François Truffaut. Tutte le interviste

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FRANÇOIS TRUFFAUT Tutte le interviste sul cinema

a cura di Anne Gillain


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Titolo originale: Le Cinéma selon François Truffaut © Flammarion, 1988 © Cahiers du Cinéma, Cinéma 88 et Sight and Sound Traduzione dal francese: Patrizia Bissattini Copertina: Patrizia Marrocco Stampa: AGL Pomezia – Roma Prima edizione 1990 Prima ristampa, settembre 1994 2017 © Gremese International s.r.l.s. – Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta, registrata o trasmessa, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore. ISBN 978-88-6692-006-9


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Prefazione

PREFAZIONE

Tra il 1959 e il 1984, sulla stampa di lingua inglese e francese sono apparse circa trecento interviste rilasciate da François Truffaut. E sono appunto questi testi, disseminati in un gran numero di giornali e riviste in Francia, Canada, Gran Bretagna e Stati Uniti, che ho raccolto in volume. In Tirez sur le pianiste [Tirate sul pianista] Charlie, che ancora si chiama Édouard, viene rimproverato dal suo impresario per aver fatto una figuraccia alla conferenza stampa. Allora si sciroppa un numero impressionante di trattati sulla timidezza, prepara un altro incontro con i giornalisti e fa un figurone. La presenza di questo episodio in un film largamente autobiografico rivela l’importanza che Truffaut attribuiva ai rapporti con la stampa. Preoccupato della promozione delle sue opere, e soprattutto che le sue intenzioni fossero comprese, all’uscita di ogni film si sottoponeva di buon grado e con una serietà divenuta proverbiale al rituale dell’intervista. Era un genere giornalistico che aveva lui stesso coltivato brillantemente durante la sua carriera di critico cinematografico 5


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– il volume su Hitchcock ne è la prova – e l’esperienza gli consentiva di ottenere il massimo da questa forma di giornalismo spesso sottovalutata. L’intervista era per lui un forum: gli serviva per informare ma soprattutto per incuriosire, sorprendere, attirare il pubblico verso la sua opera. Basta scorrere questi testi per rendersi conto che preparava le dichiarazioni con cura, sceglieva i termini, affilava il taglio delle formule. Truffaut, che amava spiegare e convincere, usava le parole con grande virtuosismo, dono raro in un cineasta. Affrontava con freschezza le critiche e sapeva trovare scappatoie intelligenti, ma soprattutto esprimeva tutta la vivacità e il calore della sua personalità. Con lui, il giornalista non si trovava di fronte a un interlocutore, ma a un collaboratore attivo e pieno di iniziative. Come nessun altro, Truffaut sapeva condurre la conversazione e dare alle risposte un’originalità e un’intelligenza tali da conferire a questi testi una qualità affatto particolare. L’insieme delle interviste risulta interessante per tre motivi. In primo luogo, costituisce una miniera di informazioni preziose sulla nascita di ogni film di Truffaut. Il regista svela infatti le fonti della sua ispirazione, della scelta dei soggetti, della costruzione delle scene, chiarendo, per esempio, il ruolo svolto dall’affare Jaccoud nella concezione di La peau douce [La calda amante] o dalle sorelle Brontë in quella di Les deux anglaises [Le due inglesi]. Affronta gli aspetti tecnici della realizzazione, parla dei rapporti con i collaboratori e con gli attori e anche del clima che si formava sul set durante le riprese. Gli aneddoti si alternano alle autocritiche e rendono il tutto molto vivo e istruttivo. In secondo luogo, l’insieme delle interviste rappresenta una summa di riflessioni critiche sul cinema. Fin dal 1959 Truffaut fu in grado di definire gli sforzi della Nouvelle Vague paragonandoli a quelli dei “predecessori”. La lista dei registi dei quali celebra le opere comprende Rossellini, Renoir, Vigo, Hitchcock, Ray, Lubitsch, McCarey, Welles, Fellini, Bergman, Cocteau, Godard, Resnais, Chabrol, Pialat, per non citare che i più famosi, vale a dire l’intera storia del cinema. Truffaut analizza poi l’influenza dei media, specialmente della televisione, sul lavoro di regia, paragona letteratura e cinema e definisce la dinamica del rapporto esistente tra il film di fiction e lo spettatore. L’importanza e il peso di queste osservazioni dimostrano che colui che amava definirsi il meno intellettuale dei registi francesi e dichiarava di non avere nessun gusto per le idee spesso le usava meglio di quelli che le coltivavano. In terzo luogo, l’insieme delle interviste è una fonte copiosa di informazioni biografiche: ed è proprio questo l’aspetto più inatteso del volume. Truffaut evoca impressioni e ricordi d’infanzia, rivela le sue reazioni di fronte agli eventi politici e ai fenomeni sociali, si esprime sulle letture preferite, l’evoluzione affettiva e l’itinerario artistico. A questo riguardo le interviste americane sono senza dubbio le più rivelatrici. Ciò è forse dovuto al minor ritegno che provava in un paese straniero, al desiderio di affermarsi in una cultura meno abituata alle sue opere o, più semplicemente, a un diverso stile giornalistico. Sebbene conoscessi Truffaut, i suoi film e le opere critiche a lui dedicate, mi sono spesso sorpresa della gran quantità di informazioni che ho potuto desumere da queste letture. 6


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Per realizzare questo volume ho dovuto innanzitutto mettere insieme dei testi, ed è nelle biblioteche francesi e americane che ho potuto trovare quelle riviste dal destino spesso effimero di cui avevo bisogno. A questo proposito vorrei esprimere tutta la mia gratitudine a Madeleine Morgenstern, che mi ha aiutato nel lavoro permettendomi l’accesso agli archivi di Truffaut del Films du Carrosse. Sono partita con l’idea che il modo migliore per organizzare i testi fosse quello di rispettare l’ordine cronologico di uscita. Ma questo non era sufficiente per avere tutte le informazioni su un particolare film. Dopo Les 400 coups [I 400 colpi], infatti, il grosso delle interviste riguarda più di un’opera. Perciò ho deciso di isolare in ogni intervista il materiale riguardante un certo film, poi ho realizzato un montaggio dei testi che comprendevano le informazioni più significative fornite da Truffaut al momento dell’uscita del film, e alla fine del capitolo ho aggiunto i commenti del regista fatti a posteriori, corredandoli delle relative date. Nell’economia del libro ho riservato dunque un capitolo a ognuno dei ventuno film e dei quattro cortometraggi di Truffaut, e tre capitoli, che sono poi quelli iniziali, alle dichiarazioni di Truffaut sulla sua infanzia, la Nouvelle Vague e la Politique des Auteurs, un concetto teorico che il regista aveva elaborato negli anni Cinquanta, quando scriveva per i «Cahiers du cinéma». Ho inoltre suddiviso il libro in tre grandi periodi: 1959-1968, 1969-1974, 1975-1984, e alla fine di ogni periodo ho messo un capitolo (Bilancio I, II, III) con una o due interviste importanti. Questi tre capitoli rappresentano la messa a punto critica, artistica e teorica che permette di seguire passo a passo l’evoluzione della carriera di Truffaut. In sostanza, il volume è una biografia cinematografica diretta, viva, sincera, spesso buffa, a volte commovente, sempre intelligente. L’idea mi è venuta quando Truffaut stava già male. Avevo anche pensato di fare ordinare a lui stesso questi testi. Sono sicura che il progetto lo avrebbe interessato. E sono sicura che appassionerà il pubblico dei suoi film. Anne Gillain

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I

INFANZIA

Un uomo si forma tra i sette e i sedici anni, poi vivrà tutta la vita con ciò che ha acquisito tra queste due età. Intervista rilasciata a Luce Sand, «Jeune Cinéma», n. 31, maggio 1968.

Lei, Truffaut, ha davvero avuto un’infanzia infelice? No, ho avuto quella di Antoine dei 400 coups [I 400 colpi]. Nel film non c’erano esagerazioni, anzi, ho omesso cose che potevano sembrare inverosimili. Rimpiango solo di non aver mostrato fino a che punto la mia storia fosse legata al dopoguerra. Ma era il mio primo film, non potevo fare un film d’epoca. Rimane in me un film “in sospeso”: quello di un ragazzino sotto l’occupazione tedesca. Non farei vedere la Resistenza, solo alcuni piccoli particolari... Comunque devo dire che il fatto di essere cresciuto durante l’occupazione mi ha dato una visione orribile degli adulti.

Quando è nato? E cosa facevano i suoi genitori? Mio padre era un architetto disegnatore, ma soprattutto era appassionato di alpinismo, come mia madre che era segretaria al settimanale «L’Illustration», in 8


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Infanzia

rue Saint-Georges, dove lavorava anche mio nonno, Jean de Monferrand, pure lui alpinista e socio onorario del Club alpino francese. Nel quartiere erano considerati degli eccentrici perché ogni sabato mattina partivano in calzoncini e zaino in spalla, e tornavano la domenica sera. A persone così non si può mettere un’etichetta. Io sono nato a Parigi, vicino a Place Pigalle, il 6 febbraio 1932. Messo subito a balia, fui poi allevato da mia nonna, con la quale rimasi fino a otto anni. Alla sua morte i miei mi ripresero. Non erano genitori cattivi, solo nervosi e molto occupati. Mia madre era acida, sicuramente avrebbe preferito una vita più brillante. Io non ero sportivo e cominciai a interessarmi di cinema molto presto. A casa mia era quasi uno scandalo non amare il campeggio!

Si ricorda la prima esperienza di cinema? Non ho un buon ricordo del primo film che ho visto, forse a causa dell’assurdità del “continuato”. Mia zia mi aveva portato al cinema ed eravamo entrati a film già cominciato; sullo schermo si svolgeva una scena di matrimonio. Due ore dopo riapparve la stessa scena e mia zia disse: «Siamo entrati qui». E uscimmo. Questo mi fa venire in mente la storiella di quella bambina che aveva visto al cinema Giovanna d’Arco e racconta il film: «C’era una signora che viene messa nel fuoco e dopo diventa una pastorella.» Il primo film che ricordo con precisione è Paradis perdu [Paradiso perduto] di Abel Gance, con Micheline Presle e Fernand Gravey. Era il 1939 o ’40. È un film che ha fatto piangere sale intere, forse perché c’erano delle coincidenze con quei tempi. Era un film sulla guerra del 1914-18 e i cinema erano pieni di uomini in licenza, di altri che stavano per partire e di altri ancora che erano appena tornati, per cui credo che tutta la Francia andasse in delirio per quel film. Accanto a me sentivo mia madre piangere; mio padre era stato appena richiamato. Io non piangevo, forse perché non capivo bene la trama, però ero molto stupito. La mia sola angoscia, ricordo, era che il film terminasse presto. Ho rivisto spesso Paradis perdu e ogni volta ho pianto, perché è un mélo irresistibile, assolutamente geniale. I miei genitori non erano cinefili, però seguivano gli spettacoli e parlavano tra loro delle commedie e dei film più importanti. Questo mi ha stimolato molto e ha indirizzato i miei gusti. Mi portavano a vedere certi film, ma ben presto cominciai ad andare da solo, di nascosto, a vedere quelli che loro non mi facevano vedere. Quando i miei genitori uscivano insieme di sera io, dieci minuti dopo che se n’erano andati, correvo al cinema, di solito alla sala più vicina. Purtroppo non mi gustavo la serata, perché l’angoscia di essere scoperto o di rientrare dopo di loro era troppo forte. Così mi rovinavo sempre la seconda parte del film. Capitava anche che per la paura uscissi prima della fine, perché dovevo farmi trovare a letto. Di quel periodo mi è rimasto un gran senso d’angoscia e i film sono legati all’angoscia e a un senso di clandestinità. In seguito trovai molto più comodo andare al cinema di pomeriggio, a costo di marinare la scuola. 9


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A quale scuola andava? Fino al 1941 sono andato al Lycée Rollin. Poi ho fatto fiasco all’esame d’ammissione al sesto anno, e i miei mi hanno fatto cambiare scuola. Lì mi sentivo un po’ come un estraneo. Al Rollin non c’era modo di marinare le lezioni, mentre nella nuova scuola era cosa di tutti i giorni. Ho cominciato a comportarmi come i compagni, e poi a fare casino. Avevo una pessima condotta, più ero punito più diventavo turbolento. A quel tempo venivo espulso molto di frequente e passavo da una scuola all’altra. Ho frequentato la scuola comunale di rue Choron, poi quelle di rue Victoire e di rue Hippolyte-Lebas, poi la scuola commerciale di avenue Trudaine, tanto per far capire il genere di carriera scolastica che ho avuto. Marinavo la scuola insieme con il mio amico Robert Lachenay; quando uno dei due veniva espulso da una scuola, l’altro faceva il possibile per seguirlo, in modo da stare sempre insieme. Mi presentavo a scuola qualche giorno alla fine del mese giusto per fare i compiti in classe! Io e Lachenay marinavamo talmente tanto che avevamo fatto, con l’inchiostro di china, falsi blocchetti di giustificazioni da far firmare ai nostri genitori.

Con quali soldi andava al cinema? Quando il mio “settimanale” era finito, ricorrevo ai soldi destinati alla mensa, ma devo confessare che frequentavo molto le sale in cui era possibile entrare senza pagare.

Come faceva? C’era un metodo diverso per ogni cinema. Al Delta bisognava andarci in due: uno pagava e poi andava ad aprire la porta all’altro (si trattava sempre della porta dei gabinetti). All’Images era diverso perché i gabinetti stavano nell’interrato; bisognava scendere e, una volta dentro, si aveva sempre la fortuna di trovare un biglietto per terra. A quel punto bastava mettersi la giacca su una spalla con l’aria di chi è appena uscito dalla sala, mostrare quel biglietto, aspettare l’intervallo, ed era fatta. Anche al Gaumont-Palace era possibile entrare, ma solo quando c’era ressa, come la domenica, all’uscita dallo spettacolo del pomeriggio. Tutte quelle porte enormi e quelle migliaia di persone che uscivano! Bisognava far la parte di chi ha dimenticato qualcosa in sala e attraversare controcorrente quella marea umana. Era possibile. A quei tempi c’erano due cinema sulla stessa strada, uno di fronte all’altro, il New York e il Cinéac-Italiens. In tutti e due lo spettacolo iniziava alle dieci di mattina e gli spettatori erano quasi tutti studenti. Ogni mattina c’era un gruppo di cinquanta o sessanta ragazzi in attesa, e la sala che apriva i battenti per prima si accaparrava tutta la clientela, perché tutti noi avevamo fretta di nasconderci: ci sentivamo terribilmente in colpa. 10


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Quali film ricorda? I film che ammiravo erano ovviamente quelli francesi, visto che ho iniziato ad andare al cinema durante la guerra. Erano film come Le corbeau [Il corvo] e Les visiteurs du soir [L’amore e il diavolo]. Ho cominciato presto a vederli più volte. All’inizio non dipendeva da me, perché i miei genitori mi portavano a vedere film che avevo già visto di nascosto, senza che potessi confessarlo. Ma la cosa mi ha comunque dato il gusto di vedere i film più di una volta. Il miglior film che ho visto durante l’occupazione è stato senz’altro Le corbeau. Per Les visiteurs du soir si accesero molte polemiche a scuola: c’era chi criticava il castello bianco e chi lo difendeva. Sì, non si parlava d’altro. Alle discussioni partecipava ovviamente anche il professore, che diceva: «Bisognava per forza che questo castello a un certo momento fosse nuovo, perciò è stata una cosa intelligente averlo fatto bianco». Nel cinema francese di quei tempi c’era tutta una vena fantastica. Allora amavo tutti i film, mettevo sullo stesso piano cose di qualità e altre meno buone, come La fianceé des ténèbres, che adoravo. Era molto strano: con Jany Holt... anche Le baron fantôme [Il barone fantasma]... Mi ricordo di un film che ho visto... ero veramente un moccioso... è stato a Montauban, si chiamava Pontcarral [L’ultimo bacio], se ne ricorda? Beh, comunque ero uno spettatore sovversivo, sempre dalla parte del regista e contro il pubblico, in tutti i casi di film ermetici, di quei film cioè in cui la gente sghignazza. Ero per il ridicolo, l’audacia, la sfrontatezza... Il lirismo, sempre, sempre il lirismo.

A che cosa era dovuta questa ribellione? Alle sue letture? Al suo carattere? Vede, io marinavo la scuola, andavo al cinema di nascosto, e poi si facevano tante bestialità durante la guerra che ogni volta che sullo schermo c’era qualcuno nei guai, ogni volta che qualcuno si trovava in situazioni irregolari, io mi identificavo con lui. La lettura di Madame Bovary per me è stato uno shock: era come marinare la scuola. Tanti amanti e così pochi soldi! Io mi esaltavo a tutto questo, detestavo tutto ciò che era normale.

A quel tempo cosa rappresentava per lei il cinema? Con la maturità ho capito che per me il cinema è stato molto più di un rifugio. Diciamo che oggi non c’è più dubbio che nel mio amore per il cinema c’è un aspetto nevrotico. Prima non potevo esserne cosciente, adesso lo so per certo. Allo stesso tempo, però, è così difficile parlarne, è una cosa talmente intima e personale! Rischierei di esagerare se dicessi che il cinema mi ha salvato la vita. Mi è capitato di usare la parola “droga” prima ancora che diventasse di moda. Forse mi sono buttato sul cinema perché la mia vita, nei primi anni della giovi11


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nezza, non era soddisfacente; bisogna tener conto che durante l’occupazione tedesca avevo dieci anni. Il 1942 è una data molto importante per me; è il momento in cui ho cominciato a vedere tantissimi film. Dai dieci ai diciannove anni mi sono buttato sui film, ma non mi pento di averlo fatto.

Qual è il cinema che l’ha formata? Spesso dico che i “minnellisti” (i fan di Minnelli) o gli amanti del cinema americano sono persone che non vogliono assolutamente ritrovarsi in un film. Cercano l’evasione totale, l’evasione che comporta anche lo sradicamento visivo; preferiscono cioè non vedere la loro città, le loro strade, il loro mondo. Io, forse perché durante l’occupazione non c’erano film americani, ho cominciato a formarmi con una manciata di film francesi. Dico manciata perché tra il 1942 e il 1944 non c’erano in circolazione più di quaranta o cinquanta film, tra i quali il più notevole è senz’altro Le corbeau. Forse anche perché preferivo ritrovare un mondo che non fosse troppo distante dal mio mondo reale... Per esempio, mi piacevano di più i film con temi attuali piuttosto che d’epoca e quelli psicologici o polizieschi... È tutto ciò che posso dire sull’argomento, il resto rientrerebbe in uno studio sul cinema dei tempi dell’occupazione.

In che cosa Le corbeau l’ha formata? È un film che ho finito per vedere una ventina di volte: cinque o sei durante la guerra e molte altre dopo la Liberazione, quando ha ottenuto di nuovo l’autorizzazione a circolare. Un film di cui ho imparato i dialoghi a memoria, il che non deve stupire perché capita con tutti i film che si arriva a conoscere intimamente. Vedendolo, ho imparato una cinquantina di parole che non conoscevo. Erano dialoghi estremamente maturi in rapporto al cinema di quei tempi e anche al mio vocabolario personale. Ancora oggi ricordo il testo delle lettere anonime del Corbeau... Non ero ancora un ribelle, ma sul punto di diventarlo, e in quel film c’era un’immagine della società che mi era molto congeniale. C’erano cose sull’amore che mi sembravano – non posso dire nuove perché non avevo molta esperienza – comunque originali. Ancora oggi trovo che i rapporti fra Pierre Fresnay e Ginette Leclerc fossero molto forti; sono rimasti “giusti”, senza diventare un cliché. Dopo, pur continuando ad amare il cinema francese, ho scoperto quello americano. A essere sincero è stato l’incontro con Rivette a distogliermi dal cinema francese. Mi ricordo che lui trovava assurdo vedere quattordici volte Les enfants du paradis [Amanti perduti] o conoscere a memoria Le corbeau; per lui tutto ciò non aveva nessun interesse, lui reagiva soltanto alla regia. E probabilmente, sotto l’influsso di Rivette e della gente dei «Cahiers», per un certo periodo ho dimenticato tutto quello che poi è tornato a essere importante. 12


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Lei poco fa ha detto che si considera totalmente “figlio del dopoguerra”. Non si è mai chiesto che cosa è successo in Francia, a Parigi, durante la guerra? Sì, sì, perché ho avuto uno zio deportato e sono rimasto molto colpito dalla passività della gente. Quando si dice che la Francia ha aspettato la Liberazione, sinceramente dubito che sia vero. Ho visto intorno a me molta indifferenza. Gente che la sera andava al cinema e a teatro, perché lo spettacolo, durante la guerra, era una cosa molto importante. Abitavo all’incrocio tra rue HenriMonnier e rue Frochot, a Pigalle, e per la strada c’erano musicanti con i quali giocavo tornando da scuola. Ma c’era anche sangue, scazzottate, regolamenti di conti e molte storie passionali. C’erano donne tedesche con le calze nere...

Donne tedesche? Sì, “lucciole”. C’è tutto un aspetto sessuale dell’occupazione tedesca di cui nessuno parla mai e che io invece trovo essenziale, perché ne rimasi colpito. Per esempio, la gente faceva l’amore per strada. Non c’era un lampione in tutta Pigalle e per tornare a casa dal métro c’era bisogno di una torcia elettrica. C’erano coppiette dappertutto, sotto i portici... Quando suonava l’allarme si andava al métro Abbesses, Jules-Joffrin, Pigalle. Era pieno ovunque...

Le è mai capitato di dormire nel métro? Sì. Una volta io e Lachenay avevamo marinato talmente tanto la scuola che non avevamo più il coraggio di tornarci. Allora ci dicemmo: «Le bugie, più sono grosse più vengono credute». Così tornai a scuola e dissi al maestro che mio padre era stato arrestato dai tedeschi. Eravamo nel 1943 e mio zio era stato arrestato otto giorni prima. C’è sempre un fondo di verità nelle bugie dei bambini. Comunque, quel giorno mio padre venne a prendermi a scuola e successe il finimondo. Così non ebbi più il coraggio di rientrare a casa. Avevo undici anni. Lachenay mi aveva detto che si poteva dormire nei métro più profondi, adibiti a dormitori, e così ci andai. Ricordo che c’era un buio d’inferno. Ci davano una coperta ma alle cinque del mattino ci svegliavano perché dovevano rimettere in moto i treni. A quel tempo, in cambio di 125 grammi di ottone ti davano un litro di vino, e così noi rubavamo le borchie delle porte o cose simili e poi rivendevamo il vino. Mio padre mi trovò e mi mandò in una di quelle scuole che tengono al corrente i genitori sul comportamento dei figli. Ero una pecora nera: tutto quello che facevo era mal visto, e così io non andavo alle lezioni. Mi rintanavo nella biblioteca municipale a divorare Balzac. Un’altra volta il direttore della scuola convocò mia madre e le disse: «Non possiamo più tenere suo figlio perché è stato troppo tempo malato.» Io lo seppi e non tornai a casa, andai a dormire nel métro; l’indomani, ansioso di rimettermi 13


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in regola con la società, tornai a scuola. Mia madre, preoccupatissima, venne a prendermi per portarmi a casa e mi fece fare un bagno. Questo episodio, quasi identico, si trova nei 400 coups. In seguito ci furono le vacanze e io andai in colonia. Il direttore vendeva tutto il cibo e noi non avevamo niente da mangiare. Eravamo pieni di foruncoli e pulci. Scrivevamo a casa per lamentarci e il direttore urlava: «Vi denuncerò tutti per diffamazione!» Noi eravamo sconcertati, non capivamo cosa significasse questa diffamazione, pensavamo avesse qualche legame con il cibo a causa di quell’“affamare”. Alla fine ci fece rasare tutti a zero, e allora scappai.

Che ricordi ha della Liberazione? Nel 1944 avevo dodici anni. È stato l’anno in cui dissi una bugia colossale e non ho mai capito perché. Stavo in Bretagna e scrissi a un amico a Parigi per dirgli che sarei tornato per seguire il processo Pétain. Chissà cosa mai m’era saltato in testa in quel momento! Comunque il processo mi appassionava molto e mi appassionava anche l’ipocrisia dei giornali della Liberazione che cercavano di inculcare un sentimento di umanità nel popolo francese. Questo mi sembrava alquanto ridicolo visto che durante tutta la guerra non avevo sentito i miei genitori parlare d’altro che di Sacha Guitry e dell’ultima pièce di Claudel. Quando ci fu la Liberazione, ci recammo più volte alla Gare du Nord e alla Gare de l’Est per vedere il ritorno dei deportati. Quando si parla di deportati, si pensa di solito a gente tutta pelle e ossa. Invece i deportati che vedemmo erano tutti gonfi, enormi, poiché erano appena usciti dall’ospedale, e la cosa era ancora più tragica, più impressionante. Per parecchie sere aspettammo il ritorno di mio zio... Credo di aver conservato di quegli anni un atteggiamento puramente difensivo. Mi ricordo che entravo nei negozi tutto tremante – i ragazzini ci venivano mandati a mendicare – al punto che ancora adesso rimango stupito quando incontro un commerciante affabile. Entro sempre nei negozi con umiltà. Sul serio. Vedo la vita come una cosa molto dura e credo che si debba avere una morale semplice, terra terra. Bisogna dire: «Sì, sì», e fare solo quel che si ha voglia di fare. È per questo che nei miei film non può esserci violenza; già nei 400 coups Antoine è un bambino che non si ribella.

La Liberazione ha significato anche l’arrivo dei film americani. Qual è il primo che ha visto? Non ricordo. Era una commedia. Ero molto stupito, sembrava venire da un altro pianeta; non avevo mai visto niente di simile... immagini che shock per i giovani. Nel primo trimestre del 1946 noi, che di grandi attori conoscevamo solo 14


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Raimu e Pierre Fresnay, scoprimmo Humphrey Bogart, Cary Grant, Spencer Tracy, James Stewart. Sì, fu veramente un grande shock, decisivo, quello che ci procurarono i film americani della Liberazione. Fu dopo due o tre mesi di cinema americano che per la prima volta cominciai a notare il nome del regista di un film appena uscito. Poi cominciai a farmi delle idee. Mi misi a compilare schede e a identificare il film con il regista. Mi dicevo: «Un film di Tizio, ci vado.» Eravamo nel 1946 e tutto ciò succedeva anche grazie a un giornale importante come «L’Écran français», un giornale molto parziale, ma comunque specializzato. Pubblicò un articolo di Jean-Paul Sartre su Citizen Kane [Quarto potere] prima che uscisse, e così creò l’avvenimento. Penso che fosse il 6 luglio 1946.

Quante volte l’ha visto? Diciotto volte, venti, non so. Lo conosco molto, molto bene. Improvvisamente, a tredici anni, mi resi conto che un film poteva essere scritto come un libro e sono certo che molti della mia generazione sentirono che potevano diventare registi grazie a Citizen Kane: Kubrick, Resnais, Lumet, Frankenheimer. Non era un film da cineasti ma da cinefili. Qualche mese più tardi vidi The Magnificent Ambersons [L’orgoglio degli Amberson] che, a dir la verità, trovai più sincero, più commovente.

A che età ha lasciato la scuola? A quattordici anni. Volevo lavorare. Mi presentai a un esportatore di granaglie che ben presto si pentì di avermi assunto. Non ero molto puntuale sul lavoro, me ne andavo al cinema. Dopo quattro mesi mi licenziò. Era Natale, e con lo stipendio e la liquidazione mi ritrovai un bel gruzzoletto. Andai a vivere da Lachenay e insieme decidemmo di fondare un cineclub al Cluny Palace, aperto la domenica mattina. Acquistammo una copia di Metropolis in 16 mm e battezzammo il nostro club Le cercle cinémane. Ma le proiezioni erano orribili e la gente non ci veniva, preferiva il cineclub di Bazin al cinema Broadway, anch’esso aperto la domenica mattina. Allora, molto innocentemente, mi recai da Bazin per chiedergli di cambiare giorno di apertura. È così che ci siamo conosciuti. Otto giorni dopo, mio padre, che aveva letto l’annuncio del Cercle cinémane sull’«Écran français», mi rimise le mani addosso e mi spedì diritto alla polizia. Quella vera, non quella dei minorenni. Passai due notti in guardina, come nel mio film, poi mi rinchiusero a Villejuif. A quei tempi, eravamo nel 1948, Villejuif era metà manicomio e metà riformatorio. I delinquenti che scappavano venivano affidati ai guardiani dei pazzi. Là dentro c’erano ragazzi che avevano commesso crimini di vario genere: giovani 15


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apprendisti che avevano rubato piombo alla fabbrica, ladri di biciclette e soprattutto di gomme di macchine. C’erano anche molti vagabondi. In quegli anni la delinquenza giovanile era a livelli altissimi. Io sono stato salvato da André Bazin, che si diede da fare per farmi uscire. Bazin parlò anche con la psicologa e ottenne che venissi emancipato. I miei genitori rinunciarono alla patria potestà abbastanza facilmente. A Villejuif, comunque, non ero triste. Ero curioso di tutto. E poi mi ricordo che non eravamo veramente cattivi! Quando i guardiani si comportavano da carogne, noi inventavamo per loro scuse volgari: «Sai, fa così perché la figlia s’è fatta gonfiare o perché sua moglie ha tagliato la corda.» Al tempo dei 400 coups mi seccai molto perché certi giornalisti scrissero che era esagerato. Non è vero, è solo che c’è una grande differenza tra quel che dicono le leggi che tutelano l’infanzia e quel che poi succede nella realtà. Per esempio, il regolamento stabilisce che un ragazzino non può essere messo nel cellulare, ma deve essere trasportato con un mezzo speciale. In realtà, se questo ragazzino viene portato al commissariato dopo le ore di ufficio della prefettura, per lui non si fa venire nessun mezzo speciale, ma lo si sbatte nel cellulare insieme con le puttane e tutti i delinquenti raccattati in giro. Sono cose che rimangono, che marchiano. Sono brutti ricordi. Comunque, alla fine Bazin mi fece uscire e mi trovò un lavoro al «Travail et Culture», di cui dirigeva la sezione cinema. Il mio lavoro consisteva nel compilare schede e organizzare proiezioni nelle fabbriche. Il programma si limitava a pochi cortometraggi (Charlot, Stanlio e Ollio), perché potevamo disporre solo di tre quarti d’ora, il tempo di un turno o due di mensa. Mi feci altri amici cointeressati a quel programma: Alain Resnais, Chris Marker, Alexandre Astruc. Alla Cinémathèque vedevo ogni sera Jacques Rivette, Jean-Luc Godard, Jean Gruault, Astruc. A forza d’incontrarci là, si cominciò a parlare, e diventammo amici.

Pensava che sarebbe diventato regista? Quando ero molto esaltato, sì. Nei momenti di ragionevolezza progettavo di diventare critico cinematografico. Cominciavo ad avere gusti e disgusti precisi. Rinnegai il cinema francese in blocco; non potevo più ammirare Fresnay dopo aver conosciuto Bogart, Peter Lorre, John Garfield... Scoprivo Zéro de conduite [Zero in condotta], L’Atalante, La règle du jeu [La regola del gioco]. Alla Cinémathèque conobbi tutto Griffith, tutto Murnau, Stroheim. Era formidabile. A sedici anni avevo raccolto una vasta documentazione sui film: fotografie, biografie di registi... Tenevo schede aggiornate, avevo archivi. Per arricchire la mia collezione facevo raid notturni con gli amici. Dicevamo: «Nel tal cinema si possono rimediare ventiquattro fotografie della Grande illusion [La grande illusione]», e partivamo armati di sassi contro le vetrine. Quando venne l’ora di fare il militare misi tutti i miei dossier su un carrettino e attraversai Parigi per andare a offrirli a Langlois per la sua Cinémathèque. Gli dissi: «In cambio le chiedo solo di farmi entrare gratis fino alla fine dei miei giorni.» 16


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Nel 1949 André Bazin si ammalò ed entrò in sanatorio, e io fui costretto a lasciare «Travail et Culture» e mettermi a fare il saldatore in un’officina: guadagnavo sessanta franchi l’ora. La saldatura ha il vantaggio di favorire la concentrazione. Con i miei occhialini neri e la bombola del gas davanti, facevo passare il tempo cercando di ricordare l’ultimo film che avevo visto. La mattina, quando arrivavo, mi dicevo: «Cercherò di rivivere City Lights [Le luci della città] o Monsieur Verdoux.» E lo facevo, scena dopo scena, così durava più a lungo. In questo modo riuscivo a far passare la mattinata. Se le saldature venivano bene? Ah! Non erano poi così orribili. Spero solo che abbiano retto a lungo. Il sabato e la domenica avevo trovato un’occupazione che mi divertiva molto. Andavo al Club Faubourg, e quando c’erano conferenze sul cinema, facevo casino. La gente mi prendeva in giro per la mia indignazione. Per un certo periodo ho lavorato alla rivista «Elle». Avevo diciassette anni ed ero assai maldestro. Ricordo che mi chiesero di preparare una tabella sul modo di dire «ti amo» in tutte le lingue del mondo. Battei tutte le ambasciate e le città universitarie, e quell’affare fu pubblicato. Peccato che poi arrivarono non so quante lettere di protesta perché tra i modi di dire «ti amo» di quaranta paesi ce n’erano almeno quindici sbagliati.

Come si riavvicinò al cinema? Mi capitò esattamente quello che ho raccontato in L’amour à vingt ans [L’amore a vent’anni]. M’innamorai di una ragazza che incontravo spesso al cineclub. Presi una tale cotta che andai a vivere proprio davanti a lei, convinto di poterle stare più vicino, e invece ottenni esattamente il contrario. Per lei ero ormai una specie di genitore rompiscatole. In compenso diventai molto amico dei suoi... Insomma, alla fine le cose si misero così male che mi consolai arruolandomi nell’esercito. A quei tempi c’era la guerra d’Indocina, e io firmai per tre anni.

Ma lei non era contrario all’ordine e alla gerarchia? Certo, ma sono cose che capitano. A un certo punto ci ho creduto. Ho avuto anche una crisi mistica e durante le prime settimane in divisa mi sono messo a credere in Dio. Scrivevo lettere deliranti a Parigi. Certo, se mi fossi consigliato con Bazin, che stava ancora in sanatorio, lui mi avrebbe dissuaso o quantomeno mi avrebbe fatto riflettere, ma quello è il genere di cose che si fa senza dir niente a nessuno. Come è logico, non ho tardato a pentirmene. Dopo quindici giorni mi hanno dato una licenza: una licenza a Parigi con i soldi del primo salario! A Parigi ritrovai la ragazza per la quale ero partito e spesi tutto con lei. Poi mi dissi che ero un pazzo e non avevo nessuna voglia di ripartire. E così disertai. Fu proprio un brutto momento per me: non avevo abiti civili, era agosto e la gente se ne andava in vacanza. Cominciai a vivere qui e là finché un giorno non incontrai Chris Marker e gli raccontai tutti i miei guai. Bazin era a Parigi, ma non avevo 17


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il coraggio di vederlo; allora Chris Marker chiamò Resnais, che a sua volta chiamò Bazin, e lui alla fine riuscì a convincermi che dovevo presentarmi alle autorità militari. Ho passato un periodo nella prigione della caserma di Dupleix. È stato un momento molto duro. C’erano tutti i disertori della guerra di Corea. Il regime era spaventoso; con quel caldo d’agosto, stavamo in diciotto in una cella da quattro a pisciare in un barattolo da conserva, senza poter mai uscire. Veramente un inferno. Poi Bazin riuscì a farmi mandare in un ospedale militare. Otto giorni dopo mi dissero: «Visto che si è offerto volontario, abbiamo fiducia in lei, partirà per la Germania.» Ovviamente non partii per la Germania. Ormai ero deciso, volevo procurarmi un certificato medico qualsiasi, ma il giorno che stavo andando a trovare un aspirante medico di cui avevo l’indirizzo mi arrestarono. Quella volta mi punirono veramente: spedito in Germania ammanettato, con un treno regolare. Ricordo che erano gli anni dei «Cahiers» e io lo lessi in treno, mentre tutti quelli che passavano si fermavano a guardare quella specie di soldato in manette. Arrivai nella caserma che avevo lasciato due mesi prima e là, su due piedi, tosatura e prigione! Poi ci fu l’ospedale psichiatrico, con i pazzi veri, quelli ai quali il servizio militare fa dar di matto. Un posto sinistro. Il mio amico Robert Lachenay attraversò tutta la Germania per venirmi a trovare, ma gli impedirono di entrare. Questo episodio mi ha ispirato una scena dei 400 coups, quella in cui René va a trovare il suo amico al riformatorio e i due possono vedersi solo da lontano, attraverso una porta a vetri. Tutto ciò è durato quattro mesi, poi, alla fine, mi hanno riformato per «instabilità caratteriale», grazie ancora una volta ad André Bazin.

Obiettivamente, come spiega questo periodo così difficile? Non lo so. Forse bisognerebbe parlare dell’influenza di Jean Genet che, senza saperlo, ha avuto un ruolo molto importante nella mia vita. È l’autore di un libro, forse il più incisivo sulla disobbedienza e la libertà, Le journal du voleur [Diario di un ladro]. Questo libro l’ho rubato, giustamente, un giorno del 1948, tre mesi dopo aver deciso di arruolarmi. È possibile che abbia influenzato la mia scelta di disertare... ed è anche probabile che abbia contribuito a sviluppare in me il gusto dei diari, delle cronache. Sotto le armi tenevo un diario e mi ricordo benissimo che, dopo la diserzione e l’arresto, riuscii a tenere con me una sola cosa, un libro di piccolo formato, facile da nascondere. Era Isabelle di Gide. Ed è appunto sui margini di Isabelle che ho continuato, giorno dopo giorno, a scrivere note a matita – di nascosto ovviamente... finché André Bazin non venne in mio aiuto.

E una volta tornato a Parigi che cosa fece? André Bazin mi fece lavorare alla sezione cinema del Ministero dell’agricoltura. All’inizio abitavo con lui e sua moglie a Bry-sur-Marne. Avevano un bambino di tre anni e io, dopo tanto tempo, potei condurre quella vita familiare che mi era 18


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tanto mancata. Bazin allora dirigeva i «Cahiers du cinéma», di cui erano usciti solo una ventina di numeri e sul quale scrivevano i miei vecchi amici della Cinémathèque: Jean-Luc Godard, Jacques Rivette, Eric Rohmer e a volte Alexandre Astruc, che girava i suoi primi film: Le rideau cramoisi [La tenda scarlatta] e Les mauvaises rencontres. Il mio passaggio nell’esercito mi aveva disgustato del cinema. Da quando avevo dodici anni avevo annotato su un taccuino tutti i film visti, in ordine alfabetico, mettendo delle croci accanto a quelli visti più volte. Avevo visto dieci volte film come La règle du jeu, Le roman d’un tricheur [Il romanzo di un baro], Le corbeau. Sotto le armi avevo calcolato di aver visto quasi duemila film in sei o sette anni e di aver quindi perso quattromila ore di lettura. Ero disgustato di me stesso; pensai che non potevo neanche considerarmi un autodidatta, perché un autodidatta si coltiva da solo e io invece non avevo imparato niente.

Come è nata la sua passione per la letteratura e i libri? È di famiglia. Mia nonna materna, che mi ha allevato nella prima infanzia, amava molto i libri. A quei tempi passavo molto tempo in rue Laffitte, da un libraio dove lei acquistava e prendeva in prestito libri. Avevo sei o sette anni, era subito prima della guerra. Qualche anno fa, in un momento di nostalgia, sono tornato in rue Laffitte, ma la libreria era scomparsa. Mia nonna aveva scritto un libro sul bigottismo che non ha mai osato pubblicare per ragioni di famiglia. È lei che ha cominciato a leggermi dei libri e a insegnarmi a leggere. Ero troppo malato per frequentare la scuola materna. In seguito, ho vissuto con mia madre che non sopportava i rumori e m’impediva di muovermi e parlare per ore e ore. Allora io leggevo: era la sola occupazione a cui potessi dedicarmi senza disturbarla. Durante l’occupazione tedesca ho letto moltissimo e poiché stavo spesso solo, mi misi a leggere i libri degli adulti, quelli che leggeva mia madre. Arrivato a tredici o quattordici anni comprai, a cinquanta centesimi al pezzo, quattrocentocinquanta volumetti grigiastri, Les Classiques Fayard, e mi misi a leggerli in ordine alfabetico, cominciando da A (Aristofane) per finire alla V (Voltaire), senza saltare un titolo, un volume, una pagina. Mi colpì molto Daudet (Jack, Les contes du lundi [I racconti del lunedì], Le Nabab [Il Nababbo]), ma la grande rivelazione fu Balzac, e non è un caso se il bambino dei 400 coups gli erige un altarino. L’opera che preferivo era La peau de chagrin [La pelle di zigrino], per quella specie di follia che c’è dentro. Adesso mi piacciono di più Les lys dans la valleé, Les illusions perdues [Le illusioni perdute], Eugénie Grandet. Al ritorno dal militare non avevo più voglia di andare al cinema. Dovevo leggere!

Come tornò al cinema? Ritrovandomi nell’ambiente, a casa di Bazin. Ripresi ad andare al cinema 19


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perché lui scriveva sul cinema e si parlava di film. Un giorno gli dissi che forse avrei potuto scrivere qualcosa sul cinema; lui mi disse di provarci e io scrissi i miei primi articoli sui «Cahiers du cinéma». Poi scrissi per «Arts», «La Parisienne», «Le temps de Paris». Ormai ero completamente riassorbito dal cinema. Lasciai i Bazin e presi una camera a Parigi.

Come riassumerebbe le tappe più importanti della sua formazione cinematografica? La prima tappa, che io chiamo terapeutica, è stata quella da cinefilo, dal 1942 al 1950: il cinema mi aiutava a vivere e vedevo più volte gli stessi film. Le racconto un aneddoto. Una volta ero scappato di casa e non sapevo dove andare. Cominciai a vagabondare per la città. Passai a casa di un amico che poteva aiutarmi, ospitarmi. Niente da fare, non c’era. Allora scelsi il film che preferivo e che si dava proprio quel giorno, Le roman d’un tricheur, e lasciai un messaggio per il mio amico in cui dicevo che lo avrei aspettato al cinema Champollion. Ero passato da lui a mezzogiorno, alle due ero già allo Champollion ed ero deciso a rimanerci fino alle sette o alle otto di sera! Sarei rimasto là finché lui non mi avesse raggiunto. Era un posto in cui mi sentivo al sicuro. Possono dirmi ciò che vogliono di Guitry, ma quel giorno Guitry fu un amico presso il quale avevo trovato rifugio! Dopo questa tappa da cinefilo ci fu la crisi del 1949-50. Più tardi ritrovai i miei amici Rivette, Godard e gli altri. E quella è stata la tappa degli articoli sui «Cahiers» e su «Arts», una tappa chiaramente più intellettuale, perché si trattava di riflettere sui film, di commentarli. Insomma, di scrivere! Non si trattava di ubriacarsi di immagini, ma di analizzare a fondo la sceneggiatura. È stata una tappa eccezionalmente importante. Ho cominciato a chiedermi perché i film non erano interessanti, perché la prima parte era buona mentre la seconda se ne andava per conto suo. Cose così. Per la prima volta, invece di dire: «È bello. È brutto», provavo a immaginare “in che modo” avrebbe potuto essere bello e “perché” era brutto. È stato il caso dei pezzi per i «Cahiers», ma ancora di più per quelli di «Arts», dove bisognava fare il riassunto della trama, e questo aiutava a capire in che modo era stato fatto il film, in che modo era costruito... Quello è stato un periodo veramente positivo.

Il suo breve passaggio al Ministero dell’agricoltura avvenne solo per motivi “alimentari”? Sì, ma c’era comunque una cineteca importante. Per prima cosa, là ho imparato a proiettare un film, perché c’era un proiettore a 16 mm, e siccome non avevo molto lavoro – dovevo solo attaccare etichette sulle scatole – passai e ripassai tutti i film che mi piacevano. Non ce n’erano molti, a dire il vero: il cortometraggio di Prévert su Aubervilliers, un piccolo film poetico di Kirsanoff, Brume d’automne e altri film del genere che non avevano niente a che vedere con 20


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l’agricoltura, tipo L’opération du sabot de cheval e simili. Diciamo che il ministero avrebbe potuto essere una tappa importante se il tizio che stava lì avesse accettato di prendermi come assistente per i film agricoli... Comunque non ci sono rimasto a lungo. Tutto questo e precedente ai «Cahiers» e a «Arts».

Si era fatto molti nemici a quell’epoca? Sì... un buon numero... ma anche molti amici. Oggi mi rendo conto che avevo una reputazione di demolitore – qualcuno mi ha anche chiamato «il becchino del cinema francese» – ma è perché ci si ricorda più delle stroncature che degli elogi. Quando un film mi piaceva lo difendevo energicamente. Ho anche scritto quattro o cinque articoli su Viaggio in Italia, Un condamné à mort s’est échappé [Un condannato a morte è fuggito] e Lola Montès [Lola Montez]. L’anno in cui uscì Et Dieu créa la femme [Piace a troppi], che ho amato molto, la stampa aveva talmente attaccato Brigitte Bardot che lei mi scrisse una lettera per ringraziarmi di essere stato l’unico ad averla difesa!

Quando ha cominciato a pensare di girare un film? Credo sia stato nel momento in cui conobbi Rossellini, nel 1951. Noi dei «Cahiers» lo difendevamo con ardore e io l’ho anche un po’ aiutato contro un distributore parigino che aveva pesantemente manipolato il suo Viaggio in Italia. Fu allora che Rossellini mi propose di lavorare con lui come assistente e come amico. Aveva l’abitudine di improvvisare e siccome si cominciava a diffidare di lui, mi chiese di scrivergli alcuni trattamenti. Ho anche scritto una Carmen, assolutamente fedele a Mérimée, che non è mai stata girata. Nei due anni in cui sono stato suo assistente, Rossellini mi ha insegnato tantissimo. Mi ha ridimensionato sul cinema americano che lui odiava e mi ha insegnato il gusto della semplicità, della chiarezza, della logica. Siamo ancora grandi amici e la mia ammirazione per lui non si è mai spenta. Fu a quel tempo che ai «Cahiers» cominciammo a muoverci. Molto colpito da un fatto di cronaca, scrissi una sceneggiatura per un lungometraggio, A bout de souffle [Fino all’ultimo respiro], che proposi invano a un attore allora in voga, Philippe Lemaire. Più tardi tentai di girare il film con Gérard Blain cui il soggetto piaceva molto, poi Édouard Molinaro per poco non lo scelse come suo primo film, infine cedetti la sceneggiatura a Godard, che non ebbe nessun problema a imporla due mesi dopo l’uscita dei 400 coups.

Quali erano i rapporti con i suoi genitori al tempo dei 400 coups? I miei divorziarono dopo l’uscita del film. Non credo che l’abbiano visto, qualcuno deve averli sconsigliati; c’era una grande somiglianza fisica tra mio padre e 21


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l’uomo che interpretava il suo ruolo nel film. Lo stesso vale per l’appartamento in cui avevamo girato, che era situato nello stesso quartiere dove ero cresciuto. I miei genitori sentirono il film come una grande ingiustizia, soprattutto perché fu premiato a Cannes. È chiaro che divenni oggetto di molta attenzione e solo ora mi rendo conto di quanto fosse difficile la loro posizione. Provai una grande amarezza. Si potrebbe dire che nel film si dice tutto quello che noi non ci eravamo mai detto prima.

Non ha mai pensato di fare qualcosa di diverso dal regista? Lo scrittore, per esempio? Lo scrittore, forse, verso gli undici anni. Negli anni 1942-43, quando leggevo Zola, forse in quel momento l’ho pensato, ma in seguito, a partire dai film americani del 1946 ero regista. Ho amato il cinema veramente come un pazzo. L’amavo a tal punto che, per esempio, rifiutavo di andare a teatro solo perché era teatro. Adesso, prima di girare un film, mi fa piacere andare a teatro per veder recitare gli attori... Qualche anno fa ero proprio un fanatico.

Adesso quante volte va al cinema durante la settimana? Tre, quattro, molto meno di prima.

E prima? Ci sono stati periodi in cui vedevo dodici film alla settimana. Ho delle agende, all’incirca del 1949, che sono piene, piene zeppe di titoli.

Non pensa che l’aver passato metà della sua vita in sale buie le abbia fatto perdere qualcosa? Se il cinema finisse, io sarei spacciato. Non potrei fare niente, sarei come un infermo. La mia è una specializzazione pura, non ho mai la sensazione di stare nel cinema per caso. Invece nella vita mi sono sentito spesso a disagio, come giornalista, perché non avendo studiato ritenevo di non avere il diritto di scrivere o temevo di scrivere male. La gente può amare o non amare i miei film, ma non può contestare il fatto che io sia un cineasta. Voglio dire, insomma, che non c’è stata impostura da parte mia, non mi sono sbagliato sulla mia vocazione. Negli anni 1958-60 il timore di essere un impostore mi ha tormentato spesso, poi il tempo e le reazioni del pubblico a poco a poco l’hanno fatto svanire (il che non vuol dire che io non abbia altre inquietudini...). Adesso, quando un film mi sembra finito, pronto per essere presentato, io mi impedisco di tornarci su, passo a quello successivo. C’è sempre un film nuovo che aspetta. 22


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