Professione Salute 3/2016

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FORMAZIONE Per contrastare la crisi occupazionale dei farmacisti urge intervenire “a monte”

FARMACOLOGIA Potenzialmente letali, spesso i medicinali falsi non contengono alcun principio attivo

GINECOLOGIA Che cosa cambia con il nuovo regime di dispensazione dei contraccettivi d’emergenza

NUTRIZIONE La complessa relazione tra consumo di sodio e salute cardiovascolare

luglio 2016

DERMATOLOGIA Troppo sole e accumuli di melanina all’origine delle macchie scure

Corso accreditato ECM Alimentazione e sport in diverse condizioni fisiopatologiche

Esercizio e nutrizione nella riabilitazione della patologia cardiovascolare



editoriale Lucia Oggianu

Il Sistema sanitario italiano ha resistito alla crisi La crisi economica che ha colpito l’Occidente dal 2007 ha determinato la riduzione degli investimenti economici in sanità nella maggior parte dei Paesi europei ad esclusione dell’Italia che, nonostante le difficoltà, ha scelto di continuare a investire in salute. Lo comunica l’European Observatory on Health Systems and Policies sulla base del rapporto pubblicato nel 2015 e in seguito ampiamente ripreso nel fascicolo “Crisi economica, sistemi sanitari e salute in Europa” della rivista Health Policy in Non-Communicable Diseases. Lo studio, che si prefiggeva un’analisi dello stato di salute tra il 2007 e il 2011, ha rilevato la diminuzione della spesa sanitaria sulla spesa pubblica in ben 44 dei 53 Stati esaminati. Contrariamente alla maggioranza, l’Italia ha registrato una crescita della spesa sanitaria dal 13,85% al 14,2%. Secondo dati Ocse nel 2012 la spesa pubblica sanitaria pro-capite di molti Stati è diminuita e la stessa tendenza si è avuta per la quota di spesa pubblica sul totale della spesa sanitaria, che risultava in declino in 24 dei 53 Paesi esaminati. L’Italia, invece, si manteneva stabile con il 78% del 2012 rispetto al 78,3% del 2007 con successiva crescita dell’indice di incidenza della spesa sanitaria sulla spesa pubblica. Dal punto di vista degli italiani però la percezione di sviluppo del Sistema sanitario nazionale non emerge florida. Dall’analisi presentata da Ketty Vaccaro, direttore welfare e sanità della Fondazione Censis, sulle scelte di salute degli italiani in considerazione della crisi economica emergono dati contrastanti. Se è vero che l’Italia non ha tagliato la spesa sanitaria e, a differenza di molti Paesi, ha continuato a credere e a investire nel Sistema sanitario nazionale, parallelamente si è registrato un sensibile incremento della spesa privata dei cittadini che, per motivi diversi, hanno preferito usufruire dei servizi sanitari privati. I dati, infatti, descrivono un generale effetto di regressione dal punto di vista sociale legato all’incapacità del Sistema sanitario nazionale di compensare le differenze con una conseguente accentuazione delle situazioni di difficoltà dei soggetti svantaggiati. L’analisi di queste informazioni offre spunti di riflessione importanti. In primo luogo la generale idea condivisa di difesa del Sistema sanitario nazionale e la propensione dello Stato a voler continuare a investire in salute, ma ha sollevato anche una serie di problematiche riguardanti l’accesso alle cure e la necessità di un modello integrativo pubblico-privato. Il Sistema sanitario nazionale deve dunque affrontare nuove sfide, che riguardano principalmente i cambiamenti della popolazione attuale, come l’invecchiamento in continua crescita, la ridotta disponibilità economica e la complessa questione delle malattie croniche. È perciò necessario cambiare stili di vita e atteggiamenti, sia da parte della popolazione medica sia di quella dei decisori politici.

Il Sistema sanitario

nazionale deve dunque affrontare nuove sfide, che riguardano principalmente i cambiamenti della popolazione attuale, come l’invecchiamento in continua crescita, la ridotta disponibilità economica e la

complessa questione delle malattie croniche

Lucia Oggianu luglio 2016

Professione Salute

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sommario 23 Nutrizione

il consumo di sale e gli effetti sul sistema cardiovascolare di Lucio Della Guardia ed Hellas Cena

3 Editoriale

6 Ne parliamo con

formazione nuovi farmacisti, urge intervenire per evitare rischi di disoccupazione Intervista ad Andrea Mandelli di Renato Torlaschi

Professione Salute

luglio 2016

Farmacologia

Farmaci contraffatti, il rischio viaggia sul web di Renato Torlaschi

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Il prodotto del mese

Ginecologia

uroxin, la sinergia vincente per spegnere le infezioni urinarie

contraccezione d’emergenza: abolito l’obbligo di ricetta

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di Vincenzo Marra

Corso ECM 2016

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esercizio e nutrizione nella riabilitazione della patologia cardiovascolare

Ginecologia/Urologia

di Pietro Mariano Casali e Francesca Bicocca

di Carla Carnovale

cistite, fastidio frequente per le donne ma non solo


sommario 41 Dermatologia

macchie scure della pelle: in estate serve più protezione di Carla Carnovale

49 Salute e benessere

olio di palma sulle tavole, promosso o bocciato?

45 Oculistica

di Rachele Villa

maculopatia degenerativa, viaggio dentro la malattia

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di Rachele Villa

Le aziende informano

Attualità

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Direttore responsabile Giuseppe Roccucci

Redazione Andrea Peren a.peren@griffineditore.it Lara Romanelli redazione@griffineditore.it Rachele Villa r.villa@griffineditore.it

Stampa Reggiani spa - Divisione Arti Grafiche Via Alighieri, 50 Brezzo di Bedero (VA)

Board scientifico

Grafica Grafic House, Milano

Professione Salute periodico bimestrale Anno VII - n. 3 - luglio 2016

Hanno collaborato Francesca Bicocca, Carla Carnovale, Pietro Mariano Casali, Hellas Cena, Lucio Della Guardia, Vincenzo Marra, Renato Torlaschi

Registrazione del Tribunale di Como con il n. 4 del 14/04/2010

Hellas Cena (Direttore) Donatella Ballardini Silvia Brazzo Mario Calzavara Mariano Casali Rachele De Giuseppe Massimo Labate Luca Marin Mara Oliveri Marco Rufolo

Vendite Stefania Bianchi s.bianchi@griffineditore.it, tel. 340.1246792 Giovanni Cerrina Feroni g.cerrinaferoni@griffineditore.it, tel. 346.2330694 Lucia Oggianu l.oggianu@griffineditore.it, tel. 338.9609937 Ufficio Abbonamenti Tel. 031.789085 - customerservice@griffineditore.it SIDeMaST

Società Italiana di Dermatologia medica, chirurgica, estetica e delle Malattie Sessualmente Trasmesse

Editore Griffin srl unipersonale, piazza Castello 5/E 22060 Carimate (CO) Tutti gli articoli pubblicati su Professione Salute sono redatti sotto la responsabilità degli Autori. La pubblicazione degli articoli della rivista deve essere autorizzata per iscritto dall’Editore. Ai sensi della legge in vigore, i dati dei lettori saranno trattati sia manualmente sia con strumenti informatici e utilizzati per l’invio di questa e altre pubblicazioni o materiale informativo e promozionale. Le modalità di trattamento saranno conformi a quanto previsto dalla legge. I dati potranno essere comunicati a soggetti con i quali Griffin intrattiene rapporti contrattuali necessari per l’invio della rivista. Il titolare del trattamento dei dati è Griffin, al quale il lettore si potrà rivolgere per chiedere l’aggiornamento, l’integrazione, la cancellazione e ogni altra operazione prevista per legge. In base alle norme sulla pubblicità l’editore non è tenuto al controllo dei messaggi ospitati negli spazi a pagamento. Gli inserzionisti rispondono in proprio per quanto contenuto nei testi.


ne parliamo con

Nuovi farmacisti a rischio disoccupazione: Fofi è per il numero chiuso Sono quattromila ogni anno i neolaureati in farmacia che si avvicinano alla professione, a fronte di un mercato che ne assorbe

Intervista di Renato Torlaschi

solo 1.500. Di questo passo, se non si interviene subito, nei prossimi anni il numero dei farmacisti disoccupati crescerà a dismisura

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roppi laureati per il numero di farmacie esistenti: anche per quella che appariva come una delle scelte più sicure dal punto di vista occupazionale per un giovane in procinto di iscriversi all’università, si parla sempre più spesso e apertamente di disoccupazione. E il calo degli utili delle farmacie territoriali, determinato da un tendenziale ribasso del prezzo dei farmaci unito a una lunga crisi economica che negli anni scorsi ha costretto molti italiani a risparmiare anche sulla salute, non ha certo spinto a nuove assunzioni. Nel frattempo, per il farmacista si sta determinando un’evoluzione di ruolo che potrà certamente portare a maggiori gratificazioni professionali ma che è caratterizzata dalla lentezza tipica dei cambiamenti culturali e non vede comunque un immediato riconoscimento in termini economici o occupazionali. È probabilmente necessario intervenire anche a monte, adeguando alle nuove realtà la formazione impartita dalle università. Abbiamo chiesto l’opinione di Andrea Mandelli, presidente della Federazione degli ordini dei farmacisti italiani (Fofi).

Andrea Mandelli Presidente Fofi

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Dottor Mandelli, qual è la situazione attuale dell’occupazione per i giovani laureati in Farmacia e come si evolve in prospettiva? C’è un reale problema di disoccupazione? Sì, esiste un problema occupazionale anche nella nostra professione ed è determinato dai fattori che si conoscono e che da tempo stiamo portando all’attenzione. La rete delle farmacie di comunità, che comunque resta il principale sbocco occupazionale dei laureati in farmacia, subisce da anni crescenti difficoltà economiche, per il diminuire del prezzo dei farmaci rimborsati, per l’esclusione dal circuito dell’innovazione farmacologica e per gli altri aspetti che conosciamo. Contestualmente, il blocco delle assunzioni nel Servizio sanitario rende impraticabile questa strada per i neolaureati, a prescindere dalle difficoltà che ancora si incontrano con la specialità in farmacia ospedaliera. Il fabbisogno di farmacisti della sanità italiana nel suo complesso, secondo la Joint Action on Health Workforce Planning and Forecasting della Commissione europea (Azione comune per la pianificazione e previsione del personale sanitario Ue), cui partecipa il nostro ministero della Sa-


Intervista ad Andrea Mandelli

lute, è di circa 1.500 professionisti l’anno. I neolaureati, però, sono 4.700 e 4.000 superano l’esame di Stato e si iscrivono all’Ordine. Da qui è semplice matematica: nel volgere di vent’anni in Italia ci saranno almeno 50mila nuovi farmacisti disoccupati che si aggiungeranno ai quasi 13mila farmacisti che già oggi sono in cerca di occupazione. È una situazione resa ancor più grave dal fatto che, mentre nelle altre professioni sanitarie l’età media dei professionisti attivi è elevata, la nostra è una professione giovane, pertanto il turn-over non può che essere più lento. E aggiungo, perché sono dati recentissimi del Pgeu (Pharmaceutical Group of the European Union), che la rete delle farmacie di comunità italiana è quella che conta il maggior numero di professionisti in Europa: circa 70mila. È opportuno, a suo avviso, intervenire sul percorso formativo pensando a una nuova e diversa programmazione del numero dei laureati? E i contenuti formativi devono adeguarsi a un nuovo ruolo del farmacista o vanno bene così? Innanzitutto è chiaro che occorre ridurre il numero dei nuovi farmacisti, programmare gli accessi alla facoltà in modo stringente, su modello di quanto fatto per il corso di laurea di medicina e chirurgia. Capisco che possa sembrare una posizione per così dire antipatica, ma è assurdo lasciare che migliaia di giovani e le loro famiglie investano tempo e risorse in un percorso che per molti non porta a un ingresso nel mondo del lavoro, senza contare la spesa per lo Stato. Poi, ovviamente, c’è l’aspetto dei contenuti della formazione, del piano di studi. È dal 2006 che la Federazione ha indicato nella pharmaceutical care, la partecipazione al processo di cura, la chiave per lo sviluppo della professione, sul territorio come nell’ospedale, e di questo i piani di studio devono tenere conto; così come di altre realtà che si sono andate configurando, a cominciare dalla nutraceutica. A questo proposito va sottolineata l’iniziativa messa in

atto dalla Conferenza dei direttori di dipartimento di Farmacia, che ha prodotto una proposta che potrebbe costituire la base di una discussione che tenga conto anche delle osservazioni formulate in questi mesi alla Federazione da parte di diversi esponenti del mondo accademico. Come si deve sviluppare il settore, e in particolare la farmacia di comunità, perché la professione sia più appetibile e possa magari anche garantire una maggiore occupazione? Credo, e il numero di iscrizioni alla facoltà che registriamo ogni anno lo confermano, che la professione mantenga la sua attrattività e offra moltissimi motivi di interesse. Detto del numero chiuso e delle altre misure sul lato della formazione, è chiaro che tutto questo non basterà a garantire un futuro adeguato alle nuove leve dei professionisti se non si verificano alcune condizioni: dare piena attuazione alla farmacia dei servizi, che non richiede tanto apparecchiature o device, ma soprattutto professionisti motivati; passare alla nuova remunerazione della farmacia basata prevalentemente sull’atto professionale; riportare nella farmacia di comunità i medicinali innovativi compatibili con l’uso sul territorio. E infine, ma non per importanza, incrementare gli organici dei dirigenti farmacisti ospedalieri nel Servizio sanitario nazionale, per adeguarli finalmente agli standard funzionali, e garantire la presenza del farmacista anche in quelle strutture dove, pur facendosi uso di farmaci, il farmacista non c’è. Alcuni di questi elementi, è il caso di ripeterlo, sono già previsti in diverse leggi, alle quali la Federazione ha contribuito in modo decisivo, e tutti rientrano nella linea d’azione federale che da anni stiamo attuando. Ci eravamo impegnati a ottenere per la professione gli strumenti necessari a farla evolvere e, dalla legge sui servizi alla nascita del dossier farmaceutico, abbiamo ottenuto risultati importanti. Continueremo su questa strada. n luglio 2016

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il prodotto del mese

punti di forza L’associazione di D-mannosio, estratto di ibisco e cranberry consente, grazie all’azione sinergica, di avere con Uroxin un efficace strumento terapeutico per le infezioni del tratto urinario, attenuando la sintomatologia, ripristinando l’omeostasi urinaria e aiutando a prevenire le recidive

uroxin, la sinergia vincente per spegnere le infezioni urinarie L’alternativa terapeutica completa ed efficace anche contro la Candida albicans

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e infezioni delle vie urinarie costituiscono un problema di salute importante in ogni fascia di età soprattutto per le donne; si calcola che l’80% ne soffra almeno una volta nella vita, con maggiore esposizione tra i 18 e 30 anni e nei primi anni della menopausa. Anche gli uomini non ne sono esenti. Uroxin sfrutta un’originale associazione di Dmannosio, estratto di ibisco (Ellirose™) e

pharmasuisse laboratories s.r.l. www.pharmasuisse.it - info@pharmasuisse.it

cranberry, tre ingredienti specifici per il trattamento delle infezioni urinarie che, agendo in sinergia, offrono un’alternativa terapeutica completa ed efficace. Il D-mannosio è uno zucchero semplice e inerte, non viene metabolizzato e viene rilasciato immodificato nelle urine, dove esplica la sua attività. È in grado di prevenire l’adesione di alcuni batteri flagellati, tra cui l’Escherichia coli, all’epitelio vescicale, favorendo quindi l’eliminazione dei patogeni attraverso la minzione. L’ibisco è una pianta molto popolare in quanto dall’infusione dei calici e dei petali essiccati si ottiene la bevanda del karkadé. In Uroxin è presente un

estratto brevettato ottenuto con un particolare processo di estrazione che ne assicura un profilo di composizione unico per la presenza di proantocianidine, flavonidi, acidi fenolici e diversi acidi organici. Questa particolare composizione consente una grande efficacia, già a 24 ore dalla somministrazione, verso batteri di diversi ceppi e anche verso la Candida albicans. Il mirtillo americano o cranberry è il rimedio fitoterapico più noto per la prevenzione e trattamento delle infezioni urinarie. L’effetto positivo del succo di cranberry sulle vie urinarie è in parte legato alla capacità di acidificare le urine grazie agli acidi organici in esso contenuti ma soprattutto è dovuto alla presenza di fruttosio e proantocianidine (PAC) che hanno proprietà antiaderenti nei confronti dei patogeni, soprattutto l’Escherichia coli. n

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Corso ECM 2016 Modalità di Formazione a Distanza (FAD) riservato agli abbonati paganti*

Alimentazione e sport in diverse condizioni fisiopatologiche Responsabile scientifico Prof.ssa Hellas Cena Medico Chirurgo, Specialista in Scienza dell’Alimentazione, Università degli Studi di Pavia Programma del corso L’esercizio fisico e l’attività sportiva sono fondamentali per favorire il pieno sviluppo dell’organismo e per promuovere e mantenere uno stato di salute ottimale sia a breve che a lungo termine. Alla luce di tali considerazioni, nel corso Alimentazione e sport in diverse condizioni fisiopatologiche verranno approfonditi diversi aspetti: z come una alimentazione corretta ed equilibrata rappresenti il sistema più adatto per soddisfare i particolari bisogni energetici e nutrizionali degli sportivi, sia amatoriali che professionisti; z come nell’anziano, in seguito a modificazioni fisiologiche quali il rallentamento del metabolismo basale, la diminuzione della muscolatura scheletrica e una ridotta attività fisica, sia necessario un intervento nutrizionale adeguato unitamente a un corretto programma di esercizio fisico al fine di mantenere un buono stato di benessere sia fisico che cognitivo e psichico; z come un’alimentazione equilibrata e corretta, affiancata a un valido e continuo programma motorio, sia un’efficace misura da adottare nella cura di patologie croniche (diabete mellito di tipo 1), nella riabilitazione del paziente affetto da patologia cardiovascolare e nel paziente oncologico. Struttura del corso z Alimentazione nell’adulto sportivo sano (Mara Oliveri, Anna Gerbaldo) z Alimentazione ed esercizio fisico: raccomandazioni per l’anziano (Matteo Vandoni, Silvia Maffoni) z Esercizio e nutrizione nella riabilitazione della patologia cardiovascolare (Pietro Mariano Casali, Francesca Bicocca) z Alimentazione e attività fisica nel paziente oncologico (Luca Marin, Silvia Brazzo) z Ruolo di alimentazione e sport nel diabete di tipo 1 (Francesca Bicocca) Obiettivi del corso Il presente corso si prefigge di raggiunfìgere i seguenti obiettivi: z l’obiettivo specifico di alimentare in modo continuo le conoscenze delle figure professionali che lavorano in ambito sanitario; i contenuti forniti potranno essere “trasferiti” all’utente finale, con ripercussioni in termini di “aumento di competenze” della comunità in cui si è chiamati ad agire; z l’obiettivo più generale di contribuire al mantenimento e rafforzamento del network comunicativo con le varie figure professionali in un percorso verso l’implementazione e lo sviluppo delle loro competenze individuali in ambito preventivo, che potrà avere importanti ripercussioni “a cascata” in termini di “guadagno di salute” di tutta la popolazione. Modalità di somministrazione del corso e accreditamento ECM In ogni numero di Professione Salute a partire dal n. 1/2016 e per tutto il 2016 (gennaio-dicembre) sarà pubblicato un modulo composto da un articolo e da un questionario di valutazione. Tutti i moduli pubblicati sulla Rivista saranno disponibili online su sito www.fadmedica.it, dove sarà possibile, modulo per modulo, rispondere ai questionari di valutazione. L’erogazione dei crediti ECM avverrà al superamento di tutti i questionari. Tutti gli iscritti al corso riceveranno le informazioni necessarie per l’accesso online e la compilazione dei questionari.

*Per informazioni: tel. 031.789085 e-mail: customerservice@griffineditore.it


CORSO ecm

Esercizio e nutrizione nella riabilitazione della patologia cardiovascolare

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A cura di Pietro Mariano Casali

onostante importanti differenze tra i vari paesi, le malattie cardiovascolari sono la causa principale di morte in tutto il mondo. Recenti dati epidemiologici sottolineano il rapido incremento di mortalità cardiovascolare nei paesi dell’Est Europeo e una emergente epidemia di malattie cardiovascolari nei paesi sviluppati, causata dalla riduzione di malattie infettive e da malnutrizione, e nel contempo da un aumento di patologie strettamente relate allo stile di vita come la malattia aterosclerotica coronarica e neoplastica (1). Le previsioni su morbilità e mortalità cardiovascolare a lungo termine non sono confortanti: l’incremento è inevitabile se non si fa nulla per prevenirlo (1).

Medico Chirurgo Specialista in Cardiologia e Medicina dello sport

Francesca Bicocca

Dietista Laureata in Scienze Motorie

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Su queste basi, gli effetti favorevoli della riabilitazione cardiologica e della prevenzione non possono più essere ignorati e comprendono una riduzione della mortalità (soprattutto di morte improvvisa nel primo anno dopo infarto miocardico), un miglioramento della tolleranza allo sforzo, dei sintomi di angina e di scompenso, un miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare, una migliore qualità di vita, più frequente ritorno al lavoro, maggiore autonomia funzionale con riduzione della dipendenza e disabilità (1). La riabilitazione cardiologica è definita come “somma degli interventi richiesti per garantire le migliori condizioni fisiche, psicologiche e sociali in modo che i pazienti con cardiopatia cronica


alimentazione e sport in diverse condizioni fisiopatologiche

colare enfasi a misure di prevenzione e riabilitazione e sollecita gli organi locali a sviluppare programmi di intervento soprattutto in ambito delle patologie cardiovascolari. Nel presente modulo verranno brevemente illustrate due delle componenti del programma riabilitativo cardiovascolare ovvero attività fisica e dieta appropriata.

o post-acuta possano conservare o riprendere il proprio ruolo nella società”. La riabilitazione cardiovascolare (RCV), combinando la prescrizione dell’attività fisica con la modificazione del profilo di rischio dei pazienti, ha come fine ultimo quello di favorire la stabilità clinica, di ridurre il rischio di successivi eventi cardiovascolari e le disabilità conseguenti alla cardiopatia (2). I programmi riabilitativi si basano sui seguenti punti: z stima del rischio cardiovascolare globale mediante valutazione clinica e indagini strumentali anche complesse; z identificazione di obiettivi specifici per ciascun fattore che influenza il rischio; z formulazione di un piano di trattamento individuale che includa: interventi terapeutici finalizzati a realizzare specifici obiettivi di riduzione di rischio; il cambiamento dello stile di vita (abolizione del fumo, dieta appropriata, controllo del peso corporeo, dello stato d’ansia e della depressione) da ottenere soprattutto mediante programmi educazionali strutturati; la prescrizione dell’attività fisica; z intervento di mantenimento a lungo termine per ciascun paziente allo scopo di consolidare i risultati ottenuti, rivalutando nel tempo l’opportunità di modificare il trattamento. È necessario che molteplici competenze professionali siano coinvolte nella realizzazione dei programmi riabilitativi: cardiologo, terapista della riabilitazione, psicologo, dietologo e altre figure pertinenti. Non vi sono controindicazioni all’intervento riabilitativo nella sua globalità; le limitazioni devono essere riferite

al solo training fisico, e non alle altre componenti del programma riabilitativo. La complessità e l’intensità di tale approccio devono essere commisurate alle caratteristiche cliniche dei pazienti. Tutto ciò richiede una varietà di approcci riabilitativi differenziati per assistere i pazienti con profilo di rischio e gravità clinica diversi, da cui l’esigenza di linee guida e raccomandazioni specifiche fornite dal Comitato degli Esperti dell’Oms nel 1993 (3). Intesa in questo modo, la RCV costituisce componente essenziale in un moderno programma assistenziale per tutti i cardiopatici. La validità scientifica dell’approccio riabilitativo e preventivo, insieme ai costi contenuti (rispetto soprattutto alle nuove tecniche di cardiologia interventistica) dovrebbe far considerare la riabilitazione cardiologica come componente essenziale del programma assistenziale per il paziente cardiopatico. Tuttavia, anche se cost-effective, la riabilitazione cardiologica deve essere necessariamente integrata nell’ambito delle risorse disponibili per la spesa sanitaria, che diventano sempre più limitate in tutto il mondo. Ragioni economiche spiegano in buona parte le differenze nelle raccomandazioni pubblicate in diversi paesi. Se da una parte esiste un consenso generale su definizione, obiettivi e componenti della cardiologia riabilitativa, dall’altra esistono inevitabili differenze di opinione su modalità applicative, organizzazione e standard, legati essenzialmente alle diverse modalità di finanziamento. In Italia, il Piano Sanitario Nazionale dà parti-

Attività fisica nel programma riabilitativo cardiovascolare

I più importanti effetti favorevoli della riabilitazione cardiologica sono (1): z miglioramento della tolleranza allo sforzo; z riduzione dei sintomi; z miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare e dello stile di vita; z maggiore grado di benessere psico-sociale e riduzione dello stress; z riduzione della mortalità. Un programma di esercizio fisico, attraverso il miglioramento della capacità funzionale che può produrre, rappresenta una delle modalità terapeutiche centrali nella strategia riabilitativa. Un’attività fisica programmata, adeguata, aerobica e prudentemente somministrata è consigliabile una volta superata l’emergenza ischemica, o in genere l’instabilità clinica, e dovrà essere proseguita possibilmente per tutta la vita (1). Molti studi su pazienti con diverso profilo di rischio hanno dimostrato l’efficacia di adeguati programmi di training fisico sugli obiettivi a breve termine (incremento della tolleranza allo sforzo e controllo dei sintomi). In particolare, l’obiettivo del training fisico in pazienti con documentata cardiopatia ischemica è in primo luogo quello di migliorare la capacità funzionale asintomatica, lo stato psico-sociale e possibilmente ridurre la successiva mortalità e morbilità. È stato più difficile dimostrare i benefici sugli obiettivi a lungo termine (morbilità e mortalità), nonostante l’ampio numero di studi clinici condotti negli ultimi decenni. I limiti metodologici (piccolo numero di soggetluglio 2016

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CORSO ecm

ti arruolati, elevato drop out, ecc.) sono stati la causa principale dell’insuccesso. Recentemente, le metanalisi di tre studi clinici randomizzati, in pazienti infartuati, hanno confermato statisticamente il trend verso una riduzione della mortalità globale e della mortalità cardiaca intorno al 20-25% in soggetti sottoposti a training. Una meta-analisi evidenzia anche una ridotta incidenza di morte improvvisa nel primo anno dopo infarto miocardico, sebbene la recidiva non fatale non sembri essere influenzata dal training (1,4-6). Alcuni studi hanno anche documentato una riduzione dell’ischemia da sforzo, in termini di alterazioni ECGrafiche o di difetti reversibili di perfusione con scintigrafia miocardica, a pari doppio prodotto dopo un anno di training fisico (1). Più in generale, la maggior parte degli studi riporta un significativo incremento della capacità funzionale e una riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa per sforzi sottomassimali mediante training fisico in pazienti cardiopatici. Questo è particolarmente favorevole in pazienti con cardiopatia ischemica perché le manifestazioni di ischemia tendono a insorgere a carichi di lavoro più elevati; un innalzamento della soglia ischemica dopo

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training fisico è descritto in numerose casistiche (1). Infine, l’esercizio fisico può influenzare favorevolmente la funzione metabolica (lipidi e carboidrati) ed emostatico-coagulativa, contribuendo così al controllo dei principali fattori di rischio per cardiopatia ischemica. Inoltre riduce il livello delle catecolamine plasmatiche e rende così il miocardio meno vulnerabile alle aritmie maligne (1). L’approccio da adottare con i pazienti a più alto rischio è ancora incerto. Ad ogni modo, in tutti i pazienti, le controindicazioni al training fisico dovranno essere attentamente valutate e i programmi di attività fisica, in termini di modalità, frequenza e intensità, strettamente individualizzati. Modalità operative Le modalità organizzative del training fisico prevedono programmi advised, autogestiti a domicilio, e supervised, controllati in ambiente sanitario. Prescrizione dell’esercizio Non esiste una formula per adattare il programma ad ogni singolo paziente. Ogni sog-

getto differisce per condizione fisica e per le conseguenze della malattia, con le possibili sequele (disfunzione di pompa, ischemia, aritmie) che rendono ancor più necessario, anche se più impegnativo, personalizzare il protocollo di lavoro. Tra gli elementi da considerare per adattare il programma di esercizio alle caratteristiche del paziente vi sono: z età; z sesso; z classe di rischio; z patologie associate; z situazione muscoloscheletrica; z terapia farmacologica (in particolare per quanto interferisce con la risposta allo sforzo); z risultato del test da sforzo; z abitudini precedenti in termini di esercizio fisico; z gradimento della attività fisica; z comprensione delle modalità esecutive del programma; z adesione agli obiettivi prefissati. Frequenza e intensità L’esercizio fisico, per determinare un effetto allenante, deve essere basato su attività caratterizzate da peculiari tipologie, con diverse combinazioni di frequenza, intensità e durata, e con una specifica progressione nel tempo (1). In generale, la frequenza di esecuzione del programma di esercizio fisico è quotidiana o trisettimanale. Quando il programma è quotidiano (preferibile nelle prime settimane di training, nei soggetti anziani o con peggiore adattamento allo sforzo per cause muscolari o cardiache) è articolato in sedute alternate di ginnastica a corpo libero e di esercizio su cyclette o treadmill. L’intensità dell’attività deve essere tale da produrre un incremento dell’allenamento fisico in misura proporzionata con il grado di tolleranza allo sforzo e con il periodo di tempo in cui si è protratta l’immobilizzazione determinata dall’evento acuto. Ad esempio, il paziente che per le complicanze dell’infarto è stato a lun-


alimentazione e sport in diverse condizioni fisiopatologiche

TABELLA 1 - esempi di calcolo della frequenza cardiaca (FC) di allenamento (1) FC massima ottenuta dal paziente al test ergometrico massimale: 130 b/min

z 1° METODO 50% = 65 b/min; 80% = 104 b/min Il range di FC entro il quale effettuare l’allenamento è tra 65 e 104 b/min • 70% = 91 b/min; 85% = 111 b/min Il range di FC è tra 91 e 111 b/min

z 2° METODO Fc basale 70 b/min 130 (FC max) – 70 (basale) = 60 60 x 50% = 30 + 70 = 100 b/min 60 x 80% = 48 + 70 = 118 b/min Il range di FC è tra 100 e 118 b/min

go allettato, al momento della ripresa dell’attività fisica ha la percezione di un lavoro muscolare molto leggero come assai impegnativo e faticoso. L’intensità dell’esercizio deve pertanto essere graduata per ogni paziente e messa in relazione con la durata: infatti risultati analoghi, in termini di incremento di capacità funzionale, possono essere ottenuti con periodi prolungati a bassa intensità e viceversa. Un esercizio a bassa intensità ha minore rischio di determinare effetti negativi su muscoli e articolazioni e una eccessiva sensazione soggettiva di fatica. È ampiamente noto che l’esercizio allenante dovrebbe essere effettuato di poco al di sotto della soglia anaerobia, e che una attività a bassa intensità è considerata quella inferiore al 40% del VO2max, moderata pari a circa il 60% del VO2max. Dal momento che abitualmente non è possibile misurare il VO2max del paziente, viene utilizzata come parametro di riferimento la frequenza cardiaca massima raggiunta al test ergometrico. Per la valutazione dell’intensità dell’allenamento, il range di frequenza cardiaca entro il quale effettuare il programma in condizioni di sicurezza (Target Heart Rate o THR) è calcolato in base ai seguenti parametri (tab. 1):

z la percentuale della massima frequenza cardiaca raggiunta; z la formula di Karvonen. Nel primo metodo, se si seguono le raccomandazioni della American Heart Association, il training viene eseguito mantenendo la frequenza cardiaca tra il 50 e l’80% della massima

frequenza raggiunta; se si applica la formula di Karvonen, si deve sottrarre alla massima frequenza raggiunta la frequenza a riposo, moltiplicare il risultato per 50 e 80%, e sommare i due valori ottenuti alla frequenza basale per ottenere il range di allenamento. Le diverse modalità di calcolo portano a un programma più leggero, che è consigliabile riservare a soggetti con peggiore adattamento allo sforzo per età avanzata o gravità della compromissione cardiaca, oppure più pesante (con la formula di Karvonen) da riservare a soggetti non complicati e con buon adattamento allo sforzo, o già allenati. L’intensità dell’esercizio può essere anche calcolata sulla stima del consumo energetico, se vengono utilizzati come riferimento i METs (Metabolic Equivalents), per ottenere un carico di allenamento o una intensità di lavoro. Per quanto riguarda la valutazione soggettiva dell’intensità, il metodo più semplice è l’autovalutazione del polso, che deve sempre essere insegnata al paziente affinché possa controllare la propria risposta allo sforzo anche dopo il

TABELLA 2 - valutazione soggettiva dell’intensità: scala di borg e scala di dispnea dell’american college of sport medicine (1) Scala di Borg 6 7 molto molto leggero 8 9 molto leggero 10 11 leggero 12 13 abbastanza intenso 14 15 intenso 16 17 molto intenso 18 19 molto molto intenso 20

Scala di Dispnea 1 lieve: avvertita dal paziente ma non rilevata dall’osservatore 2 leggera difficoltà: rilevata anche dall’osservatore 3 moderata difficoltà: il paziente è in grado di continuare 4 grave difficoltà: il paziente deve fermarsi

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termine del programma riabilitativo. A questo scopo deve essere esercitato a rilevare i battiti al polso per i primi 10 o 15 secondi immediatamente dopo l’interruzione di un esercizio, verificando la correttezza della rilevazione. Molto utilizzata negli Stati Uniti è la scala di percezione della fatica, codificata da Borg per quantificare l’entità della dispnea e validata da numerosi studi (tab. 2). Infine, un’ulteriore modalità di valutazione soggettiva, che può essere utilizzata anche in associazione alla scala di Borg, è la scala di dispnea dell’American College of Sport Medicine utile in particolare nella valutazione dell’impegno fisico degli anziani e dei soggetti con disfunzione di pompa o dopo cardiochirurgia (tab. 2). Modalità La singola seduta di training inizia con una fase di riscaldamento, nella quale vengono eseguiti esercizi a corpo libero di mobilizzazione articolare e di stiramento muscolare, oppure, se la sessione prevede l’utilizzo di attrezzi, un lavoro al minimo carico di resistenza (ad esempio, pedalare sul cicloergometro meccanico con minima resistenza o camminare sul treadmill a pendenza 0% e velocità “di conversazione”, ecc.). Le fasi successive di allenamento vengono svolte con modalità dette di endurance o di interval training. 16

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L’esercizio intermittente (interval), eseguibile sia a corpo libero che con attrezzi, alterna periodi di lavoro all’intensità prestabilita a fasi di recupero con lavoro assente o molto lieve. L’applicazione del carico di lavoro per brevi periodi determina un adattamento allo sforzo utile nei pazienti con angina da sforzo, nei quali può essere ottenuto il migliore incremento della soglia ischemica, e nei pazienti più decondizionati, negli anziani, o in quelli con disfunzione di pompa, i quali nelle prime sessioni di training sopportano con difficoltà l’applicazione di un carico di lavoro continuo. Il principio generale di tutti i programmi a corpo libero è quello di determinare una mobilizzazione dei maggiori gruppi muscolari, con varie ripetizioni per la durata di 1-3 minuti ad esercizio e con impegno crescente approssimativamente da 1,5 a 8 METs. Esistono molte presentazioni degli schemi di esecuzione del corpo libero, tra loro sostanzialmente equivalenti: va tuttavia precisato che non esiste l’esercizio “per il cardiopatico”, ma possono essere utilizzate le più diverse modalità di ginnastica calistenica, purché vengano seguiti i criteri esposti nella quantificazione dell’intensità. Il training di resistenza o continuo (endurance) è la forma più usata perché consente il massimo incremento della capacità aerobi-

ca; tradizionalmente sono preferite le attività con componente dinamica effettuate mediante cicloergometri, ergometri a braccia, tappeti scorrevoli, con l’intensità dell’esercizio calcolata secondo le modalità descritte in precedenza. Negli ultimi anni sono state applicate anche modalità di lavoro che prevedono esercizi con pesi, atti a determinare un aumento della potenza muscolare. Ciò è derivato dalla necessità di personalizzare l’esercizio e finalizzarlo alle specifiche necessità di ripresa del paziente per il quale l’obiettivo finale sul piano fisico è il recupero della capacità di effettuare la propria mansione lavorativa, di dedicarsi a una attività ricreativa o di mantenere la propria autonomia nella vita quotidiana. Il razionale di integrare l’esercizio aerobico isotonico con esercizi a maggiore componente isometrica contro resistenza (pesi) deriva dalla constatazione che la maggior parte delle attività dell’uomo sono caratterizzate da un lavoro muscolare sia statico che dinamico. Tradizionalmente l’esercizio isometrico veniva ritenuto a rischio per il maggior incremento di doppio prodotto determinato dal lavoro contro resistenza: tuttavia consolidate esperienze hanno dimostrato la sicurezza e l’efficacia del training con circuiti di pesi nei coronaropatici a basso rischio. Le modalità di esecuzione sono in relazione alla disponibilità delle attrezzature: i pazienti a basso rischio e con una buona tolleranza allo sforzo, dopo le prime 2 settimane di training aerobico, possono iniziare gradualmente il potenziamento con i pesi che, nel caso più semplice, consiste nell’eseguire le serie di esercizi a corpo libero con fascette appesantite (da 500 g a 1 kg) alle braccia e alle gambe oppure con piccoli manubri (da 1 a 3 kg) per gli esercizi con le braccia. Durata Una singola sessione di training ha in media la durata di un’ora, in cui sono compresi 10 minuti di riscaldamento, 40 minuti di training effettivo e 10 minuti di raffred-


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damento (recupero). Periodi più prolungati di esercizio non sono giustificati, mentre è invece possibile suddividere la sessione in due parti (ad esempio, 30 min al mattino e 30 min al pomeriggio). La durata complessiva del programma di training deve essere programmata in funzione degli obiettivi posti per ciascun paziente: i protocolli standard dei principali Centri italiani ed esteri prevedono da un minimo di 12 a un massimo di 40 sessioni, in periodi compresi tra le 2 e le 8 settimane. Affinché si possano perseguire obiettivi concreti oltre che sul piano fisico anche su quello della sorveglianza e dell’educazione, la durata ottimale non può essere comunque inferiore alle 4 settimane. Progressione L’incremento progressivo in intensità, durata e modalità di allenamento è funzione di una molteplicità di variabili che rendono difficile la rappresentazione di uno schema guida. Tuttavia si possono focalizzare alcuni elementi essenziali. In assenza di complicanze

durante le sessioni di esercizio (ad esempio, comparsa di sintomi, disturbi del ritmo, modificazioni ST, alterato comportamento della pressione arteriosa, ecc.) al miglioramento della risposta allo sforzo segue un minore incremento di FC per carico equivalente che consente di incrementare il carico di lavoro fino a riportare la Target Heart Rate nel range prefissato. Pertanto è la frequenza cardiaca il più semplice e diretto riferimento per regolare la progressione del programma. Come già detto in precedenza, dopo le prime due settimane di adattamento del paziente al protocollo di lavoro e di sorveglianza sulle modalità di risposta cardiocircolatoria all’esercizio, è possibile (e talora necessario) differenziare le attività. Controindicazioni, sicurezza e modalità di controllo L’avvio del programma di esercizio fisico è riservato a pazienti infartuati in fase di stabilizzazione che non presentano situazioni cardiache o patologie associate tali da deter-

minare controindicazioni assolute o relative all’attività fisica. La sicurezza del training fisico nel post infarto è argomento controverso. La diversità nella selezione dei pazienti, nel tipo di esercizio, nelle modalità di controllo e nei periodi a cui sono riferiti, rendono scarsamente indicative le conclusioni della letteratura sulla incidenza delle complicanze maggiori durante riabilitazione. Riposo ed esercizio Il decondizionamento muscolare (diminuzione delle capacità funzionali del corpo e dei suoi organi in seguito al non uso) costituisce una possibile causa di alterazioni muscolari metaboliche e di sintomi (fatica) e dovrebbe essere evitato. Un’attività muscolare di basso livello dovrebbe essere incoraggiata, mentre esercizi strenui o isometrici dovrebbero essere evitati. In caso di scompenso acuto o di instabilizzazione di scompenso cronico, il riposo costituisce un punto chiave dell’approccio terapeutico. Alimentazione nel programma riabilitativo cardiovascolare

Studi ecologici e trial clinici, come il Seven Countries’ Study (7), hanno dimostrato una possibile relazione tra la mortalità per malattie coronariche e dieta. Nello specifico, Keys, l’autore dello studio, osservò la dieta di alcune nazioni (Finlandia, Grecia, Stati Uniti, Italia, Yugoslavia, Olanda e Giappone) e lo stile di vita delle loro popolazioni relazionando i diversi fattori ai tassi di mortalità per malattia coronarica. Concluse che esistevano differenze sostanziali nella mortalità per malattie cardiovascolari in relazione all’intake di grassi saturi (7). La dieta ottimale nello studio di Keys sembrava quella cretese, chiamata anche dieta mediterranea, basata su fonti vegetali e caratterizzata da grandi quantità di frutta, verdura, legumi, frutta secca oleaginosa, semi e cereali integrali (7). Carne e latticini erano scarsamente presenti e il pesce consumato solo in moderate quantità. Inoltre, questo modello aliluglio 2016

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mentare era peculiare per gli elevati livelli di sostanze antiossidanti e l’olio d’oliva ne rappresentava la principale fonte di grassi, risultando una dieta povera di grassi saturi e ricca di acidi grassi mono- e polinsaturi (7). Il Lyon Heart Diet Study (8) è un trial clinico derivato dalle scoperte del Seven Countries’ Study (7), il cui scopo era comprendere se la dieta mediterranea fosse efficacie come modello alimentare nella prevenzione secondaria delle malattie cardiovascolari. Analizzando pazienti con pregresso infarto del miocardio venne chiaramente osservata la maggiore efficacia della dieta mediterranea rispetto alle raccomandazioni dell’American Heart Association (Aha). La mortalità per malattie coronariche si era significativamente ridotta (del 65%) nei pazienti che avevano seguito tale modello alimentare, caratterizzato da un rapporto tra acidi grassi della serie 3 e della serie 6 (1:5), grandi quantità di frutta e verdura e il controllo di alimenti animali e degli alcolici (8). Ornish (9) fu un altro importante clinico che focalizzò la propria attenzione sui fattori in grado di influenzare la progressione delle malattie coronariche. Il suo contributo fu quello di individuare in uno stile di vita rigoroso, che includeva meditazione, una dieta vegetale povera di grassi saturi, la cessazione del fumo e l’esercizio fisico regolare, la panacea alle malattie cardiovascolari (9). Benché il regime fornito da Ornish non fosse invasivo era efficacie nella riduzione delle placche ateromatose presenti nelle pareti delle arterie coronariche (9). Altri studi, invece, non riuscirono a dimostrare la stessa efficacia, probabilmente per una scarsa compliance della popolazione osservata, per cui le modificazioni apportate alla dieta furono modeste (10). Dati innovativi giunsero da Beulens (11), un giovane scienziato che studiò oltre 15mila donne olandesi, e dimostrò qualcosa di particolarmente importante per i pazienti già gravemente obesi: un’alimentazione ad alto indice e carico glicemico aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e, viceversa, influen18

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za positivamente la progressione delle malattie coronariche. Tantissimi altri trial clinici sono stati condotti, spesso analizzando gli effetti di un micronutriente o altri componenti sulla salute cardiovascolare. In particolare, i folati, correlati ai livelli di omocisteina, il magnesio e il selenio, gli antiossidanti, fra cui vitamina C, E, betacarotene. Grazie alla ricerca scientifica si è giunti alla consapevolezza che per limitare le malattie cardiovascolari e il loro progresso è necessario modificare la dieta in toto, piuttosto che concentrarsi su specifici micronutrienti e sostanze antiossidanti. Le più recenti linee guida (12) sottolineano l’aspetto polivalente della dieta indicata nella prevenzione della malattie coronariche, adeguata anche nella prevenzione e nel trattamento di diverse forme di cancro, diabete di tipo 2, ictus e altre patologie cronico-degenerative. Le raccomandazioni dietetiche attuali suggeriscono un ridotto contenuto di grassi totali e saturi, a favore dei grassi mono- e polinsaturi; un alto intake di fibra alimentare sotto forma di cereali integrali, legumi, frutta e verdura; un aumentato consumo di pesce e alimenti vegetali; il controllo dell’assunzione di sale e zuccheri (12). Nonostante il ruolo centrale della dieta nel controllo di numerosi fattori di rischio per malattie cardiovascolari, gli studi pubblicati sugli effetti dell’intervento nutrizionale nella riabilitazione cardiologica sono esigui. Uno di questi ha valutato l’efficacia dell’intervento nutrizionale attraverso l’analisi delle abitudini alimentari di 15 pazienti prima dell’intervento di bypass chirurgico, 2 mesi dopo l’intervento e a distanza di 1 anno (13). L’apporto di grassi totali, grassi saturi e di colesterolo “alimentare” era incrementato significativamente (21%, 36% e 51%), indicando una scarsa aderenza a lun-

go termine ai consigli dietetici rilasciati. È interessante notare che i pazienti con sintomatologia presente (angina), rispetto ai pazienti che non avevano dolore o altri sintomi tipici, erano più disposti a ricevere consigli alimentari e ad attuare modificazioni dietetiche secondo gli stessi (12). Si può ipotizzare che ciò sia accaduto perché la sintomatologia dolorosa ha ricordato ai pazienti tutto il loro percorso di malattia (13). Altro aspetto interessante osservato riguardava la differente adesione ai consigli nutrizionali rispetto al sesso del paziente. Gli uomini tendevano a seguire a più breve termine le raccomandazioni dietetiche rispetto alle donne, probabilmente per una minore importanza percepita della dieta rispetto all’esercizio fisico. Sulla base dei pochi studi disponibili (13,14), si è evidenziata la necessità di focalizzare maggiormente l’attenzione sul rinforzo dei model-

li alimentari salutari con l’obiettivo di evitare o rallentare il peggioramento dei processi di aterosclerosi. La maggior parte degli studi ha infatti dimostrato una scarsa aderenza alle linee guida dietetiche, anche quando venivano intensificati gli interventi a breve termine. L’intervento nutrizionale finalizzato a modificare le scorrette abitudini alimentari rappresenta una strategia di prevenzione secondaria


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essenzialmente priva di rischi e relativamente poco costosa se comparata alla terapia farmacologica, per cui necessita di ulteriori ricerche che permettano di individuare le barriere che portano nel tempo a un crollo drastico della compliance da parte di pazienti cardiovascolari. La chiave che assicura un effettivo miglioramento delle abitudini alimentari e che sostiene alti livelli di auto-coinvolgimento/impegno nel trattamento dei comportamenti che caratterizzano lo stile di vita non è ancora stata individuata. Probabilmente, la motivazione al cambiamento rimane la vera incognita anche nel paziente in fase cardiologica riabilitativa. n Bibliografia 1. Linee guida ANMCO-SIC-GIVFRC sulla

riabilitazione cardiologica. G Ital Cardiol 1999; 29: 1057-1091. 2. Urbinati S, Giampaoli S. Non solo fattori di rischio: le priorità e le nuove sfide

della prevenzione cardiovascolare. G Ital Cardiol 2010;11(5 Suppl 3):7S-14S. 3. Rehabilitation after cardiovascular diseases, with special emphasis on developing countries: report of a WHO Committee. World Health Organ Tech Rep Ser 1993;831:1-122. 4. Oldridge NB, Guyatt GH, Fisher ME, Rimm AA. Cardiac rehabilitation after myocardial infarction. Combined experience of randomized clinical trials. JAMA 1988; 260: 945-950. 5. Kallio V. Results of rehabilitation in coronary patients. Adv Cardiol 1978; 153-163. 6. O’Connor GT, Buring JE, Yusuf S, et al. An overview of randomized trials of rehabilitation with exercise after myocardial infarction. Circulation 1989; 80: 234-244. 7. Keys, A. Seven Countries: A Multivariate Analysis of Death and Coronary Heart Disease. Boston: Harvard University Press; 1980. 8. De Lorgeril M, Salen P, Martin JL, Monjaud I, Delaye J, Mamelle N. Mediterranean diet, traditional risk factors, and the rate of cardiovascular complications after myocardial infarction: final report of the Lyon Diet Heart Study. Circulation 1999;99(6):779–85. 9. Ornish D, Brown SE, Scherwitz LW, Billings JH,

Armstrong WT, Ports TA, et al. Can lifestyle changes reverse coronary heart disease? The Lifestyle Heart Trial. Lancet 1990;336(8708):129–33. 10. Howard BV, Van Horn L, Hsia J, Manson JE, Stefanick ML, Wassertheil-Smoller S, et al. Lowfat dietary pattern and risk of cardiovascular disease: the Women’s Health Initiative Randomized Controlled Dietary Modification Trial. JAMA 2006;295(6):655–66. 11. Beulens JW, de Bruijne LM, Stolk RP, Peeters PH, Bots ML, Grobbee DE, et al. High dietary glycemic load and glycemic index increase risk of cardiovascular disease among middle-aged women: a population-based follow-up study. J Am Coll Cardiol 2007;50(1):14–21. 12. Linee guida europee sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari nella pratica clinica (versione 2012). G Ital Cardiol 2013;14(5):328-392. 13. Hartwell D, Henry J. Dietary advice for patients undergoing coronary artery bypass surgery: falling on deaf ears? Int J Food Sci Nutr. 2003 Jan;54(1):37-47. 14. Garrett N, Reeder KM, Vacek JL. Diet and exercise interventions following coronary artery bypass graft surgery: a review and call to action. Phys Sportsmed. 2014 May; 42(2): 119–129.

questionario di valutazione 1. La riabilitazione cardiologica: a) ha come fine ultimo quello di favorire la stabilità clinica, di ridurre il rischio di successivi eventi cardiovascolari e le disabilità conseguenti alla cardiopatia b) ha come fine ultimo solo quello di favorire la stabilità clinica c) non riduce le disabilità conseguenti alla cardiopatia d) non riduce il rischio di successivi eventi cardiovascolari 2. I programmi riabilitativi: a) richiedono solo la competenza di un cardiologo b) necessitano di molteplici competenze professionali c) vengono effettuati dal personal trainer d) non sono componente essenziale del programma assistenziale per il paziente cardiopatico 3. Gli effetti favorevoli della riabilitazione cardiologica sono: a) miglioramento della tolleranza allo sforzo b) riduzione dei sintomi c) miglioramento della tolleranza allo sforzo, riduzione dei sintomi,

miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare e dello stile di vita, maggiore grado di benessere psico-sociale e riduzione dello stress d) riduzione della mortalità

4. In generale, la frequenza di esecuzione del programma di esercizio fisico è: a) una volta al mese b) una volta alla settimana c) quotidiana o trisettimanale d) non ci sono indicazioni a riguardo 5. Quale di queste affermazioni è errata? a) L’intensità dell’attività deve essere tale da produrre un incremento dell’allenamento fisico in misura proporzionata con il grado di tolleranza allo sforzo e con il periodo di tempo in cui si è protratta l’immobilizzazione determinata dall’evento acuto b) L’intensità dell’esercizio deve essere graduata per ogni paziente e messa in relazione con la durata

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c) Un esercizio a bassa intensità ha minore rischio di determinare effetti negativi su muscoli e articolazioni d) Un esercizio ad alta intensità ha minore rischio di determinare effetti negativi su muscoli e articolazioni

6. La formula di Karvonen: a) viene utilizzata per calcolare il range di frequenza cardiaca entro il quale effettuare il programma in condizioni di sicurezza b) predice il rischio di successivi eventi cardiovascolari c) calcola la massima frequenza cardiaca a riposo d) calcola la frequenza cardiaca basale 7. Nella valutazione soggettiva dell’intensità dell’allenamento: a) il metodo più semplice è l’autovalutazione del polso, che deve essere insegnata al paziente b) si usa la formula di Karvonen c) l’autovalutazione del polso non è attendibile d) non viene mai effettuata una valutazione soggettiva dell’intensità dell’allenamento 8. La singola seduta di training prevede: a) solo una fase di riscaldamento b) una fase di riscaldamento seguita da esercizi di endurance o di interval training c) non vi è un programma preciso d) solo esercizi con attrezzi 9. Quali di queste affermazioni circa la durata di una seduta di training è corretta? a) Una singola sessione di training ha in media la durata di un’ora b) Una singola sessione di training ha in media la durata di tre ore c) Una singola sessione di training ha in media la durata di quattro ore d) Una singola sessione di training ha una durata estremamente variabile 10. Quale affermazione non è corretta? a) Il recupero fa parte della sessione di training e dura in genere 10 minuti b) Bisogna suddividere la sessione di training in due parti (30 min al mattino e 30 min al pomeriggio) c) Il riposo non viene considerato nell’intervento di riabilitazione d) Il riposo costituisce un punto chiave dell’approccio terapeutico in caso di scompenso acuto o di instabilizzazione di scompenso cronico 11. I protocolli standard dei principali Centri italiani prevedono:

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a) da un minimo di 12 a un massimo di 40 sessioni, in periodi compresi tra le 2 e le 8 settimane b) un minimo di 5 sessioni c) un minimo di 10 sessioni d) un massimo di 60 sessioni

12. Quale delle seguenti affermazioni, relativa al programma a corpo libero, non è corretta? a) Il principio generale di tutti i programmi a corpo libero è quello di determinare una mobilizzazione dei maggiori gruppi muscolari b) Il programma a corpo libero ha un impegno crescente approssimativamente da 1,5 a 8 METs c) Il programma a corpo libero presenta esercizi ripetuti per la durata di 1-3 minuti a esercizio d) Il programma a corpo libero presenta esercizi ripetuti per la durata di 5-10 minuti a esercizio 13. Quale delle seguenti affermazioni è corretta? a) Gli studi pubblicati sugli effetti dell’intervento nutrizionale nella riabilitazione cardiologica sono esigui b) L’aderenza a una dieta appropriata non fa parte del percorso riabilitativo c) Vi sono numerosissimi studi effetti dell’intervento nutrizionale nella riabilitazione cardiologica d) La maggior parte degli studi ha dimostrato una buona aderenza alle linee guida dietetiche 14. Dagli studi presenti in letteratura che analizzavano effetti dell’intervento nutrizionale nella riabilitazione cardiologica è emerso: a) che gli uomini percepivano come meno importante la dieta dell’esercizio fisico rispetto le donne b) che gli uomini percepivano come più importante la dieta dell’esercizio fisico rispetto le donne c) buona aderenza alle linee guida dietetiche prescritte d) aderenza ottimale alle linee guida prescritte 15. Quale delle seguenti affermazioni relative alle linee guida non è corretta? a) Raccomandano di ridurre contenuto di grassi totali e saturi b) Sottolineano di incrementare l’intake di fibra alimentare c) Consigliano incrementare il consumo di pesce d) Suggeriscono di diminuire il consumo di alimenti vegetali




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Il consumo di sale e gli effetti sul sistema cardiovascolare Se nei secoli passati era considerato un bene raro e prezioso e il suo consumo era molto contenuto, oggi il sale è presente nell’alimentazione di tutti i giorni in quantità nettamente superiori al reale fabbisogno, con effetti che si traducono anche in alterazioni funzionali a carico dell’organismo

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er secoli il sale è stato considerato un elemento essenziale per la salute dell’uomo. Incontra la sua massima fortuna in epoca medievale, acquisendo la caratteristica, oltre che di esaltatore di sapidità di cibi e bevande, di ottimo conservante per le note proprietà idrofiliche e battericide e di alimento dotato di proprietà benefiche. Nonostante il suo indiscusso valore nelle differenti culture del passato, l’idea del sale quale elemento salutare sembra in parte superata. Recentemente, infatti, diverse indagini scientifiche hanno condotto a una re-

visione dei comportamenti alimentari in relazione all’uso del sale, proponendo l’esistenza di uno stretto rapporto tra il suo consumo e lo sviluppo di differenti alterazioni funzionali a carico dell’organismo. D’altra parte, i dati sugli usi alimentari del passato suggeriscono un consumo complessivamente minore (1015 mmol/die) rispetto a quello attuale che sarebbe di circa 20 volte più elevato; in media, tra l’altro, le popolazioni storicamente più antiche facevano un uso maggiore di cibi ricchi in potassio, con effetto di promuovere la natriuresi. Da notare anche il fatto che, in queste popolazioni che avevano una reale

Lucio Della Guardia

Scuola di Specializzazione in Scienza dell’Alimentazione, Milano Università degli studi di Pavia, Laboratorio di Dietetica e Nutrizione Clinica

Hellas Cena

Medico specialista in Scienza dell’Alimentazione Università degli Studi di Pavia

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difficoltà nel reperire sodio, nelle quali vi era una scarsa prevalenza di malattie metaboliche e cardiovascolari dettate anche dalla breve aspettativa di vita, l’effetto positivo sull’incremento della pressione conferiva un probabile elemento di vantaggio, in particolare nei casi di lavoro fisico strenuo. Questo fenomeno presumibilmente ha facilitato la diffusione di cibi arricchiti in sale, il che rende più complessi gli interventi tesi a limitarne l’eccessivo consumo. Il sodio, d’altra parte, è un catione fondamentale nell’omeostasi idroelettrolitica e si pone come principale ione responsabile dello sviluppo di potenziali d’azione delle cellule nervose, oltre che di regolatore nella distribuzione dei fluidi a livello dei compartimenti organici. Gli studi scientifici sugli effetti del sale nella dieta

I primi studi tracciati sugli effetti negativi provocati dall’eccessivo consumo di cloruro sodico focalizzavano l’attenzione sull’azione a livello del sistema cardiovascolare, in particolare sulla pressione arteriosa. Più tardi si è riusciti a trovare anche una correlazione fra il ruolo del sale e la promozione della carcinogenesi gastrica, nonché nell’interferenza nel metabolismo del calcio e nei processi di mineralizzazione ossea. In accordo con queste evidenze, sono state stilate delle linee guida nelle quali viene raccomandata una generale riduzione dell’introito di sodio durante la giornata per un ammontare complessivo massimo di 6 g. Metanalisi recenti propongono una media di intake sodico compresa tra i 4,6 (80 mmol/die)e i 5,8 g/die (100 mmol/die). Il limite principale nel controllo dell’introito salino deriva dal fatto 24

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che circa l’85% del sale che viene introdotto con la dieta deriva dai prodotti dell’industria alimentare, per cui l’ipotetico eccesso di sodio è da correlarsi all’introduzione di alimenti dal tenore salino elevato, sui quali andrebbe focalizzato un intervento di contenimento piuttosto che dall’utilizzo del sale come condimento, che invece si attesterebbe a un 15% consumo totale. I primi a osservare che effettivamente poteva sussistere una relazione tra il sistema cardiovascolare e il consumo di sale furono gli antichi abitanti della Cina circa 3.000 anni fa, i quali notarono che nei soggetti che consumavano maggiori quantitativi di sale l’onda sfigmica del polso radiale era maggiormente pronunciata. I primi studi scientifici sul tema sono stati condotti agli inizi del ventesimo secolo con risultati tuttavia discordanti, dando inizio a una controversia sulla restrizione di sodio nella dieta che tende ancora a persistere. Nonostante i risultati poco chiari dei primi studi, per anni si è perseguita l’idea di praticare restrizioni sodiche nella dieta al fine di controllare la pressione arteriosa nei casi di ipertensione, attività che in parte è stata soppiantata dall’utilizzo dei diuretici. Nonostante l’ingente quantità di studi condotti sul tema, la controversia relativa all’utilizzo del sodio nella dieta rimane non completamente risolta, anche se i dati dedotti dagli studi fanno propendere per l’esistenza di una relazione piuttosto consistente tra la riduzione dell’introito salino e il calo della pressione arteriosa. Sale e pressione

Dal punto di vista funzionale è ipotizzabile che una molecola come quella del sodio, che gode di un maggiore stato di idratazione rispetto ad altri cationi (14 molecole di acqua per ogni molecola di sodio) e che viene tendenzialmente compartimentalizzato nel liquido extracellulare (LEC), possa, con un effetto volumetrico, concorrere all’aumento anche della pressione. D’altra parte, come


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veniva puntualizzato da Cohen in uno studio degli anni Ottanta, uno dei meccanismi di autoregolazione dell’escrezione di sodio consiste proprio nell’aumento della pressione che realizza un maggiore effetto natriuretico. In realtà i mediatori deputati al controllo della pressione arteriosa sono molteplici, non completamente descritti e i meccanismi con cui agiscono non sono del tutto chiari. Tra l’altro, fattori come l’introito dietetico di potassio, il peso corporeo e il consumo di alcolici possono fungere da fattori confondenti negli studi in vivo. Anche Il sistema attraverso il quale il sodio viene assorbito e poi immagazzinato nei diversi compartimenti non è del tutto conforme alla vecchia teoria dei due compartimenti idrici intra ed extracellulare. I risultati di studi condotti sull’uomo hanno provato a ridefinire il modello bicompartimentale in cui il sodio si disperdeva all’interno del LEC provocandone l’espansione. Si è infatti notato che l’accumulo di sodio non è accompagnato da un’espansione volumetrica e aumento di peso come prevedibile in teoria. L’ipotesi avanzata per spiegare il fenomeno prevede due possibilità; in una prima ci sarebbe una ritenzione intracellulare di sodio (scambiato col potassio), in alternativa è possibile che il sodio formi delle interazioni elettrostatiche con strutture polianioniche come i glicosamminoglicani dell’interstizio e venga immagazzinato in forme saline osmoticamente inattive. Queste nuove ipotesi suggeriscono che non sia tanto l’ingresso complessivo di sodio e l’accumulo volumetrico, quanto piuttosto i meccanismi di accumulo specifici a livello cellulare e tissutale idealmente responsabili di ulteriori fenomeni di danno d’organo. Alcune esperienze scientifiche documentano come una relazione tra sodio e pressione, seppur non definitiva, possa essere tracciata con discreta sicurezza. In uno studio olandese pubblicato su Hypertension nel 1997, condotto su due gruppi dei lattanti in cui veniva somministrata una dieta ristretta in

sodio del 30% per i primi 6 mesi di vita o alternativamente una dieta normosodica, si notava alla fine del follow-up una netta riduzione dei valori pressori nel gruppo sottoposto a regime iposodico; il dato probabilmente più interessante è che a 15 anni di distanza i soggetti che avevano seguito la dieta iposodica risultavano avere valori sistolici di pressione inferiore rispetto ai coetanei. Il risultato poneva l’attenzione sull’esistenza di una possibile relazione complessa del consumo di sale con il sistema cardiovascolare, probabilmente legata a modifiche strutturali piuttosto che puramente emodinamiche, ipotesi che si lega al sistema di accumulo del sodio che abbiamo citato prima. Dati a suffragio della correlazione sodio-pressione provengono anche da esperimenti condotti su animali alimentati con alte dosi di sodio. Per rimarcare l’effetto che ha avuto la dieta negli ultimi due secoli e mezzo nel rialzo complessivo dei valori pressori è stata confrontata la pressione di un gruppo di scimpanzé (che hanno un metabolismo molto simile all’ uomo) a dieta con un tenore sodico di circa 10 mmol/die (presumibilmente simile

approfondimenti La diminuzione dell’apporto di sale può essere effettuata sia tramite la riduzione dell’apporto discrezionale di sale (quello aggiunto manualmente come condimento di cibi quali insalata, acqua di cottura della pasta ecc.) sia attraverso la riduzione dell’apporto non discrezionale di sale, cioè quello contenuto negli alimenti.

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a quello dei primi gruppi di individui) confrontata con quella di un secondo gruppo alimentato a circa 150-200 mmol di sodio al giorno. Come atteso, i valori pressori del secondo gruppo sono aumentati di circa 30 mmHg nei 20 mesi di trial, per poi riportarsi verso i valori iniziali quando i primati tornavano all’alimentazione pre-trial. Nella maggior parte degli studi condotti si è ottenuto un calo medio delle pressioni sistoliche e diastoliche. In uno degli studi numericamente più consistenti (Intersalt Study) si notava che l’introito di 100 mmol/die era associato mediamente a un calo pressorio sistolico rispetto alla popolazione generale di 2,2 mmHg, anche se mancava un riscontro simile per la componente diastolica. Una metanalisi condotta confrontando diversi studi dimostra un calo pressorio sistolico medio dai 3,7 ai 7 mmHg e di 0,92,5 mmHg per la diastolica; è interessante a questo proposito notare come il calo pressorio rapportato al calo salino non segua spesso una progressione lineare: in alcuni casi si è dimostrato che un calo di 0,9 g al giorno causa una riduzione pressoria maggiore se l’introito iniziale di sodio si attesta sui 2,3 g/die piuttosto che su range superiori. Questa osservazione si accorda con quanto detto in precedenza rispetto alla possibilità che un sovraccarico di sodio possa determinare dei cambiamenti funzionali o strutturali in organi bersaglio anche in maniera indipendente rispetto all’effetto pressorio. I dati ricavati pongono l’interrogativo sulla validità di porre in regime di restrizione sodica anche la popolazione non affetta da ipertensione arteriosa. Il quesito si pone in quanto i maggiori risultati si sono ottenuti su soggetti ipertesi (in cui il calo pressorio come plausibile è maggiormente consisten-

te) e inoltre viene sollevato anche il dubbio che una dieta iposodica possa determinare degli effetti sfavorevoli sull’omeostasi, determinando l’iperattivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone che, nel tentativo di fronteggiare lo scarso introito di sodio, favorirebbe l’instaurarsi di una serie di effetti negativi in sede cardiovascolare e renale. In tal senso, studi condotti su modelli animali hanno dimostrato che la restrizione di sodio è in grado stimolare l’attività del sistema nervoso simpatico, la produzione di angiotensina II (ANGII) e aldosterone e la diminuzione della sensibilità all’insulina, provocando fenomeni di rimodellamento vascolare e ventricolare e velocizzando il processo aterosclerotico. Riduzione di sodio ed effetti associati

Dal punto di vista pratico è importante capire se effettivamente la restrizione di sodio provoca effetti positivi sugli end-points clinici, vale a dire se si assiste a una reale diminuzione nell’incidenza di eventi cerebro e cardiovascolari. Gli studi tesi in questa direzione dimostrano come esistano delle effettive correlazioni tra la dieta iposodica e il calo dell’incidenza di eventi cardiovascolari. Tuttavia, come viene fatto notare da Titze e Ritz in una puntuale review, alcuni dei più quotati studi citati in proposito sembrano essere viziati da imprecisioni nell’analisi dei dati come da discutibili associazioni statistiche, il che porta a sospettare in parte dei risultati raggiunti. Qualche caso isolato propone addirittura una correlazione inversa tra la dieta iposodica e la presenza di eventi cardiovascolari. Queste evidenze sollevano alcune perplessità sull’esistenza di una precisa e diretta relazione causa-effetto. Tuttavia, anche se le evidenze sulla correlazione sono viziate da qualche imprecisione e gli studi fatti su popolazione non confermano appieno ciò che ci si attendeva di osservare, sembra lecito ipotizzare che una forma di relazione esista. n



FARMACOLOGIA_MEDICINALI contraffatti

Farmaci contraffatti, il rischio viaggia sul web Da sempre molto attenta al tema della contraffazione farmaceutica, che può interessare sia i farmaci di marca sia i generici, l’Aifa è in prima linea nella lotta a questo fenomeno come testimoniano le diverse iniziative di cui è promotrice

Domenico Di Giorgio Direttore Ufficio qualità dei prodotti e contraffazione Agenzia italiana del farmaco

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di Renato Torlaschi

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a diffusione di medicinali contraffatti registra oggi una continua crescita; il fenomeno riguarda sia farmaci generici che di marca e coinvolge paesi in via di sviluppo e paesi industrializzati. La contraffazione dei farmaci ha ripercussioni molto serie in termini di rischio per la salute pubblica e le istituzioni interessate al fenomeno sono chiamate da tempo a porre in essere adeguate azioni di contrasto a tutela della collettività». Queste parole fanno da premessa al testo “Farmaci contraffat-

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ti”, curato da Domenico Di Giorgio, direttore dell’Ufficio qualità dei prodotti e contraffazione dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco. Il documento fa luce sull’entità e sulle forme di un fenomeno spesso sconosciuto, spiegando nel contempo le attività di contrasto messe in atto dalle amministrazioni coinvolte dalla problematica – ministero della Salute, Carabinieri Nas, Istituto superiore di sanità, Agenzia delle dogane e dei monopoli, ministero dello Sviluppo economico e Polizia criminale – che collaborano (anche con le as-


FARMACOLOGIA_MEDICINALI contraffatti

la campagna aifa «Casi reali, senza inventare niente»: così Domenico Di Giorgio descrive l’imminente campagna messa in campo dall’Agenzia italiana del farmaco contro la rivelata sottostima dei rischi da parte di coloro che acquistano farmaci attraverso canali non ufficiali: «oltre a combattere il crimine è dunque necessario informare gli acquirenti. Per tutte le tipologie di farmaci più diffuse sul web – per la sfera sessuale ma anche dimagranti, prodotti per il doping e da qualche tempo anche gli antidepressivi – esistono infatti casi già noti e pubblici, relativi al manifestarsi di effetti collaterali letali; questo perché, purtroppo, comprare da negozi non certificati o andare su Internet è molto pericoloso».

sociazioni di settore come Farmindustria), in modo costante e sistematico nell’ambito della Task-force nazionale anticontraffazione. I danni per la salute pubbblica

L’attività di contrasto alla contraffazione dei farmaci richiede, infatti, competenze di diversa matrice, e un sistema strutturato di collaborazione interistituzionale, anche a livello internazionale. Ma cosa sono i farmaci contraffatti, e in che modo possono essere pericolosi? Si tratta di prodotti la cui etichetta riporta informazioni ingannevoli sul contenuto e sull’origine del farmaco. Può trattarsi di medicinali senza ingredienti attivi, con ingredienti attivi differenti o presenti in quantità diversa da quella dichiarata o, ancora, con un principio attivo corretto contenuto in una confezione falsa. La casistica è ampia, dallo sciroppo per la tosse contenente un solvente tossico invece della più costosa glicerina, al medicinale rubato, rietichettato e rimesso sul mercato con l’indicazione di un dosaggio superiore rispetto a quello del farmaco originale. In tutti questi casi, il rischio per i pazienti è sia quello di assumere farmaci privi dell’effetto terapeutico atteso che di incorrere in gravi effetti collaterali, che talvolta possono addirittura essere letali.

La campagna affida il proprio messaggio a un video e a una brochure anch’essa diffusa attraverso una rete composta da tutte le associazioni, istituzioni, amministrazioni che già collaborano con Aifa. Il video è stato al momento realizzato in italiano, inglese, spagnolo e portoghese – le quattro lingue del progetto Fakeshare (www.fakeshare.eu) – ma attraverso il network del Consiglio d’Europa verrà diffuso anche in paesi come quelli dell’ex Jugoslavia e probabilmente tradotto in altre lingue ancora. «L’idea – riassume Di Giorgio – è quella di una campagna Web, perché al Web si rivolgono i consumatori di questi farmaci, persone ad alta alfabetizzazione informatica, ai quali è mirata questa iniziativa di Aifa.».

Per quanto riguarda l’entità del fenomeno, secondo i dati di Oms e Censis la percentuale di farmaci contraffatti sul mercato è del 6-7% a livello mondiale, ma sale al 20-30% nei paesi in via di sviluppo, con picchi che superano il 50% nei periodi di crisi; in Europa l’incidenza scende all’1% e, in Italia allo 0,1%. «Ma più che le statistiche – spiega Di Giorgio – va considerata la casistica: la possibilità che anche un solo lotto di farmaco contraffatto arrivi sul mercato può tradursi in un danno enorme per la salute pubblica, come nel caso dello sciroppo per la tosse che in Nigeria, nel 1990, ha causato il decesso di oltre cento bambini». Un altro esempio drammatico è quello delle decine di decessi avvenuti nel 2008 negli Usa in pazienti trattati con eparina, un medicinale anticoagulante distribuito sul territorio statunitense da una nota casa farmaceutica, il cui principio attivo era prodotto in Cina. Iniluglio 2016

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quattro categorie di farmaci falSi Volendo schematizzare, si possono distinguere almeno quattro categorie differenti di “falso”, con crescente pericolosità potenziale. z Prodotti che contengono gli stessi principi attivi (ottenuti legalmente o illegalmente) e gli stessi eccipienti, nella giusta quantità. z Prodotti che contengono le giuste componenti, ma non nelle quantità esatte, o le cui formulazioni farmaceutiche non rispettano i requisiti richiesti in relazione, per esempio, all’origine delle ma-

terie prime o alla scadenza e alla biodisponibilità del prodotto finito. z Prodotti che esteriormente appaiono simili a quelli autentici, ma che contengono ingredienti non attivi o altre sostanze comunque non nocive. z Prodotti che esteriormente appaiono simili a quelli autentici, ma che non possiedono gli stessi principi attivi e contengono addirittura sostanze nocive. Per tutti questi prodotti è comunque sempre assente un ingrediente fondamentale: la qualità.

zialmente circoscritto ai preparati di eparina non frazionata, l’allarme si è esteso in breve tempo anche alle eparine frazionate, coinvolgendo molti altri paesi, compresa l’Italia, dove però l’azione di contrasto è stata efficace e non si sono avute vittime. La lotta ai farmaci contraffatti in Italia e in Europa

Oltre ad agire sul proprio territorio, l’Italia ha da qualche tempo iniziato a proporre alla Commissione europea dei progetti mirati all’ideazione e implementazione di strumenti di intelligence e di comunicazione e ha ottenuto finanziamenti ad hoc. «Siamo capofila – spiega Di Giorgio – nell’ambito del progetto europeo Fakeshare, di un gruppo di amministrazioni italiane ed estere, di cui fanno parte anche alcune università; nel corso del progetto è stata messa a punto una piattaforma web attraverso la quale le forze di polizia e gli investigatori possono condividere le informazioni per ottimizzare le indagini sulla contraffazione farmaceutica e sul crimine farmaceutico. Nella prima fase sono state realizzate – in Italia, Spagna, Portogallo – ricerche ad hoc con l’Università di Roma “La Sapienza”, per indagare quelle variabili psico-sociali che inducono all’acquisto di farmaci attraverso il web. I risultati di queste ricerche hanno sostanzialmente confermato ciò che già sospettavamo: nella gran parte dei casi “l’acquirente 30

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tipo” è consapevole dell’illegalità e nel contempo sottostima i rischi legati all’acquisto di farmaci potenzialmente pericolosi. Ciò si traduce nella necessità di aumentare la consapevolezza del rischio. Nel corso della seconda fase del progetto – Fakeshare II – cui ha preso parte anche il Regno Unito, abbiamo approfondito alcuni elementi, sulla base dei quali è stata impostata la campagna di comunicazione e sensibilizzazione che Aifa e gli altri partner del progetto si apprestano a lanciare». La direttiva 2011/62/UE ha di fatto recepito a livello europeo gran parte delle buone pratiche già applicate dall’Italia, tra cui la tracciabilità dei farmaci (il cosiddetto “sistema bollino”), che prevede la serializzazione dei medicinali, identificati attraverso un codice univoco che viene seguito dal produttore fino alla farmacia e rappresenta una strategia vincente per mettere in sicurezza il canale distributivo. «Le farmacie rappresentano infatti – dice Di Giorgio – il terminale di una rete di distribuzione in cui l’infiltrazione dei prodotti illegali è estremamente limitata e, in riferimento all‘Italia, è praticamente nulla. In linea teorica provare a infiltrare prodotti illegali nelle nostre farmacie sarebbe possibile, ma anche costoso e difficile; da quando c’è il sistema bollino, di fatto, non sono stati registrati casi di infiltrazione. In Europa avverrà lo stesso e questo permetterà di superare il limite derivato dal fatto che il nostro è un sistema difensivo, in cui è difficile infiltrare dei prodotti; tuttavia, quando un farmaco esce dal territorio nazionale, poiché non c’è ancora un sistema analogo negli altri paesi, ne perdiamo le tracce». Aifa, come già ricordato, da tempo pone molta attenzione al fenomeno della vendita di farmaci attraverso Internet: i cittadini che siano entrati in possesso di un prodotto comprato su Internet, rispetto al quale abbiano dei sospetti, possono mandare un segnalazione direttamente a Aifa oppure rivolgersi al proprio farmacista – che rappresenta un riferimento importante sul territorio per diffondere informazioni qualificate. n




Ginecologia_contraccezione d’emergenza

Contraccezione d’emergenza: abolito l’obbligo di ricetta

L’

Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha recentemente stabilito l’abolizione dell’obbligo della ricetta per le donne maggiorenni sia per le cosiddette “pillole del giorno dopo” a base di Levonorgestrel che per quelle dei “5 giorni dopo” a base di Ulipristal acetato. «La novità decisa dall’Aifa - ha spiegato a Professione Salute Corrado Giua Marassi, presidente della Sifac (Società italiana di farmacia clinica) - cambia profondamente non solo il regime di dispensazione di tale categoria di farmaci, ma anche il quadro di riferimento della paziente, la quale, evidentemente, individua come referente clinico primario sul territorio il farmacista, per ovvi motivi di capillarità, di facilità d’accesso e di tempistica. Al farmacista - continua - viene affidato un ruolo assai rilevante in ambito socio-sanitario nella gestione di farmaci di importanza terapeutica notevole. Un farmacista ben preparato, oltre a essere capace di fornire messaggi di educazione sanitaria e sull’utilizzo di contraccettivi a seguito di rapporti occasionali, ha l’opportunità di istruire adeguatamente anche a proposito delle malattie sessualmente trasmesse».

Il protocollo informativo targato Sifac

A tal proposito la Sifac ha recentemente emanato un documento che presenta le linee guida rivolte proprio al farmacista contenente tutte le informazioni utili sui farmaci contraccettivi d’emergenza, con l’obiettivo di standardizzare l’approccio del professionista in tal senso. «Al di là di quelle che possono essere le valutazioni etiche, ideologiche e religiose che non appartengono alla nostra sfera di attività, come Sifac ci siamo preoccupati di contribuire alla

È dunque sufficiente aver compiuto 18 anni per potersi recare in farmacia e acquistare una pillola contraccettiva di emergenza senza la ricetta del medico per scongiurare eventuali gravidanze indesiderate

formazione del farmacista, il quale chiaramente si trovava disorientato rispetto a questo nuovo scenario - sottolinea Giua Marassi -. Sifac ha deciso, dunque, di produrre in tempi rapidi un documento sintetico, chiaro e fruibile, convalidato con la classe medica specialistica, che fornisce le indicazioni utili per poter consigliare questi farmaci in totale sicurezza alle donne che ne fanno richiesta». Alla contraccezione d’emergenza si consiglia vivamente di ricorrere, al fine di evitare una eventuale gravidanza indesiderata, a seguito di un rapporto sessuale non protetto o di mancato funzionamento di un sistema anticoncezionale. Il medico può prescrivere la pillola anticoncezionale d’emergenza anche alle minorenni che ne fanno richiesta (non è neces-

di Vincenzo Marra

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Ginecologia_contraccezione d’emergenza

Corrado Giua Marassi Presidente Sifac Società italiana di farmacia clinica

sario il consenso genitoriale), in quanto la sola indicazione terapeutica del farmaco è rappresentata dal rapporto senza protezione. Il ricorso alla contraccezione di tipo ormonale è consentito a partire dal menarca, mentre il suo impiego si può protrarre fino al periodo della menopausa. I regimi ormonali attualmente a disposizione sono due: Levonorgestrel (LNG), unica somministrazione da 1,5 mg (nessun obbligo né sulla prescrizione per le maggiorenni né sull’effettuazione del test di gravidanza); Ulipristal acetato (UPA), 30 mg in unica somministrazione (nessun obbligo sulla prescrizione e sull’effettuazione del test di gravidanza per le maggiorenni). L’assunzione della pillola per la contraccezione di emergenza dovrebbe avvenire in tempi decisamente ridotti dopo il rapporto a rischio, in particolare entro le 72 ore per la “pillola del giorno dopo” (Levonergestrel), mentre la tempistica per la “pillola dei 5 giorni dopo” (Ulipristal acetato) sale al massimo a 120 ore. L’assunzione della pillola a base di LNG è consentita, dopo consultazione con lo specialista, in maniera ripetuta nello stesso ciclo mestruale, anche se è necessario avvertire la paziente a proposito delle potenziali alterazioni che il farmaco potrebbe comportare al ciclo stesso. Interazioni farmacologiche

approfondimenti I rapporti sessuali che avvengono successivamente all’utilizzo di un metodo contraccettivo di emergenza devono essere necessariamente protetti attraverso sistemi di maggiore efficacia, quali le contraccezioni a barriera, almeno fino a comparsa del successivo ciclo mestruale.

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Qualora la paziente si trovi nelle condizioni di assumere farmaci induttori enzimatici (tra cui quelli relativi alla cura post-esposizione ad HIV) o abbia sospeso questa tipologia di farmaci da meno di 28 giorni, la stessa deve rivolgersi al professionista per individuare la metodologia contraccettiva di emergenza maggiormente appropriata per il suo caso specifico. L’efficacia della pillola a base di UPA può risultare ridotta in caso di concomitante assunzione di farmaci contraddistinti da un meccanismo d’azione che conduce all’incremento del pH gastrico, come ad esempio antiacidi, H2 antagonisti e inibitori di pompa protonica. Le due tipologie di pillole possiedono inoltre la capacità di ridurre l’efficienza dei metodi con-

traccettivi ormonali progestinici (POP), dunque è fortemente consigliato l’utilizzo di ulteriori precauzioni in aggiunta a quelle già adottate. Controindicazioni

Il Levonorgestrel non presenta restrizioni di utilizzo, ma risulta non efficace in caso di gravidanza già accertata, dunque è inutile procedere con l’assunzione. L’utilizzo concomitante dei due contraccettivi ormonali LNG e UPA presenta controindicazioni. La pillola contraccettiva di emergenza LNG è caratterizzata da avvertenze d’uso differenti rispetto a quelle della regolare contraccezione ormonale. Nel caso in cui siano presenti nella storia clinica della paziente patologie quali cardiopatia ischemica, tromboembolismo, situazioni acute cerebro-vascolari, emicrania, patologia epatica grave, la valutazione del rapporto rischio/beneficio guida in questi casi a consigliare il metodo contraccettivo ormonale a base di LNG rispetto ai possibili pericoli connessi alla gravidanza indesiderata. Anche il metodo UPA non risulta essere efficace se la gravidanza è già in atto, dunque in questi casi se ne sconsiglia l’assunzione; le controindicazioni relative a questa tipologia contraccettiva sono piuttosto ridotte e comprendono ipersensibilità al farmaco, insufficienza epatica e asma grave non adeguatamente controllata da glucocorticoidi per via orale. L’uso di tale pillola deve comportare inoltre una sospensione dell’allattamento al seno nella settimana successiva all’impiego, continuando comunque a prelevare il latte al fine di mantenere regolare la produzione. Per quanto riguarda l’efficacia delle due soluzioni contraccettive i dati indicano una percentuale media pari all’88% per il Levonorgestrel, mentre il metodo UPA possiede un’efficacia maggiore rispetto a LNG se l’assunzione avviene entro 3 giorni dal rapporto privo di protezione. È importante evidenziare come sia stata riportata da studi recenti una riduzione di efficacia della pillola per donne di peso superiore ai 75


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kg, fino ad arrivare all’assenza di efficacia per pazienti con peso superiore agli 80 kg (European Medicines Agency – Ema 2014). La validità risulta essere maggiore nel momento in cui l’assunzione avviene entro le 24 ore successive al rapporto a rischio, mentre si riduce con l’aumentare del tempo trascorso dopo il rapporto sessuale non protetto. Il ruolo del farmacista

È bene ricordare alla paziente che il metodo anticoncezionale regolare rimane comunque quello più efficace, mentre la pillola d’emergenza deve costituire una soluzione da adottare solo in specifiche circostanze. La maggiore semplicità di accesso al farmaco potrebbe indurre la donna a sospendere l’assunzione del metodo contraccettivo ormonale normalmente utilizzato, per questa ragione risulta fondamentale affrontare un counselling opportuno sia individuale che di coppia al fine di valutare la metodologia contraccettiva più adeguata, in maniera tale da scegliere consapevolmente, scongiurando i rischi di banalizzazione di tale trattamento farmacologico. La discussione al riguardo spesso può assumere aspetti piuttosto imbarazzanti per la paziente, dunque è fondamentale che il professionista offra la massima disponibilità all’ascolto. Bisognerebbe, inoltre, convincere la paziente a esprimere bisogni e dubbi legati alla propria esperienza personale, creando le condizioni più adatte ai fini di una giusta privacy (sarebbe opportuno, ad esempio, parlare in un luogo riservato della farmacia), utilizzando una terminologia semplice e un approccio cordiale, indispensabili per stabilire la giusta empatia tra donna e farmacista. Il ruolo del farmacista diventa dunque quello di educatore sanitario per la paziente, una figura che sia in grado di fornire informazioni e consigli utili su argomenti riguardanti la sessualità e la prevenzione dalle infezioni sessualmente trasmissibili (IST) oltre che sull’utilizzo appropriato dei trattamenti contraccettivi. Il farmacista deve sempre consigliare e promuovere l’impiego della metodologia doppia

di protezione contraccettiva (ormonale e preservativo), affinché ci sia una riduzione massima del rischio di trasmissione delle IST e di gravidanze indesiderate. Richieste del farmaco in aumento

«È del tutto evidente che in questo contesto, caratterizzato da un alto livello di complessità per la salute delle donne, dobbiamo lavorare per chiarire il ruolo che il farmacista è chiamato a svolgere nella somministrazione del farmaco, abbandonando eventuali dubbi - è quanto afferma ancora Giua Marassi. Da anni Sifac lavora nel supportare la figura del farmacista clinico, una figura specializzata che svolge un ruolo attivo nel fornire assistenza ai pazienti, nella promozione della salute e nella prevenzione; ma soprattutto nel garantire l’uso sicuro ed efficace dei farmaci, ponendo particolare attenzione alle problematiche ad esso connesse. È quindi necessario fornire al farmacista adeguati strumenti in questo passaggio di transizione che vede spostare la centralità dal farmaco al paziente». «Questo primo periodo di cambio normativo conclude il presidente Sifac - ha visto un grande incremento in termini di accesso delle pazienti direttamente in farmacia per richiedere i farmaci contraccettivi d’emergenza. Ritengo che con la decisione assunta da parte dell’Aifa si faccia un grande passo avanti nella direzione di una giusta educazione sessuale, anche in considerazione del fatto che nei Paesi in cui, prima che in Italia, è stata introdotta la contraccezione d’emergenza si è registrata parallelamente una riduzione del ricorso all’interruzione di gravidanza, dato questo estremamente significativo e non trascurabile». n luglio 2016

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Ginecologia/UROLOGIA_infezioni urinarie

Cistite, fastidio frequente per le donne ma non solo

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ra le infezioni batteriche, quelle urinarie rappresentano sicuramente le più comuni. Sono associate a un ampio spettro di condizioni che spaziano dalla semplice e asintomatica presenza di batteri a livello urinario a fastidiosi stati infiammatori vescicali (o cistiti); nei casi più gravi si possono verificare infiammazioni renali complicate da sepsi. La condizione clinica più diffusa è indubbiamente rappresentata dalla cistite; una donna su due sperimenta almeno un episodio nel corso della propria vita. Proprio a causa dell’ampia diffusione è oggi considerata la seconda patologia più frequente dopo quelle delle vie respiratorie. Sebbene si tratti di un’infezione urinaria non complicata, rappresenta un serio problema da un punto di vista clinico, psicologico ed economico per i costi sanitari e sociali che ne derivano.

Si tratta di un’infiammazione della vescica urinaria ovvero l’organo dedicato alla raccolta dell’urina. Nella maggior parte dei casi la cistite è riconducibile a infezioni batteriche e colpisce le donne, ma può interessare anche gli uomini

Cenni epidemiologici e fattori di rischio

La prevalenza dell’infiammazione della mucosa vescicale nelle giovani donne è 30 volte maggiore che negli uomini. Si stima checirca l’11% delle donne lamenti un episodio di cistite all’anno, e circa il 5% soffra di episodi ricorrenti. Negli uomini adulti la sua incidenza non supera l’1-2% ma tende ad aumentare dopo i 50 anni, a causa di condizioni legate all’ipertrofia prostatica benigna. Oltre i 65 anni di età, l’incidenza tende ad aumentare in modo uguale in entrambi i sessi a causa di problematiche funzionali e anatomiche. Sono molteplici i fattori di rischio che predispongono (soprattutto le donne) all’insorgenza di cistite. In particolar modo, alcune abitudini comportamentali che riguarda-

no lo stile di vita possono giocare un ruolo fondamentale; tra tutte, la scarsa o eccessiva igiene intima, i rapporti sessuali non protetti, l’uso di tamponi vaginali durante il ciclo mestruale, l’uso di detergenti intimi non specifici e di spermicidi, le irregolarità alimentari, lo stress e l’antibioticoterapia non specifica. Tra le cause principali, la risalita verso la vescica di agenti patogeni di origine fecale, vaginale o uretrale rappresenta quella più comune. Gli agenti patogeni imputati sono in genere batteri Gram negativi; in almeno il 70% dei casi è coinvolto l’Escherichia Co-

di Carla Carnovale

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Ginecologia/UROLOGIA_infezioni urinarie

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li, occasionalmente sono identificati patogeni quali lo Streptococcus faecalis, il Proteus o la Klebsiella.

verifica anche la presenza di sangue e pus nelle urine che appaiono torbide e maleodoranti.

Come si manifesta

Per una corretta diagnosi

Nonostante possa talvolta risultare asintomatica, nella maggior parte dei casi si manifesta con la comparsa improvvisa del bisogno di urinare (ogni 15-20 minuti), sia di giorno che di notte. La minzione è accompagnata da dolore, bruciore e senso di peso sovrapubico. Di solito questi sintomi possono durare da una settimana a dieci giorni. Altri sintomi, presenti tutti o in parte, che caratterizzano la cistite sono la pollachiuria, ovvero un aumento transitorio o permanente del numero di minzioni durante le 24 ore, accompagnato dalla riduzione del volume vuotato per ogni singola minzione e la disuria ovvero la difficoltà nell’urinare. A causa di una minzione molto lenta e poco abbondante, si verifica anche bruciore o dolore durante la minzione (stranguria), accompagnato da brividi e freddo. Altro sintomo caratteristico è rappresentato dal tenesmo vescicale, uno spasmo doloroso seguito dall’urgente bisogno di urinare. Talvolta si

La diagnosi viene effettuata mediante l’esame fisico-chimico delle urine e del sedimento urinario, che in caso di cistite rileverà la presenza di batteriuria, leucocituria e talvolta microematuria. L’urinocoltura consente inoltre di identificare l’agente infettante, la determinazione della carica batterica e l’esecuzione dell’antibiogramma; è quindi indispensabile nelle forme ricorrenti delle basse vie urinarie o in caso di sintomi che possono far sospettare pielonefrite. In caso di episodi ricorrenti è inoltre necessario eseguire anche uno studio morfologico delle vie urinarie. Approccio farmacologico e rimedi fitoterapici

Intervenire tempestivamente con un corretto approccio farmacologico e/o l’utilizzo di rimedi fitoterapici sin dal primo episodio è molto importante per contrastare il frequente fenomeno delle recidive. I farmaci maggiormente utilizzati appartengono alla classe terapeutica degli antidolorifici/antispastici e degli antibiotici. La fenazopiridina, assunta per via orale dopo i pasti, a intervalli regolari, allevia la sintomatologia dolorosa e diminuisce lo stimolo di urinare; è utilizzata in associazione agli opportuni agenti anti-infettivi per il trattamento iniziale (i primi 2 giorni). Tuttavia non vi è ad oggi evidenza scientifica che la combinazione antibiotico-fenazopiridina fornisca un maggior beneficio rispetto all’utilizzo del solo agente anti-infettivo. Tra gli altri agenti antidolorifici/antispastici raccomandati, la scopolamina butilbromuro (1-2 compresse da 10 mg 3 volte al dì) è indicata in adulti e ragazzi di età superiore ai 14 anni per rilassare la muscolatura liscia del tratto genitourinario, la floroglucina biidrata per favorire un’azione spasmolitica.


Ginecologia/UROLOGIA_infezioni urinarie

Tra gli antibiotici, opportunamente scelti in funzione della sensibilità locale dell’organismo, l’amoxicillina e la ciprofloxacina rappresentano le due opzioni utilizzate in caso di cistite di lieve entità. Per la profilassi, in base alla gravità del disturbo e alle indicazioni del medico, viene raccomandato l’utilizzo di trimetoprim. In caso di cistite causata da infezione da Escherichia Coli, una maggiore efficacia è stata dimostrata con utilizzo della ofloxacina (200 mg di principio attivo ogni 12 ore per 3 giorni). L’efficacia dei rimedi naturali

Ad oggi sul mercato sono presenti moltissimi rimedi naturali per trattare la cistite. Il cranberry (mirtillo rosso di origine americana) è sicuramente il più efficace nelle cistiti ricorrenti provocate dall’Escherichia Coli. È ricco di composti fitochimici, tra cui flavonoidi, antocianosidi, acido citrico e acido malico che esplicano un’efficiente azione antibatterica e regolano il pH dell’urina. Diverse evidenze scientifiche dimostrano che il succo di mirtillo rosso rende la mucosa delle vie urinarie antiaderente ai batteri patogeni e ne impedisce la loro riproduzione nell’organismo. Le proantocianidine inoltre, modificano la composizione chimica dell’urina contribuendo a inibire l’aderenza dei batteri. Ottimi risultati si ottengono soprattutto utilizzando il cranberry a scopo preventivo in associazione ad altri rimedi sempre di origine naturale (o antibiotici) anche per curare cistiti sporadiche o ricorrenti. Si può assumere sia in succo che in capsule, il primo è ottimo durante la fase preventiva, l’estratto secco invece è consigliato in caso in cui la cistite si sia già manifestata. Le dosi consigliate da assumere sono pari a 500 mg o 1000 mg al giorno; a seconda del prodotto acquistato (in erboristeria o farmacia) corrispondono a 2-3 compresse, da assumere lontano dai pasti. Anche l’efficacia antibiotica ad ampissimo spettro dell’estratto dei semi di pompelmo è stata ormai riconosciuta da numerose ricerche scientifiche. Esplica un’azione antimicrobica al-

per prevenire la cistite Per evitare le infezioni ricorrenti le raccomandazioni generali includono: z un adeguato apporto idrico giornaliero (almeno 1 litro e 1/2 di acqua) per favorire la diuresi; z una minzione regolare; z una dieta equilibrata, povera di grassi e di proteine, non acida, senza eccessi di frutta, verdura e cereali che possono avere un’azione irritante;

z urinare prima del sonno e dopo i rapporti sessuali;

z praticare una regolare igiene intima evitando l’utilizzo di detergenti troppo aggressivi; z indossare biancheria intima in fibre naturali; z regolare la funzionalità intestinale (la stipsi favorisce la contaminazione del tratto urinario); z praticare un’attività fisica regolare

leggerendo il lavoro del sistema immunitario e contribuendo a rafforzarlo, senza danneggiare la flora batterica. Altri prodotti ampiamente utilizzati contengono l’uva ursina, antisettico in grado di determinare un’azione antibatterica, antinfiammatoria e calmante lo stimolo continuo della minzione e il dolore. Un altro rimedio naturale di ampio utilizzo e molto efficace sia per la prevenzione che nelle fasi acute, è il d-mannosio. È uno zucchero semplice che una volta assorbito dall’organismo viene eliminato dai reni raggiungendo concentrazioni elevate nelle vie urinarie dove esplicherà la sua azione. Possiede un’elevata affinità per le lectine (le zampe) di molti batteri, attraverso le quali aderiscono alle pareti vescicali per scatenare la cistite. Attaccandosi alle zampe dei batteri, il d-mannosio impedisce sostanzialmente la condizione indispensabile affinché l’infiammazione si manifesti. La capacità con cui riesce a legarsi ai batteri è così elevata da riuscire a calamitare anche quelli già ancorati in profondità a livello vescicale. Un aspetto molto importante è legato alla sua selettività; agisce difatti solo sui batteri coinvolti nell’infiammazione vescicale, salvaguardando il resto della flora batterica. Essendo inoltre componente della stessa mucosa vescicale, ricostituisce lo strato protettivo danneggiato in caso di infiammazioni. La posologia è di 2 bustine o 3-4 capsule al giorno (da assumere a stomaco vuoto e dopo aver urinato) per 2-4 settimane, per poi ridurre le dosi e proseguire per diversi mesi in caso di cistiti recidivanti. n luglio 2016

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dermatologia_macchie cutanee

Macchie scure della pelle: in estate serve più protezione

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e iperpigmentazioni cutanee, o più semplicemente “macchie scure” della pelle, rappresentano un problema piuttosto comune, che seppur possa interessare individui di entrambi i sessi, colpisce prevalentemente le donne. Questi fastidiosi inestetismi cutanei si manifestano come chiazze rotondeggianti oppure ovali di dimensioni variabili, dal colorito bruno più o meno intenso e si localizzano soprattutto sul dorso delle mani, sulla fronte, sulle guance, sul mento e possono estendersi anche sul collo. Proprio a causa della loro localizzazione, e soprattutto nei casi in cui le lesioni siano molto evidenti e diffuse, le macchie cutanee costituiscono veri e propri problemi di carattere estetico e di natura psicologico-sociale, in grado di influire negativamente sulla vita relazionale delle donne colpite.

Possono essere localizzate

Quanti tipi di iperpigmentazioni cutanee esistono

accumulo di melanina

Parallelamente alle efelidi e lentiggini (determinate da fattori genetici) che costituiscono una gradevole caratteristica personale, esiste un ampio spettro di iperpigmentazioni cutanee, che pur vantando caratteristiche ben precise, sono tutte accomunate da un eccessivo accumulo di melanina. In base alla diversa causa scatenante responsabile dell’insorgenza della specifica macchia cutanea, è possibile classificare le iperpigmentazioni in: melasma, lentigo solari o senili, lentiggini da lettino abbronzante e iperpigmentazioni post-infiammatorie. Melasma. Molteplici fattori, tra cui la predisposizione genetica, lo stress, l’esposizione ai raggi solari o artificiali (lampade), i contrac-

in zone specifiche del corpo, del viso e delle mani oppure più diffuse su tutto il corpo e in genere si tratta di un inestetismo causato da un eccessivo

cettivi orali, disfunzioni tiroidee, la gravidanza e, più in generale, i cambiamenti ormonali, giocano un ruolo importante nell’insorgenza del melasma. Si manifesta sul volto di giovani donne sotto forma di macchie scure irregolari, che tendono ad accentuarsi con l’esposizione solare. Anche se ad oggi non sono ancora chiari i meccanismi che causano questa iperpigmentazione, il ruolo più importante è svolto dall’azione degli estrogeni. Infatti circa il 90% delle donne colpite, è in stato gravidico; la comparsa delle macchie, infatti, sembra correlabile ai livelli ormonali, in particolare al

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17-β estradiolo, responsabile di un aumento significativo dell’attività della tirosinasi, enzima coinvolto nella produzione di melanina. Lentigo solari e lentigo senili. Un’eccessiva esposizione solare senza un’adeguata protezione e conseguente scottatura sono responsabili dell’insorgenza delle lentigo solari, molto diffuse soprattutto tra le donne dai 45 ai 50 anni a causa di un più lento turnover cellulare della pelle. Si presentano come macchie di forma irregolare e dimensione variabile, di colore giallo-bruno, prevalentemente sulle aree più esposte alle radiazioni solari. Le lentigo senili sono invece macchie scure isolate legate all’invecchiamento che spuntano sul viso e sul dorso della mano come conseguenza di esposizioni solari ripetute negli anni. La comparsa delle macchie coincide quasi sempre con la menopausa e può talvolta rappresentare un vero e proprio disturbo responsabile di turbe psicologiche. Lentiggini da lettino abbronzante. In vista della stagione estiva, sono in molti ad affidarsi ai lettini abbronzanti per poter sfoggiare un intenso colorito abbronzato, per tanti sinonimo di benessere e bellezza. Circa un milione e mezzo di adolescenti tra i 14 e i 18 anni si sottopone a prolungate sedute di rag-

rimedi naturali per combattere le macchie cutanee La fitoterapia può essere d’aiuto per schiarire naturalmente le macchie della pelle e minimizzare il rischio di reazioni avverse. L’arbutina dell’uva ursina esercita una buona azione schiarente, perché agisce a livello dei meccanismi che regolano la produzione di melanina, inibendo l’attività della tirosinasi. Similmente, l’acido glicirretico, estratto dalla liquirizia, grazie alla presenza degli isoflavonoidi, esercita un’ottima azione schiarente para-

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gonabile a quella dell’acido cogico. Anche la camomilla, nota per le sue potenzialità schiarenti, se applicata sulla macchia antagonizza le citochine prodotte dai cheratinociti e diminuisce la melanogenesi indotta dalle radiazioni UV solari. Annoverata tra le sostanze “sbiancanti”, infine, il succo di melograno, fonte di acido ellagico, è un composto dalla rilevante attività inibitoria sulla tirosinasi.

gi UV, finendo spesso per eccedere e scottarsi. Le macchie cutanee che ne conseguono si presentano come lesioni simili alle lentiggini solari ma dal punto istologico sono caratterizzate da un’iperplasia melanocitica che può determinare la comparsa di cancro alla pelle. Un uso corretto, attento e limitato non risulta dannoso per la salute, tuttavia è importante ricordare che i rischi associati a un comportamento non oculato spaziano dal rapido invecchiamento della pelle a un aumento rischio di tumori cutanei. Iperpigmentazione post-infiammatoria. È dovuta a diversi disordini a livello cutaneo, quali acne, eczema, follicolite, scottature. Generalmente le macchie scompaiono in seguito alla rigenerazione e guarigione dell’epidermide. A causa dell’ampio spettro di forme ed entità con cui possono presentarsi le diverse iperpigmentazioni, è fondamentale rivolgersi a uno specialista in dermatologia per un corretto inquadramento della patologia e per impostare una corretta strategia curativa. Cause, fattori di rischio e prevenzione

Le esposizioni incontrollate ai raggi UV in soggetti predisposti o che presentano fattori di rischio tra cui età avanzata, gravidanza e l’assunzione di anticoncezionali, rappresentano le più frequenti cause di insorgenza di macchie della pelle. L’adozione di una buona condotta rappresenta quindi il più importante fattore precauzionale per evitare la comparsa delle iperpigmentazioni cutanee. Poiché alcune di esse possono sfociare in patologie di maggiore pericolosità, come il melanoma o il carcinoma delle cellule basali, è vivamente consigliabile prevenire tale rischio con l’impiego di creme contenenti filtri solari a protezione molto elevata ogni qualvolta ci si espone al sole evitando esposizioni prolungate e nelle ore più calde. Se in estate queste precauzioni diventano indispensabili, è comunque una buona abitudine applicare una crema o un fondotinta con filtro solare per proteggere


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la pelle del viso durante tutto l’anno, non solo durante la stagione estiva. Come trattare le macchie cutanee

La maggior parte delle macchie sulla pelle non necessita di trattamenti specifici; tuttavia, qualora l’alterazione cromatica costituisse un disagio estetico importante, esistono validi agenti ad azione schiarente, depigmentante e levigante da applicare topicamente direttamente sulle zone da trattare. Tra gli agenti depigmentanti maggiormente utilizzati in dermocosmesi, l’acido azelaico e l’acido cogico rappresentano i costituenti principali di prodotti topici (farmaci e cosmetici) anti-macchia. L’acido azelaico, estratto dai lieviti batterici presenti su alcuni cereali, inibisce la tirosinasi ed esplica un’azione selettiva sui melanociti iperattivi risparmiando invece quelli normali, con conseguente riduzione dell’accumulo del pigmento. Risulta efficace nel trattamento delle macchie scure della pelle legate soprattutto all’invecchiamento e nel melasma; grazie alle sue caratteristiche antiossidanti esplica anche un’azione anti-aging. L’acido cogico, dotato di eccellenti virtù schiarenti, grazie alla capacità di inibire la melanogenesi è largamente sfruttato in cosmesi per preparare creme o gel ad azione depigmentante impiegate nel trattamento di melasma, lentigo senili e lentigo solari. È spesso formulato in associazione a sostanze esfolianti (acido mandelico, acido salicilico e acido tartarico) impiegate nel peeling chimico, una tecnica utilizzata per rimuovere gli strati superficiali della pelle mediante esfoliazione con conseguente effetto schiarente. Esistono diverse sostanze antiossidanti per cui è stata accertata un’attività schiarente/depigmentante, tra cui la vitamina E, la vitamina C, i derivati del the verde e l’acido alfa lipoico. Inibendo la sintesi di prostaglandine, mediatori dell’infiammazione in grado di aumentare l’attività dell’enzima tirosinasi, queste molecole trovano largo impiego in cosmetici anti-

age utili per trattare le macchie legate all’invecchiamento cutaneo e all’esposizione ai raggi UV. Esistono infine anche validi rimedi naturali che pur producendo risultati visibili più lentamente, se utilizzati con costanza, schiariscono in modo considerevole questi fastidiosi inestetismi. Trattamenti professionali

Qualora l’applicazione di creme schiarenti non risulti sufficiente, è possibile ricorrere a tecniche professionali tra cui il trattamento laser e la luce pulsata, che con estrema precisione distruggono il pigmento responsabile della formazione delle macchie, causando depigmentazione direttamente sulla zona interessata. L’utilizzo di macchinari altamente specializzati comporta però un costo più elevato e la necessità di sottoporsi a più sedute. Un altro trattamento (un po’ più invasivo) disponibile è la crioterapia che utilizza l’azoto liquido a temperature molto basse per creare un danno epidermico sulla zona da trattare; in seguito al trattamento si formano delle bolle che, una volta guarite, vengono spazzate via assieme alla macchia. n luglio 2016

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Maculopatia degenerativa, viaggio dentro la malattia La maculopatia degenerativa legata all’età è un disturbo visivo molto sottovalutato e di cui si parla poco. Un progetto

di Rachele Villa

di medicina narrativa ha raccontato il vissuto di coloro che entrano in contatto con la malattia, riferendone le paure e le difficoltà che affrontano durante il lungo iter terapeutico

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n Italia sono un milione le persone affette da maculopatia degenerativa legata all’età, malattia che può colpire entrambi gli occhi attraverso il progressivo deterioramento della regione maculare della retina con la conseguente perdita della funzione visiva centrale. Quando un occhio è stato colpito, spesso in modo irreversibile, generalmente anche il secondo occhio viene coinvolto, nel 50% dei casi, nei cinque anni successivi. Parlare di maculopatia vuol dire addentrarsi inevitabilmente nel mondo dell’anziano, soggetto fragile caratterizzato spesso dalla presenza di altre patologie concomitanti, perché la degenerazione maculare senile interessa prevalentemente gli over 65: in Italia la forma avanzata della patologia affligge il 5% della popolazione tra i 60 e i 79 anni e la prevalenza sale al 10,4% dopo gli 80 anni. Nonostante la grande diffusione, i pazienti affetti da questo disturbo hanno una scarsa consapevolezza della propria situazione, come ha ben evidenziato un progetto di ricerca di medicina narrativa condotto dalla Fondazione Istud, con il contributo incondizionato di Bayer, che ha voluto offrire una panoramica sul percorso e sul vissuto del paziente e della famiglia che lo assiste, dalla diagnosi al trattamento. luglio 2016

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Il progetto di medicina narrativa

La raccolta delle testimonianze dei pazienti si è svolta nell’ambito di un progetto di più ampio respiro denominato “VISION wAMD - Value in Stories of Illness on Neovascular Wet AMD” (il valore nelle storie di malattia della maculopatia degenerativa essudativa legata all’età), realizzato dalla Fondazione Istud. Da giugno a ottobre 2015, 163 persone con maculopatia degenerativa essudativa legata all’età e 42 familiari hanno raccontato la propria esperienza dando vita alla prima ricerca di medicina narrativa sul vissuto di questi pazienti in Italia, rivelando un itinerario di cura lungo e complesso. Nel 62% dei casi si tratta di donne con un’età media di 76 anni. Il patient’s journey

Il volume “Allineare l’orizzonte” ha raccolto le narrazioni che hanno dato vita alla prima ricerca di medicina narrativa sul vissuto di pazienti con maculopatia degenerativa legata all’età in Italia.

approfondimenti Le parole più utilizzate nelle narrazioni raccolte per descrivere il momento del riconoscimento della sintomatologia sono: occhio, macchia, vedere, scura, accorto, linee, storte, leggere, calo, occhiali.

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La ricerca ha tracciato il percorso di cura del paziente, che in genere ha inizio con il riconoscimento della sintomatologia, evento ben impresso nella memoria, seguito dall’accesso alle cure con una prima visita oculistica e, successivamente, dal confronto con uno specialista che formulerà la diagnosi e orienterà il paziente verso la terapia intravitreale. Nel 25% delle narrazioni, il paziente ha riferito di essersi accorto di avere un problema visivo a causa di un calo della vista repentino, il 18% racconta di una macchia al centro dell’occhio, il 17% di linee storte e, infine, l’8% dice di aver notato difficoltà nella lettura. Il restante 21% riporta di essersi reso conto in altri modi (difficoltà con piccoli oggetti o nel riconoscere le persone, problemi di diplopia), mentre nel 12% dei casi il disturbo è stato rilevato solamente in sede di controllo oculistico. L’ammissione del problema è un punto cruciale nel percorso terapeutico: la diagnosi precoce della malattia consente infatti l’immediato accesso alle cure che possono rallentare in maniera significativa la degenerazione maculare. A questo punto, una volta riconosciuta l’esistenza del problema, il 71% dei pazienti ha deciso di informarsi, mentre nel 29% delle narrazioni la persona ha ignorato o sottovalutato i sintomi.

Dalla ricerca è emerso anche che passa mediamente un mese prima che il problema venga affrontato da un medico. A questo ritardo se ne sommano altri dovuti a liste d’attesa, difficoltà nell’inizio della terapia o problematiche organizzative. Nella maggior parte dei casi si decide di rivolgersi a un oculista territoriale privato (51%), preferenza dettata da una più rapida accessibilità alle cure, anche se non sempre viene garantito l’accesso a strumentazioni adeguate per effettuare gli esami necessari a diagnosticare la patologia. In questo caso può essere necessaria un’ulteriore visita di tipo specialistico in una clinica oculistica di riferimento per la diagnosi e trattamento della maculopatia, dove per diagnosticare la maculopatia degenerativa legata all’età generalmente si effettuano esami specifici (vedi approfondimento). Faccia a faccia con la malattia: il momento della diagnosi

Entrare in contatto con una malattia poco nota non è sicuramente semplice: ad oggi non c’è una conoscenza diffusa di cosa sia la maculopatia degenerativa legata all’età, quindi il medico gioca un ruolo cruciale in questa fase in quanto è tenuto a fornire informazioni complete e comprensibili sulla malattia e sulle prospettive terapeutiche, orientando il paziente verso i


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servizi di riabilitazione visiva disponibili. Il momento della diagnosi è spesso accompagnato da sentimenti negativi (41% dei casi) e il ricordo della comunicazione della diagnosi è vissuto in modo traumatico e associato alla percezione di scarsa capacità comunicazionale da parte dei professionisti, che ricorrono in genere a espressioni improprie o tecniche che suscitano sentimenti di paura e non favoriscono la creazione di una alleanza terapeutica. Il 50% dei pazienti ha inoltre raccontato di non conoscere la malattia, mentre il 12% vi è entrato indirettamente in contatto attraverso l’esperienza di familiari o conoscenti che hanno vissuto sulla propria pelle questa malattia. Studi scientifici confermano che esiste una predisposizione genetica alla macuolpatia e nel 10%-20% dei casi il paziente ha un componente della famiglia di primo grado che ha perso la vista a causa della maculopatia. Il percorso terapeutico

Dopo la diagnosi, l’oculista valuta la necessità di intraprendere o meno la terapia intravitreale con farmaci anti-VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor). Il trattamento anti-VEGF prevede una prima fase iniziale di attacco di tre iniezioni mensili, per il raggiungimento del massimo incremento possibile di acutezza visiva. I sentimenti più diffusi al momento di effettuare la prima iniezione sono quelli di disagio e paura per l’aspettativa di dolore; queste sensazioni vanno poi via via scemando con le punture successive. Per quanto riguarda la terapia effettuata, i farmaci antiangiogenici attualmente utilizzati nella cura della maculopatia sono: aflibercept, pegaptanib, bevacizumab, ranibizumab. Le persone che hanno aderito allo studio sono, nella maggior parte dei casi (81%), pazienti pluritrattati, ossia che nella loro storia clinica hanno utilizzato più di un trattamento. L’impatto sulla qualità di vita

I pazienti che si ritrovano a fare i conti con la maculopatia degenerativa legata all’età vanno inevitabilmente incontro a una riduzione della qualità della vita, che nelle fasi più avanzate

gli esami diagnostici in sede di visita specialistica La visita specialistica per diagnosticare la maculopatia in genere prevede i seguenti accertamenti. Esame dell’acuità visiva e della funzione visiva: l’esame dell’acuità visiva per lontano rimane il cosiddetto gold standard per lo studio della funzione della macula oltre a essere, anche dal punto di vista medico-legale, il criterio di definizione del deficit visivo. Esame biomicroscopico della macula: questo esame permette di effettuare la diagnosi dei diversi stadi della degenerazione maculare senile. Consente di identificare la presenza delle lesioni cliniche tipiche della maculopatia: drusen, alterazioni dell’epitelio pigmentato retinico, atrofia,

della malattia, può arrivare a una diminuzione del 60%. Più penalizzate le attività che richiedono la visione da vicino, la guida dell’automobile e gli aspetti sociali e familiari legati alla visione specifica (salute mentale, difficoltà di ruolo e dipendenza). Entrando nel vivo delle narrazioni raccolte, emerge con chiarezza l’impatto che la malattia genera nella vita di tutti i giorni: il 77% ha ridotto o cessato di svolgere delle attività quotidiane, mentre il 6% di coloro che riesce ancora a svolgerle, lo fa con difficoltà. La malattia ha anche un forte impatto dal punto di vista economico dovuto al costo per le cure che grava sul paziente e sulla sua famiglia: il 34% ha dichiarato di spendere fino a 3.816 euro l’anno per visite private, esami diagnostici, costi di spostamento e acquisto di nuove lenti e ausili visivi. In conclusione, quello che emerge dal progetto di ricerca di medicina narrativa condotto da Fondazione Istud è la necessità di promuovere campagne di sensibilizzazione e informazione sulla maculopatia degenerativa legata all’età al fine di permettere una diagnosi precoce che si traduce in un accesso più tempestivo a terapie che consentono di conseguire risultati significativi in termini di stabilizzazione e miglioramento della capacità visiva. n

edema, emorragie a diversa localizzazione, essudati duri, distacco sieroso di epitelio pigmentato retinico e/o neuroepitelio, cicatrice fibrosa. Angiografia con fluoresceina (fluorangiografia): l’angiografia retinica con fluoresceina rappresenta l’esame utilizzato in tutti gli studi clinici randomizzati sulla degenerazione maculare senile. L’angiografia con fluoresceina permette di visualizzare le alterazioni quali vasi sanguigni di nuova formazione sotto la retina. Optical Coherence Tomography (OCT): questo esame permette di visualizzare e misurare in vivo lo spessore della retina e talora dei diversi strati.

approfondimenti Solo nel 3% delle narrazioni il paziente, ai primi segnali della malattia, ha dichiarato di essersi rivolto al farmacista di fiducia per un consiglio o per comprare prodotti da banco, associando erroneamente i sintomi a eventi come l’esposizione alla luce del sole o al recente acquisto di occhiali da lettura.

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Olio di palma sulle tavole, promosso o bocciato? È uno degli oli vegetali più usati nel mondo ed è onnipresente in alimenti di uso quotidiano. Parliamo dell’olio di palma, recentemente diventato protagonista di un acceso dibattito a causa dei danni che arrecherebbe alla salute

L’

olio di palma è un olio vegetale di origine tropicale estratto dal frutto della palma (Elaeis guineensis) largamente utilizzato dall’industria alimentare a livello mondiale. L’ampia diffusione è indubbiamente legata alla sua versatilità nella lavorazione e ai bassi costi di produzione: lo si trova nella maggior parte degli alimenti di uso quotidiano come prodotti da forno, biscotti, snack, merendine e anche negli alimenti per l’infanzia. È composto per il 50% da acidi grassi saturi (quasi esclusivamente acido palmitico), per il 40% da acidi grassi monoinsaturi (acido oleico) e per il 10% da acidi grassi poliinsaturi (acido linoleico). La presenza degli oli tropicali negli alimenti è stata di fatto completamente ignorata in passato, quando questi ingredienti erano camuffati nelle etichette dei prodotti alimentari sotto una dicitura, molto più vaga, di “oli vegetali”. I riflettori sulla questione olio di palma sembra si siano accesi solo negli ultimi anni, e per la precisione da quando è diventato obbligatorio esplicitar-

di Rachele Villa

lo sull’etichetta in seguito al nuovo regolamento della Commissione europea 1169/2011 che è entrato in vigore nel dicembre 2014 in tutti gli Stati membri. È a questo punto che nel nostro paese si è scatenata una vera e propria campagna mediatica contro l’olio di palma, grasso saturo (come il burro) ritenuto nocivo per la salute cardiovascolare e tra le cause che porterebbero a sviluppare patologie come obesità e diabete. Da qui è partito l’invito a boicottare tutti i prodotti contenenti questo ingrediente al fine di frenare l’invasione sulle nostre tavole, in prima battuta, e limitare anche i danni ambientali legati alla sua produzione.

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L’INTERVISTA Per fare un po’ di chiarezza sui reali effetti negativi sulla salute legati al consumo alimentare dell’olio di palma, Professione Salute ha intervistato Elena Fattore, ricercatrice presso l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, che è recentemente intervenuta sull’argomento in occasione di NutriMI (www.nutrimi.it), il Forum di Nutrizione Pratica che si è svolto il 21 e 22 aprile a Milano. Dottoressa Fattore, che cos’è l’olio di palma e per quali motivi è largamente utilizzato dalle industrie alimentari? L’olio di palma è un olio vegetale derivante dal frutto della palma da olio, una pianta originaria dell’Africa occidentale e diffusa nelle zone tropicali, in particolare dell’America e del sud-est asiatico. È largamente utilizzato nell’industria alimentare per diversi motivi:

Elena Fattore

è estremamente competitivo dal punto di vista economico, in quanto la produzione di olio di palma, in termini di olio prodotto per terra coltivata, è da 7 a 11 volte quella degli altri principali oli vegetali; ha una consistenza semisolida a temperatura ambiente, caratteristica che lo rende particolarmente adatto a determinate applicazioni alimentari (ad es. prodotti dolciari da forno), senza richiedere processi di idrogenazione che portano alla formazione di acidi grassi trans; infine, per la presenza di acidi grassi saturi e di sostanze antiossidanti, risulta più resistente all’ossidazione e all’irrancidimento rispetto agli altri oli più insaturi. Perché si pensa che l’olio di palma sia poco salutare? Perché contiene acido palmitico (principale grasso saturo presente nei tessuti animali, inclusi quelli umani). L’acido palmitico è un aci-

Il parere dell’Istituto superiore di Sanità

Navigando un po’ su internet e passando in rassegna alcuni dei moltissimi articoli disponibili sull’argomento, appare subito evidente la grande confusione che regna su questo argomento. Per fare un po’ di chiarezza, l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha elaborato un documento, su richiesta del ministero della Salute, contenente un’analisi delle conseguenze per la salute dell’utilizzo dell’olio di palma come ingrediente alimentare. Nel parere dell’Iss, che è stato diffuso lo scorso febbraio, si legge che «la letteratura scientifica non riporta l’esistenza di componenti specifiche dell’olio di palma capaci di determinare effetti negativi sulla salute, ma riconduce questi ultimi al suo elevato contenuto di acidi grassi saturi rispetto ad altri gras50

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do grasso saturo (cioè senza doppi legami) e per molto tempo il consumo di acidi grassi saturi è stato considerato negativo per la salute in quanto determinava un aumento del colesterolo ematico, che a sua volta determinava un aumento del rischio di malattie cardiovascolari. In realtà questo assunto è stato messo recentemente in discussione da alcuni studi i quali evidenziano che, mentre la diminuzione del colesterolo ematico in seguito all’assunzione di grassi polinsaturi al posto di quelli saturi è stata dimostrata, non è stato dimostrato che a tale diminuizione corrispondesse effettivamente un vantaggio in termini di eventi cardiovascolari e mortalità. Dove e quando è partita questa “crociata mediatica” contro l’olio di palma? Su quali basi si ritiene che sia dannoso per la salute? Non saprei esattamente quando è partita la “crociata mediatica” ma comunque diversi anni fa. Quando abbiamo iniziato a lavorarci, nel 2011, era già in atto e si diceva che tutto era iniziato in America tempo prima, come conseguenza di una guerra com-

si alimentari. Evidenze epidemiologiche attribuiscono infatti all’eccesso di acidi grassi saturi nella dieta effetti negativi sulla salute e, in particolare, un aumento del rischio di patologie cardio-vascolari». L’Iss ha quindi stimato il contributo dell’olio di palma all’assunzione complessiva di acidi grassi saturi con la dieta, considerando che «oltre a quelli contenuti nell’olio di palma aggiunto agli alimenti durante la trasformazione industriale, acidi grassi saturi vengono assunti attraverso il consumo di molti alimenti non trasformati che li contengono naturalmente, come latte e derivati, uova e carne». Nel complesso, i principali organismi sanitari nazionali e internazionali raccomandano livelli di assunzione di acidi grassi saturi non superiori al 10% delle calorie totali. Le stime di assunzione di acidi grassi saturi effettuate dall’Istituto Superiore di Sanità (sulla base di dati del consumo degli alimenti in Italia riferiti agli anni 2005-2006, unici dati disponibili al momento) sono le seguenti:


SALUTE E BENESSERE_OLIO DI PALMA

merciale da parte dei produttori dell’olio di soia (che a quel tempo era il primo olio in termini di produzione mondiale). Non vi sono studi scientifici che hanno valutato l’effetto dell’olio di palma direttamente sulla salute. Vi sono studi che hanno valutato l’effetto di una dieta ricca di olio di palma su una serie di marcatori di rischio, quali il colesterolo e i trigliceridi nel sangue. Il razionale su cui si basa la nocività dell’olio di palma è il contenuto di acidi grassi saturi. Una serie di studi osservazionali (alcuni tra l’altro piuttosto vecchi) hanno trovato una associazione tra diete ricche di acidi grassi saturi, aumento del colesterolo ematico e aumento della mortalità per malattie cardiovascolari. Come dicevo prima però il secondo passaggio, e cioè che un aumento del colesterolo ematico portasse a un aumento di mortalità cardiovascolare, non è mai astato confermato da studi clinici controllati randomizzati, gli unici tipi di studio che possono provare una relazione tra causa ed effetto. Che cosa è emerso dagli studi condotti presso l’I-

z circa 27 grammi al giorno per la popolazione

generale adulta, con un contributo dell’olio di palma stimato tra i 2,5 e i 4,7 grammi; z tra i 24 e 27 grammi al giorno nei bambini di età 3-10 anni, con un contributo di saturi da olio di palma tra i 4,4 e 7,7 grammi. Dalle stime, dicono gli esperti dell’Iss, «complessivamente emerge che il consumo totale di acidi grassi saturi nella popolazione adulta italiana è di poco superiore (11,2%) all’obiettivo suggerito per la prevenzione (inferiore al 10% delle calorie totali giornaliere). Il consumo complessivo di grassi saturi nei bambini tra i 3 e i 10 anni risulta superiore all’obiettivo fisso del 10%». Cosa dice la letteratura scientifica

Per quanto riguarda le evidenze dirette in letteratura scientifica l’Iss conclude dicendo che «non ci sono evidenze dirette nella letteratura scientifica che l’olio di palma, come fonte di acidi grassi saturi, abbia un effetto diverso sul rischio cardiovascolare rispetto agli altri gras-

stituto di ricerche farmacologiche Mario Negri? Sono stati condotti due studi: una revisione narrativa e una revisione sistematica della letteratura scientifica sull’argomento olio di palma ed effetti sulla salute. Il primo studio (1), la revisione narrativa, ha permesso di mettere in evidenza che non vi erano studi che andavano a valutare l’effetto sulla salute dell’olio di palma in se e che il motivo per cui l’olio di palma era associato ad effetti negativi per la salute era fondamentalmente legato agli studi osservazionali di cui parlavo prima e che legavano il consumo di acidi grassi saturi a un aumento di malattie cardiovascolari. Il secondo studio (2) ha valutato gli studi presenti in letteratura (oltre 50) che confrontavano il profilo lipidico (colesterolo, apolipoproteine, trigliceridi ecc.) risultante da una dieta contenente olio di palma con quello risultante da una dieta contenente un altro olio vegetale o un grasso animale. Da questo secondo studio non è emerso che il profilo determinato dall’olio di palma è più negativo di quello determinato da altri oli e grassi. Infatti quando l’olio di

si con simile composizione percentuale di grassi saturi e mono/poliinsaturi, quali, ad esempio, il burro. Il minor effetto di altri grassi vegetali, come ad esempio l’olio di girasole, nel modificare l’assetto lipidico plasmatico è dovuto al minor apporto di acidi grassi saturi e al contemporaneo maggior apporto di polinsaturi. Il suo consumo non è correlato all’aumento di fattori di rischio per malattie cardiovascolari nei soggetti normo-colesterolemici, normopeso, giovani e che assumano contemporaneamente le quantità adeguate di polinsaturi. Nel contempo, fasce di popolazione quali bambini, anziani, dislipidemici, obesi, pazienti con pregressi eventi cardiovascolari, ipertesi possono presentare una maggiore vulnerabilità rispetto alla popolazione generale». In estrema sintesi, questo significa che, nell’ambito di una dieta varia ed equilibrata che comprende alimenti naturalmente contenenti acidi grassi saturi, occorre ribadire la necessità di contenere il consumo di alimenti apportatori di elevate quantità di grassi saturi. n

palma determinava un aumento del colesterolo, tale aumento era dovuto sia all’aumento del colesterolo “cattivo” sia all’aumento del colesterolo “buono”, così che non era possibile fare un bilancio netto di vantaggio o svantaggio in termini di rischio. I risultati di questo secondo studio sono in linea con quelli di studi recenti pubblicati su giornali medici prestigiosi che mostrano che trial clinici controllati che confrontavano diete ricche di oli polinsaturi con diete ricche di acidi grassi saturi non evidenziavano nessun miglioramento in termini di eventi e mortalità cardiovascolare, nonostante l’abbassamento del colesterolo. In conclusione, il consumo di olio di palma è un problema per la salute oppure no? No, direi di no o almeno al momento non vi sono evidenze scientifiche che il consumo di olio di palma ai livelli attuali possa essere un problema. Infatti, sia gli studi condotti da noi che dall’Iss indicano che il consumo di acido grassi saturi provenienti da prodotti trasformati contenenti olio di palma è limitato e ben al di sotto delle indicazioni delle raccomandazioni alimentari.

Bibliografia 1. Fattore E, Fanelli R. Palm oil and palmitic

acid: a review on cardiovascular effects and carcinogenicity. Int J Food Sci Nutr. 2013 Aug;64(5):648-59. 2. Fattore E, Bosetti C, Brighenti F, Agostoni C, Fattore G. Palm oil and blood lipid-related markers of cardiovascular disease: a systematic review and metaanalysis of dietary intervention trials. Am J Clin Nutr. 2014 Jun;99(6):1331-50.

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Profilassi vaccinale per viaggiatori: informarsi per partire in sicurezza Prima di partire per mete esotiche è bene documentarsi sulle malattie presenti nelle zone a rischio sanitario, ricordando che la profilassi varia a seconda del Paese visitato e i bambini richiedono forme di intervento specifiche Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità circa l’8% dei viaggiatori diretti verso Paesi in via di sviluppo, o aree a rischio, necessita di cure mediche durante o dopo il viaggio: febbre, rash cutanei e diarrea acuta, tra i sintomi più diffusi all’origine di malattie infettive come malaria, epatiti, febbre tifoide e febbre gialla. Quest’anno, inoltre, l’epidemia di zika in Sud America, insieme all’elevato numero di casi di dengue e chikungunya, rappresentano ulteriori problemi per i viaggiatori internazionali. Quando si pianifica un viaggio di questo tipo è quindi di fondamentale importanza informarsi sulle eventuali profilassi vaccinali, soprattutto se ci si sposta con bambini al seguito. Le terapie e una corretta profilassi per i viaggiatori sono state al centro del dibattito emerso recentemente durante il 34° Congresso della Società Europea di Infettivologia Pediatrica (Espid) a Brighton (UK), dove sono stati presentati recentissimi dati epidemiologici e clinici su zika, dengue e chikungunya in Sud America. «Quando si programma un viaggio con un bambino in un Paese ad elevato rischio – sottolinea la professoressa Susanna Esposito, direttore dell’Unità di Pediatria ad Alta Intensità di Cura della Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico dell’Università degli Studi di Milano e presidente dell’Associazione Mondiale per le Malattie Infettive e i Disordini Immunologici, WAidid – è importante essere ben informati sui rischi di contagio di malattie infettive non presenti in Italia. Una corretta profilassi vaccinale ha bisogno di un tempo adeguato, differente da patologia a patologia, per garantire la protezione dalla ma52

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lattia, per cui è sempre bene quando possibile, programmare il viaggio con anticipo, tenendo presente gli aspetti legati alla sicurezza sanitaria. Bisogna anche considerare che, in presenza di una stessa patologia, come ad esempio la malaria, profilassi e terapia possono essere diverse a seconda del Paese che si visita». La profilassi nei bambini A Milano è attivo il “Centro per il Bambino Viaggiatore” della Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico dell’Università degli Studi di Milano, diretto dalla professoressa Susanna Esposito che fornisce assistenza ai bambini in procinto di affrontare un viaggio in un Paese ad elevato rischio sanitario e si occupa anche dei bambini adottati da Paesi in via di sviluppo, dal punto di vista della protezione vaccinale e dell’identificazione delle malattie di importazione. «I bambini – ha spiegato Susanna Esposito – richiedono forme di intervento specifiche, spesso diverse da quelle per gli adulti, come ad esempio nel dosaggio dei farmaci da utilizzare e per la differente possibilità di impiego dei vari vaccini disponibili. Per gestire correttamente la prevenzione di un bambino prima di un viaggio, occorrono, quindi, specifiche competenze pediatriche». Quali sono le zone più a rischio sanitario nel mondo Tra le aree a rischio al primo posto c’è il Continente Africano, seguono poi, il Sud Est Asiatico, l’America Latina e il Medio Oriente. Anche per quanto riguarda l’Africa ci sono comunque differenze: l’Africa sub-sahariana è ad al-

to rischio di malaria (tra l’altro la malaria che si contrae in Africa è del tipo più pericoloso), mentre nel Nord Africa, così come nel Sud est Asiatico, sono più diffuse le infezioni intestinali come, ad esempio, epatite A, tifo e colera. Nell’America Latina, oltre all’elevata frequenza delle infezioni intestinali, sono molto frequenti infezioni virali trasmesse da zanzare (zika, dengue chikungunya). Attenzione ai sintomi dopo il rientro a casa I medici dell’Associazione Mondiale per le Malattie Infettive e i Disordini Immunologici raccomandano di monitare con attenzione eventuali sintomi che possono presentarsi al rientro da Paesi a rischio, dopo qualche giorno e fino al mese successivo. In caso di febbre, eruzioni cutanee, dissenteria e altri sintomi sospetti, questi vanno immediatamente comunicati a uno specialista. Rachele Villa


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Low dose medicine: presentate le più recenti prove scientifiche Un volume ha raccolto tutti gli studi che hanno finora dimostrato l’efficacia dei medicinali non convenzionali, offrendo l’occasione per illustrare lo stato dell’arte della ricerca scientifica sui bassi dosaggi In occasione della presentazione dell’ottava edizione del libro Low Dose Medicine - Omeopatia e Omotossicologia - Le Prove Scientifiche (Guna Editore), medici ed esperti si sono ritrovati per descrivere i più recenti risultati della ricerca scientifica in questo settore, illustrando gli sviluppi che ne stanno scaturendo in termini di cura per numerose patologie. L’incontro ha visto la partecipazione di Andrea Basile, specialista in oftalmologia, dell’Azienda ospedaliera di Legnano, presidio di Magenta, Torello Lotti, specialista in dermatologia, Full Professor & Chair of Dermatology and Venereology, Executive Scientific Commettee Vitiligo Research Foundation di New York, Leonello Milani, specialista in neurologia e direttore scientifico della rivista La Medicina Biologica, Cesare Santi, specialista in angiologia e chirurgia vascolare e presidente dell’Associazione medica italiana di omotossicologia (Amiot). «Sono fiero di aver coordinato la riedizione del nuovo volume Low Dose Medicine. Omeopatia e Omotossicologia. Le prove scientifiche, che permette di far conoscere l’efficacia terapeutica dei medicinali non convenzionali sia agli addetti ai lavori sia a coloro che vogliano documentarsi su un argomento di stretta attualità e di interesse pubblico sempre mag-

la ricerca nel campo delle medicine complementari Durante la presentazione del libro, il professor Torello Lotti, dermatologo, si è soffermato sulle ricerche che ha condotto sul trattamento della vitiligine, sottolineando come gli attuali trattamenti non siano del tutto soddisfacenti per i pazienti. Recentemente, sono state però introdotte terapie combinate che hanno portato risultati positivi, come dimostrato da uno studio che ha preso in esame la terapia con Low Dose Cytokines Therapy associata a microfototerapia. Anche per la cura della psoriasi, malattia infiammatoria cronica autoimmune della pelle, che ha riflessi negativi anche dal punto di vista psicologico, è stato condotto uno studio in cui è stata valutata l’efficacia della UVA-1 phototerapy e, in

giore» ha dichiarato Leonello Milani. Il volume passa in rassegna la vasta produzione (aggiornata a dicembre 2015) di studi farmacologici in vitro, in vivo e intra vitam relativi all’attività biologica dei medicinali omeopatici, sia unitari che composti. Dei circa 1.400 lavori presi in considerazione, ne sono stati selezionati 188. Rispetto al numero delle pubblicazioni selezionate nella prima edizione del volume (2002), l’incremento si attesta intorno al 200%.

parallelo, l’aumento di efficacia della medesima terapia quando associata alla somministrazione di basse dosi di citochine. Risposte valide si sono ottenute anche nell’ambito di ricerche che hanno sperimentato la somministrazione di medicinali low dose per la cura di patologie in campo oculistico, come ha ben illustrato Andrea Basile, oculista, parlando dei risultati clinici ottenuti nel trattamento della corioretinopatia sierosa centrale, una patologia invalidante caratterizzata dal distacco della retina sensoriale nella regione maculare che porta a una degenerazione progressiva dell’epitelio retinico con conseguente significativa riduzione delle capacità visive.

«L’impulso alla ricerca è stato notevole, negli ultimi anni – ha commentato Alessandro Perra, direttore scientifico di Guna – consolidando una rete di collaborazioni con alcune delle più prestigiose università italiane. La pubblicazione su riviste internazionali dei risultati della ricerca ‘low dose’, tanto pre-clinica quanto clinica, ha attirato su questo nuovo paradigma della farmacologia l’interesse della comunità scientifica e ha contribuito a iniziare a dissipare lo scetticismo pregiudiziale che per molti anni, spesso ingiustificatamente, ha avvolto le cosiddette Medicine Non Convenzionali. È nostra ferma intenzione rinnovare l’impegno alla collaborazione con primari centri universitari per il sostegno a studi di qualità, del quale il volume presentato oggi è un’eccezionale sintesi». Rachele Villa luglio 2016

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Dal progetto Green Health, una guida per smaltire correttamente i farmaci L’opuscolo nasce da un progetto che si propone di cambiare la visione che i cittadini hanno dei farmaci, spesso abusati e trattati come beni di consumo senza pensare ai danni per salute personale e ambiente Gli italiani spendono ogni anno per l’acquisto di farmaci circa 26,6 miliardi di euro, pari a circa 438 euro pro capite, come rilevato dal rapporto nazionale Aifa-Osmed 2014, Osservatorio nazionale sull’impiego dei farmaci. Dal rapporto emerge i farmaci di cui si abusa maggiormente sono in particolare antinfiammatori e antibiotici, non considerando i danni che ciò comporta in termini di salute personale e ambientale ma anche sostenibilità per il Ssn. Considerando che nel 2014 sono state dispensate in Italia 1,9 miliardi di confezioni di farmaci e che, secondo quanto rilevato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 50% dei pazienti affetti da malattie croniche nei paesi sviluppati non aderisce alle prescrizioni terapeutiche, decine di milioni di farmaci sono destinati a finire prima o poi nella spazzatura. «La campagna di sensibilizzazione per un uso consapevole e senza sprechi del farmaco “Green Health, fai la differenza”, che gode del partenariato di Aifa, Agenzia Italiana del Farmaco – ha dichiarato Antonella Celano, Presidente Apmar, Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatiche, che ha gestito la fase pilota del progetto sul territorio pugliese – ha l’obiettivo di crea54

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re una nuova visione sociale dell’importanza di un uso consapevole e senza sprechi del farmaco». Sono in pochi infatti a domandarsi che fine fanno i farmaci che si buttano: la letteratura scientifica spiega che i farmaci possono essere considerati degli inquinanti ambientali ubiquitari, che contaminano l’ambiente attraverso una miriade di fonti di inquinamento diffuse. Una volta somministrati, molti farmaci non sono metabolizzati e possono essere escreti come tali attraverso le urine e le feci. In Italia vengono vendute decine di migliaia di tonnellate di farmaci, ed è noto che molti di questi non siano in realtà utilizzati ma vengano gettati erroneamente nella spazzatura, contribuendo così a contaminare l’ambiente ed in particolare le acque. Poche semplici regole per un corretto smaltimento «Abbiamo appreso che il 60% della popolazione non getta i farmaci scaduti negli appositi contenitori – ha spiegato Antonella Celano – e possiamo solo immaginare quante poche persone sanno che, per essere smaltiti correttamente, basta seguire poche semplici regole: i farmaci vanno rimos-

si dal loro contenitore originale e buttati nei contenitori davanti alle farmacie le confezioni di carta e cartone devono essere smaltite nella carta e i blister in plastica e metallo insieme alla plastica se si tratta di medicinali liquidi (sciroppi, fiale, ecc.) meglio conferire l’intero contenitore di vetro nel bidone davanti alle farmacie in caso di dubbi, bisogna sempre chiedere al farmacista». Da questo progetto è nato l’opuscolo informativo “Guida all’uso consapevole del farmaco” che tratta in maniera semplice e pratica le principali tematiche riguardanti la relazione tra farmaco e consumatore: l’uso, la conservazione e lo smaltimento del farmaco. L’opuscolo verrà distribuito da tutti i partner del progetto, le sedi Apmar, i centri Urp, gli Ordini dei Medici e soprattutto, coerentemente con la sua visione “green”, sarà scaricabile dal sito APMAR (www.apmar.it) e dai siti dei partner. «Abbiamo dato il nostro partenariato al progetto Green Health – ha dichiarato Luca Pani, direttore generale Aifa – perché è in linea con la filosofia dell’agenzia che punta a creare occasioni di dialogo tra tutti gli interlocutori di questo settore: i pazienti, i medici, i produttori dei farmaci e gli altri Enti Regolatori Europei. Il primo passo da fare è quello di costruire una nuova cultura del farmaco e l’Aifa è da tempo impegnata a sostenere strumenti e strategie per creare tra i cittadini una maggiore consapevolezza sull’uso del farmaco che sarà sicuramente stimolata dalla lettura di questo utile opuscolo». Rachele Villa


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GrowingUP, il primo progetto web sul deficit di ormone della crescita Un’iniziativa che vuole accendere i riflettori su un tema di cui si parla poco, con l’intento di fornire informazioni utili a supporto delle famiglie con bambini affetti da deficit di ormone della crescita I disordini della crescita sono patologie che inibiscono un adeguato percorso di accrescimento nei bambini. Possono verificarsi nell’infanzia, con livelli di peso e altezza più bassi rispetto ai parametri stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, o manifestarsi più tardi durante l’adolescenza, con bassa statura o un ritardo dello sviluppo sessuale. Tra queste patologie, il deficit di ormone della crescita (GH) colpisce in Italia 1 bambino ogni 3.000 nati vivi. Si tratta di una malattia curabile, che tuttavia prevede un percorso di cura lungo e complesso, che implica anche il coinvolgimento quotidiano dell’intero nucleo familiare. Il progetto GrowingUp GrowingUp (www.growingup.net/it) è il primo progetto web ideato per offrire supporto alle famiglie di bambini affetti da disordini della

crescita. Sviluppato con il contributo di esperti e in collaborazione con i genitori di bambini che si ritrovano ad affrontare la patologia, il sito raccoglie una serie di informazioni chiare ed esaustive sulla diagnosi e sulle opzioni di trattamento, rispondendo alle necessità di supporto e condivisione delle famiglie coinvolte nel percorso terapeutico. Creato da Ferring Farmaceutici il sito web GrowingUp è disponibile per ora in Italia e altri quattro paesi in Europa, ma presto lo sarà anche in altri paesi del mondo. «Il portale vuole essere uno strumento per le famiglie che convivono con una terapia di lungo termine che nella maggior parte dei casi inizia entro i cinque anni e arriva fino ai diciotto anni» ha dichiarato Luca Borella, Product Manager della Divisione Endocrinologia di Ferring Farmaceutici. GrowingUp è nato dallo studio delle narrazioni

il percorso: dalla diagnosi alla cura Alla base della scarsa crescita c’è il deficit di ormone della crescita, un ormone secreto dalla ghiandola pituitaria (o ipofisi): un bambino affetto da deficit di ormone della crescita manifesta una crescita di meno di 5 cm all’anno. La figura di riferimento per la cura dei disordini della crescita è il medico pediatra, a cui spetta il compito di monitorare la crescita del bambino e valutare altri fattori come l’anamnesi familiare prima di procedere con esami di approfondimento quali prelievi del sangue (per verificare i livelli ormonali e e anomalie nei cromosomi) e radiografia alle ossa o risonanza magnetica per individuare anomalie nell’ipofisi. Una volta dia-

gnosticato il deficit di ormone della crescita e appurata la ridotta produzione tale ormone rispetto ai livelli stabiliti, l’endocrinologo pediatrico propone ai genitori un trattamento con terapia sostitutiva di ormone della crescita da portare avanti fino al termine della crescita. L’ormone non può essere assunto per bocca perché viene scomposto dagli acidi gastrici, deve quindi essere somministrato attraverso la cute, tramite iniezione sottocutanea, per poi entrare nel circolo sanguigno. Oltre ai classici iniettori con ago, l’ormone può essere somministrato con un dispositivo senza ago che sfrutta il sistema di erogazione ad alta pressione.

raccolte nell’ambito del “Progetto Crescere”, il primo progetto di medicina narrativa dedicato al deficit di ormone della crescita. Realizzato da Fondazione Istud con il patrocinio di Siedp (Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica) e Afadoc (Associazione delle Famiglie di bambini con Deficit di ormone della crescita) e con il supporto di Ferring Farmaceutici, il Progetto Crescere è una ricerca qualitativa che nell’arco di un periodo di due anni ha messo insieme i racconti della patologia e della vita quotidiana con la terapia da parte dei piccoli pazienti e dei loro familiari, oltre che dagli operatori sanitari di centri specializzati. L’analisi di queste testimonianze ha permesso di mettere a fuoco una serie di criticità che possono minare l’aderenza alla terapia: dall’agofobia al rifiuto della terapia durante l’adolescenza, fino alle paure e preoccupazioni dei genitori riguardo i possibili effetti collaterali della cura. Rachele Villa luglio 2016

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Approvazione DdL Lorenzin: un passo avanti per le professioni sanitarie Dopo l’approvazione da parte della commissione Sanità, il testo del disegno di legge sulla riforma degli Ordini e le sperimentazioni cliniche ha ricevuto il via libera anche al Senato. «Va sottolineata l’importanza del traguardo raggiunto oggi al Senato con l’approvazione del cosiddetto Decreto Lorenzin. Le norme che determinano la natura e la vita delle Professioni sanitarie, e delle loro rappresentanze erano rimaste sostanzialmente immutate dal 1946, e non era più differibile un intervento di aggiornamento» ha dichiarato il presidente della Federazione degli Ordini dei Farmaci-

sti, Senatore Andrea Mandelli. «Innanzitutto era doveroso riconoscere lo status di professione sanitaria a figure che ormai sono parte integrante del processo di cura e tutela della salute, come i biologi, i fisici, i chimici e altri ancora, così come l’istituzione di nuove professioni come quella di chiropratico e di agopuntore. È importante per chi esercita queste attività, ma anche e soprattutto per la tutela

dei cittadini che usufruiscono delle loro prestazioni. E a questo proposito non può sfuggire a nessuno che con l’accorpamento al provvedimento della modifica del Testo unico delle Leggi sanitarie, che avevo proposto con un disegno di legge, oggi è possibile far esercitare nella farmacia gli altri professionisti sanitari, con l’ovvia eccezione di quelli abilitati alla prescrizione. Questo significa poter finalmente dare vita ai centri polifunzionali previsti dal modello della farmacia dei servizi». Diverse misure vanno poi a semplificare e rendere meno onerosa la vita degli Ordini. «Tutto questo – conclude Andrea Mandelli – deve essere un motivo di soddisfazione per i professionisti della salute italiani».

Farmaci & Estate, dall’Aifa i consigli per affrontare la stagione calda Conservare e trasportare i medicinali in modo corretto è fondamentale per garantirne l’integrità e quindi l’efficacia e la sicurezza. Questa buona prassi vale in special modo nella stagione estiva, quando le alte temperature, l’umidità, l’escursione termica possono deteriorare il principio attivo , alterarne le proprietà o favorire la crescita microbica nei contenitori in caso di esposizione prolungata a fonti di calore e irradiazione solare diretta (es. gli antibiotici, i farmaci adrenergici, l’insulina, gli analgesici, i sedativi). Alcuni farmaci inoltre, per via del loro meccanismo d’azione, possono interferire con la termoregolazione o alterare lo stato di idratazione dell’organismo, amplificando gli effetti del caldo (anticoliner56

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gici, antipsicotici, antistaminici, antidepressivi, ansiolitici, antiadrenergici e beta-bloccanti, antipertensivi e diuretici, antiepilettici ecc.). Per queste ragioni, l’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) suggerisce alcuni semplici ma utili accorgimenti che possono tenere a riparo da spiacevoli inconvenienti legati alla cattiva conservazione (o trasporto) dei medicinali in presenza di temperature elevate. Quest’anno l’Aifa ha realizzato a questo scopo un pratico opuscolo “Farmaci & estate”, disponibile online sul sito istituzionale. L’opuscolo potrà essere condiviso e diffuso dagli operatori sanitari, che avranno a disposizione uno strumento in più per sensibilizzare il paziente su queste buone pratica a tutela della salute. L’obietti-

vo è ricordare ai cittadini, con l’approssimarsi dell’estate, quanto sia importante preservare dal calore eccessivo e dall’irradiazione diretta i farmaci per garantirne l’integrità. «È noto – ha dichiarato Luca Pani, direttore generale Aifa, che i medicinali vanno in genere conservati in luogo fresco e asciutto e non a diretto contatto con fonti di calore. In estate, però, occorre maggiore attenzione e qualche accortezza in più per non rischiare di ritrovarsi ad assumere farmaci inefficaci o peggio dannosi per la salute. L’Aifa suggerisce alcune buone pratiche e raccomanda di leggere sempre con attenzione il foglio illustrativo e consultare il medico o il farmacista in caso di dubbi sull’integrità di un prodotto».


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Latte fermentato, l’alimento che riduce le infezioni nel bambino Un ingrediente funzionale, sperimentato da ricercatori italiani, in grado di ridurre le infezioni respiratorie e gastrointestinali nel bambino in età prescolare, stimolandone il sistema immunitario Si tratta di un alimento derivato dal processo di fermentazione con il probiotico di origine umana L. Paracasei CBA L74, un latte fermentato, che produce sostanze benefiche nell’organismo e svolge un’attività antinfiammatoria attraverso la regolazione di due citochine chiave per il sistema immunitario. Un cosiddetto “postbiotico”, sperimentato grazie a una ricerca made in Italy che ha coinvolto l’Istituto Europeo di Oncologia e le Università di Napoli, Milano e Palermo, presentato in conferenza stampa lo scorso aprile al Senato della Repubblica. «La nostra sfida è stata quella di sfruttare in chiave moderna il tradizionale processo fermentativo, normalmente utilizzato per la produzione di tanti altri alimenti di uso comune» ha spiegato il professor Roberto Canani del Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Partendo dal concetto secondo cui «Una buona nutrizione è la premessa per la salute dell’adulto di domani», come ha affermato il professor Giovanni Corsello, presidente della Società Italiana di Pediatria, sono stati analizzati gli effetti della matrice fermentata su un campione di 400 bambini italiani di età compresa tra 0 e 2 anni, periodo infantile particolarmente a rischio per la contrazione di infezioni. I risultati si sono affermati eccellenti registrando una diminuzione del 64% del numero medio di infezioni per bambino tra i 12 e i 48 mesi e una consistente riduzione dell’uso di farmaci, prevalentemente antibiotici, antipiretici e steroidi, con un calo del 60% del nu-

mero di visite mediche, di assenze da scuola e di giorni di lavoro persi dai genitori. L’efficacia delle matrici fermentate era già stata dimostrata durante la fase degli studi preclinici, che avevano evidenziato l’effetto di rafforzamento del microbiota intestinale, l’ecosistema enterico composto da milioni di batteri importanti per l’assorbimento dei nutrienti e per il funzionamento del sistema immunitario. «La maggior parte delle funzioni del nostro corpo – ha spiegato la dottoressa Maria Rescigno dell’Università degli Studi di Milano – sono regolate dai batteri presenti nell’intestino. La digestione e il corretto funzionamento del sistema immunitario sono un esempio di tali funzioni». Nei primi mesi di vita del bimbo, il microbiota intestinale si presenta in una situazione di sterilità e viene gradualmente trasmes-

so dalla mamma durante l’allattamento. In seguito, si sviluppa completamente nel corso dei primi due anni per rimanere più o meno costante. Molte malattie sono associate alla variazione delle componenti dei batteri presenti nella flora intestinale mentre una ideale omeostasi dell’intestino costituisce la condizione fondamentale per il corretto funzionamento del sistema immunitario. «Durante la nutrizione – continua la dottoressa Rescigno – il cibo viene metabolizzato rilasciando metaboliti che, passando attraverso il muco intestinale, mantengono l’omeostasi dell’intestino». Con le matrici fermentate è possibile sfruttare metaboliti creati in vitro capaci di mantenere l’omeostasi dell’intestino e di proteggere il tessuto da eventuali infezioni. «I postbiotici rappresentano una grande innovazione – ha commentato il professor Fabio Mosca dell’Università degli Studi di Milano – perché hanno dimostrato non solo di poter modulare la flora intestinale ma anche le difese immunitarie del bambino». È dunque importante valorizzare la ricerca scientifica in ambito nutrizionale e non dimenticare che i primi momenti di vita di un essere umano lasciano sempre una traccia nella vita futura. Lucia Oggianu luglio 2016

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Unilever Prestige presenta Regenerate Enamel Science In occasione di Cosmofarma Exhibition, evento di riferimento per il mondo della farmacia, Unilever Prestige ha presentato i dati scientifici a supporto dell’esclusiva tecnologia brevettata NR-5™ di REGENERATE Enamel Science™, il primo sistema che ha dimostrato clinicamente di essere in grado di invertire il processo di erosione dello smalto dentale. Professione Salute ha incontrato Luca Sisto, Country Manager Unilever Prestige Italy, che ci ha illustrato le caratteristiche innovative di REGENERATE Enamel Science. Con REGENERATE Enamel Science, Unilever Prestige propone una soluzione definitiva ai disturbi legati all’erosione dello smalto dentale. Sono stati condotti studi scientifici a riguardo? L’80% dei problemi di igiene orale è legato all’erosione dello smalto. Anche se pazienti e consumatori non ne sono pienamente consapevoli, in realtà il problema dell’erosione dello smalto rappresenta una vera e propria epidemia dilagante ed è imputabile ai cambiamenti che hanno interessato la nostra alimentazione nel corso degli anni. Nonostante i trattamenti che nel frattempo sono stati messi in commercio negli ultimi cinquant’anni, principalmente a base di fluoro, abbiano migliorato drasticamente tutto ciò che era legato ai problemi di igiene orale, questo è un problema che fino ad oggi non è stato risolto in modo radicale. Finora nessuno era riuscito a dimostrare a livello clinico una reale rigenerazione dello smalto. Regenerate Enamel Science è il primo sistema ad aver dimostrato di rigenerare lo smalto dentale e di invertire il processo di erosione negli stadi precoci. Questi risultati sono frutto di oltre 9 anni di ricerca e di numerosi lavori pubblicati a livello internazionale a supporto di que62

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sto dato, di una ricerca condotta in Italia presso il nostro reparto di Ricerca e Sviluppo Unilever di Milano e di collaborazioni internazionali con università e istituti di ricerca indipendenti. Tutta la ricerca a supporto è stata condotta sia in vitro che in vivo con applicazioni in situ per analizzare le risposte al trattamento in un ambiente naturale e biologico come è il cavo orale. Da quali prodotti è composto il sistema REGENERATE Enamel Science? Attualmente il sistema si compone di due referenze. Il siero rinforzante, vera rivoluzione all’interno di questo mercato, è una maschera rigenerante per lo smalto dentale: ad ogni applicazione fino a un milione di nuovi minerali vengono rilasciati sulla superficie dei denti, avvolgendoli e formando nuova idrossiapatite, esattamente lo stesso minerale che compone lo smalto dentale. Completa il trattamento il dentifricio avanzato, contenente anche fluoro per offrire una protezione completa del cavo orale. Il dentifricio avanzato è stato concepito come prodotto da affiancare al siero: questo sistema di prevenzione dentale, con la sua esclusiva tecnologia NR5, brevettata a livello internazionale, aiuta a recuperare l’82% della durezza dello smalto dopo

soli tre giorni di utilizzo. Tuttavia, anche l’uso del solo dentifricio avanzato ha dimostrato di produrre un reindurimento dello smalto sin dal primo utilizzo, clinicamente provato, superiore rispetto a un dentifricio a base di solo fluoro. Quando utilizzati insieme, il siero rinforzante rafforza l’efficacia del dentifricio avanzato del 43%, aumentando il potere di rigenerazione dello smalto. Per un risultato ottimale si consiglia l’utilizzo del siero una volta al mese, per tre giorni consecutivi, da abbinare all’uso quotidiano del dentifricio avanzato. Il siero va applicato dopo aver lavato i denti, preferibilmente la sera prima di andare a dormire, utilizzando le due mascherine orali modellabili contenute all’interno della confezione e lasciando agire per soli tre minuti. Per il lancio è stato scelto il canale farmaceutico. Come è stata accolta la nuova tecnologia? La farmacia rappresenta il canale preferenziale di vendita per il sistema REGENERATE Enamel Science, dove si inserisce nella fascia premium. Il lancio della nuova tecnologia è stata accolto molto positivamente dal mercato, tanto che in meno di 10 mesi il sistema REGENERATE Enamel Science già detiene il 26% della quota di mercato all’interno del segmento dei prodotti per l’erosione dello smalto. Rachele Villa Maggiori informazioni sul prodotto e bibliografia completa disponibili su www.regenerateNR5.it


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ferroguna, l’integrazione per le carenze di ferro anche in gravidanza

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uella di ferro è una carenza minerale tra le più diffuse e diete squilibrate o l’intensa attività sportiva possono accentuarla. FerroGUNA è un integratore alimentare a base di ferro, rame, vitamina C, con polpa disidratata

del frutto del baobab, dolcificato naturalmente con glicosidi steviolici da stevia, clinicamente documentato con ottimale tollerabilità. FerroGUNA orosolubile fornisce il 100% del fabbisogno giornaliero di ferro in forma altamente assimilabile per l’organismo e con un’ottimale tollerabilità a livello gastrointestinale. La sua formulazione è a base di ferro, un minerale essenziale per l’organismo poiché trasporta l’ossigeno dal sangue ai tessuti attraverso i globuli rossi, favorendo il lavoro muscolare e l’eliminazione delle tossine cataboliche. Un ade-

guato apporto di ferro aiuta a prevenire i sintomi associati all’anemia quali senso di stanchezza generale, difficoltà di concentrazione, cefalea e nausea. La vitamina C contenuta nella formulazione di FerroGUNA favorisce inoltre l’assorbimento del ferro, mentre il rame contribuisce al suo normale trasporto nell’organismo. Infine, la polpa del frutto del baobab ottimizza l’assorbimento e l’utilizzo del ferro e aiuta a integrare importanti elementi per la salute dell’organismo. FerroGUNA è particolarmente consigliato come supporto ottimale nei casi di aumentato fabbisogno (gravidanza, puerperio, allattamento, accresci-

mento, senescenza, attività sportiva) o diminuito assorbimento intestinale dovuto a carenze dietetiche, malattie intestinali che compromettono l’assorbimento del ferro. Indicato anche per coloro che seguono una dieta vegetariana o vegana e in caso di aumentata perdita di sangue sia fisiologica (mestruazioni abbondanti) che patologica (gastrite, ulcera gastro-duodenale, alterazioni gastrointestinali). Privo di glutine, è disponibile in confezione da 28 bustine orosolubili. Guna Tel. 02 280181 info@guna.it - www.guna.it

LIPOSCUDIL PLUS, L’INTEGRATORE CHE CONTRIBUISCE AL CONTROLLO DEL COLESTEROLO NEL SANGUE

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iposcudil Plus è un integratore alimentare caratterizzato dalla presenza di quantità di riso rosso fermentato (di cui 10 mg di monacolina K) che contribuiscono al mantenimento di livelli normali di colesterolo nel sangue. Inoltre nella formula di Liposcudil Plus è stato inserito il Coenzima Q10 (30 mg) al fine di integrarne l’eventuale deplezione dovuta all’inibizione della sua sintesi. L’integrazione del Coenzima Q10 può essere utile nella mioprotezione e favorisce la bioenergetica cellulare.

I componenti di Liposcudil Plus, il riso rosso fermentato da Monascus Purpureus e il Coenzima Q10, per mezzo di un’innovativa tecnica farmaceutica, sono stati adsorbiti in un sistema autoemulsionante che ne favorisce l’emulsionamento con i sali biliari. Pertanto tali prin-

cipi presentano il vantaggio di essere più solubili e quindi maggiormente biodisponibili. Con l’impiego di questa tecnica si assicura un’ottimale efficacia del riso rosso fermentato nonché una migliore biodisponibilità del Coenzima Q10. Liposcudil Plus è utile per favori-

re il controllo dei livelli ematici di colesterolo nell’ambito di una dieta globalmente adeguata. L’effetto benefico si ottiene con l’assunzione di una capsula al giorno da deglutire con un po’ d’acqua, preferibilmente dopo il pasto serale. La confezione contiene 30 capsule per un mese di trattamento. Per l’uso del prodotto si consiglia di sentire il parere del medico. Piam Farmaceutici Tel. 010 518621 info@piamfarmaceutici.com www.piamfarmaceutici.com

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crema deodorante a lunga durata timodore, l’alleato 48h per piedi sempre in movimento

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alla ricerca dei Laboratori Farmaceutici Dottor Ciccarelli, azienda familiare italiana che ha origini nel 1821 e opera nel mercato dell’igiene orale, della cosmesi e del toiletry, nasce la nuova Crema Deodorante a lunga durata 48h Timodore. Pensata per prendersi cura dei piedi sempre in movimento, la nuova formula a base di estratti di timo, lavanda, rosmarino e margosa dona una sensazione di intensa freschezza e libertà. I test di efficacia hanno dimostrato che grazie alla sua formulazione ricca di questi speciali componenti – in grado di controllare la sudorazio-

ne del piede – e di attivi naturali dermopurificanti, l’azione deodorante si prolunga fino a 48 ore. La Crema Deodorante a lunga durata ad azione antisudore, della Linea Deodorazione di Timodore, dermatologicamente testata e senza parabeni, agisce efficacemente nei casi di ipersudorazione del piede e bromidrosi plantare, causa del cattivo odore, particolarmente frequente soprattutto negli adolescenti e in chi pratica sport a tutti i livelli. Per risultati ottimali si consiglia di stendere la crema sul piede prima dell’attività sportiva, massaggiando delicatamente per favorirne l’assorbimento.

Per un’accurata pulizia dei piedi, nella Linea Deodorazione di Timodore è disponibile anche il Detergente Deodorante Timodore con antibatterico, a base di principi attivi naturali specifici come il sale rameico dell’acido usnico, il timo e la lavanda che svolgono un’azione preventiva nella formazione dei cattivi odori causati dai batteri, risultando particolarmente efficace se utilizzato prima e dopo l’attività sportiva. Si usa come un normale sapone liquido, direttamente sui piedi o disciolto nell’acqua per un pediluvio rinfrescante, grazie alla presenza di mentolo.

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sanstime, l’UNICO SIERO AL MONDO CHE RICOSTRUISCE L’ACIDO Jaluronico nel derma per via transdermica

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l siero SansTime (brevetto n. 2072032), a differenza di diversi prodotti anti-age in commercio, non contiene acido jaluronico, bensì i suoi precursori: acido glucuronico e N-acetyl glucosa-

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mina. Sono queste le due molecole che introdotte nel derma con un liposoma diventeranno, attraverso l’azione della jaluron sintetasi, acido jaluronico. Si tratta di acido jaluronico vero, quello naturale, poiché prodotto fisiologicamente attraverso un processo biochimico. L’acido jaluronico che si viene a formare dopo 20-25 giorni avrà raggiunto un peso molecolare di circa 500.000/600.000 dalton, sufficiente per produrre quell’idratazione profonda essenziale per la distensione delle rughe di superficie e già

dalla prima settimana di utilizzo si noteranno importanti benefici sulle zone trattate. SansTime non è formulato come un cosmetico tradizionale, poiché è essenzialmente un veicolo transdermico che serve a introdurre nei fibroblasti del derma le due sostanze che formeranno l’acido jaluronico. Queto siero viene assorbito velocemente senza lasciare tracce di unto o grasso in superficie, lascia la pelle liscia e compatta. Si presenta senza conservanti, coloranti e profumo; non contiene sostanze di natura animale e non è sta-

to testato su animali. SansTime si applica, secondo le necessità, sulle zone interessate del viso e del collo; si consiglia di massaggiare delicatamente fino ad assorbimento completo. Per le sue particolari caratteristiche formulative, si raccomanda di usare il siero da solo e prevalentemente di notte, poiché durante il riposo si ha una risposta più efficace. Medichem Tel. 02 92590281 www.medcos.it commerciale@medcos.it


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fit: un cerotto a infrarossi contro i dolori muscolari

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azienda italiana D.Fenstec ha ideato un cerotto che promette di alleviare i dolori legati a lombalgia, cervicalgia, sciatica e sovraccarico muscolare senza l’utilizzo di medicinali e senza shock termici. Un prodotto basato su ricerche cliniche che hanno dimostrato come il corpo umano emetta e riceva onde infrarosse, in grado di eliminare le tossine che rappresentano una tra le cause principali delle infiammazioni e, quindi, del dolore. Da questi studi nasce l’osservazione di D.Fenstec: applicando nella parte dolente un materiale in grado di riflettere le onde infrarosse che il corpo stesso

emette, possiamo curare il dolore. Così nascono i cerotti Fit: gli speciali patch utilizzano il lontano infrarosso (Far InfraRed) per espandere i vasi capillari e sciogliere le tossine, alleviando i dolori delle infiammazioni. L’idea ha origine dagli studi condotti dal team capitanato dalla dottoressa giapponese Toshiko Yamazaki sugli effetti delle radiazioni elettromagnetiche sul corpo umano. Gli studi, protratti tra accademia e laboratorio, hanno successivamente dimostrato non solo che l’accumulazione delle tossine era tra le cause del dolore a livello muscolare, ma che le frequen-

ze del lontano infrarosso erano in grado di sciogliere le tossine stesse e facilitarne l’incanalamento verso l’apparato escretore, con un conseguente sollievo dal dolore, anche in termini temporali piuttosto brevi e per un lasso di tempo prolungato. D.Fenstec ha elaborato una soluzione apparentemente semplice per sfruttare le capacità delle onde elettromagnetiche del lontano infrarosso: il cerotto Fit è realizzato con speciali materiali in grado di “riflettere” le onde del lontano

infrarosso per ottenerne gli effetti benefici sull’organismo, favorendo gli scambi metabolici. Privo di effetti collaterali, Fit è un dispositivo medico di classe I che, poiché sfrutta un principio di auto-cura del corpo umano, può essere usato da tutti, senza limiti di età né di condizione fisica. D.Fenstec Tel. 0444 1750103 info@dfsrls.com www.dfenstec.com www.fit-italy.com

fotoprotector isdin fusion water, pelle protetta con la delicatezza dell’acqua

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otoprotector Isdin Fusion Water è il primo fotoprotettore a base acquosa, studiato da Isdin per offrire un’elevata protezione solare a utilizzo quotidiano dall’ottimale cosmeticità. Realizzato con le più avanzate tecniche di formulazione di cui l’azienda è pioniera, l’esclusivo fluido si assorbe istantaneamente, lasciando la pelle liscia e setosa, e grazie alla Safe-Eye Tech non irrita gli occhi, risultando protezione solare ideale da applicare sul viso. La rivoluzionaria texture di Isdin nasce minimizzando la fase oleosa a favore dei soli filtri solari per la radiazione UV con SPF 50+. La fase

esterna di Fotoprotector Isdin Fusion Water è quindi acqua, che viene opportunamente legata da un materiale gelificante e successivamente da filtri solari, senza nessun tipo di olio, per una texture fresca e setosa al tatto. L’assenza di alcol e la Sa-

fe-Eye Tech rendono inoltre il fotoprotettore estremamente sicuro dal punto di vista oftalmologico, consentendone l’applicazione in condizioni di utilizzo normali ma anche durante l’attività sportiva, senza alcun bruciore agli occhi a causa del sudore, e in acqua, alla quale resiste oltre 40 minuti di immersione. Grazie al suo contenuto in acido ialuronico e vitamina E, Fotoprotector Isdin Fusion Water esercita un’azione antiaging e antiossidante e, se applicato prima del trucco, agisce come primer, ammorbidendo la pelle, riducendo e mimetizzando l’aspetto visivo delle rughe

e dei pori dilatati, consentendo di stendere in modo pratico ed uniforme il maquillage. Queste caratteristiche fanno di Fusion Water il fotoprotettore dalla migliore accettabilità cosmetica unita a una elevata protezione dal danno attinico che può entrare di diritto nella normale routine cosmetica, indipendentemente dalla stagionalità. Disponibile in farmacia in confezione da 50 ml. Isdin Tel. 02 20520276 info@isdin.com www.isdin.com luglio 2016

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rowa, da 20 anni ottimizza i processi lavorativi in farmacia

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owa Technologies, uno dei primi fornitori di sistemi di automazione per farmacie, nasce nel 1996 dall’intuizione dell’ingegnere meccanico Rolf Wagner. L’azienda sviluppa continuamente solu-

zioni innovative per rispondere alle più importanti sfide del settore sanitario: migliorare il contatto tra farmacista e cliente e ottimizzare i processi di gestione del magazzino affinché rimanga più tempo a disposizione per la consulenza e le vendite supplementari. Con la fondazione di Rowa a Kelberg (Germania) nel 1996 viene venduto il primo sistema Rowa alla Saxonia Apotheke di Dresda e nel 2001 in Italia alla Farmacia Palmieri di Aprilia. Nel giro di pochi anni la piccola impresa, costituita inizialmente da cinque persone in Germania, diventa una grande azienda con oltre 6.500 sistemi Rowa venduti in tut-

to il mondo, di cui oltre 500 in Italia. Con lo sviluppo dei prodotti Rowa Vmax/Rowa Smart nasce un nuovo concetto di spazio che rende lo stoccaggio ancora più compatto, riducendo la superficie totale necessaria per il magazzino. Nel 2014 viene introdotto il Rowa Vmotion, una novità digitale attraverso la quale i prodotti OTC e di libera vendita vengono presentati su grandi monitor Multi-Touch. Nel 2015 Rowa presenta il Rowa Vpoint, che apre un’esperienza di shopping digitale in farmacia. Lo sviluppo continuo dei prodotti esistenti e delle innovazioni digitali fa sì che Rowa Technologies, con la

vendita nel 2015 di CareFusion alla multinazionale in ambito medicale Becton, Dickinson and Company (BD), possa sfruttare nuove sinergie e approcciare nuovi mercati. Spinta da un forte spirito innovativo, Rowa continuerà anche in futuro a aiutare i farmacisti a ottimizzare i processi e i profitti delle loro farmacie. La collaborazione al fianco dei farmacisti in qualità di partner affidabile e innovativo rimane la più alta priorità. Becton Dickinson Rowa Italy Tel. 02 99990120 info@rowa-italia.it www.rowa-italia.it

glaresmile, lo spazzolino elettrico hi-tech a pulizia autoguidata

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a tecnologia in soccorso degli italiani, che lavano i denti poco e male: GlareSmile è il primo strumento automatico di igiene orale, regolato da un microprocessore, che in 10 secondi promette una pulizia dentale in profondità. «GlareSmile è basato su una testina a tre spazzole che scorre lungo l’arcata dentale, pulendo al centro e ai lati, rimuovendo la placca in soli 10 secondi. Una pulizia autoguidata, grazie ai sensori di controllo del movimento, che garantisce il risultato contro ogni eventuale imperizia, anche di bambini o anziani» ha spiegato il dottor Aldo Domini66

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ci, direttore generale dell’azienda. Il nuovo spazzolino è adatto a tutti, dai 5 ai 90 anni, e può essere particolarmente utile per gruppi sociali come disabili, allettati, anziani per i quali non esiste alcun dispositivo dedicato e proprio perché lo

spazzolino non è legato alla capacità dell’utilizzatore di usarlo. E grazie alla App dedicata, il paziente viene motivato all’igiene orale con il controllo dell’utilizzo: data, ora e durata di ogni spazzolamento, tipologia di spazzolamento prescelto, invio statistiche al proprio dentista e altro ancora. GlareSmile è nata due anni fa come start up, ideata da due italiani e premiata in vari occasioni. Terminata la fase

di test e affinamento del prodotto, lo spazzolino è pronto per essere industrializzato e prodotto su larga scala. È terminata da poco la campagna di crowdfunding online sul sito kickstarter.com per consegnare il primo lotto di produzione a tutti coloro che per primi hanno finanziato il progetto con una donazione. lI prodotto sarà venduto nella grande distribuzione hi-tech, nelle farmacie e attraverso l’e-commerce. GlareSmile info@glaresmile.com www.glaresmile.com/italiano




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