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FARMACI INNOVATIVI L’erogazione in farmacia determinerà anche il futuro professionale del farmacista
INTEGRAZIONE ALIMENTARE Supplementazione vitamina D e ovaio policistico: che cosa dice la letteratura
FEBBRE E DOLORE Antinfiammatori e antipiretici: dosaggi e indicazioni d’uso in età pediatrica
FARMACOVIGILANZA Segnalazioni di reazioni avverse e monitoraggio sulla sicurezza dei medicinali
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INCONTINENZA È ancora un tabù per molti: se ne parla poco e si interviene tardi
Corso accreditato ECM Modulo 5 Ruolo di alimentazione e sport nel diabete di tipo 1
editoriale
Ssn: la sfida è coniugare sostenibilità e innovazione Negli ultimi anni il Sistema sanitario nazionale ha mostrato una spiccata capacità di resilienza alla crisi confermandosi sostenibile di fronte alle notevoli difficoltà. Gli anni del futuro però pongono nuovi ostacoli che metteranno a dura prova le procedure finora utilizzate e richiederanno nuovi interventi e modalità di approccio per garantire la migliore salute ai cittadini. La sfida più grande riguarda le patologie ad alto impatto per il Sistema sanitario, ovvero le cosiddette cronicità: cardiopatie, ictus, tumori, Alzheimer, disturbi respiratori cronici e diabete. Nel prossimo futuro la spesa sanitaria è destinata a crescere. In particolare, aumenterà la spesa farmaceutica per l’introduzione di farmaci innovativi costosi, crescerà la spesa per l’assistenza ai non autosufficienti e per l’allungamento dell’aspettativa di vita delle persone, che implica un maggiore bisogno sanitario-assistenziale. In tale contesto le malattie croniche, che richiedono cure continue per periodi di tempo molto lunghi, con una specificità di organizzazione e un impegno di risorse molto rilevante, costituiscono la prova più importante in termini di gestione e ottimizzazione delle risorse. Secondo il rapporto annuale presentato durante l’undicesima edizione del Forum Meridiano Sanità, per poter offrire un buon servizio di cura occorrerà investire maggiormente in prevenzione e innovazione. A riguardo, il nuovo Piano Nazionale delle Cronicità presenta un disegno strategico di gestione dei pazienti orientato a migliorare l’organizzazione dei sistemi sanitari e non sanitari attraverso un piano di cura personalizzato, costituito da un percorso diagnostico terapeutico assistenziale in grado di coinvolgere i vari operatori, prevedere la continuità delle cure in funzione allo stadio evolutivo della malattia e potenziare l’assistenza domiciliare integrata anche tramite il ricorso alla telemedicina. Proprio quest’ultima, infatti, insieme al web e ai sistemi integrati di Ict, rappresenta uno strumento utile per conciliare una migliore qualità dell’assistenza in ambito di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, e costi effettivamente sostenibili. Per funzionare, occorrerà liberarsi sempre più dell’equazione “ospedale uguale salute” e avvicinarsi a una maggiore domiciliarizzazione e dislocazione delle cure in strutture che siano di supporto agli ospedali e che riducano la pressione su di essi a vantaggio di una maggiore disponibilità di risorse economiche da investire in nuovi programmi di prevenzione sanitaria. A tal fine, serviranno anche nuove politiche per determinare le adeguate premesse culturali e strutturali e favorire la costruzione di un modello sanitario capace di coniugare sostenibilità e innovazione, che sia libero dalle logiche di tipo ragionieristico che privilegiano i meccanismi dei disincentivi/incentivi e che sappia riconoscere le problematiche sottese per contrapporre le soluzioni più efficaci.
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Occorrerà liberarsi
sempre più dell’equazione “ospedale uguale salute” e avvicinarsi a una maggiore domiciliarizzazione e dislocazione delle cure in strutture che siano di supporto agli ospedali e che riducano la pressione su di essi a vantaggio di una maggiore disponibilità di risorse economiche da investire
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in nuovi programmi di prevenzione sanitaria
Lucia Oggianu dicembre 2016
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sommario 3 Editoriale
8 Ne parliamo con
FarMaci innovativi, presto disponibili nelle farmacie territoriali? Intervista ad Andrea Mandelli di Renato Torlaschi
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Il prodotto del mese
Ne parliamo con
Integrazione alimentare
LKC pharma, nuova linea cosmetica a base di acido ialuronico reticolato
Disturbi dell’alimentazione: non solo anoressia e bulimia
Ruolo della vitamina d nella sindrome dell’ovaio policistico di Rachele De Giuseppe
Intervista a Donatella Ballardini di Rachele Villa
15 Corso ECM 2016
Ruolo di alimentazione e sport nel diabete di tipo 1 di Francesca Bicocca
36 Pediatria
Influenza nei bambini: quali sono i farmaci più adatti? di Renato Torlaschi
40 Farmacovigilanza
Reazioni avverse ai farmaci: perché, quando e come segnalare di Carla Carnovale dicembre 2016
Professione Salute
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sommario
44 Salute e benessere
Incontinenza urinaria, una patologia sommersa di Rachele Villa
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Igiene orale
Salute e benessere
diabete e parodontite: un legame a doppio filo
osteoporosi, indicazioni diagnostiche e terapeutiche
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di Luca Vanni
di Claudia Grisanti
Le aziende informano
Attualità
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Errata corrige Nell’articolo “Ruolo della supplementazione di aminoacidi nell’adulto per contrastare la sarcopenia” pubblicato su Professione Salute n. 4 di ottobre, a pagina 37 è stato riportato un dosaggio errato delle vitamine B1 e B6. Riportiamo di seguito il passaggio corretto: “Degna di nota è anche la possibile azione sinergica di fonti vitaminiche, specialmente del complesso B, che svolgono il ruolo di coenzima in numerose reazioni metaboliche. In particolare le vitamine B1 (tiamina) e B6 (piridossina), cofattori essenziali nel metabolismo degli aminoacidi, dovrebbero tener conto dei livelli di riferimento riportati dai Larn 2014 per un soggetto adulto: 1,2 mg/die (1,1 mg/die per la donna) per la B1 e 1,3 mg/die (1,5 e 1,7 mg/die rispettivamente per la donna e l’uomo sopra ai 60 anni) per la B6”.
Professione Salute Bimestrale di counseling e formazione alla prevenzione Direttore responsabile Giuseppe Roccucci Board Scientifico Hellas Cena (Direttore) Donatella Ballardini Silvia Brazzo Mario Calzavara Mariano Casali Rachele De Giuseppe Massimo Labate Luca Marin Mara Oliveri Marco Rufolo Redazione Andrea Peren a.peren@griffineditore.it Lara Romanelli l.romanelli@griffineditore.it Rachele Villa r.villa@griffineditore.it
Grafica Grafic House, Milano Hanno collaborato in questo numero Francesca Bicocca, Carla Carnovale, Rachele De Giuseppe, Claudia Grisanti, Lucia Oggianu, Renato Torlaschi, Luca Vanni Vendite Stefania Bianchi s.bianchi@griffineditore.it Paola Cappelletti p.cappelletti@griffineditore.it Giovanni Cerrina Feroni g.cerrinaferoni@griffineditore.it Lucia Oggianu l.oggianu@griffineditore.it Ufficio Abbonamenti Maria Camillo customerservice@griffineditore.it Tel. 031.789085 - Fax 031.6853110 Stampa Reggiani spa - Divisione Arti Grafiche Via Alighieri, 50 - Brezzo di Bedero (VA) SIDeMaST
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Editore Griffin srl unipersonale Piazza Castello 5/E - 22060 Carimate (CO) Tel. 031.789085 - Fax 031.6853110 www.griffineditore.it Professione Salute. Periodico bimestrale Anno VII - n. 5 - dicembre 2016 Registrazione del Tribunale di Como n. 4 del 14.04.2010 ISSN 2531-8748 Iscrizione Registro degli operatori di comunicazione n. 14370 del 31.07.2006 Tutti gli articoli pubblicati su Professione Salute sono redatti sotto la responsabilità degli Autori. La proprietà letteraria degli articoli appartiene a Griffin. Il contenuto del giornale non può essere riprodotto o traferito, neppure parzialmente, in alcuna forma e su qulalsiasi supporto, salvo espressa autorizzazione scritta dell’Editore. Ai sensi della legge in vigore, i dati dei lettori saranno trattati sia manualmente sia con strumenti informatici e utilizzati per l’invio di questa e altre pubblicazioni o materiale informativo e promozionale. Le modalità di trattamento saranno conformi a quanto previsto dalla legge. I dati potranno essere comunicati a soggetti con i quali Griffin intrattiene rapporti contrattuali necessari per l’invio della rivista. Il titolare del trattamento dei dati è Griffin, al quale il lettore si potrà rivolgere per chiedere l’aggiornamento, l’integrazione, la cancellazione e ogni altra operazione prevista per legge. In base alle norme sulla pubblicità l’editore non è tenuto al controllo dei messaggi ospitati negli spazi a pagamento. Gli inserzionisti rispondono in proprio per quanto contenuto nei testi.
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Farmaci innovativi, presto disponibili nelle farmacie territoriali? La Federazione degli ordini dei farmacisti italiani si esprime a favore della distribuzione dei farmaci innovativi in farmacia.
Intervista di Renato Torlaschi
Limitare la dispensazione all’ambito ospedaliero significa negare al cittadino un accesso equo e uniforme al farmaco ed escludere la rete delle farmacie dal circuito dell’innovazione
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osa sia l’innovazione in farmacoterapia è una questione rimasta a lungo controversa. Evidentemente non rientra in questa categoria qualsiasi farmaco messo per la prima volta in commercio; ormai un decennio fa, un gruppo di lavoro sull’innovatività dei farmaci costituito dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) aveva stabilito che l’impatto sociale, oltre che terapeutico, di un farmaco destinato al trattamento di una patologia grave è di per sé superiore rispetto a quello di molecole destinate al trattamento di patologie non gravi. Ma questo non è sufficiente per definire il grado di innovazione: è soprattutto importante che il nuovo farmaco produca sulla malattia un beneficio sostanziale. Per contro, anche un farmaco per una malattia non grave, se riguarda patologie prive di terapia e garantisce un buon livello di efficacia è da considerare a pieno titolo un’innovazione terapeutica. Al di là delle definizioni più o meno rigoro-
Andrea Mandelli Presidente Fofi
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se, in questi ultimi anni sono stati molti i farmaci innovativi che sono stati messi a disposizione per le patologie più diverse, in molti casi per quelle tumorali e una delle caratteristiche più evidente sono i costi, spesso molto elevati. Ma la loro distribuzione è tipicamente ospedaliera e una tra le preoccupazioni maggiori espressa da professionisti e associazioni è la sostanziale esclusione dei farmaci innovativi tra i prodotti che possono essere dispensati sulle farmacie distribuite sul territorio. Questo stato di cose potrà cambiare nel prossimo futuro? Molti segnali ci dicono di sì, come spiega il presidente della Federazione degli ordini dei farmacisti italiani (Fofi) Andrea Mandelli. Dottor Mandelli, si riuscirà a portare i farmaci innovativi in farmacia? Oggi ci sono condizioni che in passato non c’erano. Per cominciare, nella Legge di stabilità per il 2014 è stato approvato un mio
Intervista ad Andrea Mandelli
emendamento che prevede l’aggiornamento annuale del Prontuario ospedale-territorio (Pht) da parte dell’Aifa, che dovrà individuare ogni anno un elenco di medicinali innovativi che potranno essere dispensati attraverso le farmacie convenzionate. Non era evidentemente un’operazione semplice ma il processo è avviato e ora attendiamo gli effetti pratici. A sostegno del ritorno degli innovativi nella farmacia di comunità ci sono le esperienze dei paesi europei anche a noi molto vicini come la Svizzera o la Francia, dove il farmacista di comunità non è mai stato escluso dal circuito dell’innovazione e ha dimostrato di poter garantire la sicurezza del paziente anche con terapie complesse come quelle di cui si parla. Di quali classi di farmaci stiamo parlando precisamente? Come già detto è compito dell’Aifa definire quali farmaci innovativi siano compatibili con l’uso sul territorio, e questo è un ulteriore elemento di sicurezza, visto l’alto profilo con cui l’Agenzia ha operato e opera quotidianamente. Detto questo, anche sulla base di lavori di revisione della letteratura che abbiamo fatto condurre, è ipotizzabile che ci possano essere molecole come gli antiretrovirali impiegati per l’infezione da Hiv, o alcuni antitumorali per via orale. E poi le molecole ormai disponibili come equivalenti o biosimilari, perché non dimentichiamo che spesso sono state le motivazioni economiche a escludere alcuni medicinali dalla distribuzione convenzionata. Ovviamente ci sono e ci saranno sempre farmaci il cui uso va riservato all’ospedale ed è giusto che sia così. Perché questo sia possibile, quali condizioni devono essere soddisfatte? Deve essere in qualche modo rivisto il rapporto ospedale-territorio o è una strada percorribile fin da ora? Fin dal 2006 abbiamo sostenuto che se il farmaco, l’uso del farmaco, attraversa tutti gli
QUANDO UN FARMACO È INNOVATIVO Per l’attribuzione del grado di innovazione terapeutica a un farmaco, l’Aifa considera due fattori: la disponibilità di trattamenti preesistenti e l’entità dell’effetto terapeutico. Ciascuno di questi parametri presenta tre possibili opzioni in ordine decrescente di importanza. Dalla combinazione dei diversi punteggi si attribuisce, tramite un algoritmo, il grado di innovazione terapeutica di una nuova molecola. Vengono privilegiati i farmaci per il trattamento di patologie finora prive di adeguato trattamento (è il caso di molti farmaci orfani per il trattamento di malattie rare) o destinate a sottogruppi di pazienti portatori di controindicazioni assolute all’uso dei
farmaci già in commercio e per i quali i nuovi farmaci rappresentino l’unica opzione terapeutica praticabile. Per l’attribuzione dell’entità dell’effetto terapeutico si considera prioritario il fatto che il nuovo farmaco apporti benefici maggiori su endpoint clinici (riduzione della mortalità e della morbilità) o su end-point surrogati validati. Il punteggio di innovatività attribuito a un farmaco può essere modificato nel tempo, in base alle crescenti evidenze sul suo rapporto tra beneficio e rischio. Inoltre, la permanenza massima dei farmaci nella lista è di 36 mesi dal momento della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del provvedimento di definizione del prezzo e della rimborsabilità.
ambiti della cura, deve esistere anche una filiera delle competenze che accompagni sempre il farmaco e i cui attori – medici e farmacisti ospedalieri, medici e farmacisti del territorio – devono comunicare e collaborare strettamente. Ricordo che in Gran Bretagna uno dei servizi cognitivi svolti dalle farmacie, il New Medicine Service, prevede che il farmacista di comunità prenda in carico il paziente cui è stato modificato il trattamento o che ne inizia uno nuovo, spesso dopo la dimissione ospedaliera, per rinforzare le indicazioni ricevute e assicurarsi che abbia ben compreso quale uso fare dei medicinali prescritti. Come si sta muovendo la Federazione degli ordini dei farmacisti italiani per arrivare a questo obiettivo? È bene che sia chiaro: l’arrivo dei farmaci innovativi in farmacia non è semplicemente un fatto di distribuzione. Dispensare dicembre 2016
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ni professionali dati scientifici inattaccabili, per esempio con il progetto I-MUR che, attraverso uno studio randomizzato e clusterizzato che ha coinvolto 216 farmacisti e 884 pazienti in 15 regioni, ha dimostrato come un intervento mirato del farmacista possa migliorare l’aderenza terapeutica e indurre un risparmio consistente. Ora abbiamo avviato un progetto di formazione, rivolgendoci proprio all’Aifa, mirato all’aggiornamento sui farmaci innovativi che più probabilmente saranno affidati alle farmacie di comunità.
questi medicinali significa per la stragrande maggioranza dei colleghi dover aggiornare le proprie conoscenze scientifiche, in particolare per coloro che sono usciti dall’università già da qualche tempo. Escludere la farmacia dal circuito dell’innovazione farmacologica ha comportato il crearsi di un divario di conoscenze rispetto ai professionisti che con questi farmaci hanno a che fare ogni giorno. Ma non c’è soltanto questo: occorre predisporre un approccio differente, basato su quelle prestazioni professionali, come la Medicine use review, che costituiscono un complemento fondamentale della terapia farmacologica. Oggi come non mai il farmaco, per usare il linguaggio economico, è sempre meno un prodotto e sempre più un servizio-prodotto, la cui efficacia dipende anche dall’intervento del professionista: per informare, promuovere l’aderenza, controllare che non sorgano problemi legati all’uso del farmaco. In questi anni la Fofi ha prodotto sul fronte di queste prestazio10
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Perché è importante per farmacisti, pazienti e Servizio sanitario nazionale? Nel Dna del servizio farmaceutico italiano c’è la finalità di garantire un accesso equo e uniforme al farmaco, e questo significa che, fatta salva la distinzione tra trattamenti territoriali e trattamenti ospedalieri, non si può escludere dall’innovazione la rete delle farmacie: che sono facilmente accessibili, distribuite uniformemente nel paese e costituiscono un presidio sanitario a tutti gli effetti, e ancora di più lo saranno in futuro. Altrimenti si creano cittadini di serie A, quelli che possono raggiungere facilmente l’ospedale, e quelli che non godono di questa situazione. E si crea anche una dicotomia tra farmacisti: quelli che dispensano solo vecchi farmaci, peraltro ancora insostituibili, e quelli che gestiscono le terapie allo stato dell’arte. È sbagliato ed è una grave diseconomia, sia in termini di costi indiretti per il cittadino, le trasferte, le attese, sia in termini di costi diretti, perché le strutture sanitarie per provvedere alla dispensazione devono sottrarre risorse importanti ai loro compiti specifici. n
il prodotto del mese
punti di forza LKC Pharma è una linea cosmetica studiata per mantenere una pelle sana e senza imperfezioni, in grado di contrastare l’invecchiamento precoce causato dal progressivo trascorrere dell’età e di proteggere dai danni cutanei dovuti all’esposizione solare.
LKC Pharma, nuova linea cosmetica a base di acido ialuronico reticolato Una linea completa di cosmetici nata interamente dall’innovazione made in Italy
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KC Pharma è una nuova linea cosmetica studiata per mantenere una pelle sana e priva di imperfezioni. Avvalendosi di tecnologie all’avanguardia, LKC Pharma ha sviluppato una serie di prodotti cosmetici che sfruttano le proprietà dell’acido ialuronico reticolato con urea. Questo agente reticolante, a differenza
lkc pharma s.r.l. www.lkcpharma.com - info@lkcpharma.com
di altri, è privo di tossicità e ha un elevato potere idratante. La sinergia che si ottiene dall’urea e dall’acido ialuronico favorisce il mantenimento del film idrolipidico superficiale, necessario per contrastare l’aggressione da parte degli agenti esterni quali lo smog e le radiazioni solari, rallentando inoltre l’inesorabile trascorrere del tempo e donando alla pelle un aspetto visibilmente più giovane, liscio e vellutato. Attualmente la linea cosmetica LKC Pharma è costituita da quattro tipologie di prodotti: Hyalunique 24, una crema viso anti-età, studiata per proteggere la pelle e prevenire i pro-
cessi di ossidazione e di invecchiamento cellulare; Whitening Cream, una crema viso e décolleté ad azione depigmentante adatta a tutti i tipi di pelle, anche a quelle più sensibili; Whitening Peeling, un peeling ad azione depigmentante per viso e décolleté in grado di promuovere il turnover cellulare, rendendo la pelle visibilmente più giovane, elastica e senza imperfezioni; e infine Hyalusun, una gamma di creme solari a diverso grado di protezione studiata e realizzata per prendersi cura della pelle e proteggerla a ogni età, grazie a un nuovo metodo brevettato che consente di utilizzare i filtri solari senza alcun rischio per la salute e per l’ambiente. n LKC Pharma è un marchio registrato di LKC Pharma srl
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Corso ECM 2016 Modalità di Formazione a Distanza (FAD) riservato agli abbonati paganti*
Alimentazione e sport in diverse condizioni fisiopatologiche Responsabile scientifico Prof.ssa Hellas Cena Medico Chirurgo, Specialista in Scienza dell’Alimentazione, Università degli Studi di Pavia Programma del corso L’esercizio fisico e l’attività sportiva sono fondamentali per favorire il pieno sviluppo dell’organismo e per promuovere e mantenere uno stato di salute ottimale sia a breve che a lungo termine. Alla luce di tali considerazioni, nel corso Alimentazione e sport in diverse condizioni fisiopatologiche verranno approfonditi diversi aspetti: z come una alimentazione corretta ed equilibrata rappresenti il sistema più adatto per soddisfare i particolari bisogni energetici e nutrizionali degli sportivi, sia amatoriali che professionisti; z come nell’anziano, in seguito a modificazioni fisiologiche quali il rallentamento del metabolismo basale, la diminuzione della muscolatura scheletrica e una ridotta attività fisica, sia necessario un intervento nutrizionale adeguato unitamente a un corretto programma di esercizio fisico al fine di mantenere un buono stato di benessere sia fisico che cognitivo e psichico; z come un’alimentazione equilibrata e corretta, affiancata a un valido e continuo programma motorio, sia un’efficace misura da adottare nella cura di patologie croniche (diabete mellito di tipo 1), nella riabilitazione del paziente affetto da patologia cardiovascolare e nel paziente oncologico. Struttura del corso z Alimentazione nell’adulto sportivo sano (Mara Oliveri, Anna Gerbaldo) z Alimentazione ed esercizio fisico: raccomandazioni per l’anziano (Matteo Vandoni, Silvia Maffoni) z Esercizio e nutrizione nella riabilitazione della patologia cardiovascolare (Pietro Mariano Casali, Francesca Bicocca) z Alimentazione e attività fisica nel paziente oncologico (Luca Marin, Silvia Brazzo) z Ruolo di alimentazione e sport nel diabete di tipo 1 (Francesca Bicocca) Obiettivi del corso Il presente corso si prefigge di raggiunfìgere i seguenti obiettivi: z l’obiettivo specifico di alimentare in modo continuo le conoscenze delle figure professionali che lavorano in ambito sanitario; i contenuti forniti potranno essere “trasferiti” all’utente finale, con ripercussioni in termini di “aumento di competenze” della comunità in cui si è chiamati ad agire; z l’obiettivo più generale di contribuire al mantenimento e rafforzamento del network comunicativo con le varie figure professionali in un percorso verso l’implementazione e lo sviluppo delle loro competenze individuali in ambito preventivo, che potrà avere importanti ripercussioni “a cascata” in termini di “guadagno di salute” di tutta la popolazione. Modalità di somministrazione del corso e accreditamento ECM In ogni numero di Professione Salute a partire dal n. 1/2016 e per tutto il 2016 (gennaio-dicembre) sarà pubblicato un modulo composto da un articolo e da un questionario di valutazione. Tutti i moduli pubblicati sulla Rivista saranno disponibili online su sito www.fadmedica.it, dove sarà possibile, modulo per modulo, rispondere ai questionari di valutazione. L’erogazione dei crediti ECM avverrà al superamento di tutti i questionari. Tutti gli iscritti al corso riceveranno le informazioni necessarie per l’accesso online e la compilazione dei questionari.
*Per informazioni: tel. 031.789085 e-mail: customerservice@griffineditore.it
CORSO ecm
Ruolo di alimentazione e sport nel diabete di tipo 1
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A cura di Francesca Bicocca
l diabete mellito (DM) è un disordine metabolico caratterizzato dalla presenza di elevati livelli di glucosio nel sangue, derivanti da un’alterazione della secrezione e/o della funzione dell’insulina, ormone che consente al glucosio di entrare nelle cellule. L’eziologia di questa patologia è multifattoriale: fattori genetici ed ereditari (familiarità), individuali (sovrappeso, ipertensione, abitudine al fumo, ecc.) e ambientali (per esempio, dieta, scarso esercizio fisico, stress) possono scatenare l’esordio del diabete. I criteri diagnostici per la valutazione delle alterazioni del metabolismo glucidico stabili-
Dietista Laureata in scienze motorie
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ti dall’Organizzazione mondiale della sanità (Who) e dall’Associazione americana del diabete (Ada) includono quattro principali categorie eziologiche: diabete di tipo 1, diabete di tipo 2, altri tipi specifici e il diabete gestazionale (tab. 1). Nel diabete tipo 1 (DM1) si giunge a un deficit assoluto di produzione endogena di insulina, a causa della progressiva, ma variabile, distruzione delle cellule ß del pancreas. Tipicamente l’insorgenza della malattia avviene in età pediatrica (esordio acuto), ma può presentarsi più tardivamente in età adulta (diabete a lenta progressione).
alimentazione e sport in diverse condizioni fisiopatologiche
Il mancato controllo metabolico, dovuto a inadeguata terapia medica-nutrizionale (MNT), è associato all’insorgenza di complicanze microvascolari e, successivamente, allo sviluppo a lungo termine di danni d’organi specifici (occhi, reni, cuore, vasi sanguigni e nervi periferici). I pazienti con il diabete sono, inoltre, a elevato rischio per lo sviluppo di malattia cardiovascolare, malattia cerebrovascolare e vasculopatia periferica. Nei diabetici di tipo 1 esistono poi le complicanze di tutti i giorni o acute, dovute alla carenza pressoché totale di insulina (iperglicemia con chetoacidosi, ipoglicemia, ipoglicemia notturna). L’obiettivo terapeutico è quello di contrastare i potenziali effetti dannosi di una patologia cronica (inguaribile ma curabile), mantenendo il miglior controllo metabolico possibile. Il management della patologia si fonda sul monitoraggio glicemico continuo e sul dosaggio periodico dell’emoglobina glicata (HbA1c), proposta e accettata nel 2009 come indice per la diagnosi di diabete e come parametro di valutazione del controllo glicemico. Analizzando parallelamente sia i risultati dell’automonitoraggio glicemico sia l’esame dell’HbA1c è possibile verificare anche l’adeguatezza del pia-
no terapeutico, la presenza di ipoglicemie o di iperglicemia postprandiale (Amd-Sid, Standard italiani per la cura del diabete mellito 2014). Gli standard di cura internazionali e italiani identificano poi tre fattori relativi allo stile di vita come potenziali strumenti per il trattamento del DM, indipendentemente dalla forma della patologia (DM1 o DM2): il controllo del peso, una corretta alimentazione e l’esercizio fisico. Queste tre componenti sono infatti fondamentali nella prevenzione e cura del DM2 e nel trattamento delle complicanze acute e croniche del DM1.
tabella 1 - classificazione etiologica del diabete mellito (who 2006, ada 2014) Diabete tipo 1 – È causato da distruzione beta-cellulare, su base autoimmune o idiopatica, ed è caratterizzato da una carenza insulinica assoluta (la variante LADA, Latent Autoimmune Diabetes in Adults, ha decorso lento e compare nell’adulto). Diabete tipo 2 – È causato da un deficit parziale di secrezione insulinica, che in genere progredisce nel tempo ma non porta mai a una carenza assoluta di ormone, e che si instaura spesso su una condizione, più o meno severa, di insulino-resistenza su base multifattoriale. Altri tipi di diabete: z difetti genetici della beta-cellula z difetti genetici dell’azione insulinica z malattie del pancreas esocrino z endocrinopatie z indotto da farmaci o sostanze tossiche z infezioni z forme rare di diabete immuno-mediato z sindromi genetiche rare associate al diabete
Il bilancio energetico e il controllo del peso corporeo rappresentano un target fondamentale da raggiungere negli adulti diabetici in sovrappeso (BMI 25,0-29,9kg/m2) od obesi (BMI ≥30 kg/m2). Nonostante un aumento ponderale non rappresenti la causa scatenante del DM1, essa non favorisce certamente il controllo metabolico e amplia il rischio di sviluppare complicanze associate a una condizione che, già di per sé, presenta un rischio cardiovascolare superiore rispetto alla popolazione sana. L’approccio ideale per ottenere tale obiettivo è identificato nella modificazione dello stile di vita, che include principalmente una riduzione dell’apporto calorico con la dieta (300-500 kcal/die) e un aumento del dispendio energetico (200-300 kcal/ die) attraverso l’attività fisica, per permettere un lento ma progressivo calo ponderale. Gli effetti benefici dell’attività fisica nel diabete furono già riconosciuti a metà del XX secolo da Eliot P. Joslin (Treatment of Diabetes Mellitus, 1959), che individuò nell’esercizio fisico le terza componente essenziale per il controllo glicemico nelle persone con diabete di tipo 1, accanto alla terapia insulinica e alla dieta. Negli ultimi decenni questa tesi è stata ulteriormente rinforzata dalle continue evidenze scientifiche che individuano l’esercizio fisico come fondamentale componente integrante del trattamento del paziente diabetico (1). dicembre 2016
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tabella 2 - indicazioni generali per la composizione ottimale della dieta per il paziente diabetico Componenti della dieta
Quantità complessiva consigliata
Quantità consigliata dei singoli nutrienti
Consigli pratici
Carboidrati
45-60% kcal tot (III, B)
Saccarosio e altri zuccheri aggiunti <10% (I, A)
Vegetali, legumi, frutta, cereali preferibilmente integrali, alimenti della dieta mediterranea (III, B)
Fibre
>40 g/die (o 20 g/1000 kcal die), soprattutto solubili (I, A)
Proteine
10-20% kcal tot (VI, B)
Grassi
35% kcal tot (III, B)
Sale
<6 g/die (I, A)
5 porzioni a settimana di vegetali o frutta e 4 porzioni a settimana di legumi (I, A)
Saturi <10, <8% se LDL elevato (I, A) MUFA 10-20% (III, B) PUFA 5-10% (III, B) Evitare ac. grassi trans (VI, B) Colesterolo <300 mg/die, <200 mg/ die se colesterolo elevato (III, B)
Tra i grassi da condimento preferire quelli vegetali (tranne olio di palma e di cocco)
Limitare il consumo di sale e di alimenti conservati sotto sale (insaccati, formaggi, scatolame)
Fonte: Amd-Sid Standard italiani per la cura del diabete mellito 2014
Tuttavia, la forte probabilità di sperimentare eventi avversi indotti dallo stesso scoraggia e fa prendere le distanze, in particolar modo per quanto riguarda i pazienti con DM1, per i quali l’attività fisica rappresenta una minaccia all’omeostasi glucidica. Oltre ai comuni impedimenti all’esercizio fisico (mancanza di tempo, condizioni ambientali, stress, scarsa energia, ecc.), il soggetto diabetico insulino-dipendente deve fare fronte a numerose difficoltà che si presentano nell’approccio all’esercizio fisico: monitorare la glicemia prima, durante e dopo; assumere un’integrazione glucidica (quale, quando, quanto?); prevenire e/o trattare l’ipoglicemia. Inoltre, occorre verificare a priori l’eventuale presenza di complicanze croniche del diabete (retinopatia o nefropatia) o di patologie dell’apparato cardiovascolare (ischemia miocardia o ipertensione arteriosa), che rappresentano delle controindicazioni ad alcune tipologie di attività. In ultima analisi, se si considera che non esi18
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stono evidenze scientifiche che dimostrino l’efficacia dell’esercizio fisico sul controllo glicemico a lungo termine (HbA1c), aderire a un programma di attività fisica regolare diventa una vera e propria sfida per questi pazienti. Esistono tuttavia numerosi altri benefici apportati dal regolare esercizio fisico (sul profilo lipidico e ormonale, sul tono dell’umore, sulla salute delle ossa, sul controllo del peso, ecc.) e infiniti casi di pazienti diabetici che praticano sport, a qualsiasi livello, traendo i maggiori benefici dall’esperienza motoria. L’attività fisica, ponendo l’organismo in una condizione di momentanea instabilità, offre un’occasione di crescita ulteriore e di maggiore conoscenza di sé e della propria patologia, attraverso un percorso che necessariamente si basa su prove per errori. Il ruolo dell’alimentazione
Gli Standard italiani per la cura del diabete mellito del 2014 (Associazione medici diabe-
tologi, Amd, e Società Italiana di Diabetologia, Sid) suggeriscono di integrare la terapia medica-nutrizionale (MNT) attraverso un approccio multispecialistico, all’interno di un programma terapeutico che deve tenere in considerazione una serie di fattori che caratterizzano ogni specifico caso: le esigenze personali, la disponibilità ai cambiamenti, i target metabolici, il tipo di diabete e trattamento ipoglicemizzante, il livello di attività fisica e lo stile di vita. La MNT è raccomandata per tutte le persone con DM e ha l’obiettivo di mantenere o migliorare la qualità di vita, il benessere fisiologico e nutrizionale, prevenire e curare le complicanze acute e a lungo termine e le comorbilità associate al diabete. È ben documentato che la terapia nutrizionale può migliorare il controllo glicemico (2) e, se utilizzata con altri componenti della cura del diabete, è in grado di migliorare ulteriormente i risultati clinici e metabolici anche nel DM1. Le principali indicazioni dietetiche redatte so-
alimentazione e sport in diverse condizioni fisiopatologiche
no indirizzate per lo più al DM2, dove l’alimentazione può avere un ruolo terapeutico (tab. 2). Per quanto riguarda il DM1, invece, i consigli sono pochi e aspecifici (a meno che non vi sia una condizione di sovrappeso), limitandosi alle più comuni raccomandazioni per un’alimentazione equilibrata e corretta, con una maggiore attenzione all’indice glicemico (IG) degli alimenti e quindi al carico glicemico del pasto. I carboidrati devono far parte della dieta di tutti i giorni dei pazienti con diabete tipo 1 e tipo 2. Gli esperti, tuttavia, ribadiscono l’importanza sia della quantità che della qualità dei carboidrati (misurata dall’IG), considerando come i cibi possono influenzare diversamente la glicemia post-prandiale e le conseguenze sulla salute di tale risposta. È importante che essi derivino da alimenti non raffinati, ricchi di fibre e con medio-basso indice glicemico (cereali integrali, legumi, frutta e verdura). Una dieta a basso indice glicemico può, infatti, determinare un miglioramento del controllo glicemico, riducendo anche il rischio di ipoglicemia. Al momento non esistono evidenze per suggerire l’uso di diete a basso contenuto di carboidrati (ovvero con una restrizione <130 g/die) nelle persone con il diabete, e in particolare nel DM1, sebbene la quantità totale dei carboidrati vada sempre controllata, attraverso l’uso delle diete a scambio oppure con il conteg-
gio (counting) dei carboidrati. Il counting dei carboidrati rappresenta la strategia più efficacie per l’ottenimento del controllo glicemico. È una metodica educazionale utilizzata per migliorare sia il controllo metabolico che la qualità di vita, rendendo il paziente diabetico scevro da precisi schemi dietetici e conferendo una maggiore libertà nella scelta della composizione del pasto. La corretta applicazione del metodo permette, infatti, di modificare la dose di insulina utilizzata prima dei pasti in base ai carboidrati che verranno assunti. Per utilizzare la metodica con successo, è indispensabile intraprendere un percorso educativo finalizzato a sviluppare capacità e abilità individuali che consentano di individuare e conteggiare i carboidrati presenti nei singoli pasti. Inoltre, questo metodo coinvolge indirettamente il paziente in un percorso di educazione alimentare che rappresenta un potente strumento di prevenzione per tutte le patologie correlate a scorrette abitudini alimentari. Rispetto alla tipologia di carboidrati, gli zuccheri semplici e in particolare il saccarosio devono essere limitati nel consumo, perché hanno un impatto aggressivo sul profilo glucidico e alterano anche altri parametri biochimici, come i trigliceridi e gli acidi urici. Anche l’utilizzo indiscriminato di fruttosio e/o dolcificanti acalorici industriali in sostituzione
al saccarosio non è buona abitudine, visti gli effetti collaterali dovuti a un eccessivo intake di fruttosio (ipertrigliceridemia, iperuricemia) e di dolcificanti industriali, per i quali sono state definite delle dosi massime giornaliere come soglia di sicurezza (Food and Drug Administration, Fda). Le bevande alcoliche possono essere assunte da un soggetto diabetico privo di altre complicanze (dislipidemie, ipertensione, steatosi epatica, ecc.), ma con moderazione, come nella popolazione sana: fino a 10 g/die di etanolo nelle femmine (una porzione o 125 ml di vino) e 20 g/die nei maschi (due porzioni o 250 ml di vino). L’introduzione di alcolici dovrebbe avvenire esclusivamente nel contesto di pasti che comprendono cibi contenenti carboidrati e mai a digiuno o a stomaco vuoto, per prevenire, soprattutto durante la notte, il rischio di pericolose ipoglicemie tardive. Riguardo agli alimenti “dietetici” per diabetici, non esistono evidenze per raccomandarne l’uso. L’alimentazione dovrebbe essere povera di zuccheri semplici (<10%), derivanti esclusivamente dai carboidrati contenuti in frutta e latticini. Biscotti, marmellate, bibite, dolci e altre preparazioni industriali commercializzate come “senza zuccheri aggiunti”, possono indurre in errore il consumatore. Il claim indica che non è stato utilizzato saccarosio, ma non esclude fruttosio o altri tipi di dolcificanti naturali (isomalto, maltitolo, sorbitolo, ecc.), che comunque hanno un impatto sulla glicemia, seppur ridotto rispetto al saccarosio. Nei soggetti insulino-trattati parlare di terapia nutrizionale probabilmente non è del tutto corretto: il DM1, come patologia cronica, a differenza del DM2, non può essere guarito né con una terapia farmacologia, tantomeno con quella nutrizionale. Una sana e corretta alimentazione ha però l’obiettivo fondamentale di mantenere il soggetto in salute durante tutte le fasi della vita, di prevenire le numerose complicanze associate a questa patologia e di mantenere un buon controllo metabolico. Inoltre, una dieta equilibrata, povera di zuccheri e dicembre 2016
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ricca di fibra, soprattutto quando associata a esercizio fisico regolare, permette al paziente di ridurre drasticamente la dose insulinica giornaliera, limitando gli effetti di una massiccia somministrazione di insulina a lungo termine e migliorando, indirettamente, la qualità di vita. L’esercizio fisico: i due lati della medaglia
Dalla ricerca continuano a emergere evidenze riguardo i benefici dell’attività fisica sul benessere del corpo e della mente e sulla riduzione del rischio di contrarre malattie croniche in soggetti sani. Anche in numerose condizioni patologiche la pratica di regolare attività fisica ha dimostrato un vero e proprio ruolo terapeutico. Ogni patologia correlata al sovrappeso ne giova grazie all’aumento del dispendio energetico secondario allo sforzo muscolare e al miglioramento della pressione arteriosa e del profilo metabolico. Tuttavia, la patologia diabetica richiede un’attenta e precisa valutazione del soggetto antecedente la prescrizione dell’esercizio, per indagare eventuali complicanze presenti che possono rappresentare condizioni rischiose per l’esercizio fisico. In aggiunta, nel paziente insulino-dipendente quando si parla di attività fisica vanno considerate le due facce della medaglia: da una parte tale attività ha effetti benefici sulla salute in 20
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generale e migliora la glicemia post-prandiale, dall’altra rappresenta un’ulteriore minaccia al rischio di ipoglicemia. Questa paura è stata identificata in diversi studi come il maggiore impedimento alla pratica regolare di esercizio fisico nei diabetici insulino-trattati (3), che si aggiunge a molti altri fattori che già in un soggetto sano ne limitano la pratica. Nonostante ciò, numerosi studi hanno dimostrato che l’aderenza a protocolli sicuri di esercizio fisico e l’attuazione di misure appropriate (terapeutiche e nutrizionali) possono ridurre i potenziali rischi associati a ipoglicemia (4,5). L’American Diabetes Association già nel 2008 aveva dichiarato che «La capacità di adeguare il regime terapeutico (insulina e terapia nutrizionale) per ottenere una partecipazione sicura e di alta performance ad attività sportive è un’importante strategia di management in diabetici tipo 1» (Dia care 2008). I pazienti devono perciò essere educati sulla prevenzione e sul trattamento dell’ipoglicemia che può incorrere durante o in seguito all’esercizio fisico. A tale proposito, gli standard di cura italiani suggeriscono ai curanti di fornire indicazioni specifiche e pratiche relative alla necessità di integrazione con carboidrati e alla gestione della terapia insulinica e, ai pazienti, consigliano di intensificare l’automonitoraggio glicemico prima, eventualmente durante (quando
l’esercizio è di durata >1 ora), e dopo l’esercizio fisico (Amd-Sid, Standard italiani per la cura del diabete mellito 2014). Individuare rigidi standard per la percentuale di riduzione della dose insulinica o per la tipologia e quantità di carboidrati da ingerire a seconda dell’esercizio fisico risulta piuttosto inutile e scoraggiante, visti i numerosi fattori che influenzano la glicemia, con ampia variabilità inter-individuale ed intra-individuale: la terapia insulinica (tipo di insulina e dose), la distanza di tempo dalla somministrazione, il sito di iniezione, le variazioni della sensibilità all’insulina, l’alimentazione prima dell’esercizio, la situazione ambientale, lo stato di allenamento, la risposta glicemica abituale e la presenza di complicanze. Alcune di queste variabili sono più stabili rispetto ad altre, che invece possono mutare a seconda del momento, come il livello di stress o l’emotività, che causano rapide e imprevedibili modificazioni della glicemia. Una buona gestione della glicemia in riferimento all’esercizio fisico non è solo il risultato di una corretta applicazione della MNT. La scelta della tipologia e della durante dell’attività, ma soprattutto il controllo dell’intensità della stessa permettono di limitare i picchi di escursione della glicemia. Un’educazione finalizzata alla conoscenza e al controllo di queste variabili dovrebbe essere proposta a chi desidera approcciarsi all’esercizio fisico, per scongiurare esperienze negative che successivamente influiranno nell’adesione del paziente a programmi di attività fisica. L’Associazione medici diabetologi e la Società Italiana di Diabetologia consigliano la presenza di un laureato in scienze motorie competente in ambito metabolico all’interno del servizio di diabetologia per favorire la corretta attuazione del programma di attività fisica e migliorare l’adesione a lungo termine. Le linee guida raccomandano almeno 150 minuti a settimana di attività fisica aerobica di intensità moderata (50-70% della frequenza cardiaca massima) e/o almeno 90 minuti a settimana di esercizio fisico intenso (>70% della frequenza cardiaca massima). L’attività fisi-
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ca deve essere distribuita in almeno 3 giorni a settimana e non ci devono essere più di 2 giorni consecutivi senza attività. Le linee guida spesso però rappresentano una chimera, una situazione ideale che si discosta eccessivamente dalle reali possibilità di molti pazienti, pertanto, nella prescrizione dell’esercizio fisico andrebbero intese come esempio a cui protendere, adattando le raccomandazioni all’individuo. Un approccio diverso favorisce nella maggior parte dei casi l’abbandono o drop-out. L’adesione all’esercizio fisico regolare rimane piuttosto bassa nei diabetici insulino-trattati adulti (<60% raggiunge adeguati livelli di attività fisica) (6), ma anche tra i più giovani (7). La riduzione del rischio cardiovascolare, di obesità e di numerose altre patologie cronico-degenerative, l’aumento della sensibilità insulinica, dell’autostima e del senso di benessere sono solo alcuni dei benefici controbilanciati dal rischio di ipoglicemia, iperglicemia e dal fatto che non vi sono conferme in letteratura che l’attività fisica nel diabete tipo 1 abbia un effetto indipendente significativamente statistico nel migliorare il controllo metabolico, valutato in termini di HbA1c (8). Gli autori di una recente metanalisi su attività fisica e controllo glicemico ipotizzano che questo dato sia dovuto anche al fatto che negli studi analizzati i programmi di allenamento siano troppo brevi per verificare un cambiamento dell’HbA1c (<25 settimane) (5). Altri giustificano il mancato miglioramento del controllo metabolico per l’aumentato intake calorico registrato come integrazione pre-attività. La maggior parte degli studi condotti, sia sulle attività di resistenza o anaerobiche che su quelle aerobiche, è concorde nel riscontrare insufficienti miglioramenti dell’HbA1c (9). Esercizio aerobico vs esercizio di forza: effetti sulla glicemia e sul controllo metabolico
L’esercizio aerobico o di endurance è caratterizzato da un’intensità bassa-moderata e una durata piuttosto prolungata (>30 minuti). Camminare, correre lentamente (fare jog-
ging), andare in bici, nuotare, praticare sci di fondo rappresentano alcune delle numerose attività aerobiche esistenti. Il termine aerobico descrive la via metabolica di elezione da cui l’organismo trae energia durante questo tipo di attività, sotto forma di ATP: la fosforilazione ossidativa, processo che avviene in presenza di ossigeno all’interno dei mitocondri delle cellule e garantisce energia anche per ore durante esercizio condotto a bassa o moderata intensità. Nello specifico, un adeguato flusso di nutrienti al muscolo è assicurato tramite il controllo del sistema neuroendocrino nel soggetto sano, dove si riduce progressivamente la secrezione di insulina e incrementano i livelli plasmatici di glucagone, catecolamine, GH e cortisolo. Il risultato è una rapida glicogenolisi, cioè liberazione delle scorte di glucosio epatico e muscolare, seguita da un aumento progressivo della lipolisi, che porta a liberare gli acidi grassi liberi (FFA). In seguito, se l’esercizio è mantenuto, si ha anche sintesi di nuovo glucosio con gluconeogenesi tramite precursori non glucidici: FFA, piruvato, lattato, glicerolo, aminoacidi. Nel paziente diabetico, questi adattamenti devono essere sostituiti dalla MNT, riducendo la terapia insulinica e integrando con glucidi durante l’attività prolungata. L’esercizio aerobico nei diabetici insulino-trattati ha sicuramente un effetto ipoglicemizzante che è variabile a seconda dell’intensità di esecuzione della sessione, ma tendenzialmente è prevedibile e progressivo. È stato riscontrato, infatti, un calo glicemico durante l’esecuzione di esercizio aerobico a moderata intensità superiore rispetto alle attività di forza o resistance eseguite in palestra con carichi sub-massimali (fig. 1) (7). Il meccanismo che sta alla base di questa differente risposta glicemica all’esercizio aerobico rispetto all’esercizio di forza non è del tutto chiaro, ma certamente i diversi substrati che forniscono energia durante i due tipi di esercizio giocano un ruolo importante, con un minor utilizzo di glucosio plasmatico nell’esercizio di forza o anaerobico alattacido (10). Durante
quest’ultimo, la principale fonte energetica è rappresentata dalla fosfocreatina e dall’ATP già presente nei muscoli. Essendo esercizi di brevissima durata, hanno effetti irrilevanti sulla glicemia, durante e nel post-esercizio. In aggiunta, l’esercizio anaerobico alattacido (per es. una serie di sprint di 4-10 secondi intermittenti) aumenta la secrezione di ormoni anabolici come il Gh e le catecolamine, che, nei soggetti non-diabetici, stimola la lipolisi e la glicogenolisi, un potenziale agente stabilizzante nei diabetici di tipo 1 dei livelli di glucosio plasmatico (11). Rispetto all’andamento della glicemia nelle 12 ore successive la sessione di esercizio aerobico condotto a moderata intensità, è stato riscontrato un aumento della glicemia nelle prime 3-6 ore, probabilmente dovuto a un rimbalzo successivo all’ipoglicemia. Nelle ore successive, invece, non si evidenzia una differenza significativa, e un simile rischio di ipoglicemia notturna rispetto alle attività di forza (fig. 2) (12). Non esistono altri studi che valutino l’andamento notturno della glicemia in seguito a esercizio di forza, ma si suppone che il rischio di sperimentare ipoglicemia notturna sia più verosimile, in considerazione della superiore dipendenza dal glicogeno come fonte energetica e quindi conseguente maggiore richiesta post-esercizio di glucosio per restaurare le riserve depletate (13). L’esercizio di forza o anaerobico alattacido (per esempio il sollevamento pesi) parrebbe la scelta migliore, rispetto al rischio di ipoglicemia durante e nelle ore successive. Tuttavia, è stato notato che inizialmente nei soggetti che introducono l’esercizio di forza nella loro routine di allenamento e nei pazienti non allenati sono frequenti le ipoglicemie post-esercizio (14). Nei pazienti allenati, che abitualmente praticano entrambe le forme di allenamento (aerobico e di forza), si consiglia di combinare le stesse all’interno della medesima seduta, inserendo l’attività di forza prima, durante o dopo l’esercizio aerobico, poiché in ogni caso (fig. 3) questo metodo si è rivelato il migliore per ridicembre 2016
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Figura 1 - Media del glucosio plasmatico durante e 60 minuti dopo le sessioni di esercizio aerobico, anaerobico confrontate con il controllo a riposo. Fonte: Yardley et al. (2013)
Figura 2 - Media della glicemia 1-12 ore in seguito alle sessioni di allenamento. Fonte: Yardley et al. (2013)
Figura 3 - Livelli plasmatici di glucosio durante esercizio e nel recupero quando l’esercizio aerobico è condotto prima di quello di forza (pallino bianco) e viceversa (pallino nero). Fonte: Yardley et al. (2012)
durre il rischio di ipoglicemia sia durante che dopo l’allenamento (fig. 4) (15). Esistono poi attività che non possono essere classificate tra le aerobiche di bassa-moderata intensità né tra le attività di forza o anaerobiche alattacide: le attività anaerobiche lattacide o attività a intensità medio-alta. Esse sono caratterizzate da consistenti richieste di energia, 22
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fornita prevalentemente dal glicogeno, proveniente da muscoli e fegato, e dal glucosio plasmatico. È facile dedurre che l’impatto di queste attività sulla glicemia sia molto rilevante e che quindi vi sia un maggior rischio di ipoglicemia. Attività a carattere anaerobico lattacido sono tutti gli sport di squadra (basket, calcio, pallavolo, hockey, rugby), la corsa su distanze
comprese fra 200 e 400 m, il nuoto sui 50 m. In queste situazioni il controllo glicemico risulta davvero complicato, in particolare se il paziente ha già un profilo glicemico caratterizzato da frequenti sbalzi (ipoglicemie e iperglicemie). Un altro rischio associato ad attività vigorose o condotte a elevata intensità riguarda la forte produzione di catecolamine, che, se associate
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tabella 3 - scelta dell’attività fisica Complicanze croniche
Sport consentiti
Sport consigliati
Nefropatia diabetica
Marcia, nuoto, sport poco impegnativi
Altri sport
Ischemia al cuore
Marcia, cyclette, sport leggeri
Qualunque attività fisica che provochi dolore toracico o aumento del ritmo cardiaco superiore a 100-110 battiti al minuto
Retinopatia non proliferante
Footing, jogging, nuoto, cyclette
Sollevamento pesi, culturismo fisico, body building, canottaggio, windsurf
Neuropatia sensitiva ai piedi
Ciclismo,ping-pong, nuoto, footing, tiro con l’arco, golf
Football, basket, corse di fondo, danza aerobica, pallavolo, giochi da spiaggia
Neuropatia autonomica
Esercizi fisici leggeri in idonee condizioni di temperatura ed evitando scatti brevi e ripetuti
Calcio, tennis, basket, esercizi prolungati in climi caldi
Figura 4 - Variazioni della glicemia in seguito a esercizio aerobico e aerobico succeduto da uno sprint di 10 secondi. Pallino nero: 20 min. of aerobic activity followed by a 10 sec. sprint; pallino bianco: 20 min. of aerobic activity Fonte: Bussau et al. (2006)
Fonte: Linee guida Aniad 2014
agli ormoni dello stress spesso secreti durante competizione, provocano iperglicemie successive l’esercizio fisico, anche per alcune ore. Nei diabetici di tipo 1 che si approcciano all’esercizio fisico, l’allenamento aerobico condotto a intensità bassa e, soprattutto, controllata rimane l’attività di più facile gestione, perché è possibile prevenire bruschi cali della glicemia durante e nelle 12 ore successive. Nei confronti del controllo metabolico, i diversi studi hanno dato risultati discordanti: gli studi osservazionali hanno dimostrato che aumentati livelli di attività fisica sono associati a livelli di HbA1c più bassi (16), così come alcuni studi semi-sperimentali e trial controllati randomizzati hanno dimostrato piccoli miglioramenti nel controllo metabolico (17,9); altri ricercatori sono invece titubanti sull’efficacia dell’esercizio fisico nel migliorare il controllo glicemico per le variazioni di HbA1c statisticamente non significative riscontrate (17,18) L’eterogeneità constatata nei trail può essere attribuita alla variabilità inter-individuale del
campione a inizio studio (durata della malattia, età, livelli di HbA1c), ma soprattutto alla diversa prescrizione nell’esercizio (durata, frequenza, intensità), oltre a una mancanza di studi adeguati. In molti studi, per esempio, non vengono prese le dovute misure (variazioni della terapia insulinica, integrazione nutrizionale) per limitare ipoglicemie o iperglicemie a seconda del tipo di attività. Negli ultimi anni sono state pubblicate diverse review sull’argomento dimostrando l’eterogenità dei risultati (19,20,5), anche se pare che i miglioramenti più sensibili sull’HbA1c si abbiano negli studi che hanno una delle seguenti caratteristiche: il campione composto da adolescenti; una durata di almeno 3 mesi; almeno 3 sessioni di allenamento a settimana; pazienti con un povero controllo glicemico iniziale. Pochissimi sono, inoltre, gli studi che analizzano gli effetti di un allenamento condotto a intensità superiori al 70% del Vo2max. In assenza di studi ben controllati e con una dose ben definita di esercizio, gli effetti dell’attività fisica sul controllo metabolico
nel diabete di tipo 1 rimangono ancora scarsamente compresi. Tuttavia, come per l’andamento della glicemia, anche per quanto concerne il controllo metabolico, gli studi indicano miglioramenti più stabili quando l’esercizio di forza viene combinato nella stessa sessione a esercizio aerobico (21,12). Complicanze di un mancato controllo glicemico
Un buon controllo metabolico rappresenta una condizione imprescindibile per approcciarsi all’esercizio fisico con sicurezza, limitando gli effetti avversi dell’attività fisica quali l’aggravamento delle complicanze presenti in alcuni pazienti diabetici. Prima di aderire a un programma di esercizio, il paziente deve essere sottoposto a un’accurata valutazione medica e fisica che comprenda appropriati esami diagnostici per valutare la presenza di complicanze micro- e macro-vascolari a carico di cuore, vasi, occhi, reni e sistema nervoso, che potrebbero essere influenzate negativamente dicembre 2016
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dal programma di esercizio fisico (per esempio aggravamento della retinopatia o della neuropatia periferica). La scelta dell’attività fisica (tipologia, frequenza, durata e intensità) va effettuata secondo un criterio di sicurezza, innanzitutto, per ridurre al minimo i rischi di un paziente già complicato (linee guida Aniad 2014). Il mancato controllo glicemico, oltre a causare picchi di ipo- e iperglicemia, danneggia la qualità della prestazione. In un organismo ipoinsulinizzato si ha un mancato utilizzo di glucosio a livello muscolare con effetti deleteri sul rendimento della prestazione e un rapido affaticamento muscolare. Nonostante gli alti livelli di glucosio ematico, l’organismo non riesce a utilizzarlo a livello muscolare, perciò si ha un’eccessiva mobilizzazione degli acidi grassi come fonte energetica con conseguente aumento di sintesi dei corpi chetonici e di rischio di chetosi. L’individuo si trova con scarsa energia e una glicemia “alle stelle”, per cui deve interrompere l’attività. Nel paziente iperinsulinizzato accade invece il processo inverso: un eccessivo quantitativo di glucosio viene sottratto dal torrente ematico e captato dai recettori intra-muscolari con conseguente ipoglicemia, che può perdurare anche alcune ore dopo l’esercizio fisico. La mobilizzazione degli acidi grassi è quasi del tutto inibita, con il risultato che si ha una ridotta di-
sponibilità di substrati energetici alternativi al glucosio e la prestazione non può essere mantenuta a lungo. La letteratura dimostra che le capacità aerobiche, in particolare, possono essere influenzate negativamente da uno scarso controllo metabolico (HbA1c<53 mmol/mol o <7%), riducendo le capacità cardio-respiratorie fino al 25-30% rispetto a soggetti diabetici in buon controllo metabolico (22). Come prevenire l’ipoglicemia
Le concentrazioni di glucosio ematico sono influenzate durante e fino a 15 ore successive la sessione di esercizio fisico, causando, nella maggior parte dei casi, un calo della glicemia che può protrarsi anche durante la notte (ipoglicemia notturna). L’alterato assetto metabolico ed endocrinologico porta a una minore produzione endogena di glucosio, che insieme ad altri fattori, non ancora del tutto ben definiti, giustifica l’aumentato rischio di ipoglicemia (23). Nelle ore successive, l’effetto ipoglicemizzante è per lo più dovuto alla sottrazione di glucosio ematico per restaurare i depositi di glicogeno muscolare ed epatico depletati dall’esercizio fisico, oltre a un’aumentata sensibilità insulinica provocata dall’accresciuto numero di recettori intramuscolari non insulino-dipendenti per il glucosio (GLUT4).
tabella 4 - controllo glicemico e performance Glicemia (mg/dl)
Effetto metabolico
Effetto sulla performance
<65
Troppo poco glucosio per fornire energia al muscolo e al cervello
Profonda stanchezza Performance compromessa
65-150
Adeguato supporto energetico
Performance ottimale
>150
Il glucosio entra con difficoltà nella cellula
Performance ridotta
>250
Il glucosio entra con molta difficoltà nella cellula
Stanchezza per esercizio di modesta entità Performance scadente
Fonte: Pumping Insulin di John Walsh e Ruth Roberts (2012)
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Le variabili che entrano in gioco sono numerose e riguardano, in primis, la tipologia di attività (intensità e durata), il trend glicemico precedente l’esercizio e la personale risposta ai diversi tipi di esercizio. Più lunga è l’attività, maggiore è il dispendio energetico e il rischio di ipoglicemie, soprattutto tardive. Rispetto alla glicemia target pre-attività, Walsh e Roberts (24) suggeriscono un range compreso fra 65-150 mg/dL, per cui si ha un adeguato supporto energetico e una performance ottimale (tab. 4). La pratica spesso però si discosta dalla teoria: ogni soggetto ha infatti una risposta differente all’allenamento a seconda del grado di allenamento e dello stress indotto dall’esercizio. Inoltre, la glicemia non rappresenta un parametro stabile, ma sempre un dato dinamico; pertanto è bene valutare l’andamento della glicemia nelle ultime ore prima dell’esercizio, definire se la glicemia misurata prima dell’attività rappresenta un dato in calo o in crescita e verificare lo stato di insulinizzazione (quantità di insulina e tempo dall’ultima somministrazione). Per molti pazienti una glicemia pre-attività inferiore a 100 mg/dL non è sufficiente a mantenere adeguati livelli della stessa durante l’esercizio fisico, se non intervenendo con l’integrazione glucidica. La prevenzione o riduzione del rischio di ipoglicemia va esplicata, appunto, su tre fronti: la terapia insulinica, l’integrazione glucidica e il controllo dell’intensità durante attività fisica. È necessario fare distinzione fra l’esercizio praticato a ridosso del pasto (entro le 2 ore successive un pasto principale), lontano dal pasto (3-4 ore dopo) e tra attività programmate e spontanee. A ridosso del pasto, la glicemia è il risultato dell’azione del bolo pre-prandiale, che è ancora in circolo (ogni ora si smaltisce il 25% dell’insulina iniettata), e dei carboidrati presenti nel pasto. L’azione dell’insulina abbinata all’effetto ipoglicemizzante dell’attività fisica può aumentare il rischio di ipoglicemia. Se l’esercizio è programmato, è possibile limitare tale rischio riducendo il bolo pre-prandiale e
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l’insulina basale prima e anche nelle ore successive la sessione. Interessanti studi osservazionali effettuati su diabetici in buon controllo metabolico hanno dimostrato che mantenere la dose insulinica pre-prandiale al 100% aumenta il rischio di ipoglicemia, indipendentemente dall’intensità e dalla durata dell’allenamento. Riduzioni dal 50% al 75%, a seconda dell’intensità hanno permesso di raggiungere glicemie appropriate al termine dell’esercizio e di ridurre l’incidenza di ipoglicemia indotta dall’allenamento del 75% (25). Anche un’adeguata programmazione della seduta di allenamento può limitare gli effetti avversi, sapendo che l’inserimento di esercizi di forza o sprint massimali all’interno (prima, durante o alla fine) di allenamenti aerobici può limitare le ipoglicemie. Infine, l’integrazione glucidica postesercizio è un ulteriore strumento utilizzabile per mantenere in controllo la glicemia nelle ore successive l’allenamento. Quando l’esercizio a ridosso del pasto non è programmato, per il diabetico in terapia multiniettiva non è più possibile modificare la terapia e l’integrazione glucidica, attraverso alimenti solidi e/o liquidi o integratori, diventa l’unico strumento a disposizione per prevenire le ipoglicemie. Le linee guida consigliano 10-15 g di carboidrati per ogni ora di attività fisica moderata e di aumentare all’aumentare dell’intensità (Ada 2002). Quando l’esercizio si prolunga oltre i 60 minuti, bisogna aumentare a 30-60 g/ora (26). La scelta del tipo di integrazione deve tenere in considerazione lo stato di insulinizzazione (quanta insulina è ancora in circolo), la glicemia di partenza e, quando possibile, la durata e l’intensità dell’attività che si andrà ad affrontare. L’esercizio lontano dal pasto (dopo le 2 ore) necessita di considerazioni sul livello di insulinizzazione relativo al momento, sulla glicemia pre-esercizio e, se programmato, ovviamente sulla tipologia e durata dell’attività. In terapia multiniettiva, si consiglia un’integrazione di 15-30 g per ora e quando l’esercizio è prolungato (oltre l’ora di lavoro) 30-60 g/
glossario Controllo metabolico. Rappresenta il grado di controllo della patologia diabetica, e in particolare del metabolismo glucidico, valutato attraverso il dosaggio dell’emoglobina glicata (HbA1c), un parametro che permette di riassumere la glicemia degli ultimi 3 mesi. Numerosi studi hanno dimostrato come il grado di controllo metabolico valutato tramite i valori di HbA1c sia collegato alla comparsa e alla evoluzione delle complicanze a lungo termine del diabete. Terapia medica-nutrizionale (MNT). La MNT dovrebbe comprendere periodicamente alcune azioni (valutazione dello stato di nutrizione, interventi mirati, monitoraggio e follow-up a lungo termine) per sostenere i cambiamenti di stile di vita. Inoltre, dovrebbe consentire la valutazione degli esiti per apportare modifiche all’intervento. Indice glicemico (IG). Rappresenta la capacità degli alimenti contenenti carboidrati di innalzare la glicemia. Lo standard di riferimento è il glucosio o il pane bianco (indice glicemico=100). L’IG rende gli alimenti glucidici molto differenti fra loro: alcuni vengono assorbiti più rapidamente e determinano un aumento repentino della glicemia (IG alto), altri rilasciano il glucosio più lentamente (IG basso) innalzando la glicemia in maniera progressiva. La valutazione dell’IG dovrebbe essere considerata nel contesto di una dieta globalmente sana. Carico glicemico. È un parametro che stabilisce gli effetti sulla glicemia di un pasto glucidico, relazionando l’indice glicemico di ogni alimento contenente carboidrati e la quantità degli stessi contenuti all’interno del pasto. Fosfocreatina. Molecola energetica presente nei muscoli che fornisce pronta energia in assenza di ossigeno e senza produzione di acido lattico. Ipoglicemia notturna. Il rischio di ipoglicemia tardiva o notturna è dovuto al recupero delle riserve di glicogeno muscolare depauperate dopo l’esercizio fisico. Questa fase inizia immediatamente dopo il termine dell’esercizio e può protrarsi per le successive 24 ore. Vo2max. Individua la massima potenza aerobica, equivalente alla massima quantità di ossigeno che può essere utilizzata nell’unità di tempo da un individuo, nel corso di un’attività fisica coinvolgente grandi gruppi muscolari, di intensità progressivamente crescente e protratta fino all’esaurimento.
ora (26). In tutti i casi, l’integrazione glucidica va valutata non solo in termini di quantità, ma anche di qualità dei glucidi, rispetto alla tipologia di attività che verrà svolta, alla glicemia di partenza e alla terapia fatta in precedenza. Frequentemente la scelta dell’alimento non è idonea alle reali richieste metaboliche dettate dall’esercizio (per esempio, consumare il cioccolato come “integratore” pre-esercizio). Lo spuntino pre-esercizio deve essere composto prevalentemente di carboidrati, povero di fibra e privo di grassi che comportano un allungamento della digestione (per esem-
pio, i grassi contenuti nel cioccolato). L’ingestione di una barretta di cioccolato provoca un lento innalzamento della glicemia (dovuto alla presenza di grassi) con rischio di ipoglicemia durante attività e rischio di iperglicemia successiva la sessione (quando i grassi vengono finalmente trasformati in glucosio). Quando lo spuntino è immediatamente a ridosso dell’allenamento, deve essere costituito esclusivamente da carboidrati a rapido assorbimento (miele, fruttosio, ecc.). Gli alimenti, nonostante vengano scelti accuratamente, hanno però il limite di avere un dicembre 2016
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contenuto variabile di zuccheri che non può essere sempre stimato con precisione. L’utilizzo di integratori e/o miscele a composizione nota, costante e ripetibile nell’assorbimento, come le maltodestrine, l’isomaltulosio e il destrosio (presenti in commercio sotto forma di bevande liquide, alimenti solidi o gel), facilita il controllo e rende più verosimile la risposta glicemica a uno stesso stimolo (integrazione, tipologia di allenamento). Modulare la terapia, agendo sull’insulina basale iniettata precedentemente l’attività fisica, rappresenta un’altra valida strategia, che richiede però al paziente un approccio per tentativi e una costanza nella pratica dell’esercizio,per ridurre al minimo eventuali variazioni dovute a uno scarso livello di allenamento per quella specifica attività. I pazienti in terapia infusionale continua (con microinfusore) possono regolare la dose insulinica riducendo dal 25% al 75% già 1-2 ore prima dell’esercizio, quando l’attività è moderata-intensa e prolungata oltre i 30 minuti; successivamente è possibile ridurre ulteriormente dal 20% al 70% durante l’attività fisica, in relazione all’intensità dello sforzo. In alcuni sport, per esempio “di contatto”, in cui il microinfusore potrebbe risultare rischioso e ingombrante, è possibile disconnettere lo strumento all’inizio dell’esercizio e per massimo 60-90 minuti di attività. I suggerimento e le raccomandazione relative la MNT sono soggette ad ampie variazioni individuali. Tuttavia, in ogni caso è bene procrastinare l’inizio dell’attività per glicemie inferiori a 65-70 mg/dL o superiori a 300 mg/ dL; integrare con 15-30 g di glucidi per glicemie vicine a 100 mg/dL e valutare la situazione quando i valori si aggirano sui 250 mg/ dL (provare i chetoni nelle urine per valutare la presenza di chetosi, bere acqua e attendere che si riduca leggermente). Conclusioni
Nella letteratura scientifica non vi sono conferme che l’attività fisica nel diabete di tipo 26
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1 abbia un effetto indipendente nel migliorare il controllo metabolico, valutato in termini di HbA1c. Permane evidente, invece, l’efficacia della stessa sulla qualità di vita, sul senso di benessere e autostima, oltre che sul miglioramento dei livelli di numerosi parametri di salute (pressione arteriosa, lipidi plasmatici, ecc.) e sulla riduzione della mortalità per cause cardiovascolari. Tuttavia, le scarse evidenze scientifiche che dimostrino aspetti benefici sul controllo metabolico e, in prima istanza, la paura di incorrere in ipoglicemia condiziona fortemente l’adesione dei pazienti diabetici a programmi di attività fisica, ponendoli a livelli di attività fisica inferiori ai soggetti sani. La capacità di fornire strategie su più aspetti (terapeutico, nutrizionale, ambientale) rimane l’obiettivo primario nel management della patologia nel paziente diabetico, per ottenere una partecipazione sicura e di alta performance nella attività sportive. Le linee guida più recenti suggeriscono variazioni della terapia insulinica prima e dopo esercizio fisico per contrastare il rischio di ipoglicemia. Vengono fornite, inoltre, indicazioni specifiche sull’integrazione glucidica, calcolate in base all’intensità e durata dell’esercizio. Tuttavia, un approccio rigido che non tiene conto delle variabili coinvolte che influenzano la risposta glicemica all’esercizio (i livelli glicemici preesercizio, lo schema terapeutico individuale, fattori ambientale, emotività, ecc.), renderebbe queste raccomandazioni inappropriate, vanificando gli effetti benefici e scoraggiando lo sportivo diabetico. La gestione dell’intensità dell’allenamento è il fattore più rilevante nel determinare le risposte glicemiche. In assenza di complicanze non esistono attività “vietate” ai diabetici, se permane il controllo dell’intensità. Le attività a intensità moderata possono causare ipoglicemia durante e dopo; le attività a intensità molto elevata o anaerobiche possono invece causare iperglicemia in seguito all’esercizio; l’accoppiamento di esercizio aerobico a piccole sessioni o esercizi di forza risulta la strate-
gia migliore per ridurre i rischi legati a variazioni impellenti e notturne della glicemia. Nel primo approccio all’esercizio fisico è importante che il paziente venga sottoposto a un’attenta valutazione medica per valutare la presenza di complicanze ed evitare di prescrivere una tipologia di attività inadeguata. Inoltre il paziente deve trovarsi in una condizione di efficace compenso metabolico e deve aver acquisito sufficienti conoscenze per saper gestire la MNT, interpretando i dati dell’autocontrollo glicemico durante attività fisica. Il paziente deve aumentare la frequenza dell’automonitoraggio, facendo delle misurazioni 1-2 ore prima, appena prima dell’inizio, durante, quando l’esercizio è prolungato, e al termine dell’attività; deve porre particolare attenzione all’idratazione; deve avere sempre con sé zuccheri semplici o integratori glucidici per trattare eventuali ipoglicemie; programmare, per quanto possibile la seduta di esercizio fisico (nella durata e intensità); deve riscaldarsi accuratamente e giungere gradualmente all’intensità richiesta; deve essere il più costante possibile e allenarsi in modo graduale e progressivo. Non esistono vere limitazioni alla tipologia di attività fisica che può essere affrontata dal diabetico tipo 1, purché il paziente si trovi in condizioni metaboliche adeguate e non presenti complicanze. I pazienti non devono, pertanto, essere scoraggiati mettendo in evidenza solo le difficoltà degli aspetti gestionali. Occorre individualizzare le indicazioni, in relazione al tipo di attività e al paziente, basandosi su un trial and error approach, un approccio empirico per tentativi e correzioni che preveda l’insegnamento dedotto dalla gestione in positivo dell’errore. n Bibliografia 1. Sigal RJ, Armstrong MJ, Colby P, et al. Canadian
Diabetes Association 2013 Clinical Practice Guidelines for the Prevention and Management of Diabetes in Canada: physical activity and diabetes. Can J Diabetes 2013;37(suppl 1): S40e4. 2. Pastors JG, Warshaw H, Daly A, et al. The evidence
alimentazione e sport in diverse condizioni fisiopatologiche
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glucose production and utilization in individuals with type 1 diabetes. Am J Physiol Endocrinol Metab 2007;292:E865–E870. 12. Yardley JE, Kenny GP, Perkins BA, Riddell MC, Balaa N, Malcolm J, Boulay P, Khandwala F, Sigal RJ. Resistance Versus Aerobic Exercise: Acute effects on glycemia in type 1 diabetes. Diabetes Care. 2013; 36(3): 537–542. 13. Tesch PA, Colliander EB, Kaiser P.Muscle metabolism during intense, heavyresistance exercise. Eur J Appl Physiol Occup Physiol 1986;55:362–366. 14. MacDonald MJ. Postexercise late-onset hypoglycemia in insulin-dependent diabetic patients. Diabetes Care 1987;10:584–588. 15. Bussau VA, Ferreira LD, Jones TW, Fournier PA. The 10-s Maximal Sprint. A novel approach to counter an exercise-mediated fall in glycemia in individuals with type 1 diabetes. Diabetes Care 2006;29(3):601-6. 16. Herbst A, Kordonouri O, Schwab KO, Schmidt F, Holl RW. Impact of physical activity on cardiovascular risk factors in children with type 1 diabetes: a multicenter study of 23,251 patients. Diabetes Care 2007;30:2098e100. 17. Harmer AR, Chisholm DJ, McKenna MJ, et al. High-intensity training improves plasma glucose and acid-base regulation during intermittent maximal exercise in type 1 diabetes. Diabetes Care 2007;30:1269e71. 18. D’hooge R, Hellinckx T, Van Laethem C, Stegen S, De Schepper J, Van Aken S, Dewolf D, Calders P. Influence of combined aerobic and resistance training on metabolic control, cardiovascular fitness and quality of life in adolescents with type 1 diabetes: a randomized controlled trial. Clin Rehabil 2011;25:349e59. 19. Chimen M, Kennedy A, Nirantharakumar K, Pang TT, Andrews R, et al. What are the health
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questionario di valutazione 1. Nel diabete tipo 1 (DM1) l’attività fisica gioca un ruolo: a) nel trattamento o management delle complicanze b) nella prevenzione della malattia c) sia nel trattamento delle complicanze che nella prevenzione della malattia d) l’attività fisica non è influente nel diabete tipo 1 2. Nel diabete tipo 1 (DM1) la pratica di attività fisica è indicata:
a) sempre b) solo in presenza di complicanze c) solo se non esiste alcuna complicanza d) in presenza di un buon controllo metabolico
3. Nel diabete tipo 1 (DM1) una corretta alimentazione ha la principale funzione di: a) curare la malattia b) migliorare il controllo glicemico e prevenire le complicanze
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c) perdere peso d) non è rilevante
4. Nel diabete tipo 1 (DM1) la dieta deve essere: a) a medio-basso indice glicemico b) priva di carboidrati c) con un quantitativo di carboidrati <130g/die d) a basso contenuto di grassi 5. Nel diabete tipo 1 (DM1) le bevande alcoliche: a) possono essere assunte liberamente b) sono vietate c) vanno assunte sempre all’interno di un pasto d) non vanno assunte in concomitanza con i carboidrati 6. L’attività fisica regolare: a) riduce il rischio di ipoglicemia b) migliora il controllo glicemico c) non ha alcun effetto sulla glicemia d) non provoca sostanziali miglioramenti dell’HbA1c 7. Durante esercizio aerobico prolungato l’energia viene fornita: a) in maniera uguale da acidi grassi e da glucosio b) esclusivamente dal glucosio c) inizialmente da glicogeno muscolare ed epatico e successivamente dagli acidi grassi d) dalla fosfocreatina 8. Durante esercizio di forza l’energia viene fornita principalmente: a) dal glucosio plasmatico b) dalla fosfocreatina presente nei muscoli c) dagli acidi grassi liberati dai depositi adiposi d) dal glucosio plasmatico e dagli acidi grassi liberati 9. L’ipoglicemia si può presentare più facilmente durante esercizio: a) anaerobico lattacido (es. sport di squadra, corsa sui 400 m) b) di forza (es. sollevamento pesi) c) aerobico a intensità controllata d) non si presenta in alcun esercizio
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10. Qualora un paziente diabetico si approcci all’esercizio fisico bisogna suggerire: a) un’attività molto blanda b) un’attività in cui sia possibile controllare l’intensità c) allenamento di pesi d) un’attività di durata <20 minuti 11. I miglioramenti più significativi dell’HbA1c sono stati rilevati negli studi: a) il cui campione era composto da adulti b) in cui la durata era >3 mesi c) in cui la frequenza degli allenamenti era <3 sedute/settimana d) in cui i pazienti avevano un buon controllo glicemico iniziale 12. Nel paziente ipoinsulinizzato: a) solo la performance risulta scadente b) è probabile che si verifichi iperglicemia c) aumenta solo il rischio di chetosi d) la performance è scadente, può verificarsi iperglicemia, aumenta il rischio di chetosi 13. La glicemia target pre-attività ottimale è: a) >250 mg/dL b) tra 65 mg/dL e 100 mg/dL c) tra 100 mg/dL e 150 mg/dL d) <65 mg/dL 14. L’ipoglicemia durante attività fisica può essere prevenuta: a) riducendo l’insulina basale e del bolo pre-prandiale b) integrando con 15-30 g di carboidrati/ora c) l’ipoglicemia durante attività fisica non può essere prevenuta d) riducendo l’insulina basale e del bolo pre-prandiale, integrando con 15-30 g di carboidrati/ora e inserendo all’interno di un allenamento aerobico piccole sessioni di esercizi di forza 15. La miglior scelta per integrare zuccheri a ridosso dell’allenamento è: a) un panino b) una barretta di cioccolato c) miele o integratori glucidici (maltodestrine, destrosio, fruttosio, ecc.) d) frutta secca (noci, mandorle, nocciole, ecc.)
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Intervista a Donatella Ballardini
Disturbi dell’alimentazione: non solo anoressia e bulimia I disturbi del comportamento alimentare sono patologie molto complesse che richiedono un percorso diagnostico, terapeutico e riabilitativo gestito da un team di specialisti
P
rofessione Salute ha approfondito la tematica dei disturbi del comportamento alimentare con la dottoressa Donatella Ballardini, presidente dell’Associazione Nazionale Specialisti in Scienza dell’Alimentazione (Ansisa) e direttore sanitario del Centro Gruber di Bologna. Dottoressa Ballardini, quali sono i principali disturbi del comportamento alimentare? Quando si parla di disturbi dell’alimentazione tutti pensano subito all’anoressia nervosa e alla bulimia nervosa, ma bisogna ricordare che un disturbo, anche più frequente è il Binge Eating Disorder o Disturbo da binge eating, quadro caratterizzato dal mangiare grandi quantità di cibo in un lasso di tempo limitato, associato all’incapacità di frenarsi; questa forma di disturbo alimentare è associato con altissima frequenza all’obesità. Accanto a questi quadri, ci sono altri disturbi della nutrizione e dell’alimentazione come forme atipiche di anoressia, bulimia o altre ancora quali la sindrome da alimentazione notturna e il disturbo da condotta di eliminazione. Altre forme ancora sono l’ortoressia e la vigoressia. L’ortoressia è un disturbo alimentare caratterizzato dal rifiuto fobia per i cibi che si ritengono non sani. Le persone colpite sviluppano una vera ossessione di controllo verso il cibo di cui si alimentano. La vigores-
sia, tipica del sesso maschile è invece caratterizzata dalla preoccupazione persistente di non avere un corpo sufficientemente muscoloso. Questi due disturbi potrebbero riconoscere uno dei fattori causali nel proliferare di stereotipi culturali estremi legati all’alimentazione sana e alla forma atletica. L’anoressia nervosa è certamente il disturbo alimentare più conosciuto, la sua modalità di presentazione è caratterizzata dal rifiuto di mangiare e dal raggiungimento di un peso corporeo significativamente basso nel contesto di età, sesso e traiettoria di sviluppo. Il peso corporeo significativamente basso è definito come un peso inferiore al minimo normale oppure, per bambini e adolescenti, meno di quello minimo previsto. Nell’anoressia nervosa vi è un’intensa paura di aumentare di peso; il comportamento alimentare caratteristico è la restrizione, anche se sono frequenti forme con episodi bulimici e con iperattività fisica (eccesso di sport praticato con lo scopo di controllare l’alimentazione e quindi calare di peso). Caratteristica è inoltre l’alterazione del modo in cui viene vissuto dall’individuo il peso e la forma del proprio corpo, che a loro volta influenzano i livelli di autostima. Nella bulimia nervosa vi sono ricorrenti episodi di abbuffata, associati a inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto,
Intervista di Rachele Villa
Donatella Ballardini
Specialista in Scienza dell’Alimentazione e in Pediatria Responsabile Sanitario del Centro Gruber (Bologna) Presidente Associazione Nazionale Specialisti in Scienza dell’Alimentazione (Ansisa - www.ansisa.it)
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II Eating Disorder International Conference: IL CORPO CHE SOFFRE
Si è recentemente svolto a Bologna il congresso “II Eating Disorder International Conference” dal titolo “Il corpo che soffre”, organizzato dalla Fondazione Gruber in collaborazione con l’Associazione Nazionale Specialisti in Scienza dell’Alimentazione. «Credo sia stata una grande opportunità potere approfondire, nello stesso evento scientifico, tematiche attinenti alla sofferenza del corpo e della mente - ha commentato Donatella Ballardini -. Quello che è emerso è la necessità del lavoro multidisciplinare integrato con figure te-
rapeutiche di area internistico-nutrizionale e di area psichiatrica-psicoterapica in grado di collaborare fra di loro e formate ai fini di gestire un linguaggio comune. Un altro elemento importante emerso è la necessità per le figure di area medica e nutrizionale di acquisire competenze per la costruzione con il paziente di una relazione d’aiuto finalizzata alla cura. L’ultima sessione del convegno si poi dedicata al tema disturbi alimentari e obesità, portando alcune interessanti riflessione sulle intersezioni fra questi quadri patologici».
abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci, digiuno o attività fisica eccessiva. Anche in questo caso i livelli di autostima sono indebitamente influenzati dalla forma e dal peso del corpo. Anche il disturbo da binge eating è caratterizzato da episodi di abbuffata, ma in assenza di condotte compensatorie inappropriate. Ha parlato più volte di abbuffate, come si caratterizzano? Un episodio di abbuffata viene definito come il mangiare, in un determinato periodo di tempo, una quantità di cibo significativamente maggiore di quanto la maggior parte degli individui assumerebbe nello stesso tempo. Vi è una sensazione di non riuscire a smettere di mangiare o a controllare cosa e quanto si sta mangiando. Questi episodi che, come ho detto sopra, portano nella bulimia nervosa a condotte eliminatorie, sono seguiti da marcato senso di colpa e grave disagio psicologico. Quali sono i fattori di rischio nutrizionali e psicologici? Esistono categorie di soggetti più “a rischio”? I Disturbi del Comportamento Alimentare sono il risultato di un insieme di determinan30
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ti biologiche, psicologiche e culturali, genetiche e ambientali. Negli studi finora effettuati nessun fattore da solo è stato dimostrato essere in grado di predisporre ai disturbi alimentari; l’esordio è piuttosto collegato al concatenarsi di molteplici fattori che agiscono in un lasso di tempo d’incerta durata; è come se a un certo punto si creasse una massa critica di più fattori che sommandosi portano a un disturbo conclamato. L’obesità infantile e comportamenti dietetici persistenti (dieting) sono stati riconosciuti come fattori associati ai disturbi alimentari, così come il praticare sport estetici, ma anche aspetti genetici familiari, traumi, stili educazionali genitoriali, quali elevati livelli di perfezionismo, ma anche bassa autostima e insicurezza. Quali sono le figure professionali coinvolte nel percorso diagnostico, terapeutico e riabilitativo dei disturbi dell’alimentazione e della nutrizione? Il team per qualsiasi setting terapeutico (ambulatorio, ricovero ospedaliero o residenziale, day-hospital) deve essere costituito da specialisti, professionisti specificamente formati, di area internistico-nutrizionale, psicologico-psicoterapica e psichiatrica. Al team di base potranno essere affiancati per la corretta gestione medica anche altri specialisti; è inoltre importante coinvolgere i medici o pediatri di famiglia ai fini di garantire una continuità assistenziale. È necessario un percorso diagnostico ampio e specifico, un vero e proprio assessment che permetta una valutazione globale e multiprofessionale e che includa un’analisi di condizioni fisiche, complicanze mediche, l’assessment psicologico e sociale. Alla fase diagnostica segue un percorso terapeutico con caratteristiche di grande personalizzazione. La stabilità del team e la comunicazione interdisciplinare è indispensabile. I pazienti con disturbo dell’alimentazione, molto spesso, arrivano al trattamento specialistico dopo anni dall’insorgenza della malattia, ma-
Intervista a Donatella Ballardini
gari dopo aver effettuato trattamenti parziali non basati su evidenze scientifiche: in questi pazienti è molto complesso sostenere la motivazione, che quindi deve diventare un tema centrale della terapia, sia nella sua fase iniziale che nel corso del trattamento. È opportuno coinvolgere i familiari del paziente nel percorso di cura? Nel trattamento dei giovani pazienti la famiglia è una risorsa e il suo coinvolgimento è raccomandato. I genitori si sentono spesso inadeguati, incapaci di aiutare il proprio figlio o figlia, possono essere preda di sensi di colpa ed emotivamente provati dalla preoccupazione: è importante aiutarli ad acquisire competenze utili alla comunicazione e alla comprensione dei meccanismi della psicopatologia. Anche nei pazienti meno giovani può essere utile coinvolgere i familiari per favorire un clima di comprensione e di alleanza con la terapia. Il farmacista può giocare un ruolo nell’identificazione e prevenzione dei fattori di rischio correlati a stili di vita e comportamenti alimentari scorretti? Vi sono quadri di disturbo alimentare, in particolare quadri di bulimia nervosa ma
anche di anoressia nervosa, dove può essere presente abuso di lassativi, di enteroclismi, di integratori a base di fibre o di dolcificanti, in casi più rari ci può essere un abuso di diuretici. Si tratta di condizioni molto serie, in cui i pazienti sono a rischio di gravi complicanze. Può quindi essere utile un’attenzione particolare verso ragazze e giovani donne che acquistano frequentemente o in dosi eccessive questi prodotti: fare sempre presente che si tratta di presidi medici e fornire informazione rispetto ai rischi e al corretto dosaggio potrebbe essere un aiuto. Qual è il ruolo degli integratori alimentari in questo ambito? I pazienti con disturbo alimentare, indipendentemente dal peso, possono presentare gravi squilibri dello stato nutrizionale e carenze sia di macronutrienti, carboidrati, grassi e proteine, che di oligoelementi, sali minerali e vitamine. L’integrazione può avere una grande valenza curativa, non può essere generica, ma dovrà essere supportata da reali necessità, evidenziate da esami specifici valutati dallo specialista con competenze internisticonutrizionali. n dicembre 2016
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Ruolo della vitamina D nella sindrome dell’ovaio policistico La letteratura scientifica esprime pareri discordanti riguardo l’utilità della supplementazione con vitamina D per migliorare la sensibilità insulinica in donne affette da sindrome dell’ovaio policistico. Al momento la relazione tra livelli di vitamina D e disturbi metabolici risulta ancora da chiarire
di Rachele De Giuseppe
Laboratorio di Dietetica e Nutrizione Clinica Dipartimento di Sanità Pubblica, Medicina Sperimentale e Forense Università degli Studi di Pavia
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d oggi è riconosciuto come la vitamina D, oltre a regolare il metabolismo Ca-P, abbia degli effetti sistemici dovuti all’ubiquitarietà de propri recettori. La localizzazione di tali recettori su organi bersaglio diversi da quelli classici (quali mammella, colon, fegato, prostata, cute, muscoli, pancreas, organi riproduttivi, sistema immunitario, tessuto nervoso, tessuto emopoietico) ha messo in luce ruoli inattesi per tale vitamina che sembra pertanto in grado di determinare effetti biologici diversi
da quelli relativi al mantenimento dell’equilibrio degli ioni divalenti. Studi hanno proposto come un deficit di vitamina D possa essere coinvolto nell’eziopatogenesi della sindrome dell’ovaio policistico (Polycystic Ovary Syndrome, PCOs) (1-3). Sintomi e cause della sindrome dell’ovaio policistico
La PCOs è un’endocrinopatia comune che prevale nel 4-12% delle donne in età riproduttiva e le cui caratteristiche possono essere sinte-
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tizzate in: aumentata secrezione di androgeni da parte dell’ovaio e anche del surrene; sintomi indotti dall’iperandrogenismo (acne, irsutismo, alopecia, anovulatorietà, irregolarità mestruali); aumentata resistenza all’insulina in un’alta percentuale di casi (4,5). Alla diagnosi di PCOs si arriva dopo esclusione di altre cause di iperandrogenismo, quali patologie tumorali androgeno-secernenti, iperandrogenismo di origine surrenalica, alterazioni della secrezione di Sex Hormone Binding Globuline (SHBG) indotte da cause metaboliche o endocrine, sindrome di Cushing (5). Si è dibattuto a lungo sulla definizione della PCOs, recentemente rivisitata in modo tale che si può fare diagnosi di PCOs in presenza di almeno due dei seguenti sintomi (5): z oligo e/o anovulatorietà; z segni clinici e/o biochimici di iperandrogenismo; z morfologia policistica delle ovaie. Nell’eziopatogenesi della PCOs sono coinvolti l’insulino-resistenza (IR) e l’aumento degli androgeni, che impedirebbero la corretta maturazione follicolare, determinando l’anovulazione e i segni clinici sistemici della sindrome (acne, irsutismo) (4,5). L’IR è diagnosticata nel 36-70% delle PCOs, ma in tutte potrebbe essere presente un difetto genetico nella trasmissione intracellulare del segnale insulinico (5). Infatti, le donne con PCOs tendono ad aumentare il loro peso negli anni, con una distribuzione prevalentemente viscerale, e hanno una maggior incidenza di intolleranza glucidica e di diabete. Inoltre, l’IR peggiora l’iperandrogenismo e i suoi segni clinici e si oppone al calo ponderale. L’osservazione che nella PCOs l’iperandrogenismo si associ ad alterazioni metaboliche, in modo particolare all’iperinsulinemia e/o all’aumentata resistenza periferica all’insulina ha fatto ipotizzare che l’insulina sia la causa primaria dell’aumento della stimolazione della secrezione di androgeni ovarici.
Cosa dice la letteratura scientifica
Studi in letteratura descrivono una carenza di vitamina D in donne affette da PCOs ed evidenziano come tale carenza possa essere associata a insulino-resistenza, infertilità e iperandrogenismo (1-3). Recentemente, il deficit di vitamina D è stato proposto quale possibile collegamento tra IR e PCOs. Il Recettore per la vitamina D (Vitamin D Receptor, VDR) regola numerosi processi di trascrizione genica ed è espresso a livello di molteplici tessuti (tessuto scheletrico, ghiandole paratiroidee e ovaio) suggerendo un “ruolo extrascheletrico” di tale vitamina (2,3). Il meccanismo che lega il deficit di vitamina D a una condizione di insulino-resistenza non è ancora del tutto chiaro, tuttavia è stato descritto un coinvolgimento del complesso 1,25-diidrossi-vitamina D (1,25(OH)2-D)–VDR nell’incremento della sintesi e rilascio di insulina, nell’aumento dell’espressione del recettore insulinico e nella soppressione della trascrizione di citochine pro-infiammatorie (coinvolte nell’instaurarsi di una condizione di insulino-resistenza) (3). Altri studi riportano come la vitamina D svolga un importante ruolo nella funzione riproduttiva. Come descritto sopra, il VDR è espresso in numerosi tessuti tra cui ovaio, endometrio e placenta. L’1,25(OH)2-D, mediante regolazione della trascrizione genica, attiva la sintesi di specifiche proteine deputate al trasporto transcellulare del Ca. In particolare l’1,25(OH)2-D agisce stimolando la sintesi proteica di canali di trasporto ad alta selettività per il calcio e proteine di trasferimento e/o di estrusione del calcio dalle cellule (2). Un deficit di vitamina D è pertanto associato a un’alterata regolazione dei livelli di calcio che contribuisce all’arresto dello sviluppo follicolare in donne affette da PCOs con conseguente alterazione del ciclo mestruale e infertilità (2). Studi in vivo hanno dimostrato come topi VDR-/- mostravano un’alterazione a livello della follicolo genesi (1). Infine, studi osservazionali hanno riportato un’associazione positiva tra livelli di 25-idrossi-vitamina D (25(OH)-D) e le concentrazioni di dicembre 2016
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METANALISI SU LIVELLI DI VITAMINA D E SINDROME DELL’OVAIO POLICISTICO: SONO NECESSARI STUDI PIù ACCURATI La carenza di vitamina D è comune nelle donne con sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) e può essere associata a dismetabolismi e alterazioni endocrine. In questa metanalisi recente gli autori mirano a valutare quest’associazione attraverso un’analisi dettagliata e sistematica dei lavori finora pubblicati sull’argomento e a considerare le eventuali evidenze prodotte dalla letteratura sugli effetti dell’integrßazione con vitamina D proprio sulle funzioni metaboliche ed endocrine di queste pazienti. Dopo un’accurata selezione degli studi pubblicati in letteratura gli autori hanno considerato 30 lavori per un totale di 3.182 soggetti, da cui l’associazione fra livelli bassi di vitamina D sierica e alterazioni sia metaboliche che endocrine viene confermata. In particolare emerge un’elevata corrispondenza di basse concentrazioni sieriche di vitamina
Bibliografia 1. Thomson RL, Spedding S, Buckley
JD. Vitamin D in the aetiology and management of polycystic ovary syndrome. Clin Endocrinol (Oxf). 2012 Sep;77(3):343-50. 2. Lerchbaum E, Obermayer-Pietsch B. Vitamin D and fertility: a systematic review. Eur J Endocrinol. 2012 May;166(5):765-78. 3. Wacker M, Holick MF. Vitamin D effects on skeletal and extraskeletal health and the need for supplementation. Nutrients. 2013 Jan 10;5(1):111-48. 4. Sirmans SM, Pate KA. Epidemiology, diagnosis, and management of polycystic ovary syndrome. Clin Epidemiol. 2013 Dec 18;6:1-13. 5. Nappi RE. Pianeta PCO. Il multiverso sindromico e terapeutico dell’ovaio policistico. DonnaMed. 2012;1(1). 6. Krul-Poel YH, Snackey C, Louwers Y, Lips P, Lambalk CB, Laven JS, Simsek S. The role of vitamin D in metabolic disturbances in polycystic ovary syndrome: a systematic review. Eur J Endocrinol. 2013 Oct 23;169(6):853-65. 7. Adami S, Romagnoli E, Carnevale V et al. Guidelines on prevention and treatment of vitamin D deficiency. Reumatismo. 2011 Nov 9;63(3):129-47.
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D con alterazioni del profilo glicemico, caratterizzate da aumentati livelli di glicemia a digiuno e insulino-resistenza tramite HOMA index. Tuttavia da questa metanalisi non risultano evidenze riguardo alla possibile riduzione delle disregolazioni metaboliche e/o endocrine in seguito a supplementazione con vitamina D. Gli autori però sottolineano che la maggior parte degli studi sugli effetti dell’integrazione con vitamina D non sono randomizzati e sono condotti su campioni molto piccoli che fanno perdere di potenza statistica i risultati ottenuti. Inoltre sia i livelli basali di vitamina D sierica che i dosaggi di vitamina D somministrati nei vari studi differiscono e lasciano trapelare dubbi sulla somministrazione adeguata di vitamina D in funzione dei fabbisogni di ciascun individuo. Infine gli studi selezionati non hanno conside-
SHBG e una correlazione negativa con l’indice di androgeni liberi, il testosterone totale e il deidroepiandrosterone solfato (DHEAS), in donne affette da PCOs (1). La correlazione tra le concentrazioni di 25(OH)-D e l’iperandrogenismo, sembra essere dovuta a una riduzione dei livelli SHBG secondari alla condizione di obesità che si instaura nelle donne affette da PCOs (1). In conclusione
Alla luce della letteratura sopra descritta, una recente review che ha preso in considerazione 29 studi accuratamente selezionati (6) ha cercato di chiarire l’associazione tra i livelli di vitamina D nei disturbi metabolici e/o endocrini in donne affette da PCOs e gli effetti di una supplementazione con vitamina D nel trattamento di tali disturbi. Gli studi scelti hanno riportato risultati discordanti circa l’utilità della supplementazione con vitamina D nel migliorare la sensibilità insulinica in donne affette da PCOs. Gli autori hanno imputato tale eterogeneità nei risultati a diversi “errori metodologici” a par-
rato gli effetti confondenti causati da stagionalità e differenze di latitudine, che sappiamo giocare un ruolo importante sulla sintesi cutanea di vitamina D, essendo i raggi solari ultravioletti B (UVB) una delle fonti maggiori di vitamina D nella popolazione. Per questi motivi spicca la necessità di studi prospettici osservazionali e di intervento ad hoc in cui si chiarisca se la carenza di vitamina D sia una causa o una conseguenza della disregolazione metabolica ed ormonale tipica della policistosi ovarica, in modo da poter stendere delle linee guida più specifiche ed efficaci nel trattamento di queste pazienti. He C, Lin Z, Robb SW, Ezeamama AE. Serum Vitamin D Levels and Polycystic Ovary syndrome: A Systematic Review and Meta-Analysis. Nutrients. 2015 Jun8;7(6):4555-77.
tire dalla diversa e talvolta insignificante numerosità del campione fino alle diverse dosi e tipo di vitamina D somministrata. Quindi, alla luce delle considerazioni fatte, la relazione tra livelli di vitamina D e disturbi metabolici non è ancora del tutto chiara. La letteratura suggerisce una correlazione inversa tra le concentrazioni di vitamina D e lo sviluppo di IR in donne affette da PCOs, tuttavia, data l’eterogeneità degli studi presi in considerazione nella recente review di KrulPoel YH et al. (6), è difficile trarre conclusioni definitive e sono necessari ulteriori studi disegnati correttamente con potenza statistica adeguata, randomizzati, in doppio cieco e placebo controllati. Tuttavia, in donne affette da PCOs che riportano anche un’ipovitaminosi D, è necessario correggere tale carenza con un’adeguata supplementazione di vitamina D, in accordo con le Linee Guida su prevenzione e trattamento dell’ipovitaminosi D (7), e altrettanto rilevante modificare le abitudini alimentari e lo stile di vita del soggetto al fine di mantenere livelli di vitamina D nella norma. n
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Influenza nei bambini quali sono i farmaci più adatti? Febbre e dolore nel bambino sono sintomi frequentemente sovratrattati dai genitori, che spesso tendono a somministrare farmaci non rispettando le tempistiche e i dosaggi consigliati, ignorandone gli effetti collaterali
Diego Fornasari Farmacologo Dipartimento di biotecnologie mediche e medicina traslazionale Università di Milano
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di Renato Torlaschi
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affreddore, influenza, faringite, laringite, sinusite: le infezioni alle vie aeree, causate soprattutto da virus, sono la più comune tra le cause per cui i genitori chiedono l’intervento di un pediatra. Spesso però decidono di fare da soli e ricorrono a una quantità di rimedi, da quelli della nonna ai farmaci da banco, di cui talvolta tendono ad abusare. Ancora più pericoloso è aprire il cassetto dei farmaci presente in ogni casa e utilizzare per i bambini certe formulazioni pensate per gli adulti, adattando i dosaggi in modo approssimativo.
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Antibiotici, antinfiammatori e antipiretici
Proprio mentre la stagione delle influenze è ai suoi esordi, è importante avere indicazioni chiare e prima di tutto è necessario sgombrare il campo dall’equivoco più comune, che porta a un utilizzo improprio e pericoloso degli antibiotici, con il rischio di alimentare la sempre maggiore diffusione di batteri resistenti ai farmaci. Come ricorda Diego Fornasari, farmacologo presso il Dipartimento di biotecnologie mediche e medicina traslazionale dell’Universi-
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tà di Milano, «i comuni problemi infettivi delle vie aeree che si riscontrano in questo periodo dell’anno sono su base sostanzialmente virale e gli antibiotici non agiscono sui virus». Sarà dunque il medico, di fronte ad un quadro sintomatologico che invece di risolversi si protrae nel tempo, a prendere in considerazione l’eziologia batterica e trarne le dovute conseguenze. Ma qual è la terapia più adatta per il trattamento delle sindromi influenzali e parainfluenzali nei soggetti in età evolutiva? Secondo Fornasari, che ci guida in questa rassegna, dobbiamo innanzitutto distinguere quelle manifestazioni febbrili in cui sono presenti soltanto i classici sintomi influenzali, come indolenzimento e dolore muscolare, dalle situazioni in cui ci sono chiari segni di infiammazione, come laringiti, tracheiti o sinusiti. Questo comporta una discriminante nell’utilizzo dei farmaci perché, se non c’è un processo infiammatorio in atto, l’antinfiammatorio evidentemente non serve e dunque va evitato. Il discorso è generale ma naturalmente è ancora più valido per nell’età evolutiva. Nel bambino abbiamo a disposizione essenzialmente due farmaci, il paracetamolo e l’ibuprofene, che hanno meccanismi d’azione del tutto diversi. Come agiscono ibuprofene e paracetamolo
«L’ibuprofene – spiega Fornasari – è un farmaco antinfiammatorio non steroideo (Fans) e di conseguenza è un inibitore sia della ciclossigenasi 1 (Cox-1) che della ciclossigenasi 2 (Cox2) e sono principalmente queste inibizioni le responsabili degli effetti antipiretici, analgesici e antinfiammatori che produce. È quindi un meccanismo assolutamente chiaro e definito». Nel caso del paracetamolo, le cose sono più complesse: «sebbene sia ancora oggi classificato insieme ai Fans e abbia una debole inibizione sulla Cox-1 e soprattutto sulla Cox-2, in realtà probabilmente gli effetti terapeutici del paracetamolo non c’entrano con l’inibizione delle ciclossigenasi perché è troppo debole e non si verifica in periferia, cioè nei tessuti infiamma-
VACCINAZIONE ANTINFLUENZALE anche per i BAMBINI? È stata pubblicata quest’anno la terza edizione del “Calendario per la vita”. L’iniziativa è nata dalla collaborazione tra società scientifiche che si occupano di vaccinazioni e le più importanti federazioni che rappresentano le cure primarie per il bambino e propone un calendario vaccinale per tutte le età della vita. Così come avviene in Gran Bretagna e altri Paesi, viene estesa la raccomandazione della vaccinazione antinfluenzale anche ai bambini sani dell’età pre-scolare. «Sebbene il carico di malattia dell’influenza per il Sistema sanitario nazionale sia essenzialmente legato ai casi che si verificano in età avanzata, – si legge nel documento – esistono tuttavia numerosi fattori per considerare il bambino, anche quello sano, come target di interesse per la vaccinazione contro l’influenza: il bambino da zero a quattro anni si ammala d’influenza circa dieci volte più di frequente dell’anziano e circa cin-
que volte più dell’adulto; il bambino da cinque a quattordici anni si ammala d’influenza circa otto volte più di frequente dell’anziano e circa quattro volte più dell’adulto; i bambini rappresentano i principali soggetti responsabili della trasmissione dell’influenza nella popolazione; l’ospedalizzazione per influenza del bambino sotto i due anni avviene con le stesse proporzioni del paziente anziano». Non tutti gli esperti sono però d’accordo. Il professor Fornasari, ad esempio, ritiene che sia più opportuno talvolta «lasciare che il sistema immunitario risponda fisiologicamente ai diversi antigeni. Ovviamente questo vale per il bambino sano, mentre se ci sono delle patologie di base il discorso cambierebbe. Questo inoltre si applicherebbe esclusivamente in riferimento alla vaccinazione antinfluenzale: per tutte le altre vaccinazioni, obbligatorie e non, nulla da eccepire e anzi dovrebbero essere ulteriormente incoraggiate».
ti, dove invece i Fans principalmente agiscono». Questo peraltro spiega anche come mai gli effetti avversi del paracetamolo siano distinguibili da quelli dei Fans: non c’è in generale rischio di lesioni gastroenteriche o un aumentato rischio cardiovascolare, proprio perché gli effetti sulla Cox-1 e sulla Cox-2 non sono significativi. Il paracetamolo quindi non ha proprietà antinfiammatorie, ma antipiretiche e analgesiche. Queste ultime sono sostanzialmente dovute a un effetto sul sistema nervoso centrale, dove svolge appunto funzioni analgesiche attraverso diversi meccanismi, ancora non tutti perfettamente chiariti. «Uno che sta emergendo – rivela l’esperto – è particolarmente interessante: l’interferenza con il sistema cannabinoide endogeno. Alcuni cannabinoidi sono naturalmente presenti nell’organismo umano, uno di questi è l’anandamide, che ha proprietà antidolorifiche: il paracetamolo sembrerebbe potenziarne l’azione. Per quanto riguarda la febbre, l’effetto sulla Cox-2 delle cellule endoteliali ipotalamiche può essere significativo, ma è comunque affiancato da tutta una serie di altri meccanidicembre 2016
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smi, incluso ancora una volta il ruolo dei cannabinoidi, che inducono ipotermia». Da questa disamina deriva chiaramente che è opportuno ricorrere all’ibuprofene in caso di infiammazione, mentre se è presente solo la febbre è preferibile utilizzare il paracetamolo che, come già detto, ha effetti essenzialmente centrali ed è quindi importante che venga somministrato al giusto dosaggio, perché deve entrare nel sistema nervoso centrale e svolgere la sua azione. Il rebus dei dosaggi
approfondimenti «C’è una nuova formulazione che si vende in farmacia dietro prescrizione medica a dose fissa di 500 mg di paracetamolo e 150 mg di ibuprofene: il dosaggio pieno di sei compresse al giorno – spiega Fornasari – porta a un totale di 3 g di paracetamolo e di 900 mg di ibuprofene, largamente al di sotto dei 1.200 mg di ibuprofene oltre il quale, secondo l’Agenzia europea dei medicinali (Ema) e la Food and drug administration (Fda) potrebbe esserci un rischio cardiovascolare». Occorre precisare che la combinazione è sicuramente indicata nell’adulto per il trattamento di stati infiammatori febbrili e dolorosi, ma non ci sono indicazioni per i bambini all’uso di questi farmaci combinati.
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Qual è dunque il dosaggio di paracetamolo indicato per i bambini? Il farmacologo inizia ricordando la tempistica della somministrazione, che è ogni sei ore e deve essere attentamente rispettata. «Nei bambini il dosaggio è calcolato in base al peso corporeo: secondo la letteratura più aggiornata, il dosaggio per ogni somministrazione è di 15 mg per chilo di peso. In Italia si tende a restare un po’ al di sotto, con 12 mg per chilo corporeo, ma a mio avviso è meglio seguire le indicazione degli studi e dare 15 mg, anche perché in questo modo raggiungiamo più rapidamente la concentrazione efficace nel cervello e otteniamo prima l’effetto antipiretico: questo tranquillizza spesso i genitori e si traduce in minori rischi di somministrazioni inopportune. Negli adulti, – continua – tre grammi al giorno vanno benissimo. Quanto alla modalità di somministrazione nel bambino, quella rettale è molto più irregolare nell’assorbimento per cui non c’è alcuna ragione di usare le supposte, non è vero che funzionino prima e la somministrazione orale a mio modo di vedere è preferibile». Invece, il dosaggio indicato nei bambini per l’ibuprofene è di 20-30 mg per chilo di peso corporeo nelle 24 ore, ripartiti in più dosi. Visto che hanno meccanismi d’azione differenti, viene da chiedersi se la combinazione di ibuprofene e paracetamolo aumenti i loro effetti. Se la risposta è negativa riguardo agli effetti antipiretici, l’azione antalgica è effettivamente potenziata. «Il vantaggio – chiarisce
Fornasari – nasce proprio dal fatto che i meccanismi d’azione sono diversi ma complementari e, relativamente al dolore, vanno a sommarsi permettendo di usare dosaggi più bassi sfruttandone la sinergia». Usi impropri e controindicazioni
Come per tutti i farmaci, occorre fare attenzione agli usi impropri. «La cosa abbastanza strana – rileva il professore – è che i genitori siano molto impressionati dalla febbre e un po’ meno dal dolore, così capita spesso che sovratrattino la febbre e sottotrattino il dolore del bambino, somministrando, in caso di febbre, il paracetamolo in maniera troppo ravvicinata. Ma è sbagliato pensare che la febbre debba scomparire dopo un paio di somministrazioni di paracetamolo: si deve solo abbassare per poi sparire pian piano. Il rischio principale è dunque quello di dare il farmaco ogni tre o quattro ore e di arrivare a un sovradosaggio, che introduce una tossicità a carico del fegato. Per l’ibuprofene il rischio di tossicità è soprattutto a carico del tratto gastro-enterico, con possibili lesioni della mucosa gastrica nelle forme più severe, o con nausea, vomito, diarrea». E riguardo alle controindicazioni? «Per il paracetamolo non ci sono controindicazioni particolari; il problema principale è l’epatotossicità, ma si raggiunge a dosaggi più elevati. È comunque sbagliato andare in sovradosaggio perché si sovraccarica inutilmente il fegato. Il metabolismo del paracetamolo cambia durante l’età evolutiva perché cambiano gli enzimi coinvolti, ma nei bambini si ha una ridotta produzione di una delle sostanze più tossiche, l’N-acetil-p-benzochinoneimmina (Napqi) e quindi sono esposti a un rischio ancora minore degli adulti. Si può concludere dicendo che il paracetamolo è un farmaco largamente sicuro, che però deve essere utilizzato in maniera appropriata e, come con tutti i medicinali, bisogna proteggere il bambino da assunzioni accidentali. Anche l’ibuprofene, ai dosaggi indicati è un farmaco estremamente sicuro, nel bambino e nell’adulto». n
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Reazioni avverse ai farmaci: perché, quando e come segnalare di Carla Carnovale
Le segnalazioni di sospette reazioni indesiderate permettono di individuare i problemi di sicurezza dei farmaci e costituiscono un’importante fonte di informazioni per le attività di farmacovigilanza, che coinvolgono personale sanitario e pazienti
L’
introduzione nella pratica clinica di una nuova terapia farmacologica è il risultato di una lunga e complessa attività di ricerca sperimentale che in seguito a valutazioni precliniche e cliniche attesta il profilo di sicurezza ed efficacia di un farmaco; l’individuazione di un rapporto rischio/beneficio favorevole ne predisporrà poi l’autorizzazione all’immissione in commercio. Tuttavia, nonostante l’oneroso processo premarketing miri a fornire quante più informazioni possibili sul farmaco oggetto dello studio, con lo scopo di garantire la tutela della salute pubblica, prevedere con assoluta precisione quali sa-
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ranno gli effetti reali di una nuova terapia farmacologica è pressoché impossibile. Il fatto che un farmaco sia autorizzato e commercializzato significa che l’autorità che ha concesso la licenza non ha identificato alcun rischio ritenuto inaccettabile, ma non significa che tale farmaco sarà sicuramente esente da effetti collaterali nella futura pratica clinica. L’impossibilità di rilevare l’intero spettro delle reazioni avverse che può potenzialmente indurre un medicinale è dovuto in parte ai limiti intrinseci dei trial clinici premarketing che conducono all’approvazione della commercializzazione dei farmaci; in particolar modo, la ristretta e selezionata popolazione ar-
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ruolata (vengono volontariamente esclusi neonati, donne in gravidanza, pazienti molto anziani e affetti da pluripatologie) e le tempistiche definite, che si riflettono in una breve durata della sperimentazione, rendono impossibile predire in maniera accurata la tossicità dei farmaci una volta che questi diventano disponibili per milioni di pazienti, ognuno dei quali con una propria anamnesi personale (fisiologica e patologica). È l’utilizzo del farmaco su vasta scala, quindi al di fuori del contesto della ricerca sperimentale, che fornirà le preziose informazioni utili a caratterizzare concretamente il profilo di tollerabilità del medicinale. La storia ci insegna che, nonostante esistano buone probabilità che gli effetti avversi vengano identificati nei primi mesi di introduzione nel mercato, talvolta sono necessari anni per accumulare dati sufficienti ad attestare un nuovo e più attendibile profilo rischio/beneficio. Sono moltissimi gli esempi di farmaci ritirati dal mercato in seguito a una valutazione post-commercializzazione basata sui dati ottenuti da un’attività di farmacosorveglianza da parte del personale sanitario coinvolto a più livelli nella gestione dei pazienti sottoposti a trattamento farmacologico. Il caso talidomide e la nascita della farmacovigilanza
L’esempio più eclatante ci riporta nel 1950, periodo in cui l’ipnotico sedativo talidomide è stato largamente impiegato nel trattamento delle nausee mattutine nel primo trimestre di gravidanza; in seguito a un’intensa campagna pubblicitaria che ne esaltava l’efficacia e il basso rischio di effetti avversi, il farmaco è diventato un prodotto da banco largamente utilizzato in numerosi paesi. Il successivo incremento di neonati con malformazioni congenite degli arti suggerì l’ipotesi di una correlazione con l’assunzione materna di talidomide in corso di gravidanza, portando alla luce agli effetti avversi da farmaco più devastanti che la storia ricordi e al ritiro dal commercio nel 1961. La nascita della farmacovigilanza risale simbolicamente proprio al drammatico evento noto
come disastro della talidomide, avendo difatti rappresentato il principale impulso alla creazione di un sistema di sorveglianza in grado di valutare con continuità l’efficacia e la tollerabilità di un farmaco nella pratica clinica quotidiana. Lo scopo principale della farmacovigilanza, intesa come l’insieme delle attività volte a fornire le migliori informazioni possibili sulla sicurezza dei farmaci disponibili sul mercato, è quello dunque di garantire che i medicinali utilizzati abbiano un rapporto beneficio/rischio favorevole per la popolazione. Un buon sistema di farmacosorveglianza è inoltre in grado di: 1) riconoscere tempestivamente nuove reazioni avverse ai farmaci (ADR); 2) allargare e migliorare le informazioni su ADR già notificate alle agenzie regolatorie; 3) valutare i vantaggi di un farmaco rispetto ai competitor; 4) diffondere l’informazione tra gli operatori sanitari in modo da migliorare la pratica terapeutica. L’attuale definizione di ADR (Adverse Drug Reaction) è stata introdotta a livello della Comunità europea nel 2010 dalla Direttiva Europea 2010/84/UE e dal Regolamento UE 1235/2010 ed è stata recepita in Italia il 2 luglio 2012. Così come previsto dalla normativa, l’ADR è «una reazione nociva e non intenzionale a un medicinale impiegato alle dosi normalmente somministrate all’uomo a scopi profilattici, diagnostici o terapeutici o per ripristinarne, correggerne o dicembre 2016
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classificaZIONE delle reazioni avverse da farmaco Le ADR si possono classificare in reazioni avverse di tipo: z A: sono comuni, dose-dipendenti, connesse al meccanismo d’azione del medicinale, in gran parte prevedibili e quindi spesso evitabili. z B: sono non comuni, non dose-dipendenti, indipendenti dal meccanismo d’azione del medicinale, spesso di natura allergica, di norma inaspettate e imprevedibili, di solito gravi, difficili da identificare. z C: sono non comuni, correlate alla dose e al tempo di somministrazione del medicinale, ad insorgenza tardiva, è molto difficile provare o
negare il nesso di causalità con il medicinale sospetto. z D: sono non comuni, ad insorgenza tardiva, in genere correlate alla dose, si manifestano dopo un tempo più o meno prolungato dalla sospensione del farmaco. z E: sono non comuni, si manifestano dopo la sospensione di un farmaco usato per un tempo prolungato. z F: si manifestano come inaspettati insuccessi terapeutici, sono comuni, correlate alla dose, spesso sono causate da interazioni tra farmaci.
modificarne le funzioni fisiologiche». L’attuale definizione amplia inoltre lo spettro delle ADR notificabili, in quanto estende la definizione anche agli effetti avversi dovuti a un utilizzo non conforme alle indicazioni contenute nell’autorizzazione all’immissione in commercio del farmaco ovvero sovradosaggio, uso improprio, abuso, errori terapeutici ed esposizione per motivi professionali. Chi può segnalare e cosa prevede l’iter
Tutto il personale sanitario è direttamente coinvolto nel processo di rilevazione e notifica delle ADR, con lo scopo di fornire preziose informazioni volte a garantire un uso razionale dei farmaci, per una maggiore aderenza alle terapie farmacologiche da parte dei pazienti. Esiste un ampia gamma di effetti avversi indotti dai farmaci, che possono essere classificati in base alla natura che ne caratterizza le peculiarità in termini di entità clinica e tempistiche di insorgenza (vedi approfondimento in questa pagina). Indipendentemente dal tipo di ADR coinvolta, così come prevede la normativa in materia di farmacovigilanza, l’operatore sanitario è tenuto a segnalare tutte le sospette reazioni avverse gravi, non gravi, attese e inattese da vaccini e medicinali che rileva nell’ambito della propria attività. L’identificazione di un effetto avverso è un vero e proprio processo di diagnosi differenziale, che 42
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mira a identificare la natura iatrogena (dovuta al farmaco) di una reazione avversa insorta in un paziente sottoposto a trattamento farmacologico; soprattutto in caso di pazienti geriatrici e/o politrattati il processo di rilevazione non è semplice e immediato, difficilmente si è certi che sia stato il farmaco a causare l’evento, piuttosto che la patologia alla base o i disordini funzionali legati all’età. Tuttavia, è sufficiente avere il sospetto che un farmaco possa essere coinvolto nell’insorgenza di un effetto avverso per compilare l’apposita scheda ministeriale di segnalazione in formato cartaceo o elettronico disponibile sul portale dell’Aifa (www.agenziafarmaco.gov.it/it/content/modalità-di-segnalazione-delle-sospettereazioni-avverse-ai-medicinali). Il segnalatore (medico, specialista, infermiere, farmacista e da un paio di anni anche cittadino) dopo aver compilato l’apposita scheda, che garantisce l’anonimato del paziente coinvolto, dovrà provvedere a inviarla via fax o via mail al proprio responsabile di farmacovigilanza locale di appartenenza. Il caso segnalato, dopo un’accurata valutazione, verrà poi processato e notificato alle agenzie regolatorie, mediante il tempestivo inserimento nella banca dati nazionale (Rete Nazionale di Farmacovigilanza), garantendo un costante e continuo monitoraggio delle reazioni avverse e della sicurezza d’uso dei medicinali. L’Aifa rende disponibili i nominativi e i contatti dei responsabili di farmacovigilanza che operano sul territorio nazionale così da facilitare la modalità di invio delle schede di segnalazione; la lista è consultabile al seguente link: www.agenziafarmaco.gov.it/it/responsabili. La segnalazione spontanea rappresenta il principale strumento di un’efficace attività di farmacovigilanza; la tempestiva e costante notifica delle ADR può fornire precoci segnali di allarme e creare un corpo di evidenze in grado di indirizzare le agenzie regolatorie nell’elaborazione di note informative e warning indirizzati al personale sanitario con lo scopo di supportarlo nella gestione dei pazienti e migliorare la pratica terapeutica. n
salute e benessere_incontinenza
Incontinenza urinaria una patologia sommersa
di Rachele Villa
Almeno 10 italiani su 100, soprattutto donne, soffrono di incontinenza urinaria e convivono quotidianamente con i disagi causati da questa patologia, che genera imbarazzo e viene spesso tenuta nascosta
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L’
incontinenza urinaria è un disturbo molto diffuso che riguarda principalmente l’universo femminile, anche se non risparmia quello maschile. Secondo la Fondazione Italiana continenza in Italia sono incontinenti almeno 5,1 milioni di persone sopra i 18 anni (3,7 milioni di donne e 1,4 milioni di uomini, con un rapporto di 2,7 a 1 tra i due sessi), questo significa che su 100 italiani almeno 10 soffrono di incontinenza urinaria, 6% tra gli uomini e 14% circa tra le donne. Ma nonostante la sua eccezionale rilevanza sociale, questa patologia è ancora oggi un tabù per molti: se ne parla poco e spesso il paziente incontinente per pudore tende a tenere nascosto il disturbo perfino al proprio medico curante. L’incontinenza urina-
ria si manifesta con l’incapacità di controllare e trattenere le perdite di urina. In base alla gravità della patologia, si va da perdite minime fino allo svuotamento completo del contenuto vescicale. Pur non essendo una malattia che altera lo stato di salute dell’individuo, è una condizione invalidante che va a intaccare la sfera psico-sociale e limita in maniera più o meno importante il normale svolgimento delle attività quotidiane, che possono essere vissute dal soggetto incontinente con grande disagio. Una semplice uscita in compagnia, magari in luoghi poco familiari dove può essere difficoltoso trovare un bagno, per esempio, può diventare fonte di stress e imbarazzo e portare il soggetto a preferire l’isolamento, limitando i contatti sociali. L’ammissione del problema costituisce il primo passo per rompere il tabù e avviare un percorso diagnostico e di cura: vincere l’imbarazzo e rivolgersi al proprio medico curante permette infatti di intervenire in maniera tempestiva prima che l’incontinenza diventi cronica. Le cause dell’incontinenza urinaria nella donna
A essere colpite da questo fastidioso disturbo sono soprattutto le donne, come già anticipato, nelle quali si può manifestare a qualsiasi età, addirittura prima dei 30 anni, anche se i soggetti più interessati sono prevalentemente le donne di età superiore ai 60 anni. Nella donna incontinente si viene a verificare il mancato controllo della minzione in seguito all’indebolimento del pavimento pelvico ovvero di quella struttura costituita da muscoli e tendini che va dalla sinfisi pubica al coccige, circondando e sostenendo l’uretra, la vesci-
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ca, la vagina e l’apparato ano-rettale. Il parto naturale (di tipo vaginale) è indubbiamente un evento che mette a dura prova il pavimento pelvico: questi muscoli sottoposti a grande sforzo durante la fase espulsiva del parto possono perdere la capacità di contrarsi, dando così origine a problemi di incontinenza. Anche la stitichezza e l’obesità sono da annoverarsi tra le cause dell’incontinenza urinaria in quanto la distensione dei muscoli del pavimento pelvico durante lo sforzo messo in atto per la defecazione, o il peso eccessivo nel caso del soggetto obeso che grava su di essi, possono a lungo andare a indebolire sensibilmente la muscolatura di questa zona. Non vanno sottovalutate nemmeno le infezioni urinarie, che possono dare origine a contrazioni involontarie della vescica e di conseguenza perdite di urina. Anche i cambiamenti a carico dell’intero organismo che sopraggiungono con il passare degli anni possono interessare la vescica e determinarne il cattivo funzionamento. È frequente inoltre che durante la menopausa, con la riduzione degli estrogeni, i muscoli del pavimento pelvico vadano incontro a una perdita di tono con conseguenti problemi più o meno gravi di incontinenza. Il prolasso genitale, definibile come un’ernia dell’apparato genitale in quanto implica il cedimento parziale o totale dei sistemi di sostegno degli organi pelvici, è spesso associato a condizioni di incontinenza urinaria. Infine, la sindrome della vescica iperattiva, caratterizzata da urgenza minzionale, ovvero il bisogno improvviso e incontrollabile di urinare dovuto a spasmi della muscolatura vescicale, è in molte donne una condizione che si associa all’incontinenza. Incontinenza da sforzo e da urgenza
L’incontinenza urinaria può essere di due tipi: da sforzo o da urgenza. Quella da sforzo è la più diffusa e si manifesta in tutte quelle situazioni in cui il soggetto incontinente compie un sforzo, anche di lieve entità come sollevare i sacchetti della spesa, ridere, tossire o starnuti-
i costi dell’incontinenza La Fondazione italiana continenza, ente senza fini di lucro impegnata a sensibilizzare e a informare l’opinione pubblica circa le tematiche dell’incontinenza, ha recentemente presentato i risultati preliminari di una ricerca sui costi dell’incontinenza, svolta dal Dipartimento di Studi Aziendali dell’Università degli Studi “Roma Tre”. Da questo lavoro è emerso che gli studi scientifici sui costi dell’incontinenza sono pochi, parziali e presentano risultati molto variabili: «Dall’analisi della letteratura internazionale, e ancor più di quella nazionale, emerge un fabbisogno sia di ricerche in campo medico, sia di ricerche in campo economico» ha dichiarato Valerio Pieri, responsabile della ricerca per il Dipartimento di Studi Aziendali dell’Università di “Roma Tre, che sottolinea come l’incontinenza non generi soltanto costi diretti (presidi assorbenti, farmaci da banco, diagnosi, terapie chirurgiche, ecc.), ma anche importanti costi indiretti (perdita di produttività lavorativa, raccolta e smaltimento dei rifiuti indifferenziati prodotti, tempo utilizzato da chi assiste le persone incontinenti, ecc.), oltre ai cosiddetti costi intangibili, rappresentati principalmente dalla sofferenza psicologica (disagio, ansia, angoscia, vergogna, ecc.) della persona incontinente. Guardando ai costi diretti e indiretti, la sola incontinenza femminile in Italia genera costi sti-
mabili in circa 3,3 miliardi di euro l’anno, di cui costi diretti per 2 miliardi di euro e indiretti per 1,3 miliardi di euro. Si può pervenire a tale stima considerando che le ricerche esistenti svolte in Italia consentono di stimare un costo medio pro-capite per le donne incontinenti di poco superiore a 900 euro l’anno. Riguardo alla partecipazione del Ssn alla copertura dei costi si aggira in media intorno alla metà dei costi diretti: la copertura è pressoché integrale per alcuni costi (interventi chirurgici), parziale per altri (fornitura di presidi assorbenti), mentre per varie voci di costo il grado di partecipazione del Ssn è irrilevante o nullo (ad esempio, per i farmaci). Per quanto riguarda le strategie per cercare di ridurre i costi dell’incontinenza Antonella Biroli, Presidente del Comitato Scientifico di Fondazione, ha dichiarato: «Un primo passo potrebbe essere rappresentato dalla riduzione dei tempi tra l’insorgere dei primi sintomi e l’avvio del percorso di diagnosi e di terapia, anche con un più fluido passaggio dal medico di base allo specialista, in secondo luogo avviare percorsi di prevenzione, soprattutto secondaria, e infine cercare di adottare terapie in grado di ridurre e di curare l’incontinenza (interventi chirurgici, fisioterapia, farmaci)».
re. È riconducibile allo stato di atrofia in cui ci trovano i muscoli che circondano l’uretra, per esempio dopo un parto naturale, o al naturale invecchiamento di tali tessuti (nel periodo postmenopausale). Il secondo tipo di incontinenza è definito da urgenza e si manifesta in età molto avanzata, anche dopo i 70 anni, o in seguito a problemi neurologici o interventi che interessano regioni corporee in prossimità della vescica. Il soggetto che soffre di incontinenza da urgenza sente un impellente bisogno di urinare anche se la vescica non è piena a causa di contrazioni incontrollabili della stessa. Esiste poi l’incontinenza mista, nella quale coesistono sintomi tipici di entrambe le tipologie di incontinenza sopra citate. dicembre 2016
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A chi rivolgersi
Il medico di famiglia gioca un ruolo primario nella diagnosi dell’incontinenza e saprà eventualmente consigliare al paziente di sottoporsi a una visita specialistica dal ginecologo o dall’urologo. Tra i medici specialisti deputati a trattare i disturbi dell’incontinenza ci sono però anche i fisiatri, che possono insegnare alle pazienti come rinforzare i muscoli del pavimento pelvico, i geriatri, nel caso di pazienti anziani, e i neurologi, che sono chiamati in causa nei casi in cui i problemi di incontinenza urinaria derivino da disturbi del sistema nervoso. Curare l’incontinenza
Il primo intervento per cercare di arginare il disturbo deve essere rivolto all’alimentazione e allo stile di vita. Se si soffre di incontinenza minima o modesta in stadio iniziale, è sufficiente mettere in pratica una serie di piccoli e semplici accorgimenti, da abbinare a esercizi di riabilitazione del pavimento pelvico, per trovare immediato beneficio: z perdere peso per dare sollievo ai muscoli del pavimento pelvico; z limitare il consumo di tè e caffè e di tutte le sostanze con effetto diuretico; z assumere liquidi in giuste quantità senza ec46
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cedere per non sollecitare oltre modo la vescica (bere circa 2 litri di acqua al giorno); z limitare il fumo di sigaretta che predispone alla tosse e aggrava il disturbo; z combattere la stitichezza con una dieta ricca di fibre; z svolgere una moderata attività fisica. Alla terapia farmacologica si ricorre in genere solo dopo aver accuratamente soppesato i pro e i contro. I farmaci anticolinergici utilizzati per la cura dell’incontinenza vanno a bloccare l’attività smasmodica della vescica, annullando le contrazioni involontarie che causano le perdita di urina, e sono spesso prescritti in associazione a una terapia a base di estrogeni per ridurre l’iperattività vescicale. Nei casi di incontinenza grave o nei pazienti in cui né la modifica dello stile di vita né la terapia farmacologia hanno avuto successo, si può valutare il ricorso alla chirurgia per trovare una soluzione definitiva all’incontinenza da sforzo. Le varie tipologie di intervento puntano a rinforzare il sostegno del pavimento pelvico, eventualmente ricollocando in sede gli organi interessati dal prolasso genitale. Infine. anche se non rappresentano ovviamente una soluzione definitiva ai problemi di incontinenza urinaria, gli assorbenti monouso sono fondamentali per il benessere fisico e psicologico delle donne che devono fare i conti con le perdite di urina e allo stesso tempo permettono di sentirsi asciutti, trattenendo l’urina e prevenendo i cattivi odori e le irritazioni cutanee dovuto al suo ristagno. L’offerta è molto ampia, sono disponibili vari modelli, dagli assorbenti sagomati indicati per le perdite minime o modeste, o la mutandina assorbente elasticizzata, dispositivo monouso che però si porta come un normale slip, a quelli più strutturati, come i pannoloni sagomati da abbinare a mutande in rete, utili in caso di incontinenza moderata o grave. Tra gli ausili non indossabili ricordiamo le traverse assorbenti, da usare su letti o poltrone, utili come protezione aggiuntiva in caso di grave incontinenza. n
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Diabete e parodontite: un legame a doppio filo Un documento congiunto di parodontologi e diabetologi pone l’attenzione sulle relazioni tra le due patologie e fornisce indicazioni pratiche. È fondamentale un approccio multidisciplinare che tenga conto dei rischi incrociati delle rispettive patologie
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a ricerca scientifica sul diabete è continuamente impegnata a definirne nel dettaglio tutti i meccanismi patogenetici, così come quella farmacologica è concentrata nell’individuazione delle terapie con maggiore efficacia e minime controindicazioni. La ricerca, inoltre, ha definitivamente chiarito i rapporti di interdipendenza esistenti tra diabete e parodontite, i quali apparivano già evidenti nella pratica clinica. Oltre alla maggiore predisposizione del paziente diabetico allo sviluppo della patologia parodontale, è risultata altresì vera la reciprocità della relazione, e cioè che la presenza della parodontite a sua volta aumenta il rischio di insorgenza del diabete. Diabete e parodontite: il documento condiviso
Nasce con l’intento di voler promuovere informazioni aggiornate relative alle correlazioni tra le due patologie, unitamente a indicazioni ri-
volte a odontoiatri e diabetologi per un corretto approccio al paziente, il recente documento congiunto elaborato da Associazione medici diabetologi (Amd), Società italiana di diabetologia (Sid) e Società italiana di parodontologia e implantologia (Sidp). L’elaborazione è a opera di un panel multidisciplinare di professionisti di alto profilo: Antonio Carrassi (professore ordinario di malattie odontostomatologiche, università di Milano), Filippo Graziani (professore associato di malattie odontostomatologiche, università di Pisa), Luca Lione (diabetologo, Asl di Savona), Livio Luzi (professore ordinario di endocrinologia, università di Milano), Anna Solini (ricercatrice universitaria presso il diparti-
di Luca Vanni
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Gli antiossidanti, alleati contro diabete e parodontite Il diabete è una patologia cronica che richiede interventi continui per prevenire o ridurre le complicanze cardiovascolari, neurologiche, oculari, renali e dentali ad essa collegate. La miglior prevenzione, secondo gli esperti, non può fare a meno di uno stile di vita sano e di una corretta igiene orale. «La letteratura scientifica – afferma Jacopo Gualtieri, odontoiatra specializzato in implantologia e rigenerazione ossea e membro della European Association for Osseointegration (Eao) – dimostra che gli antiossidanti sono degli ottimi alleati per combattere diabete e parodontite. In particolare il nostro organismo necessita quotidianamente di almeno 80-90 mg di vitamina C, quantitativo presente in un’arancia. Attenzione, infine, al fumo che, riscaldando la bocca, favo-
risce l’insorgenza di complicazioni e quindi, soprattutto nei pazienti diabetici, va sconsigliato fortemente». La parodontite in pazienti con diabete non controllato può portare al rischio di perdita dei denti. È necessario, di conseguenza, che tutti i professionisti sanitari, diabetologi, nutrizionisti, dentisti e medici di base, collaborino insieme e siano coinvolti nel trattamento dei pazienti diabetici; non solo in merito alla cura delle malattie parodontali, ma soprattutto informando ed educando i pazienti, fin da piccoli, sull’importanza di una corretta igiene orale e di una sana alimentazione, sull’attenzione al peso corporeo e sulla necessità di un’attività fisica quotidiana: tutti elementi importanti per un buon controllo glicemico. R.V.
mento di medicina clinica e sperimentale, università di Pisa), Maurizio Tonetti (odontoiatra, past president Sidp, European research group of periodontology, Genova). «A queste evidenze – spiega il consiglio di presidenza della Società italiana di parodontologia e implantologia – conseguono importanti azioni da intraprendere nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura delle due patologie croniche, al fine da un lato di ridurne incidenza, gravità ed esiti infausti, e da un altro lato di contenere la spesa sia sociale che privata legata alla comparsa delle due patologie». I meccanismi della relazione biunivoca
La correlazione esistente tra le due patologie risulta essere conclamata in base ai dati sperimentali raccolti: il soggetto che è affetto da una patologia possiede una particolare predisposizione all’insorgenza dell’altra. Il paziente diabetico ha la tendenza a sviluppare maggiormente la parodontite in seguito all’attacco dei batteri parodontopatogeni che provocano un’alterazione della flora batterica sottogengivale. 48
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L’influenza della patologia diabetica si manifesta attraverso l’alterazione quantitativa e qualitativa del profilo citochinico del paziente, con un incremento delle citochine ematiche nel fluido del colletto gengivale. La risposta immunitaria nella zona interessata appare deficitaria e la salute parodontale è in pericolo a causa dello stress cellulare, dell’alterazione della flora batterica, per la maggiore presenza di prodotti finali della glicosilazione avanzata (AGEs) e dei relativi recettori (RAGE). L’iperglicemia, poi, è strettamente correlata a un calo nella produzione del collagene dovuto a un aumento dell’attività di lisi dei legami peptidici di collagene da parte dei fibroblasti gengivali. Nei pazienti diabetici si può osservare, inoltre, una modificazione del metabolismo osseo a causa dell’accrescimento nel livello proteico di membrana RANKL: è questo innalzamento del numero di proteine la causa del riassorbimento dell’osso alveolare. Controllo glicemico a rischio a causa dell’infiammazione
Come spiega il documento, la presenza di una parodontite grave porta ad aumento pari allo 0,1% dell’emoglobina glicata HbA1c a cui consegue un peggiore controllo glicemico. L’iperglicemia, mediata dall’infiammazione sistemica elevata del soggetto affetto da parodontite, è causata da un complesso meccanismo che comprende: elevata produzione di citochine, diminuzione nella produzione del monossido d’azoto nel tessuto endoteliale e alterazione nella sintesi e nell’accumulo dei lipidi che porta ad avere più acidi grassi liberi. Nei soggetti con diabete mellito 1 e parodontite viene ad evidenziarsi una maggiore insorgenza di complicanze renali e cardiovascolari; mentre coloro i quali sono affetti da diabete 2 associato a parodontite grave mostrano un rischio di decesso per fattori cardio-renali pari a 3,5 volte superiore rispetto ai soggetti sani dal punto di vista parodontale. L’esecuzione di una corretta terapia parodontale conduce a un decremento della HbA1c dello
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0,4% con un conseguente controllo glicemico più agevole. È importante individuare per tempo la patologia diabetica, la quale può rimanere asintomatica anche per lunghi periodi: risulta quindi evidente l’importanza di attuare efficaci programmi di screening con test semplici e relativamente poco costosi quali la misurazione della glicemia a digiuno e quella dell’emoglobina glicata (HbA1c). Alterazione della glicemia a digiuno, HbA1c borderline associate a un indice di massa corporea superiore ai 25 kg/m2 rappresentano fattori di rischio primari per l’insorgenza della patologia diabetica. Il ruolo di diabetologi e odontoiatri
Anche la parodontite può restare asintomatica per lungo tempo e pertanto non essere di semplice intercettazione nelle fasi iniziali: per tali ragioni l’approccio diagnostico, da parte dell’odontoiatra, richiede un atteggiamento proattivo. Alla luce di quanto detto finora, è evidente quanto il diabetologo e l’odontoiatra debbano essere adeguatamente preparati in merito agli effetti negativi della presenza simultanea delle malattie, informando il paziente dei rischi corsi qualora non si sottoponesse alle opportune cure. Alla visita diabetologica deve necessariamente accompagnarsi un’accurata ispezione del cavo orale per investigare la presenza di campanelli d’allarme quali: sanguinamento gengivale, recessione gengivale, alitosi, gonfiore o fastidio gengivale, ipersensibilita dentinale. Nel caso in cui il paziente mostri alcuni di questi sintomi, il diabetologo deve indirizzarlo da un odontoiatra per un’approfondita visita di controllo. Ovviamente spetta anche all’odontoiatra fornire al paziente una corretta informazione per quanto riguarda il collegamento esistente tra le due patologie, soprattutto delle complicanze cardiache e renali in presenza di parodontite nel soggetto diabetico. Attraverso
la visita il professionista deve essere in grado di individuare possibili sintomi riconducibili al diabete (polidipsia, poliuria, calo ponderale ed astenia, infezioni genito-urinarie ricorrenti), indirizzando il paziente verso il proprio medico di famiglia al fine di sottoporsi a specifici accertamenti. È opportuno che l’odontoiatra sia in grado di intercettare i possibili soggetti a rischio di diabete in base a diversi fattori quali indice di massa corporea ≥ 25 kg/m2, età avanzata, inattività fisica, familiarità di primo grado per diabete tipo 2, ipertensione arteriosa e presenza di malattie cardiovascolari. In conclusione
L’iperglicemia, ribadiscono gli esperti, non rappresenta una controindicazione per i trattamenti odontoiatrici, ma è importante che il dentista operi in sinergia con il diabetologo per pianificare una terapia che tenga conto delle molteplici variabili in gioco e dei possibili rischi. Un approccio multidisciplinare rappresenta il metodo corretto da seguire per evitare la comparsa di eventuali complicanze cliniche, e per contribuire quindi al contenimento delle spese socio-sanitarie, in continua crescita, addebitabili al diabete e alla malattia parodontale. n dicembre 2016
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Osteoporosi, indicazioni diagnostiche e terapeutiche La diagnosi di osteoporosi
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Osteoporosi
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di Claudia Grisanti
Indicazioni essenziali per un iter diagnostico e terapeutico omogeneo e condiviso: è questo il contenuto di un documento elaborato da una commissione di esperti di alcune delle società scientifiche che si occupano dei pazienti con osteoporosi
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a diagnosi e la terapia dei pazienti affetti da osteoporosi presenta in Italia alcune problematiche. In alcuni casi non è del tutto corretta la diagnosi, in altri la terapia. Gli indirizzi seguiti sono spesso poco omogenei. Per superare questi problemi alcune società scientifiche hanno promosso un documento comune con indicazioni diagnostiche e terapeutiche. Hanno partecipato alla stesura del documento la Società italiana di endocrinologia (Sie), la Società italiana di gerontologia e geriatria (Sigg), la Società italiana di medicina interna (Simi), la Società italiana di medicina fisica e riabilitativa (Simfer), la Società italiana dell’osteoporosi, del metabolismo minerale e delle malattie dello scheletro (Siommms), la Società italiana di ortopedia (Siot) e la Società italiana di reumatologia (Sir). Il documento si divide in due sezioni: diagnosi e la terapia.
Rispetto alla diagnosi il documento esprime con forza la necessità di individuare i soggetti ad alto rischio di frattura. A questo proposito il documento richiama la nota Aifa 79. Lo scorso anno, infatti, l’Agenzia italiana del farmaco ha aggiornato la precedente nota del 2011. Il documento stilato dalle società scientifiche raccomanda il ricorso al trattamento con farmaci per i casi inclusi nella nota. Per i casi non inclusi, occorre valutare il rischio di frattura assoluto tramite gli algoritmi Frax o Defra, inserendo anche la valutazione densitometrica. Nei soggetti a rischio elevato di frattura bisogna anche evidenziare l’eventuale presenza di malattie causa di osteoporosi secondaria, che presentano prognosi e modalità di trattamento diverse dall’osteoporosi primitiva. Le malattie causa di osteoporosi secondaria possono essere divise in quattro gruppi. Un primo gruppo è quello delle malattie endocrine e metaboliche: iperparatiroidismo primitivo e secondario, ipogonadismo, tireotossicosi, ipercorticosurrenalismo, diabete di tipo I e II, anoressia nervosa, ipofosfatasia. Un secondo gruppo è quello delle patologie da farmaci, quali glucocorticoidi, L-tiroxina a dosi soppressive, anticoagulanti, anticonvulsivanti, inibitori dell’aromatasi, antagonisti del GnRH. Un terzo gruppo è formato dalle alterazioni nutrizionali: malassorbimento intestinale, celiachia, gastrectomia, insufficiente apporto alimentare di calcio, alcolismo, malattie infiammatorie intestinali. Il quarto gruppo è
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composto da osteogenesi imperfetta, artrite reumatoide e altre connettiviti, mieloma multiplo, Hiv e trapianti d’organo. «In particolare, è sempre necessario eseguire gli esami di laboratorio di primo livello, riservando l’esecuzione degli esami di secondo livello in presenza di specifici sospetti clinici o in caso di osteoporosi particolarmente grave in relazione all’età: Z-score < -2 alla scansione Dxa e/o fratture da fragilità con caratteristiche non comuni per numero o gravità» riporta il documento. La terapia dell’osteoporosi
La seconda parte del documento è dedicata alla terapia dell’osteoporosi. Il capitolo è suddiviso in tre sezioni: approcci non farmacologici, la supplementazione con calcio e vitamina D e i farmaci. Rispetto agli approcci non farmacologici, secondo gli esperti, l’adozione dei comportamenti corretti è importante non solo per i pazienti ad alto rischio fratturativo, ma anche nel resto della popolazione e sin dall’età infantile. Alcuni aspetti importanti sono la cessazione del fumo e la moderazione nel consumo di alcolici. Anche l’alimentazione è importante: «un’adeguata introduzione con la dieta di nutrienti essenziali (proteine, calcio, altri minerali) durante tutte le fasi della vita è indispensabile per mantenere l’osso resistente» scrivono gli esperti. Viene raccomandato anche un buon livello di attività fisica a ogni età. Così scrivono gli esperti delle società scientifiche: «l’attività fisica, che va promossa ad ogni età, negli adolescenti e nei giovani adulti include esercizi di rinforzo, esercizi in carico e di impatto, mentre negli anziani sono indicati esercizi di rinforzo e sono importanti gli esercizi per l’equilibrio che concorrono alla riduzione del rischio di caduta». Nelle persone anziane occorre ridurre il rischio di caduta sia con l’esercizio fisico sia con adattamenti ambientali, la revisione della terapia farmacologica e quanto necessario per ridurre i rischi. Riguardo al tratta-
mento della frattura vertebrale, il documento raccomanda riposo, busti o corsetti, analgesici minori e maggiori. Come dosare il calcio
Un paragrafo del documento sulla terapia è dedicato alla supplementazione con calcio e vitamina D, spesso prevista insieme alla somministrazione dei farmaci per la prevenzione delle fratture. A questo riguardo il documento ricorda i rischi potenziali dell’impiego indiscriminato di supplementi di calcio e fornisce alcune indicazioni da seguire: 1) stimare sempre l’apporto alimentare mediante breve questionario prima di qualunque prescrizione; 2) tentare sempre di garantire un apporto adeguato di calcio con la sola dieta; 3) ricorrere ai supplementi solo quando la correzione dietetica non sia sufficiente, indicandone l’assunzione ai pasti e per la dose minima necessaria a soddisfare il fabbisogno, eventualmente suddividendola in più somministrazioni per ridurre la comparsa di effetti indesiderati. Rispetto alla carenza di vitamina D, il documento ricorda che la carenza «è talmente comune in Italia nella popolazione anziana in generale e nei soggetti a rischio di frattura da fragilità che può essere considerata di regola presente, anche se non si dispone di un dosaggio plasmatico di 25 OH D». Si dovrebbe correggere la carenza con la dieta o con un’adeguata e non rischiosa esposizione alla luce solare. Se non è possibile, si deve ricorrere a supplementi di colecalciferolo. Il documento fornisce alcune indicazioni su questo punto. Infine, riguardo ai farmaci, il documento richiama ancora una volta la nota 79 dell’Aifa, che elenca i farmaci per i pazienti ad alto rischio di frattura. La divisione in fasce «non soltanto disciplina le condizioni di erogazione dei farmaci da parte del Servizio sanitario nazionale, ma rappresenta anche in termini clinici una guida molto ragionevole per l’indicazione all’uso di quello più appropriato». n dicembre 2016
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Con i social media sta cambiando la comunicazione in sanità Al Forum dell’innovazione per la salute una pioggia di dati supporta l’utilizzo dei social media per fare promozione della salute e arrivare alla gente. L’Italia è in rincorsa, sia a livello centrale con il ministero che sul territorio con le Asl Come è cambiata la sanità in questi anni? Sicuramente ci si è spostati sempre più verso la cura delle patologie croniche rispetto all’intervento in acuto, soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione ma anche a causa di azioni come prevenzione, diagnosi precoce e il meccanismo di abbassamento progressivo delle soglie di malattia. Questo ha portato sempre più a considerare malati dei soggetti che fino a ieri non lo erano e ha stimolato anche la popolazione sana a interrogarsi sulla propria salute. Un esempio? I continui ritocchi al ribasso dei valori di colesterolo considerati patologici. Ma il sistema sanitario nazionale ha vissuto anche una grande rivoluzione di filosofia, passando da un modello paternalistico a uno partecipativo in cui il paziente ha un ruolo attivo nel percorso di cura e interagisce con il medico e le strutture ospedaliere, iniziando a condividere una piccola parte di re-
sponsabilità e scelte. C’è stato poi l’ingresso prepotente della medicina basata sulle prove scientifiche, che ha cambiato il modo di prendere ogni piccola decisione clinica e sanitaria all’interno degli ospedali e non so-
È POSSIBILE VALORIZZARE LE «GOOGOLATE» DEI PAZIENTI? Scrive su Facebook Marina Chiara Garassino, oncologa all’Istituto nazionale dei tumori di Milano: «Tutti additano i pazienti che cercano su Google le loro diagnosi e i medici nella loro infinita saccenza persistono a ritenersi degli dei che salvano i pazienti e “coloro che sanno”. Bene io credo che il mondo sia cambiato, che siamo nel mondo della connessione, del public sharing, dell’informazione globale, delle open sources. Io credo che il paziente e il medico abbiano un ruolo proattivo entrambi. Compito del medico è verificare le fonti, ma non giudicare negativamente chi cer-
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ca di fare qualcosa per la propria salute. Ho nella mente un ingegnere che autonomamente (io ne ero cosciente), ha fatto fare delle analisi genetiche sul suo tumore scoprendo una mutazione rarissima (23 casi in tutto il mondo) che risponde moltissimo a un farmaco. Io non c’ero arrivata. Perché limitare l’open source dell’informazione e non collaborare tutti? Forse possiamo riscrivere un nuovo codice deontologico medico paziente dell’era 2.0. Anche il medico non può sapere tutto, ha solo più strumenti per giudicare ciò che è ciarlataneria da ciò che può essere vero».
lo. Tutto questo in un quadro di sostenibilità economica, concetto davvero poco considerato soltanto fino a poco tempo fa. Dove e come comunicare in sanità E la comunicazione? Anche lei è cambiata completamente negli ultimi dieci anni e il sistema della sanità italiana è ancora in rincorsa. A parlare chiaro sono i dati presentati al Forum dell’innovazione per la salute che si è tenuto in ottobre nelle sale del Palazzo Lombardia a Milano, un evento dedicato alla trasformazione in chiave innovativa del sistema sanitario. Più che la sanità, è la popolazione italiana a essersi digitalizzata: come mostra un’indagine Censis del settembre 2016, il 73,7% degli italiani usa Internet, 2 italiani su 3 usano Facebook, il 47% usa YouTube, gli iscritti a Instagram sono il 17% e WhatsApp è usa-
attualità
“mercato” della sanità in crescita: nel 2025 l’asia supererà europa e usa
to dal 61% degli italiani. Il 65% dei cittadini possiede uno smartphone e il 28% smanetta su un tablet. L’utilizzo dei social media da qualche anno, oltre a essere cresciuto esponenzialmente, ha anche rotto gli argini del tempo libero e non è più solo confinato al «passatempo» tra amici. «Perchè non sfruttare questi strumenti per fare comunicazione sulla salute? – si chiede Eugenio Santoro, responsabile del Laboratorio di informatica medica all’Irccs Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri” di Milano –. Anche perché – continua – la maggior parte delle persone che cerca informazioni sulla salute online oggi lo fa attraverso i social media». Esattamente come fanno con le news, visto che almeno la metà degli utenti digitali, quelli dotati di smartphone e tablet, usa i social network anche come fonte (secondaria) di notizie, magari seguendo i post di mezzi di informazione, anche autorevoli, che rilanciano i contenuti presenti sui loro siti web. Questi dati sono importanti nella misura in cui un’istituzione, un ospedale o un medico decida di rivolgersi ai cittadini per fare informazione: il mezzo che si sta affermando sempre di più è il social network (soprattutto Facebook), attraverso il quale veicolare e promuovere i contenuti di un sito web. Un disastro italiano In Europa le istituzioni sanitarie fanno già ampio uso dei social media. Secondo un report del 2016 dell’Oms, l’81% degli Stati membri dell’Ue dichiara che le proprie organizzazioni sanitarie utilizzano i social media per fare promozione della salute. Sappiamo invece, senza il bisogno di disturbare nessu-
«L’innovazione tecnologica offrirà nuove opportunità di crescita da miliardi di dollari nel settore sanitario globale entro il 2025 e l’Asia supererà l’Europa diventando il secondo mercato della sanità più grande del mondo». Lo scrive il gruppo Transformational Health di Frost & Sullivan nell’analisi “Vision 2025 - Future of Healthcare” secondo il quale è possibile prevedere che entro il 2025 l’ecosistema della sanità avrà un aspetto radicalmente diverso rispetto ad oggi. Crescendo con un tasso di crescita annuale composto (Cagr) del 5,6%, il settore sanitario globale probabilmente raggiungerà quota 2,69 trilioni di dollari di entrate entro il 2025. Le regioni del mondo e i settori che genereranno questi profitti cambieranno però in modo significativo: se attualmente l’Europa è il secondo mercato della sanità più grande del mondo, l’Asia è destinata a prendere il suo posto entro il 2025. Il Nord America dovrebbe rappresentare il più grande mercato della sanità fino al 2028 circa, quando l’Asia probabilmente guadagnerà il primo posto. La crescita della regione Asia-Pacifico nella spesa sanitaria (come percentuale del Pil) è destinata ad essere maggiore rispetto a quella di Nord America ed Europa, sostenen-
na ricerca, che purtroppo l’Italia in sanità è un disastro comunicativo: il ministero della Salute non ha una pagina Facebook ufficiale e neppure il sito web è all’altezza di un’istituzione così importante. Travolto dalla disinformazione sui vaccini – che viaggia in velocità sui social media – e incapace di contrastarla, aspramente criticato per le campagne su fertilità e antifumo, il nostro ministero è lontano anni luce dalla realtà comunicativa del Paese. Ma se a livello centrale la comunicazione digitale è così povera, cosa succede sul territorio? Alessandro Lovari, docente di strategie di comunicazione pubblica all’Università di Sassari, si è preso la briga di indagare l’uso dei social media nelle Asl italiane. Se all’estero gli ospedali sono quasi tutti presenti sui social media e ne fanno un uso continuativo (e proficuo), in Italia le Asl presenti
do la forte crescita del mercato. Sempre entro il 2025, l’America Latina è destinata a superare il Giappone diventando il quarto mercato della sanità a livello globale. L’invecchiamento della popolazione in tutto il mondo metterà alla prova i sistemi sanitari esistenti dal punto di vista finanziario e richiederà risultati migliori in ambito sanitario. Ciò provocherà uno spostamento verso cure basate sul valore e richiederà un cambiamento radicale delle politiche nazionali. Anche la crescita della consumerizzazione (il fenomeno in base al quale l’uso e lo stile delle tecnologie in ambiente lavorativo viene dettata, in sostanza, dall’evoluzione del profilo privato degli individui e dal loro utilizzo delle tecnologie personali) porterà a modelli di assistenza sanitaria incentrati sul paziente. I progressi tecnologici sbloccheranno valori e segmenti prima inaccessibili. Tra gli altri, le interfacce cervello-computer, gli avatar digitali, i dispositivi indossabili e la medicina di precisione si affermeranno come tecnologie di punta. Il settore dell’informatica sanitaria assisterà alla crescita più rapida, crescendo a un tasso fenomenale del 16,1% fino al 2025.
con canali ufficiali su almeno un social sono esattamente la metà del totale, ma per fortuna con un trend in crescita. In ogni caso la presenza non basta: servono contenuti adeguati, meglio se realizzati da professionisti della comunicazione e non da personale improvvisato. Decisiva inoltre la costruzione di contenuti «in casa», realizzati quindi su misura per il proprio target di riferimento, piuttosto che la semplice condivisione di contenuti e post altrui. Uno strumento web-based per l’appropriatezza prescrittiva e la politerapia nell’anziano Parte dell’innovazione in sanità passa attraverso l’uso del digitale e delle banche dati. Ne è un esempio il servizio InterCheck (www. intercheckweb.it), uno strumento realizzato da un team dell’Irccs Istituto di ricerche fardicembre 2016
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macologiche “Mario Negri” con l’obiettivo di migliorare l’appropriatezza prescrittiva nel paziente anziano in politerapia farmacologica, attraverso un approccio di valutazione delle terapie che tiene in considerazione diversi aspetti della farmacologia geriatrica: «la letteratura ci dice che la maggior parte delle reazioni avverse gravi ai farmaci, che portano a ospedalizzazione o a visite al pronto soccorso, si manifestano nella popolazione anziana, dai 65 anni in poi» spiega Luca Pasina, responsabile dell’Unità di farmacoterapia e appropriatezza prescrittiva dell’Irccs Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri”. E c’è una ragione ben precisa che spiega questo fenomeno: Pasina riferisce che nel paziente anziano ci sono dei cambiamenti fisiologici legati all’invecchiamento che riducono la capacità di eliminazione e metabolizzazione dei farmaci e questo li espone a un aumentato rischio di effetti collaterali. In più questi soggetti manifestano gli effetti indesiderati nella sfe58
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ra centrale, con difficoltà di concentrazione, di memoria, di attenzione. Questo perché la barriera emato-encefalica, che negli adulti protegge efficacemente il cervello dai farmaci, in questa popolazione ha maglie più larghe. Se queste problematiche sono poco controllabili, ci sono invece variabili che possono essere gestite: «la politerapia si associa a un aumentato rischio di effetti collaterali, a interazioni gravi tra i farmaci e anche a un basso livello di aderenza alle terapie» ha detto Luca Pasina, che riporta come non sia infrequente per un paziente anziano prendere una dozzina di farmaci, ognuno di essi con posologia diversa. «I dati italiani ci dicono che il 55% della popolazione anziana prende tra 5 e 9 farmaci cronicamente e il 14% ne prende oltre 10 in maniera cronica». Si sta così cercando di ridurre il peso della politerapia negli anziani e il suggerimento della letteratura scientifica a riguardo è quello di orientarsi verso un approccio paziente-
specifico, che valuti caso per caso e conduca di tanto in tanto a una revisione delle terapie farmacologiche in atto, per capire se ci sia qualche prescrizione che, con il passare del tempo, sia diventata non più neccessaria. «Ad esempio – riporta Pasina – per i gastroprotettori l’inappropriatezza prescrittiva è arrivata addirittura a percentuali tra il 50 e l’80%». Un altro aspetto da considerare in fase di nuove prescrizioni è quello di eseguire un controllo per valutare il rischio di interazioni gravi con la terapia già in atto. Ci sono poi farmaci più o meno adatti alla popolazione anziana: «la letteratura identifica dei farmaci che non si dovrebbero prescrivere oltre i 65 anni, perché hanno un profilo di rischio decisamente sfavorevole e c’è sempre un’alternativa più sicura» mette in guardia il farmacologo. Per aiutare il medico a gestire questa complessa mole di informazioni è stato ideato il servizio InterCheck Web, in grado di valutare per un singolo paziente le interazioni tra farmaci, fare una valutazione del carico anticolinergico e identificare i pazienti a maggior rischio di effetti indesiderati da farmaco grazie al GerontoNet ADR Risk Score. Il servizio inoltre riporta i farmaci potenzialmente inappropriati nell’anziano secondo i criteri delle letteratura scientifica, le modalità di sospensione dei farmaci che necessitano di una riduzione graduale delle dosi e il corretto dosaggio dei farmaci in soggetti con alterata funzionalità renale. InterCheck Web è un servizio gratuito per tutti i medici e farmacisti che ne richiedono l’utilizzo. Basta inviare una mail a intercheckweb@marionegri.it indicando il proprio nominativo, la professione svolta e il centro di appartenenza. Andrea Peren
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L’impiego delle sostanze vegetali nella cosmesi naturale e biologica La richiesta di cosmetici naturali e biologici è in crescita, ma ad oggi manca ancora una normativa specifica che indichi con chiarezza i requisiti a cui tali prodotti devono rispondere per essere immessi sul mercato Nel corso del 9° congresso nazionale dell’Associazione Italiana Dermatologia e Cosmetologia (Aideco) si è svolto il simposio “Cosmesi naturale e biologica: l’impiego delle sostanze vegetali”, realizzato con il contributo non condizionato di Johnson & Johnson, che produce e distribuisce nel mondo il marchio Aveeno, all’interno del quale i dottori Marinella Trovato, Umberto Nardi, Maria Concetta Romano e Noemi Corasaniti hanno discusso l’impiego delle sostanze vegetali nella cosmesi naturale e biologica. Ciò che è emerso dalle relazioni degli esperti è l’evidente crescita del mercato dei prodotti cosmetici naturali e biologici e una evidente necessità di maggiore legislazione in questo campo.
Il cosmetico “naturale/biologico” Il cosmetico biologico oggi rappresenta un prodotto innovativo che, pur guardando al passato e ai valori della tradizione, apre la strada a un mercato in continua espansione. Fino ad alcuni anni fa, i cosmetici più richiesti erano prevalentemente quelli con formulazione a base di sostanze chimiche, a discapito di quelli composti da sostanze naturali che rappresentavano un prodotto di nicchia scarsamente utilizzato dai consumatori. Attualmente invece si registra una sensibile crescita del mercato di questi prodotti, con un incremento costante dell’8% annuo e un valore di mercato di circa un miliardo di dollari. Il più grande mercato “green” è quello statunitense, con un valore di circa la metà dei ricavi globali. In Europa, l’Italia occupa un’ottima posizione collocandosi al terzo posto dopo Germania e Francia. Ai consumatori tradizionali oggi si aggiunge un numero crescente di giovani tra i 25 e i 30 anni, più sensibili ai temi della sana alimentazione, esercizio fisico, attenzione all’ambiente, al benessere degli animali e alla sostenibilità. Lo sviluppo di queste tendenze e la richiesta di prodotti specifici, naturali e biologici, può ricondursi anche ad alcuni fattori caratterizzanti le società del presente, come l’inquinamento atmosferico, la maggiore disponibilità di nuove piante, di ingredienti derivati da piante comuni e di provenienza locale, e di altri ingredienti come tensioattivi di origine vegetale o ricavati da fonti rinnovabili. Unitamente alla maggiore disponibilità di canali commerciali, la gamma dei prodotti naturali e biologici si è dunque allargata notevolmente
con un miglioramento della loro performance e gradevolezza. Oggi infatti si hanno a disposizione molteplici prodotti in relazione alle diverse formulazioni: per l’igiene della persona, per la cura dei capelli, per le unghie, bb cream, make up e profumi. Naturali e biologici: quali differenze? In mancanza di una definizione ufficiale nonché dei criteri per darne una dettagliata, si può dire che un cosmetico “naturale” è un prodotto il cui ingrediente principale deriva dalla natura. Esso si può dire “biologico”, invece, se l’ingrediente principale del prodotto, seppure di origine naturale, deriva da un processo di coltivazione e trasformazione di tipo biologico. La differenza risiede dunque nella provenienza dell’ingrediente principale dalla sua origine da agricoltura biologica o meno. Un prodotto cosmetico dunque può essere considerato biologico se contiene ingredienti riconosciuti come certificati da agricoltura biologica nel rispetto degli standard richiesti per la composizione e per il tenore degli stessi. Inquadramento normativo Da un punto di vista normativo si fa riferimento ai regolamenti attinenti al processo che porta alla produzione dei prodotti biologici agroalimentari, utilizzati poi come ingredienti nelle formulazioni dei cosmetici biologici. A riguardo, il Regolamento CE 834/2007 definisce il processo che porta a certificare il biologico agroalimentare e afferma che un prodotto può essere definito tale solo se certificato da organismi di controllo riconosciuti. dicembre 2016
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In generale, un cosmetico deve rispettare i requisiti di sicurezza, trasparenza e non ingannevolezza. La sicurezza di un cosmetico è basata sulla certezza degli ingredienti in relazione alle proprietà intrinseche di pericolosità. I riferimenti normativi vigenti in materia, come il Regolamento CE 1223/09, non prevedono la definizione di cosmetico “naturale” e “biologico” né definiscono criteri di valutazione di sicurezza ed efficacia. In conseguenza di questo vuoto normativo, si è fatto ricorso allo strumento delle certificazioni, che però presentano diversi limiti legati ai differenti approcci e alla scarsa trasparenza. Sarebbe perciò opportuno formulare delle norme specifiche per limitare le affermazioni non corrette e definire un codice di autodisciplina pubblicitaria. Sostanze vegetali e loro impiego in dermo-cosmetologia Nell’ambito delle sostanze di origine naturale, fin dall’antichità nel mondo della cosmesi, i prodotti dell’alveare venivano utilizzati con grande profitto in quanto elaborati vegetali validi come eccipienti e principi attivi. Essi sono prodotti che in parte rientrano nella comune alimentazione umana, come il miele, la cera, il propoli, il polline, la pappa reale e il veleno d’ape. Oltre ad essi, tra le sostanze vegetali più importanti, l’avena occupa un posto d’onore. Le sue proprietà idratanti, emollienti, lenitive, antiossidanti e antirughe sono state ampiamente dimostrate in numerosi lavori scientifici, che hanno attestato l’eccellente tollerabilità e sicurezza dei prodotti di cui è alla base, confermata anche da studi con patch test su pelle sensibile. Nel 2003 la Fda (Agenzia per gli alimenti e i medicinali) ha classificato l’avena colloidale, cioè quella derivante da farina di avena macinata senza l’utilizzo di solventi, come protettivo della pelle di sicuro utilizzo anche al di sotto dei due anni di età. 60
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Le evidenze scientifiche comprovano infatti che idratanti a base di avena colloidale sono in grado di fornire rapido sollievo a pazienti dai due mesi di età in su, con pelle molto secca e dermatite atopica riducendo il prurito e la squamosità. Ciò consente anche la diminuzione dell’utilizzo di corticosteroidi topici nelle dermatiti croniche e un miglioramento della qualità di vita del paziente. Composizione dei cosmetici I cosmetici rappresentano una categoria di prodotti di grande dimensione, di largo consumo e diffusione in relazione alla funzione per la quale essi sono declinati, che può essere igienica, normalizzante, estetica. La produzione e la commercializzazione di tali prodotti deve rispettare regole specifiche per la esplicitazione dei componenti, dell’efficacia e della tollerabilità. Nella loro composizione, i cosmetici sono costituiti prevalentemente da acqua per il 90% con requisiti chimico-fisici di purezza microbiologica. Tra le materie prime però possono esserci altri componenti come: tensioattivi, emul-
sionanti, solubilizzanti, lipidi, additivi reologici, umettanti, antiossidanti, sequestranti, conservanti. In relazione alla combinazione dei componenti, si ottengono le varie formulazioni: emulsioni, gel, miscele, soluzioni, spray, patch. Tra le certezze nei componenti esplicitati ci sono sicuramente i principi attivi contenuti, l’efficacia funzionale e l’essere o meno dermatologicamente testati, ma le lacune che aspettano di essere colmate sono ancora tante: la lettura dell’Inci (International Nomenclature of Cosmetic), l’efficacia sulla lunga distanza e la valutazione del veicolo. Sicurezza ed efficacia del cosmetico naturale Secondo l’art. 3 del Regolamento CE 1223/2009 i prodotti cosmetici devono essere per loro stessa natura sicuri nell’uso. Questo significa che, se applicati in condizioni normali o ragionevolmente prevedibili, tenuto conto della presentazione del prodotto, dell’etichettatura, delle eventuali istruzioni d’uso, dell’eliminazione e delle indicazioni specifiche, essi non devono causare danni alla salute umana.
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La diffusa sensazione che il cosmetico naturale sia più sicuro ed efficace contiene in sé un errore di valutazione legato al pregiudizio per cui le sostanze di origine naturale, poiché tali, non siano connesse a rischi per la salute. In realtà, qualsiasi contatto con sostanze estranee, farmacologicamente attive può comportare il rischio di reazioni avverse indipendentemente dall’origine sintetica o naturale dei principi attivi utilizzati. Un prodotto cosmetico può considerarsi effettivamente sicuro solo dopo comprovata dimostrazione della tollerabilità degli ingredienti impiegati, alla luce del loro profilo tossicologico. È dunque necessario sottoporre il prodotto a un controllo di qualità durante il quale le materie prime devono essere controllate per ricercare eventuali possibili fattori inquinanti, pesticidi, diserbanti, semilavorati e prodotti finiti. Generalmente tale controllo viene poi dichiara-
to in etichetta poiché fattore importante nella valutazione complessiva del prodotto. Il principale test di tollerabilità è il Patch Test, che può essere effettuato attraverso un’applicazione singola, per rilevare una stima dell’irritazione cutanea acuta, oppure tramite un’applicazione ripetuta, per valutare una stima dell’irritazione cutanea cumulativa. Tale test, detto anche “predittivo”, non è però sufficiente per determinare il potenziale di irritazione di un ingrediente o di un prodotto. Per esserlo si dovrebbe affiancare ad esso un altro test, come ad esempio l’Open Test e il Test d’Uso, al fine di fornire una valutazione oggettiva e garantire la sicurezza anche nel lungo termine. L’efficacia di un prodotto deve essere valutata in considerazione dei suoi effetti generici attribuibili, per i quali è sufficiente la documentazione bibliografica, e in relazione agli effetti specifici che, invece, richiedono la dimostra-
zione attraverso studi clinici che ne misurino a livello strumentale le caratteristiche biofisiche della cute. A riguardo, il Regolamento CE 1223/2009 disciplina le dichiarazioni relative al prodotto riportate in etichetta o nella pubblicità, che devono riferirsi esclusivamente alle caratteristiche e funzioni realmente possedute dal prodotto nel rispetto di un criterio di veridicità. Assolti tutti gli obblighi di sicurezza, il cosmetico naturale diventa la scelta del futuro per un cosmetico ideale che sia attento all’uomo, all’ambiente e alla natura. Sono, infatti, sempre più numerose le aziende dermo-cosmetiche che rivolgono parte della loro attività di studio e investimenti all’ambito del naturale e del biologico ecosostenibile rispondendo alle esigenze di un consumatore sempre più attento al “green” e più refrattario al sintetico. Lucia Oggianu
Pharmexpo: edizione 2016 si è chiusa con bilancio positivo La nona edizione di Pharmexpo, manifestazione che mette in contatto tra loro farmacisti, medici e operatori con le aziende del settore, non tradisce le attese e conferma le ottimistiche previsioni iniziali, registrando un incremento del 10% di visitatori. La manifestazione si riafferma come il punto di riferimento per l’intero settore e occasione di confronto per dialogare con colleghi e fornitori e aggiornarsi professionalmente. Una performance che si affianca a quella relativa al numero di espositori, arrivato a quota 220, cresciuto anch’esso del 10% e che ha visto la presenza di tante aziende nuove che hanno contribuito ad allargare gli orizzonti
della manifestazione. Punto forte dell’edizione 2016 di Pharmexpo, che si è svolta presso la Mostra d’Oltremare a Napoli, sono state le sessioni dedicate ai corsi di aggiornamento che hanno
registrato la presenza di farmacisti provenienti da tutta Italia. Numerosi vincitori di concorso hanno scelto Pharmexpo per i primi contatti necessari all’apertura delle nuove farmacie. L’Università, l’Ordine dei Farmacisti e Federfarma hanno contribuito a guidare i farmacisti tra le numerose novità normative e scientifiche presentate in fiera. Il prossimo appuntamento è fissato dal 24 al 26 novembre 2017 per la decima edizione di Pharmexpo, per la quale si comincia a lavorare sin da oggi, forti del consenso garantito dai 15.000 visitatori di questa affollatissima edizione. dicembre 2016
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Real Bodies: la mostra sull’anatomia con un messaggio di prevenzione Una grande enciclopedia dal vivo del corpo umano che espone corpi in varie posizioni della vita quotidiana o durante l’azione sportiva e mostra i cambiamenti a cui vanno incontro gli organi colpiti da gravi malattie Dopo i 220.000 visitatori a Lisbona, in Portogallo, ha aperto a Milano la mostra internazionale di corpi umani trattati con la tecnica della plastinazione “Real Bodies, scopri il corpo umano”. La mostra (www.realbodies. it) è allestita presso lo Spazio Ventura 15 di Lambrate (Milano) e sarà visitabile fino al 31 gennaio 2017. Ma Real Bodies non è solo una mostra, è anche un evento scientifico e culturale che porta nelle città più grandi del mondo il tema della salute e della longevità, informando sui danni derivati dalle cattive abitudini alimentari e scorretti stili di vita.
Un’occasione formativa per tutti «Real Bodies analizza scientificamente la morte per istruire sull’importanza e sul grande valore della vita – ha spiegato Alessandro Cecchi Paone, testimonial della mostra e voce narrante delle audioguide –. Sarà un’occasione formativa per tutti ma soprattutto per le scuole di ogni ordine e grado perché rappresenta il sistema più adatto per capire come funziona la macchina del corpo umano, come si fa a tenerla sana puntando soprattutto sulla prevenzione delle malattie e sul rispetto della sua fisiologia». «Si tratta della più grande mostra in tour dedicata all’anatomia e allo studio della dinamica corporea durante lo sforzo atletico, oltre che alle più dannose patologie della nostra epoca. Un’esposizione con oltre 40 corpi interi, corredati da oltre 300 organi» spiegano da Venice Exhibition, società organizzatrice della manifestazione itinerante per la cui realizzazione sono serviti i corpi di 165 persone che spontaneamente e con lucida generosità, prima del decesso, hanno voluto donare i loro resti mortali alla scienza per scopi scientifici e didattici. I corpi dopo il decesso vengono trattati con il procedimento della polimerizzazione, che porta alla completa sostituzione dei fluidi corporei con dei polimeri bloccando per sempre la decomposizione della salma. Focus su prevenzione e corretti stili di vita Per l’edizione di Milano il tema è “La salute e come allungare la vita” e sono presen-
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tati, accanto agli organi sani, organi e corpi devastati dalle dipendenze, come il fumo, l’alcolismo e le cattive abitudini alimentari. «Sappiamo tutti che uno stile di vita errato danneggia il corpo, ma il richiamo alla consapevolezza di Real Bodies è molto più d’impatto perché mette di fronte agli occhi del visitatore, anche molto giovane, organi danneggiati come il polmone annerito di un fumatore incallito deceduto per cancro ai polmoni (di fianco è stato anche posizionato un cestino per disfarsi all’istante del pacchetto di sigarette, ndr), oppure un fegato ingrossato dalla cirrosi» commentano gli organizzatori. Nella sezione dedicata allo sport, invece, sono esposti i corpi impegnati in gesti sportivi, per scoprire come lavorano sottopelle le contrazioni antagoniste dei muscoli sfruttando la tensione dei tendini nella corsa dei 100 metri e capire le differenze funzionali fra uno sport e l’altro. Davvero suggestiva poi la sezione dedicata ai vasi sanguigni, con arti e un corpo umano intero fatto solo di arterie, vene e capillari. Una sezione della mostra riguarda lo sviluppo dello scheletro di un feto a partire dalla dodicesima settimana e un’ampia sala espone corpi con sezione coronale e sagittale. I numerosi ingressi nei primi due fine settimana di apertura della mostra, con lunghe attese all’ingresso, suggeriscono una visita durante i giorni feriali o quantomeno di sfruttare i servizi di prevendita dei biglietti, con la prenotazione dell’ingresso gestita da Ticketone. Andrea Peren
le aziende informano
GUNA ENZYFORMULA PER L’ARMONIA DEI PROCESSI DIGESTIVI
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una Enzyformula è un integratore alimentare a rilascio differenziato gastroresistente, costituito da un’associazione di enzimi digestivi, vitamina PP ed estratti vegetali specifici per favorire la funzionalità del sistema digerente e del fegato. Gli enzimi digestivi so-
no secreti normalmente nel primo tratto del tubo digerente, dove presiedono ai processi di digestione e assimilazione dei nutrienti. In situazioni legate a eccessi o a stress alimentari, età avanzata o stili di vita sregolati si può verificare una diminuzione della secrezione enzimatica con conseguente disregolazione dei processi digestivi e della fisiologica funzione epatica, pancreatica e renale. Enzyformula, grazie all’associazione di componenti attivi specifici e all’innovativa tecnologia a rilascio differenziato gastroresistente, è utile per favorire la fisio-
logica digestione del lattosio, degli zuccheri complessi, delle fibre vegetali, dei grassi e delle proteine, la cui alterata digestione è responsabile dell’insorgenza di numerosi disturbi gastro-intestinali, tra i quali difficoltà digestiva e senso di pesantezza, meteorismo, sonnolenza, gonfiore addominale. Le compresse a “rilascio differenziato” sono costituite da uno strato più esterno a rilascio rapido, per un pronto e specifico supporto enzimatico e fitoterapico nel l’area gastro-duodenale, e da uno strato interno a rilascio più ritardato, che avviene a livello dell’intestino tenue, per favorire la massima atti-
vità protettiva e antiossidante dei componenti vegetali. Enzyformula è disponibile in compresse deglutibili senza glutine. Bibliografia Biondani C, Coppola L, Corbellini M. Valutazione degli effetti dell’integratore alimentare EnzyFormula. Studio clinico osservazionale pubblicato su Advanced Therapies Terapie d’Avanguardia, anno III, n. 4, 2014. Guna Tel. 02 280181 info@guna.it www.guna.it
Monodermà E5XL un concentrato di vitamina E pura
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iuliani presenta Monodermà E5XL, un prodotto dermocosmetico altamente lenitivo e idratante grazie alla vitamina E pura, di origine vegetale alla concentrazione del 5%. La cute, a causa di un’eccessiva produzione di radicali liberi è sottoposta a diversi tipi di stress ossidativi per cause sia esogene che endogene. La vitamina E rappresenta un fattore nutritivo essenziale e indispensabile per le funzioni del-
la pelle; pura di origine vegetale, migliora l’attività dei sistemi antiossidanti locali contrastando i danni provocati dall’azione dei radicali liberi, svolgendo un’efficace azione idratante e lenitiva, alleviando il prurito, proteggendo inoltre dai danni del foto-invecchiamento (eccessiva esposizione al sole e lampade UV). Monodermà E5XL si presenta senza profumo e conservanti ed è utile nel trattamento di xero-
si, dermatosi con e senza prurito, foto e crono-aging. Per una corretta applicazione occorre utilizzare la quantità necessaria di prodotto sulla zona del corpo da trattare precedentemente detersa e asciugata. Dopo l’applicazione si possono utilizzare anche altri prodotti topici. Giuliani Tel. 02 20541 info@giulianipharma.com www.giulianipharma.com dicembre 2016
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le aziende informano
LIPOSCUDIL PLUS, L’INTEGRATORE CHE CONTRIBUISCE AL CONTROLLO DEL COLESTEROLO NEL SANGUE
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iposcudil Plus è un integratore alimentare caratterizzato dalla presenza di quantità di riso rosso fermentato (di cui 10 mg di monacolina K) che contribuiscono al mantenimento di livelli normali di colesterolo nel sangue. Inoltre nella formula di Liposcudil Plus è stato inserito il Coenzima Q10 (30 mg) al fine di integrarne l’eventuale deplezione dovuta all’inibizione della sua sintesi. L’integrazione del Coenzima Q10 può essere utile nella mioprotezione e favorisce la bioenergetica cellulare.
I componenti di Liposcudil Plus, il riso rosso fermentato da Monascus Purpureus e il Coenzima Q10, per mezzo di un’innovativa tecnica farmaceutica, sono stati adsorbiti in un sistema autoemulsionante che ne favorisce l’emulsionamento con i sali biliari. Pertanto tali prin-
cipi presentano il vantaggio di essere più solubili e quindi maggiormente biodisponibili. Con l’impiego di questa tecnica si assicura un’ottimale efficacia del riso rosso fermentato nonché una migliore biodisponibilità del Coenzima Q10. Liposcudil Plus è utile per favori-
re il controllo dei livelli ematici di colesterolo nell’ambito di una dieta globalmente adeguata. L’effetto benefico si ottiene con l’assunzione di una capsula al giorno da deglutire con un po’ d’acqua, preferibilmente dopo il pasto serale. La confezione contiene 30 capsule per un mese di trattamento. Per l’uso del prodotto si consiglia di sentire il parere del medico. Piam Farmaceutici Tel. 010 518621 info@piamfarmaceutici.com www.piamfarmaceutici.com
sanstime, l’UNICO SIERO AL MONDO CHE RICOSTRUISCE L’ACIDO Jaluronico nel derma per via transdermica
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l siero SansTime (brevetto n. 2072032), a differenza di diversi prodotti anti-age in commercio, non contiene acido jaluronico, bensì i suoi precursori: acido glucuronico e N-acetyl glucosa-
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mina. Sono queste le due molecole che introdotte nel derma con un liposoma diventeranno, attraverso l’azione della jaluron sintetasi, acido jaluronico. Si tratta di acido jaluronico vero, quello naturale, poiché prodotto fisiologicamente attraverso un processo biochimico. L’acido jaluronico che si viene a formare dopo 20-25 giorni avrà raggiunto un peso molecolare di circa 500.000/600.000 dalton, sufficiente per produrre quell’idratazione profonda essenziale per la distensione delle rughe di superficie e già
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dalla prima settimana di utilizzo si noteranno importanti benefici sulle zone trattate. SansTime non è formulato come un cosmetico tradizionale, poiché è essenzialmente un veicolo transdermico che serve a introdurre nei fibroblasti del derma le due sostanze che formeranno l’acido jaluronico. Questo siero viene assorbito velocemente senza lasciare tracce di unto o grasso in superficie, lascia la pelle liscia e compatta. Si presenta senza conservanti, coloranti e profumo; non contiene sostanze di natura animale e non è sta-
to testato su animali. SansTime si applica, secondo le necessità, sulle zone interessate del viso e del collo; si consiglia di massaggiare delicatamente fino ad assorbimento completo. Per le sue particolari caratteristiche formulative, si raccomanda di usare il siero da solo e prevalentemente di notte, poiché durante il riposo si ha una risposta più efficace. Medichem Tel. 02 92590281 www.medcos.it commerciale@medcos.it
le aziende informano
BIOREPAIR PLUS PARODONTGEL PROTEGGE LE GENGIVE DALLE INFIAMMAZIONI
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denti sono sottoposti quotidianamente a processi di usura meccanica (spazzolino) e chimica (cibi acidi) che provocano minuscole e impercettibili scalfitture in cui possono accumularsi placca, batteri e pigmenti che, nel lungo termine, possono determinare carie, deterioramento, perdita di luminosità e l’insorgere di sensibilità e problemi gengivali. Biorepair Plus Parodontgel è un dispositivo medico ripara smalto ad alta concentrazione di microRepair (200mg/g) che protegge ogni giorno le gengive dalle infiammazioni. Grazie al
principio attivo brevettato microRepair, microparticelle attive in grado di occludere i tubi dentinali e impedire agli stimoli termici di raggiungere il nervo del dente, Biorepair Plus Parodontgel è in grado di riparare lo smalto danneggiato. La sua formulazione, arricchita con acido ialuronico, lattoferrina e zinco PCA, favorisce la cicatrizzazione dei tessuti, idratando e proteggendo la mucosa orale e contrastando la proliferazione batterica. Biorepair Plus Parodontgel si utilizza come un comune dentifricio. Può essere anche usato ad uso topico, aiutandosi con
un dito, lasciandolo in posa per 30 secondi sulla dentina prima di risciacquare. Adatto anche dai bambini al di sotto dei 6 anni che lo possono usare senza la supervisione di un adulto in quanto non contiene fluoro. Biorepair Plus Parodontgel è sen-
za Sodium Lauryl Sulfate, senza parabeni e senza fluoro. Euritalia Pharma Division of Coswell S.p.A. Tel. 051 6649115 info@euritaliapharma.it www.euritaliapharma.it
Sérum Perfecteur De Peau per un viso più giovane e luminoso
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l Sérum Perfecteur de Peau di Resultime è un siero multi-azione perfezionatore della pelle che apporta immediatamente una dose consistente di vitamina C innestata, una forma fino a 20 volte più attiva della molecola naturale, in grado quindi di penetrare più in profondità garantendo un’efficacia maggiore. Il Sérum Perfecteur de Peau liscia, corregge i pori, uniforma l’incarnato, attenua macchie e rossori. Gli speciali liposomi contenuti nella formulazione affinano delicatamente la grana della pelle. Un peptide di nuova generazione amplifica
gli effetti anti-età della vitamina C donando al viso un nuovo splendore e un aspetto sano, disteso e luminoso. I risultati sono visibili sin dalle prime applicazioni infatti l’87% delle utilizzatrici nota una pelle più liscia e vellutata già dopo 48 ore. Il 70% constata un miglioramento globale dell’aspetto del viso e il 68% una riduzione dei pori dilatati. Il Sérum Perfecteur de Peau di Resultime è ideale per un uso quotidiano, in particolare durante la stagione invernale è perfetto per proteggere la pelle dall’inquinamento e dalle basse temperature, mentre d’estate, utilizzato sotto
una protezione solare, aiuta a prevenire l’invecchiamento cutaneo. Grazie alla texture leggera e delicata è ideale per tutti i tipi di pelle e per tutte le età. Utilizzato mattina e/o sera su viso e collo prima della crema abituale dona un aspetto nuovo e più giovane alla pelle. Il Sérum Perfecteur de Peau di Resultime è distribuito da Laboratoire Nuxe Italia nelle migliori farmacie e parafarmacie.
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Laboratoire Nuxe Italia Tel. 0171 390195 info@resultime.it www.resultimeparis.com Professione Salute
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le aziende informano
Linea alla cera di magnolia Klorane: più brillantezza per i capelli spenti
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aggi UV, trattamenti chimici, utilizzo di phon e spazzola mettono a dura prova la naturale brillantezza dei capelli, rovinandone la cuticola e aprendone le scaglie. I capelli quindi non riflettono più come prima la luce e risultano anche indeboliti. La riposta di Klorane per i capelli spenti è la linea alla cera di magnolia. La cera estratta dalle foglie della magnolia (Magnolia Grandiflora L.) agisce sulla cuticola del capello, creando una barriera vegetale sulla sua superficie. La cera di magnolia svolge tre
azioni fondamentali sui capelli: riempie e appiana le fessure presenti tra le scaglie, riflettendo la luce in modo perfetto; idrata e mantiene l’elasticità del capello, limitando la perdita d’acqua; infine ristruttura e protegge dalle aggressioni esterne. La linea è composta dallo Shampoo alla cera di magnolia, dal colore madreperlato e con una profumazione delicata e una texture ricca, lascia i capelli setosi, morbidi e leggeri. Il Balsamo alla cera di magnolia è un vero gesto di bellezza per i capelli spenti che hanno
bisogno di ritrovare la loro naturale luminosità. Adatto a tutti i tipi di capelli, grazie alla sua formula leggera e alla texture non grassa si fonde immediatamente con il capello, idratandolo e districandolo. Completa la linea l’Eau de brillance alla cera di magnolia, composta al 95% da ingredienti di origine naturale, un gesto quotidiano per sublimare e donare brillantezza immediata ai capelli, che ritrovano così anche la loro morbidezza e setosità. La formula senza silicone e la texture “secca” la rendono adeguata per tutti i tipi di capelli.
Pierre Fabre Italia Tel. 02 477941 www.klorane.it info@pierre-fabre.com
Sargenor, integratore con arginina contro l’affaticamento fisico e mentale
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gni giorno siamo sottoposti a un ritmo di vita frenetico, dettato da impegni da mantenere e scadenze da rispettare. Questo grava inevitabilmente sul nostro fisico e sulla nostra mente; quando accumuliamo troppa stanchezza, ci sentiamo inevitabilmente stressati, spossati, con una ridotta capacità di attenzione e concentrazione. Spesso, una situazione di stress psico-fisico si accompagna a un generale stato di astenia (la sensazione di 66
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non essere in grado di compiere uno sforzo). Il riposo, una corretta alimentazione e un’adeguata attività sportiva sono misure in-
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dispensabili per fronteggiare la situazione; qualora questo non fosse sufficiente, o per accelerare i tempi di ripresa, può essere opportuno ricorrere a un’adeguata integrazione alimentare. Sargenor è l’integratore alimentare di Meda Pharma con arginina indicato negli stati di ridotto apporto di arginina o di aumentato fabbisogno, utile ne-
gli stati di affaticamento fisico e mentale. Sargenor è un prodotto senza glutine. Per gli adulti e i bambini in età scolare si consiglia l’assunzione di tre fiale per uso orale nelle 24 ore, preferibilmente prima dei pasti, diluita in mezzo bicchiere d’acqua.
Meda Pharma Tel. 039 73901 www.medapharma.it