Crispi nel 1885 con la complicità della camorra. Successivamente, dalla dissoluzione della Scuola di Posillipo era emersa la Scuola di Resina, che dominò la seconda metà dell’’800 con personalità artistiche di primo piano, e contribuì alla formazione dei maggiori pittori napoletani di fine secolo. Nel campo della scultura s’impone l’opera del grandissimo napoletano Vincenzo Gemito, mentre è attivissima la tradizione del presepe napoletano, dei pupi, dei burattini e delle marionette, che affonda le radici nel ’600 e nel ’700, ma che si esprime ancora con forza nella seconda metà dell’’800 e nei primi anni del ’900. Napoli “fin de siècle”, con gli hegeliani o, più in generale, gli idealisti napoletani, quali Antonio Labriola, Bertrando e Silvio Spaventa, Francesco De Sanctis e Benedetto Croce, vede anche svilupparsi la grande stagione filosofico-culturale di respiro europeo, tale da produrre un intenso dibattito che non solo investe la riflessione pura, ma delinea un ampio disegno per trasformare la società e le sue istituzioni. Quando Totò nasce, la scena teatrale di Napoli è ancora fortemente influenzata da Antonio Petito, morto nel 1876, e dal “vaudeville”, portato alla perfezione dal francese Eugène Labiche (1815-1888), autore di oltre 200 commedie, che a Napoli si fonderà, di lì a qualche anno, con la “sceneggiata” e con la “macchietta”, dando vita ad un ibrido spettacolo che rimanda all’antico teatro di tradizione latino-campana. Alla fine dell’’800 Nicola Maldacea, che si era formato, oltre che attraverso un lungo apprendistato nelle “periodiche”2 con i maestri Ferravilla, Ciotti, Cantalamessa, Carmelo Marroccelli, Vincenzo Valente e i grandissimi Gen-

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naro Pantalena e Eduardo Scarpetta, ricollegandosi all’antica tradizione napoletana del “teatro buffo” del ’600 e adattando al costume napoletano il genere satirico già vivo a Parigi a partire dal 1870, che si fondava sulla aperta presa in giro e sulla derisione di nobili e libertini, introduce la “macchietta”, destinata ad avere un grande successo di pubblico per quasi cinquant’anni. In una mirabolante sequenza di trasformazioni a catena, Maldacea riusciva a far delirare il suo pubblico attraverso la rappresentazione di oltre venti “tipi” per sera, come l’ubriaco, il presidente, l’elegante, il superuomo, il tenentino, il maldicente, il cameriere filosofo, il figlio di mamma, la cocotte malinconica ecc., che egli prendeva dalla vita e fissava attraverso una rapida sintesi dei tratti caratteristici, esattamente come farà Totò, a istinto, nei suoi primissimi anni di vita nei vicoli di Napoli. Di etimologia incerta, la parola “macchietta” sembrerebbe derivare, come sostiene lo stesso Maldacea nelle sue Memorie, dalla necessità di dare al pubblico «una impressione immediata, schizzando il tipo, segnandolo rapidamente, rendendone i tratti salienti. Da ciò l’origine della parola “macchietta”, che è propria dell’arte figurativa: schizzo frettoloso che renda con poche pennellate un luogo o una persona, in modo da darne una impressione efficace, con la massima spontaneità». Che sarà, come vedremo, la grande scuola di Totò, quando ancora bambino, amava seguire i “tipi” per i vicoli di Napoli, cercando di fissarne i tratti salienti, per poi esprimerli in efficaci caricature. È sorprendente la somiglianza dei tipi scelti da Maldacea tra l’ultimo decennio dell’’800 e i primi anni del ’900 con quelli scelti da Totò al culmine della sua carriera sia teatrale che cinematografica, come “l’automobilista”, “il collettivista”, “il miope”, “l’affittacamere”, “la guardia municipale”, “il parrucchiere”, “l’Apollo”, “il balbuziente”, ecc. Con Nicola Maldacea, che indulgeva spesso in doppisensi di carattere osceno, si sviluppa a Napoli e nel resto d’Italia una scuola di macchiettisti, da Peppino Villani ad Alfredo Bambi e Virgilio Riento, da Nando Trezzi, che cominciò ad usare anche le maschere, a Brugnoletto, padre delle sorelle Nava, all’anziano Mongelluzzo e, naturalmente, al grande Gustavo De Marco, che modificò la macchietta introducendovi un carattere contorsionistico ed acrobatico di influenza fregoliana. Vedremo più avanti come questa scuola di macchiettisti napoletani, a cominciare dal capostipite Maldacea, rafforzata dalla grande lezione di De Marco, influenzò a fondo la formazione di Totò sin dai suoi primi passi come attore.


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Napoli, per la sua matrice magno-greca e per il tessuto culturale intriso di improvvisazione e fantasia, è sempre stata il terreno ideale per quel tipo di teatro leggero che si evolve gradualmente verso il vaudeville, il caféchantant, la sceneggiata, il cabaret, l’avanspettacolo e la rivista, nell’ambito e nel contesto più generale del cosiddetto “teatro del varietà”. Al volgere del secolo fiorisce a Napoli la poesia di Salvatore Di Giacomo e la musica sentimentale di Edoardo Di Capua, mentre Enrico Caruso debutta trionfalmente nel 1897, prima di trasferirsi negli Stati Uniti, rendendo celebre in tutto il mondo la sua voce appassionata, che diventerà poi per antonomasia quella di tutti gli italiani. Armando Gill furoreggia sulle scene napoletane, dopo il solito apprendistato nelle “periodiche” familiari, come autore e interprete di canzoni famosissime, tra cui “Come pioveva” e “’O quatt’ ’e maggio”. Salvatore Gambardella, senza conoscere le note musicali, è autore di famose canzoni napoletane, quali “Come facette mammete”, “Marinariello” e “Pusilleco addiruso”. Scritturato poi, dopo l’enorme successo, dalla casa Ricordi, e costretto a studiare musica, non fu più in grado di produrre nulla. Edoardo Scarfoglio fonda nel 1891 quello che sarà il più importante quotidiano di Napoli, «Il Mattino», mentre Matilde Serao, che diventerà sua moglie, negli ultimi anni del secolo scrive i suoi romanzi più importanti, da La virtù di Checchina (1884), a Il ventre di Napoli (1884), a Il paese di Cuccagna (1890). Roberto Bracco, tra la fine dell’’800 e i primi del ’900, pubblica i suoi testi teatrali più famosi, quali Infedele, nel 1894, Sperduti nel buio, nel 1901, e Il piccolo santo, nel 1909. Francesco Mastriani, ispirandosi a fatti di cronaca locali, pubblica nel 1852 La cieca di Sorrento, nel 1875 I misteri di Napoli e nel 1889 La sepolta viva. Furoreggia a Napoli, sulla scena del teatro delle varietà, Gustavo De Marco, allievo del grande Leopoldo Fregoli e noto per le sue straordinarie capacità contorsionistiche, soprannominato “l’uomo di caucciù”, che sarà per Totò un importante e straordinario punto di riferimento all’inizio della sua carriera teatrale. A Napoli, proprio alla fine del secolo, viene introdotta, come anche in molte altre città italiane, la luce elettrica, che sarà la premessa decisiva per la progressiva evoluzione della “macchina-spettacolo” e del cinema poi in modo peculiare. Insomma Totò nasce proprio nel momento di svolta, che deve essere inteso non solo come il passaggio da un secolo all’altro, ma come una profonda metamorfosi nell’immaginario collettivo, dovuta all’evoluzione


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delle tecniche su cui si fonda il livello di ricezione della realtà e la sua riproduzione in chiave fantastica. La Napoli fine ’800, percorsa da un fermento particolare, è un laboratorio nel quale ha luogo la sperimentazione più feconda e più varia sul piano dello spettacolo, come se improvvisamente, grazie all’avvento della luce elettrica e del cinema, quel teatro naturale che è sempre stata Napoli con i suoi mille vicoli, potesse essere rappresentato e goduto in una sorta di rispecchiamento spontaneo. Unica tra le grandi città italiane ed europee di fine secolo, Napoli presenta una ricchezza di generi spettacolari e una varietà di modelli recitativi, che le permetteranno, a partire dal 1905, di collegare, senza alcuna soluzione di continuità, il teatro popolare al cinematografo albeggiante. I grandi teatri napoletani, quali il Salone Margherita o l’Elgè, recepiscono sin dai primissimi anni del secolo le capacità offerte dal cinema e sono in grado di adattare spettacoli completi, di varietà e cinema, per un pubblico naturalmente predisposto a cogliere la continuità e la connessione dei due differenti, ma per tanti versi convergenti, mezzi espressivi. Come infatti quelle storie venivano rappresentate in teatro, allo stesso modo si potevano ora seguire e gustare sullo schermo. Solo Napoli infatti, rispetto a tutte le altre città italiane all’inizio del secolo, era in grado di offrire contemporaneamente al suo pubblico, oltre al teatro serio, la commedia dell’arte, la sceneggiata, il café-chantant, lo spettacolo delle varietà, il vaudeville, la macchietta, la parodia e la farsa e infine il cinema, senza che fosse avvertita quella cesura che avrebbe poi scatenato l’indignazione di tanti intellettuali rigoristi e di tanti uomini di teatro che arricciavano il naso davanti ai primi film proiettati sullo schermo e che imprecheranno contro quegli attori che poi in massa abbandoneranno il teatro per il cinema. Nella rappresentazione della commedia l’effetto comico era quasi naturale, perché naturali erano le psicologie e aderenti alla realtà gli intrecci e i personaggi. Il teatro San Carlino, alla fine dell’’800, è il punto di riferimento e di incontro della realtà vissuta e della realtà rappresentata, sia pure in chiave deformata e di caricatura. A differenza delle altre città, Napoli ha alle spalle una tradizione secolare di teatro comico, che si esprime, diversamente dagli altri generi drammaturgici, con un linguaggio sempre popolare e attraverso un’aderenza assoluta e popolare ai problemi più elementari dell’esistenza, come la fame e il lavoro, la salute e l’amore, la famiglia, la solidarietà, la morte e l’arte di arrangiarsi.


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Vita di Totò

Si può dunque affermare che per larga misura il teatro napoletano di fine ’800, per la stratificazione dei generi e per l’innato realismo dei testi, costituisce un punto di riferimento di tutto il teatro europeo della tradizione comica o leggera. Lo stesso sentimentalismo straripante delle canzoni lacrimose e passionali, quali erano state quelle di Di Capua e come saranno alla fine degli anni Dieci quelle di A.E. Mario (pseudonimo di Gioviano Gaeta) assume nella cultura napoletana una dimensione non retorica, ma aderente al tessuto e alla psicologia di un mondo che ha elevato la sofferenza a cifra esistenziale, e verso la quale si può indifferentemente piangere o ridere nello stesso tempo. Vedremo in seguito come queste premesse generali esercitarono una grande influenza sulla formazione e sulla piena estrinsecazione dell’arte recitativa di Totò, che di quel mondo fu uno dei più profondi interpreti. Analizzando più da vicino la città di Napoli nel momento in cui nacque Totò, si scoprono evidenti impronte di un barocchismo e di uno spagnolismo onnipresente, strutturale, che si esprime non solo nelle architetture delle chiese e dei palazzi abitativi, ma anche nella più minuta quotidianità e nelle strutture spettacolari della rappresentazione teatrale. Il barocco napoletano, di cui il Presepe è la sintesi ideale, in teatro si esprime con una rinuncia assoluta a rappresentare veristicamente la realtà, che viene invece sempre evocata attraverso un’esuberanza formale e scenografie palesemente false, semplificate, con fondali colorati volutamente finti ed esibiti come tali, suggerendo l’idea di una rappresentazione centrata sul “come se” che contrasta con il verismo. Questa tendenza estrema alla semplificazione costituisce uno dei punti salienti e paradossali del barocco e dello spirito napoletano, che stravolge la realtà riducendola a pura forma, a rappresentazione allusiva, ad esasperazione ipertrofica della fantasia immaginativa. L’esibizione di una scenografia falsa e la semplificazione dell’intreccio (come nella commedia dell’arte e nella sceneggiata) implicano infatti una complicità con lo spettatore, che accetta di assistere ad una rappresentazione che diventa per ciò stesso iperrealistica, in quanto viene a cadere l’esigenza di far passare per vero quello che è falso. Il paradosso è che alla fine proprio la consapevole esibizione e lo smascheramento del falso teatrale costituiscono il punto più alto del realismo. La specificità di Napoli consiste dunque nello scambio osmotico della realtà con il sogno, della razionalità con la fantasia, del pianto con il riso, della serietà con l’ironia.


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