Falstaff Brand Magazine

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COLOR RUN UNA GARA A COLORI

PEARL JAM LAVORARE INSIEME È UN PIACERE

PHARRELL WILLIAMS 24 ORE DI FELICITÀ

STATI UNITI COAST TO COAST TRE AMICI E UN VIAGGIO SOGNATO DA SEMPRE

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Redazione Giulia Beretta Fabio Bartolomei Greta Bassanese Marino Campana Alessandro Asaro 4

Distribuzione Politecnico via Durando, 10 20158 Milano


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EDITORIALE Ease nasce dalla volontĂ di condividere il nostro modo di vedere la vita. Ci accontentiamo di poco ma sognamo in grande. Ci basta un incontro con un amico che non vedevamo da tempo, un momento di leggerezza, per rendere la nostra giornata indimenticabile. Ci nutriamo di passioni. Crediamo nella vita vissuta a pieno, siamo assetati di tempo e di attimi fuggenti. Se date questo per assodato, se questi sono i dogmi della vostra vita, allora benvenuti nella nostra rivista.

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12. PEARL JAM LAVORARE IN GRUPPO È UN PIACERE

20. CHICAGO BULLS UNA SQUADRA VINCENTE

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28. STATI UNITI COAST TO COAST TRE AMICI E UN VIAGGIO SOGNATO DA SEMPRE


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44. COSA C’ È DIETRO L’ AMORE AMERICANO PER IL BARBECUE PERCHÈ SIAMO LEGATI A QUESTA TRADIZIONE?

51. I VERI AMICI DI FACEBOOK?

DUE CHIACCHIERE CON L’ANTROPOLOGO ROBIN DUNBAR

54. PHARRELL WILLIAMS

IL PRIMO VIDEO MUSICALE DI 24 ORE

60. COLOR RUN

LIFESTYLE

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UNA CORSA VERSO LA FELICITÀ

66. LITTLE MISS SUNSHINE 68. HOW I MET YOUR MOTHER

CULTURE 9


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Pearl Jam Incontriamo la band che è pronta a ripartire con un nuovo cd. Perchè quando si è un gruppo lavorare insieme è un piacere. Di Jacqui Swift

«Ogni volta che fai un nuovo disco è come ricaricare il fucile», dice Eddie Vedder. «È come stare dinanzi ad una lavagna pulita. I dischi sono come i figli, ognuno ha la sua personalità. Sono sempre diversi anche se i genitori sono gli stessi. E i genitori fanno il possibile per farli venire su bene» Eddie sta parlando del decimo album dei Pearl Jam, Lightining Bolt, che è una conferma del livello raggiunto dalla band nel campo del rock. Quattro anni dopo Backspacer, Lightining Bolt ha consentito alla band di arrivare al primo posto della classifica di Billboard negli Usa e al secondo nel Regno Unito superando Sir Paul McCartney e raggiungendo la posizione più alta nella hit parade dopo quella di Vs, l’album del 1993. Nell’unica intervista rilasciata ad un giornale britannico, Vedder appare pen13


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soso. «L’album n. 10!», commenta con un lungo sospiro. «Cosa abbiamo imparato? In che modo siamo cambiati? Ce la stiamo prendendo comoda di questi tempi”, dice ridendo. «Non facciamo molte prove e quando ci esibiamo in pubblico, lo facciamo solo per grossi concerti. In questo senso siamo veramente cambiati». In che misura influisce su di voi sapere che quando lavorate ad un disco, i pezzi verranno ascoltati da milioni di persone? «Bella domanda», risponde Vedder. «Bisogna proteggere l’anima di una canzone. Non ci si deve fare influenzare da considerazioni come questa. Quando si scrive un pezzo non è necessario pensare alle radio commerciali perché il solo pensarci sciupa la purezza del brano. Qualche volta viene fuori una canzone che non è di facile ascolto. Suonarla è bello ed è una sfida, ascoltarla è più difficile. Mentre la scrivi sai benissimo che quel pezzo verrà suonato solamente due o tre volte durante

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il tour. Quando componi non devi mai pensare che vuoi scrivere una canzone che verrà suonata più spesso perché in questo modo corri il rischio della semplificazione». Lightning Bolt è un album nel quale i Pearl Jam in un certo senso si interrogano, si fanno delle domande. «Quando compongo, quando scrivo i testi cerco sempre di trovare le risposte agli stessi misteri», risponde Vedder. «Sono gli stessi misteri che ci tormentano da decenni. A volte ci interroghiamo sulla nostra esistenza, sullo scopo della vita e su cosa ci riserva il futuro». Nel nuovo singolo Sirens Vedder canta: «Oh, che cosa fragile questa vita che viviamo; se penso troppo non ce la faccio». E nella canzone che apre l’album, Getaway, il testo recita: «Ho trovato il mio posto e va bene. Ho trovato il mio modo per credere». Battaglia impari. Vedder, papà di due bambine, spiega: «Quando diventi padre ti preoccupi di più. A me è successo. Questo sarà


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il loro mondo e che futuro le aspetta? Non ci sono abbastanza persone che difendono la natura. Le risorse del pianeta sono limitate. La gente sfrutta e spreca le risorse del pianeta senza alcun controllo e tra le multinazionali e la natura la battaglia è impari. Tutto il potere è dalla parte delle multinazionali. Possono fare quello che vogliono. Non le ferma nessuno. Possiamo solamente rallentare la discesa verso il baratro. La scienza ci dice che entro i prossimi 50 anni, se non staremo attenti, finiremo per perdere molte cose”.

mendamente intensa. Ti senti i nervi a fior di pelle. I sensi sono estremamente vigili. È stupendo, ma sei solo e sai che è anche pericoloso. Quella canzone è stata partorita dalla notte e ascoltandola si ha proprio la sensazione di correre nel fitto di un bosco e poi di spuntare in una radura, all’aperto. Uscire in mare per me è una forma di liberazione. Oggi è ancor più bello perché puoi surfare con le cuffie e con la musica tutto diventa più bello. L’acqua e il surfing fanno lo stesso effetto della meditazione. Quando cavalchi un’onda devi essere concentrato al massimo e pensare solo a quello che stai facendo».

Con il brano Mind Your Manners, Vedder affronta il tema dell’ipocrisia delle I Pearl Jam religioni organizzate. «Non Vedder è il leader, ma tollero la loro intolleranza», i Pearl Jam (il chitarrista sono una band spiega con decisione. «Solo Stone Grossard, il bassista in questo sono intollerante. Jeff Ament, il chitarrista di amici e Mike McCready e il batteDetesto il loro ricatto “o con un gruppo molto rista noi o all’inferno”. Per capire Matt Cameron) sono quanto sono ipocriti basta una band di amici e un democratico guardare alcune delle belle gruppo molto democraticose che hanno partorito co. «Questo album è frutto della nostra collaborazione. come gli abusi sessuali nei confronti dei minori e i loro Tutti noi del gruppo e il nopatetici tentativi di insabstro produttore Brendan biare gli scandali. Non ho mai visto in vita O’Brien stiamo sulla stessa barca», dice mia una forma così vigliacca di ipocrisia». Eddie. «Eravamo tutti un po’ sconcertati e non sapevamo cosa sarebbe venuto fuori Nell’album trova posto anche Swallowed fin quando abbiamo cominciato a mixare i Whole, una canzone scritta da Vedder, ap- pezzi. Abbiamo lavorato in due sale diverpassionato di surfing, una sera che si era se e non potevamo essere certi del risultato. uscito in mare con la tavola. «C’era la luna Quindi in un certo senso non ci sono state decisioni difficili o contrastate. Nessuno ha piena e non avevo mai visto l’oceano così calmo», ricorda. «Mi sentivo lontano dal avuto motivo di protestare. Eravamo tutti mondo, era mezzanotte e dovevo fare qual- molto rilassati. Le cose migliori vengono cosa. Così sono uscito in mare con la tavola fuori quando senti che quello che stai fae ho pagaiato per due ore per raggiungere le cendo è importante e che sei disposto a batterti per ottenere il risultato che ti aspetti». onde. Le onde si infrangono a circa mezzo chilometro dalla costa e a mano a mano che ti avvicini diventano sempre più enormi Tutti i membri della band in questi ultimi e il rumore diventa minaccioso, spavento- anni si sono presi la libertà di realizzare so. Dalla riva non riesci mai a capire quan- progetti al di fuori del loro gruppo. Vedto sono grandi. È stata una esperienza tre- der l’estate scorsa ha fatto il primo tour 15


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da solo in Gran Bretagna. «Una certa attività da solista contribuisce e rendere professionalmente più longevi», dice il frontman. «È un po’ come un matrimonio aperto che fa bene a tutti. In parte ho accettato di fare dei concerti da solista per migliorarmi professionalmente riversando poi le mie esperienze nella band» I Pearl Jam non sapevano proprio cosa fosse la fama quando debuttarono nel 1991 con il primo album Ten che vendette 12 milioni di copie. Per loro al primo posto c’è sempre stata l’integrità e non sono mai stati disposti ai compromessi. «Per noi contano solo la musica e i fan», dice Vedder. «È per questo che siamo ancora qui, siamo felici e produciamo album. Ricordo benissimo che effetto faceva quando sapevamo che stava per uscire un nuovo album degli Who. Mi auguro che il nostro pubblico provi la stessa emozione con i Pearl Jam. Ho incontrato molti giganti della musica e siamo diventati amici. Sono grato della loro amicizia e dell’appoggio che mi hanno dato. Dopo quanto accadde a Roskilde (il Festival del 2000 in Danimarca quan16

do morirono nove fan dei Pearl Jam, Ndt), amici come Roger Daltrey mi sono stati vicini in un momento in cui non avevo nessuno a cui rivolgermi. Noi della band ci siamo sostenuti gli uni con gli altri, ma eravamo distrutti. L’appoggio di certe persone ha voluto dire molto per me. Provo una estrema gratitudine per tutti loro». La tempesta nello stadio. Nel luglio scorso siamo stati ospiti speciali dell’evento Una serata con i Pearl Jam al Wrigley Field, lo stadio dove giocano i Chicago Cubs, la squadra di baseball per cui Vedder fa il tifo. A metà del concerto sia la band che gli spettatori sono stati costretti a trovare un riparo a causa di un vero e proprio nubifragio con lampi e tuoni, un battesimo quanto mai adatto per un album che si intitola Lightining Bolt (fulmine). Il concerto è stato sospeso per due ore. E quando i Pearl Jam sono tornati sul palco hanno suonato in maniera magica. «Di quella sera non ricordo un accidenti perché ero troppo stressato», ride Vedder. «Ci avevano avvertito che poteva scoppiare un temporale ed eravamo tutti un po’


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tesi. Speravamo solo che nessuno si facesse male e per fortuna così è stato. Poi siamo tornati sul palco, ma non ricordo cosa abbiamo suonato. Qualcuno non molto tempo fa mi ha mostrato la lista dei pezzi eseguiti e io ho detto: “Non ricordo affatto di aver suonato queste canzoni”. Dovevo essere pieno di adrenalina. Mi hanno anche detto che mi sono tuffato sul palco. Mi fa piacere sapere che è stata una cosa memorabile, quanto meno per il pubblico». E il futuro cos’è per Eddie Vedder? «Nel mondo in cui viviamo con tutti i social media che ci sono, sembriamo sempre alla caccia

di qualcosa che non ha niente a che vedere con il presente. E quando finalmente arriviamo dove volevamo arrivare, non possiamo nemmeno gioirne perché dobbiamo metterci immediatamente in movimento per raggiungere un altro posto. Mi ricorda la storiella di un uomo anziano che andava spesso in una libreria e ne usciva con venti libri. Voleva soltanto provare a credere che avrebbe avuto il tempo di leggerli. Non so quanto possiamo spingere il nostro sguardo nel futuro. Godiamoci il presente che per i Pearl Jam non è niente male».

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Chicago Bulls, una squadra vincente. Quando Derrick Rose si è infortunato, è stato facile pensare che la squadra, senza la presenza di un leader di questo calibro, avrebbe mollato. Ma i Chicago Bulls hanno saputo smentire ogni previsione, dimostrando di essere una forte squadra.

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Per i Chicago Bulls sarebbe facile inventarsi delle scuse per non giocare in un modo accettabile in questo periodo. Dopo tutto, stanno giocando da molto tempo senza Derrick Rose, leader della squadra e incontrastato MVP della lega, infortunato a causa di una lesione all’inguine. A questo punto, durante questa densa stagione di 66 partite, i Bulls hanno all’attivo meno di 10 partite perse, e più di ogni altra squadra hanno guadagnato il diritto di gettare la spugna in alcune partite durante il periodo più tosto della stagione. E anzi, se l’annientamento 85-59 degli Orlando Magic nello stadio di que-

sti ultimi ne può essere un’ indicazione, Chicago sta cogliendo qualsiasi occasione non solo per sopravvivere al gioco ma anche per uscirne ancora più forte durante l’assenza della sua star infortunata. Il punto debole di Chicago, almeno nel passato, è il fatto di avere all’ interno della squadra un “one man show”, una grande tenacia e una feroce difesa non sono mai state abbastanza per far in modo che la squadra si distinguesse offensivamente tra le altre contendenti della lega aldilà degli occasionali momenti in cui accadeva “qualcosa di magico” grazie a Derrick Rose. Ad ogni modo, contro Orlando, i Bulls

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hanno dimostrato di aver superato questa criticità con interruzioni precise, buoni movimenti di palla, e l’aiuto di qualche improbabile contributo. Certo, ci sono stati solo tre giocatori che hanno segnato un numero di punti a due cifre, ma sarebbe da stupidi non notare, guardandoli rubare quelle azioni a gente del calibro di Dwignt Howard, come siano riusciti a diventare una macchina dai movimenti fluidi e compatti, anche senza Rose. Se questo recente periodo dei Bulls sopravviverà così a kung da non essere più definibile come colpo di fortuna e sarà in grado di garantire una certa durata, questa stagione potrebbe sorprendere le squadre avversarie a guardare i playoff dal loro salotto. Se i Bulls continueranno a gran velocità a trovare modi per mantenersi mentre Rose recupera, i benefici si estenderanno

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ben oltre gli ovvi vantaggi immediati. Con i playoff proprio dietro l’angolo, i Bulls stanno sviluppando la fiducia che sono più di un paio di schemi “pick-and-rolls”, che possano riuscirci anche senza le capacità trascendentali del loro fenomeno “maestro della palla”. In breve, l’infortunio di Rose potrebbe rivelarsi una benedizione sotto mentite spoglie. Costretti a imparare a giocare senza Rose, gli altri giocatori hanno guadagnato la fiducia nella propria capacità di vincere. I Bulls sarà senza dubbio saranno una squadra ancora più pericolosa una volta che il loro leader ventitreenne li raggiungerà sul campo.


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TAPPA 10 Las Vegas e Grand Canyon

TAPPA 8 Riserva Navajo TAPPA 6 Amarillo

TAPPA 13 San Francisco

TAPPA 12 Los Angeles

TAPPA 11 Santa Barbara

TAPPA 9 Monument Valley TAPPA 7 Santa Fe

Stati Uniti coast to coast

Tre amici, un viaggio sognato da sempre, 8500 km e 23 giorni trascorsi insieme alla scoperta di un continente. 26


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TAPPA 3 Chicago TAPPA 2 Niagara Falls

TAPPA 1 New York

TAPPA 4 St. Louis

TAPPA 5 Oklahoma City

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3 Agosto / New York City. Arrivati in aereoporto a Newark, prendiamo il primo taxi della nostra breve sosta a New York. Circa 45 minuti di tempo per imboccare il Lincoln Tunnel e fare un tuffo a Hollywood ricordando il film Daylight di Stallone. Mi soffermo sul tragitto percorso dal taxista, perché l’impatto con la Big Apple è stato a dir poco entusiasmante: attraversavamo i viali e mi sembrava di essere a casa… conoscevo tutto grazie ai mille film che ho visto da 33 anni a questa parte. Broodway, l’Empire State Building, Time Square e così via i miei occhi cercavano, quei luoghi sognati da anni. Arriviamo finalmente in Hotel dove decine di Corsiege ti ruotavano intorno e ahimè le mance si sprecavano. Accendo la TV e cosa becco? La partita di baseball dei NY Yankee: sono proprio a New York! Nei tre giorni che seguirono, abbiamo girato Manhattan in taxi o con il pulmann cabrio

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Certainly, travel is more than the seeing of sights; it is a change that goes on, deep and permanent, in the ideas of living Mary Ritter Beard


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fermandoci sulle tappe turistiche imperdibili: Central Park, Time Square e Rockfeller Center: da lassù, nonostante il tempo un po’ fosco, il panorama era mozzafiato. Una vista a 360° sulla splendida New York. 6 Agosto / Iniziamo a viaggiare. Noleggiamo la macchina alla Hertz, un Ford Explorer 4x4 e partiamo direzione Buffalo, Cascate del Niagara. Però, prima di lasciare New York, l’ultimo brivido: attraversare il Brooklin Bridge. La farò poco lunga, ci siamo persi per i vari quartieri di NY e dalle 10, dopo aver imboccato strade che conducevano ad altri ponti, solo alle 13, abbiamo finalmente cavalcato il ponte. Ne valeva la pena. Alle 20 circa, stanchi morti, raggiungiamo Buffalo, ci fermiamo al Motel Sleep Inn (uno dei più bei Motel del nostro viaggio), mangiamo un boccone in un ristorante

simile a Alfredo’s (il ristorante di Happy Days) e andiamo a nanna. 7 Agosto / Niagara Falls. Visitiamo le cascate del Niagara dal versante Statunitense visto che la nostra auto non era abilitata per l’espatrio in Canada. A mano a mano che ci avvicinavamo al punto di osservazione, il rumore si faceva via via più assordante e una leggera nebbiolina accarezzava i nostri volti. E poi… uno spettacolo. Ammiriamo per una mezz’oretta la forza della natura e di nuovo in sella direzione Chicago. Ore 21, è notte e per evitare spiacevoli inconvenienti raggiungiamo il centro di Chicago e alloggiamo all’Hotel “non ricordo il nome”. Ventesimo piano, suite da favola (la seconda licenza concessaci) con un panorama notturno suggestivo sui grattaceli di Chicago…peccato che ero con due uomini.

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8 Agosto / Chicago. Dopo aver visto il lago Mitchigan, saliamo a bordo di un pulmann turistico scoperto che ci fa visitare sotto un sole tanto splendido quanto scottante, i punti salienti della città del Blues. 9 Agosto / Di nuovo in viaggio. Partiamo da Chicago e la nostra tabella di marcia ci obbliga ad essere a Santa Fe, nel New Mexico al massimo fra due giorni. Quindi dopo aver trascorso il 9 sera a St. Louis sul Missouri e il 10 sera a Oklahoma City, dove abbiamo assistito ad una partita di Baseball, (n.d.r. due tirate micidiali con la macchina, praticamente due giorni in auto) l’11 mattina lasciamo lo stato dell’Oklahoma.

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11 Agosto / Texas. La meta era Santa Fe, ma non abbiamo considerato il fascino del Texas. Così, strappo alla regola, ci fermiamo lungo la strada (Route 66 o meglio, la nuova Route 66 parallela alla vecchia, ma formata dall’unione di strade a 4 - 6 corsie) in un piccolo paesino… Amarillo. Sosta pranzo, ma l’ambiente era così western, che abbiamo deciso di trascorrere una notte, e che notte! Ci facciamo consigliare da una cameriera e la sera andiamo in un locale dove ballavano la lap dance. Donne stupende che ballano sui cubi e come ci insegnano i film, con 1 dollaro negli slip mostrano i loro “lati migliori”! 12 Agosto / Santa Fe. Lasciamo il Texas ed entriamo nel New Mexico. Raggiungiamo la capitale nel tardo pomeriggio, e giriamo a piedi visitando le decine e decine di negozi che espongono artigianato locale a costi proibitivi. Città pulita, ordinata ma troppo turistica per me che credevo di tuffarmi in un angolo di Messico e riassaporare un vacanza fatta tre anni prima. Niente di tutto ciò. 13 Agosto / Kayenta, Monument Valley. Il verde degli stati orientali è ormai un miraggio. Il terreno si colora sempre più di rosso regalandoci panorami suggestivi. Ci caliamo nell’atmosfera Far Westiana (abbiamo comprato anche tre cappelli da Cow boys), abbandoniamo le strade statali per imboccare strade secondarie che ci portano nel cuore della riserva Navajo nello stato dello Utah. Raggiungiamo Kayenta verso le 18, il tempo per prenotare uno dei pochi motel presenti e ci dirigiamo subito all’interno della Monument Valley. Abbiamo dovuto fare un po’ di corsa poiché il parco chiudeva alle 19. Meritava di essere vista a cavallo, ma un mal di schie32


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na dovuto alle ore di macchina, me lo hanno impedito. Dai vari punti di osservazione, si possono ammirare stupende sculture naturali e, dicendocela tutta, una lacrima di commozione l’ho regalata. Per farvi capire quanto mi hanno colpito, il giorno dopo, 14 agosto (giorno del mio compleanno), prima di partire per Las Vegas, ho voluto rivisitare tutta la vallata ammirandola alla luce di un sole splendente che ci regalava, colori vivi come l’emozione che percorreva tutto il mio corpo. 14 Agosto / Las Vegas. Con Paperon dè Paperoni del gruppo alla guida, entusiasta di buttarsi sui tavoli da gioco, raggiungere Las Vegas, è stata quasi una passeggiata. Tranne qualche piccolo intoppo -tipo una grandinata spaventosa in Arizona che oltre a bloccare il traffico ha bozzato tutta la macchina e una multa da 200$ presa da me per aver superato il limite di velocità di oltre 20mph- entrare nello stato del Nevada ci sono volute si e no quattro ore. Las Vegas la descriverei così: un grande Luna Park per adulti, fatto di luci dai mille colori, dove il tintinnio delle slot machine si sentono anche passeggiando per strada 34


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e donne tante donne da non sapere chi sono le turiste e chi le “professioniste”. 16 Agosto / Grand Canyon. Da Las Vegas al Grand Canyon sono quattro ore di auto. Ammirare l’infinito è stato suggestivo ed emozionante, anche se in maniera diversa, come la Monument Valley. La natura ci ha regalato pareti a picco nel nulla dimostrandoci tutta la sua immensità. Un’ora di passeggiata per goderci lo spettacolo da varie angolazioni, la rinuncia a fare rafting sul Colorado e poi via, di nuovo, verso il paese dei balocchi. Nel buio della notte, a 100Km circa di distanza, un bagliore colore rosso illuminava l’orizzonte… era Las Vegas! 36

17 Agosto / Santa Barbara. Elena, una mia amica spagnola che studia a San Francisco, mi invita a trascorrere il week end a Santa Barbara. Felicissima idea! Raggiungiamo la costa del Pacifico e ci infiliamo in questo strano paese dai due volti: Rimini il venerdì e il sabato, il nulla la domenica. Sabato sera era pieno di giovani, per entrare nei pub bisognava fare code pazzesche e mostrare rigorosamente la ID card (il documento di identità). Fino all’una di notte si possono bere alcolici, all’una e trenta chiudono tutti i locali e poi…? Chiediamo al primo che incontriamo dove possiamo trascorrere il resto della notte e lui gentilmente ci accompagna nella villa di qualcuno che non conosciamo, per partecipare ad una festa privata.


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Ad accoglierci, un delfino fatto di ghiaccio all’ingresso, un buffet di lusso, un clima caloroso per noi italiani. Alle 6 della mattina, grazie di cuore e buona notte! Il giorno dopo passato in spiaggia guardando un torneo di beach volley femminile e goderci un sole pallido e non troppo caldo. 19 Agosto / Los Angeles. Lasciamo Santa Barbara alla buon ora percorrendo la Pacific Highway direzione sud per raggiungere le mitiche spiagge di Malibù qualche ora più tardi, dove una sosta pranzo, ci permette di osservare l’oceano Pacifico invaso da gabbiani, persone che fanno jogging e qualche surfista. Ripartiamo e scegliamo un motel a Santa Monica per la nostra tappa di due giorni a Los Angels. Non ho molto da raccontare su LA, a parte la solita visita sulla Hollywood blvd. dove cammini a testa bassa ammirando mattonelle a forma di stelle con incisi i nomi delle star dello spettacolo e impronte di mani o piedi degli stessi, un giro per Beverly Hills alla

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ricerca delle ville di attori, la visita alla scritta “hollywood” alta 15 mt. sulle colline e una visita agli Studios della Universal, dove un trenino ci ha fatto visitare i set dei più famosi film girati a Hollywood. 21 Agosto / San Francisco. Partiamo il 21 da LA e dopo circa 600 miglia, arriviamo a SF. Erano circa le 19 e quindi il tramonto, quando attraversiamo il Bay Bridge che ci conduce all’interno della splendida città. Il tramonto offre colori spettacolari sui grattaceli già illuminati a notte calando un velo di mistero sull’isoletta, apparentemente insignificante che dista 2 miglia dalla costa: Alcatraz. San Francisco mi ricorda molto Londra come stile di vita e come tipologia di abitanti: molti giovani alternativi e multietnica, vista la presenza della frequentatissima università di Barkley. Guidati da Elena, visitiamo Alcatraz (entusiasmante), il Gol-

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den Gate (il ponte rosso più fotografato al mondo) il parco delle sequoie e il piccolo ma splendido paesino, chiamato Sausalito, da dove si gode un’ottima vista della Baia; visitiamo anche Napa, dove distese di vigneti occupano l’entroterra californiano e dove piccole fattorie offrono degustazioni di vini locali gratuitamente o a poco prezzo. E poi mangiamo in cucine di ogni angolo del mondo e frequentiamo locali tipici di studenti universitari… un vero sballo. 26 Agosto / La Partenza. Arriva presto l’ora di partire, ma state sicuri che questo è il viaggio che non dimenticherò mai. Cinque videocassette di film, cinque rullini di diapositive, sette rullini di fotografie, testimoniano un sogno realizzato.

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Cosa c’è dietro l’amore americano per il barbecue? Persino George Washington non poteva rifiutare un buon barbecue. Perché siamo così legati a questa tradizione? di Felisa Rogers Come Yankee, non oserei glorificare la contenziosa storia del barbecue come piatto (meglio lasciarlo ai sudisti). Ma come fan della carne alla griglia e del giardino dietro casa, mi sento certamente qualificata a portare avanti l’altro uso della parola “barbecue”: la cucina all’aperto. Nella storia dell’uomo, cuocere gli animali su fuochi all’aperto era immediata tanto quanto il sesso e il combattimento. Ogni cultura ha una sua visione dell’attività - dall’asado argentino al tradizionale luau hawaiano. Molti rituali e tradizioni si sviluppano attorno al focolare, dall’antichità (nel passato gli hawaiani erano soliti arrostire un maiale come offerta per gli dei) fino ai giorni nostri (la famosa ricetta della salsa barbecue a base di birra di papà). La parola “barbecue” fu introdotta nelle colonie americane da Haiti ed originariamente si riferiva alla struttura della griglia e successivamente alla carne stessa. Dal 1733 prese il significato di un evento che raccoglieva numerose persone attorno al fuoco mentre si arrostivano animali. Dal 1931 gli americani del nord e dell’ovest avrebbero usato la parola per descrivere qualsiasi evento all’aperto che utilizzasse carne e carbone. Casualmente la parola “”asado” ha un simile doppio significato in Sud America, dove 43


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veniva usata per descrivere una tecnica di griglia e una funzione sociale.Al di là di qualsiasi interpretazione linguistica, gli americani furono entusiasti del barbecue fin dall’inizio. George Washington, un acuto osservatore, registrava sul suo diario tutti i barbecue che organizzava e ai quali era invitato. Per esempio il 4 agosto del 1769, George scriveva: “Ho cenato al Barbecue con gran parte della compagnia e sono rimasto lì fino al tramonto.” La mia preferita è un’altra registrazione, lunga solo una frase: “Sono andato da Alexandra per un Barbecue e ci sono rimasto tutta la notte”. Come nostro primo presidente, era anche responsabile del nostro primo barbecue presidenziale. Così come una cassa di birra era un importante elemento dei primi seggi americani, così il barbecue è stato a lungo utilizzato per convincere i votanti indecisi. Lyndon Johnson costruì la sua campagna politica attorno ai barbecue in stile texano, una variazione di una vecchia tradizione: nel diciannovesimo secolo maiali arrostiti e whisky erano elementi importanti per 44

le fazioni politiche - ci si può immaginare come un buon bicchiere di whisky e della carne grigliata potevano portare i votanti ad uno stato mentale più conviviale e rilassato. Nei primi barbecue si arrostivano tutte le parti di uno stesso animale, o a volte più di uno. Con il titolo “I mercanti del Midwest festeggeranno con un grosso barbecue”, nel 1917 un giornale del Nebraska chiamato “The Red Cloud Chief” pubblicò: “Il programma del cibo include una mucca, una pecora e due maiali che verranno grigliati. In più verranno aggiunti gli ingredienti necessari per rendere il pranzo gustoso e soddisfacente.” Non c’è bisogno di dire che i primi barbecue erano grandi eventi. Il piccolo barbecue nel giardino di casa diventò popolare solo molti anni dopo. Lo sviluppo della tecnologia di cottura contribuì a questo risultato: George Stephen Sr., un operaio del Weber Bros. Metal Spinning Co., inventò la griglia Weber nel 1951. La nuova griglia era molto economica e permetteva ai più inesperti di controllare la temperatura grazie a una manopola cir-


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Salsa BBQ dello zio Bill INGREDIENTI Gruppo 1 1/2 bicchiere di aceto 1 bicchiere di birra 4 cucchiai di zucchero 1 cucchiaio di pepe nero in grani 3 cucchiai di sale 1/2 cucchiaio di pepe rosa 1 limone, 4 fette 2 cipolle tagliate a fette 1/2 bicchiere di margarina Gruppo 2 1 bicchiere di ketchup 4 cucchiai di salsa Worcestershire 3 cucchiai di Liquid Smoke (opzionale)

PROCEDIMENTO Mischia e tieni sul fuoco gli ingredienti del gruppo 1 per 20 minuti. Aggiungi gli ingredienti del gruppo 2 e fai bollire per 15 minuti, senza coperchio, mentre ti bevi la birra che avanza.

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colare. I barbecue erano una bomba nella cultura suburbana degli anni Cinquanta, forse perché grigliare offriva una scusa per vantarsi di quella che era una borghese fissazione americana - il prato. O forse la spiegazione di questa istituzione è più semplice. Come James Beard annotò: “Mangiare all’aperto è uno dei più raffinati piaceri della vita. Non è solo l’immaginazione che rende il profumo e il sapore del cibo migliori sotto cieli blu o sotto le stelle. il fuoco sotto la griglia e la freschezza dell’aria aggiungono sapore a qualsiasi piatto, indipendentemente se servito in un patio, nel retro di casa, in un picnic o su una striscia di sabbia o erba su un lago, fiume o oceano.” La tradizione di grigliate all’aperto, che va dai nativi di Haiti ai prati della Casa Bianca, è legato al Memorial Day, una festa che nacque dai cuori degli americani. Sembra sdolcinato, ma è vero. Dozzine di città dichiarano di essere i creatori del Memorial Day perché dozzine di città crearono spontaneamente i loro giorni di ricordo per onorare i morti della Guerra Civile. Di conseguenza i militari si adattarono: nel gennaio del 1868 il Generale John Logan, comandante del Grande Esercito della Repubblica, dichiarò il giorno ufficiale del ricordo. Il primo Memorial Day nazionale, o Decoration Day com’era chiamato allora, fu celebrato al cimitero di Arlington, il 30 maggio dello stesso anno. Con gli anni, il giorno fu spostato per adattarsi ai bisogni degli americani. Dopo la Prima Guerra Mondiale, il dispiacere degli americani fece in modo che il Memorial Day si espandesse per onorare tutti i soldati caduti. Più di 100 anni dopo, il Cogresso dichiarò il Memorial Day una vacanza nazionale. Naturalmente un weekend di tre giorni alle porte dell’estate fece pensare subito al barbecue.


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Un’altra tradizione era nata. Non posso pensare al barbecue del Memorial Day senza pensare al mio amico Kevin. Un ragazzone con una barba da motociclista e il cuore da bambino, Kevin si può trovare spesso nel suo piccolo giardino davanti alla griglia. Egli ha tenuto a lungo custodita l’eredità del suo caro zio Bill: la ricetta segreta della salsa di Bill, che è passato a Kevin ed a lui soltanto.

dosi: fu premiato con la Stella Argento, si dedicò ai veterani e se ne occupò mentre passavano brutti momenti. Sebbene Bill fosse molto serio nell’aiutare i suoi compagni veterani, Kevin se lo ricorda anche come pecora nera della famiglia, un eccentrico burlone con un sano appetito per l’alcol. “Aveva un acuto senso dell’umorismo e poteva ucciderti con un sorriso. Non seguiva la solita routine della vita,” rimarca Kevin e mi racconta molte storie divertenti di quando bevevano insieme. Ma è veloce nel sottolineare: “Ha fatto qualsiasi cosa per assicurarsi che la sua famiglia fosse al sicuro, egli era il tipo di persona che avrebbe potuto rivolgersi al governatore di uno stato nello stesso modo in cui si sarebbe rivolto ad un senzatetto; entrambi se ne sarebbero andati sapendo

Mangiare all’aperto è uno dei più raffinati piaceri della vita.

Quando ho chiesto a Kevin se gradiva dividere il segreto con i nostri lettori ha esitato a lungo. “Soltanto se dici qualcosa della missione di Bill in Corea - era molto importante per lui.” Menzionare il servizio dello zio Bill in Corea è certamente appropriato parlando di Memorial Day. Bill non è morto in battaglia, ma ha servito il suo paese distinguen-

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che Bill teneva a loro come esseri umani.” Kevin è cresciuto con i cinque figli dello zio Bill e si ricorda profondamente i barbecue di famiglia a casa di Bill. “Lo zio Bill stava dietro alla griglia con il suo grembiule a strisce bianche e rosse, bevendo birra e cucinando tutto il tempo, mentre noi bambini giocavamo. Anche quando eravamo tutti seduti al tavolo da picnic per mangiare, Bill mangiava il suo piatto davanti al barbecue, usandolo come un podio 48

dal quale dirigeva la conversazione dell’intera famiglia,” Kevin racconta, mescolando la sua salsa barbecue e sorseggiando birra. I puristi si lamentano che molti americani oggi vedono il Memorial Day solo come una scusa per fare barbecue e divertirsi. E sebbene io concordi nel dire che quel giorno vada passato onorando i nostri soldati caduti, nel caso dello zio Bill, un barbecue sembra un tributo perfetto.


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I veri amici su Facebook? Al massimo 150 Lo dice il nostro cervello. E anche l’antropologo Robin Dunbar. Di James Keehn

E poi dicono che gli studi sul comportamento animale non hanno ricadute pratiche. Chiedetelo all’Agenzia delle Entrate svedese, che qualche anno fa si è riorganizzata internamente sulla base delle analisi di Robin Dunbar, docente di antropologia evoluzionistica all’università di Oxford e ospite in questi giorni del Festival della Scienza di Genova con la lectio magistralis - il 29 ottobre - intitolata Di quanti amici abbiamo bisogno? proprio come il suo libro edito da Raffaello Cortina. L’autorità scandinava ha infatti fissato un limite massimo di 150 impiegati per ufficio, motivandolo proprio con gli studi del professore britannico. I dipendenti non l’hanno presa molto bene, specie quando hanno capito che all’origine di queste teorie ci sono ricerche effettuate su scimmie e altri

primati. Eppure il numero di Dunbar, che indica in circa 150 la quantità di persone con cui un essere umano riesce a mantenere relazioni significative, sembra applicarsi a qualsiasi contesto e gruppo sociale, e non solo a nordici ispettori del fisco. Il fatto è che, secondo Dunbar, si tratterebbe di un limite invalicabile e universale, poiché inscritto nella nostra biologia, e più precisamente nel nostro cervello. Un tetto valido sia per le società fondate su caccia e raccolta, sia per i villaggi inglesi del ‘700, sia per i social network online. Insomma, possiamo anche accumulare migliaia di amici su Facebook, ma riusciremo realmente a relazionarci solo con 150 di questi contatti. E non c’è Zuckerberg o altra innovazione tecnologica che possa cambiare le cose.

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Prof. Dunbar, la sua teoria ha fatto molto discutere in Rete, ma come è arrivato a fissare il numero di 150? “Nelle scimmie esiste una relazione tra la dimensione dei gruppi sociali e quella del cervello: questa relazione applicata agli esseri umani, e alla dimensione del loro cervello, predice che l’estensione dei gruppi arriva a 150. Di fatto questo numero ricorre spesso nelle organizzazioni naturali, nelle comunità, ma anche nei legami sociali personali, cioè nel numero di amici che può avere un singolo individuo. La relazione dipende dal fatto che il numero di persone con cui riusciamo a mantenere un certo livello di intimità è limitata dalla dimensione del nostro cervello: e dunque dalla nostra capacità di gestire questi rapporti nella nostra mente”. Ma tutto ciò cosa significa per i social network online? Sappiamo bene che gli utenti di Facebook tendono ad avere moltissimi “amici”: e anche se non sono tutti intimi le interazioni sono tante e su diversi livelli. “Questi limiti valgono anche online, e lo stesso Facebook lo ha dimostrato: il nume52

ro medio di amici è circa 150, anche se alcuni possono averne di più. 150 è solo una di una serie di cerchie amicali che iniziano con 5 (i più intimi) e continuano fino a 150, per arrivare a 1500: che è il numero di facce che possiamo ricordare. Si possono aggiungere nomi su Facebook, ma si tratterà solo di conoscenze, se non di voyeur delle nostre vite. A me risulta che ormai negli Stati Uniti la generazione originaria di Facebook, cioè quella che si è iscritta dall’inizio, considera immaturo chi esibisce più di 100 amici”. E quindi non pensa che le società moderne e internet possano cambiare la natura e i limiti delle relazioni interpersonali? O che a gruppi coesi e localizzati geograficamente si possano sostituire reti più estese, sparse, liquide? “No. Il limite è sempre quello. Nella vita reale conosciamo più di 150 persone ma non le chiamiamo amici. Facebook ha confuso la parola amicizia chiamando amico qualsiasi nuovo contatto”.


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Il nuovo video di Pharrell Williams è una bomba di felicità Con il primo video musicale al mondo di 24 ore, realizzato per il suo nuovo singolo “Happy”, Pharrel termina in bellezza un anno già pieno di successi. Di Peter Vincent

E’ stato un anno felice per il produttore, imprenditore, cantante e rapper americano Pharrel Williams. A giugno Williams, 40 anni, in compagnia di un esclusivo gruppo di artisti, si è guadagnato simultaneamente la prima e la seconda posizione della classifica Billboard US; ha partecipato alla controversa, ma popolarissima “”Blur-

red Lines” di Robin Thicke e nel tormentone mondiale “Get Lucky” dei Daft Punk. Ora Pharrel ha fatto il botto con il primo video musicale al mondo che dura 24 ore. Benchè l’idea puzzi di mera trovata pubblicitaria - la canzone in realtà dura quattro minuti, il che vuol dire che bisogna riascoltarla per 360 volte per vedere l’intero

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video - ci sono un sacco di cose per cui vale la pena guardarne almeno 15 minuti. Innanzitutto il video sprizza gioia. Persino certi musoni potrebbero rallegrarsi guardando una raggiante ragazza afroamericana mentre tiene in mano un mucchio di palloncini, o un ragazzino che balla per strada come un giovane Micheael Jackson. Il video è costituito da 360 clip diverse di uomini, donne e bambini sorridenti che ballano sulle note della canzone mentre camminano verso la videocamera in ordinari luoghi cittadini, come marciapiedi, parchi, hotel e entrate di edifici. La maggior parte dei ballerini sono sconosciuti, anche se c’è qualche star: Magic Johnson, Steve Carrel, Jamie Foxx e Jimmy Kimmel. Anche un imprevedibilmente agile e coordinato Pharrel partecipa al divertimento in qualche versione. Il testo della canzone è molto semplice, ma si adatta meravigliosamente al video. Il ritornello comincia con ”Clap along if you feel like a room without a roof / clap along

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if you feel like happiness is the truth”. Anche se Pharrel forse non lo intendeva in questo modo, l’effetto è una panacea per i molti pezzi di video arte intensi ed elaborati a cui tutti abbiamo cercato di dare un significato in un angolo scuro di una galleria d’arte. Pharrel ha indubbiamente fatto della video arte con humour e tanto cuore, e questo è da considerare sicuramente come una rivoluzione per i video musicali. Dovrebbe anche apparire di diritto nella top list dei trattamenti anti depressivi non farmaceutici. Ma non si rischia di fare indigestione? Mangiare tutta la scatola di cioccolato-biscotti-patatine non ci fa stare male? E se fosse l’intero scaffale dei gelati al supermercato? Lo scoprirete da soli guardandovi mezz’ora di “Happy”. Una cosa è certa, Pharrel ha trovato un modo brillante e intelligente di imprimere profondamente la sua canzone nella memoria degli ascoltatori, anche quando si smette di guardare il video, la canzone rimane in testa per ore e ore.


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Clap along if you feel like a room without a roof, clap along if you feel like happiness is the truth, clap along what happiness is to you, clap along if you feel that’s what you want to do.

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Una corsa verso la felicità

La Color Run, nota anche come la 5km più tivare i giovani ad uscire ed essere attivi, allegra sul pianeta, è una gara colorata che con l’incoraggiamento dato dalla presenza celebra il benessere, la felicità, l’individuadi personalità come quella della First Lady. lità, dando risalto al senso della comunità. Questo evento, forse uno dei più rappreSi tratta di una gara in cui conta meno sentativi del segmento, ha mostrato la la distanza percorsa e più l’esperienza di partecipazione e la motivazione dei bamvita! La Color Run è una cinque chilometri bini a partecipare alla 5km, tra i commenti non-cronometrata in cui migliaia di pardei piccoli partecipanti: “Io corro perché è tecipanti vengono cosparsi da divertente, soprattutto quancapo a piedi di diversi colori ad do si sta giocando in mezzo al ogni chilometro. Il divertimencolore!”, un altro: “Non ho mai to continua al traguardo con prima, ma sono felice di Be Healthy. corso un gigantesco “Festival di coloandare alla Color Run, perché ri” e una scenografica esplosioBe Happy. si arriva alla fine tutti sporchi ne di polvere colorata che crea di colori ed è così divertente!.” Be You. milioni di combinazioni di co“Chiamiamo la Color Run ‘la lori. Il risultato è felicità pura 5km più allegra sul pianeta’ e un ricordo duraturo. Fidatevi perché i nostri eventi riuniscodi noi, questa è la miglior postno amici e familiari in un uni5km del pianeta!Ci sono solo due regole da co ambiente, sano e allegro” ha dichiarato seguire: indossare il bianco sulla linea di Travis Snyder, fondatore della Color Run. partenza e finire imbrattati di colore. E dopo che centinaia di migliaia di parteLa Color Run sta diventando uno tra i più cipanti hanno attraversato la linea del tragrandi eventi della nazione, da 50 evenguardo – il nome è rimasto. ti e 600.000 partecipanti del gennaio del 2012 è cresciuta a oltre 100 eventi e olI “Color Runners” vengono da diversi Patre un milione di partecipanti nel 2013. esi e hanno diverse ragioni per correre. Senza vincitori o tempi ufficiali, The CoL’evento è caratterizzato da energia diverlor Run si rivolge a tutti – da 2 anni a 80 tente e positiva e dal promuovere una vita anni, dai runners che corrono per la prisana. Per oltre il 60% dei runners questa ma volta agli atleti professionisti. Oltre il è la prima volta che corre in una 5 km. 60% dei color runners è formato da parteNel mese di ottobre 2012, la Color Run è cipanti che corrono per la prima volta ad stata descritta sulla Nickelodeon’s Woruna 5km e aderiscono per celebrare il loro ldwide Day of Play un’iniziativa per momodello di vita sana. Altri partecipano per

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onorare i propri cari che sono mancati o stanno combattendo malattie. E’ anche la corsa dell’amore, The Color Run ha fatto nascere circa 10 proposte di matrimonio. Quindi, se sei un passeggiatore occasionale o un atleta olimpico, i 5km del percorso della Color Run diventeranno la corsa più memorabile e colorata della tua vita!

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The Color Run si concentra anche sulla beneficenza, attraverso la scelta di una o più Onlus per ogni città che visitiamo. Abbiamo raccolto donazioni per oltre 60 associazioni di charity locali e nazionali nel 2012.


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Little Miss Sunshine Usa 2006, 101’ Genere: Commedia, Road movie Regia di: Jonathan Dayton e Valerie Faris Cast principale: Greg Kinnear, Toni Collette, Alan Arkin, Steve Carell Di Beppe Musicco

Negli Stati Uniti “Little Miss Sunshine”, nonostante sia un piccolo film indipendente con un cast tutto sommato poco pretenzioso, ha riscosso il tipico successo dovuto a un incessante passaparola, intelligentemente alimentato da una serie di servizi dei media. La storia è quella di una famiglia i cui problemi sono tutt’altro

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che risolti: il padre ha mollato il lavoro per dedicarsi a tempo pieno all’attività di scrittore e formatore, a partire dal suo manuale “I nove passi del successo”. Purtroppo il suo libro, nonostante le premesse e le promesse, è ben lungi dal trovare un editore. La madre è costretta al capezzale del fratello, massimo studioso di Proust, ma tentato


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suicida per questioni di cuore. Il nonno paterno, che vive in casa, è un brontolone col vizietto di sniffare coca. Dei due figli, il maggiore da un anno non rivolge più la parola a nessuno e si esprime solo scrivendo, mentre (vivaddio!) la sorellina è vivace e sprizza ottimismo come ci si aspetta che facciano tutte le bambine della sua età. Quando quest’ultima esprime il desiderio di partecipare a un concorso di bellezza per bambine, tutta la famiglia si imbarca su un vecchio pulmino Wolkswagen e parte alla volta del lontano albergo che ospita l’evento. Naturalmente, ogni tipo di vicissitudine colpirà la famiglia, i cui componenti sono i primi a rendersi conto di appartenere alla categoria dei “losers”, i “perdenti”, la parola che più di ogni altra terrorizza chi insegue il sogno americano e sembra che tutto congiuri contro i sogni e i progetti di ognuno. Ma proprio nelle disgrazie (divertenti senza dubbio, ma mai fantozziane) ognuno riscoprirà la possibilità di essere amato. Mischiando il “road movie” (con quel pizzico di ribellione anni ’60 che suggerisce un Wolksvagen color banana) con la commedia umana, “Little Miss Sunshine” parla di

gente che si perde e si ritrova, magari non come si sarebbe aspettata, ma accettandosi per quello che si è. Paragonato da molti a “I Tenenbaum”, forse non ne possiede la stessa originalità narrativa e il brillante cast, ma sono comunque da segnalare le belle prove di Greg Kinnear (il padre angosciato dal successo), Toni Collette (la mamma), Steve Carell (una volta tanto in un ruolo non demenziale) e la piccola Abigail Breslin, nel ruolo dell’entusiasta Olivia.

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How I met your mother Di Eleonora Marchesini Non sono mai stata un tipo da telefilm, avevo smesso di vederli dai tempi delle medie, praticamente da quando ho smesso di vedere la tv. Ora invece sembrano tornati di gran moda: insieme a Facebook, quello dei telefilm è uno degli argomenti più gettonati del sabato sera (che sia il vostro tavolo o quello affianco, è strana la gioventù). C’è da dire che in effetti rispetto a dieci anni fa le serie di ottimo livello si sono moltiplicate; oggi, qualsiasi genere vi interessi, si possono trovare produzioni di ottima fattura. How I Met Your Mother (in italiano E alla fine arriva mamma) è una sitcom statunitense fresca e divertente. Parte a marcia bassa ma mette nel giro di poche puntate la quinta. L’ho iniziata in periodi di astinenza da The Big Bang Theory e ho trovato davvero un bel prodotto, non mancano riferimenti nerd, con la differenza che in HIMYM è tutto più colorato ed il personaggio di Barney vale già da solo la visione della serie. Cinico rimorchiatore da bar, vestito elegante per fare colpo. E poi fin dalla prima puntata salta subito all’occhio un volto inconfondibile, stra-noto: Lily, la fidanzata storica di Marshall, è interpretata da Alyson Hannigan. Anche la colonna sonora è molto carina, e mi vien voglia di citarvi il pezzo Summer Breeze dei Seals & Crofts, che Ted reputa il suo preferito in uno dei primi episodi della prima stagione, quando s’invaghirà di una sconosciuta solo perché all’agenzia matrimoniale il computer dava tra di loro compatibilità massima (ed infatti condividevano come canzone preferita proprio Summer Breeze). 69


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