Professione Salute 4/2018

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FARMACIA DEI SERVIZI La risposta migliore per affrontare la sfida legata alla gestione del paziente cronico

NUTRIZIONE Le etichette nutrizionali, uno strumento per comunicare la “serving size” raccomandata

malANNI di stagione Con il freddo, le farmacie sono in prima linea contro raffreddore e tosse. Ecco i consigli utili da dare

IGIENE ORALE All’origine dell’alitosi non c’è solo una scarsa igiene. Il ruolo del farmacista nell’oral care

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disturbi neuropsichiatrici L’Aifa raccomanda maggiore attenzione nella prescrizione di psicofarmaci in età pediatrica

Corso accreditato ECM Modulo 4 Diagnosi di allergie alimentari: quali novità?

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editoriale Marcella Valverde

Sfide e nuovi orizzonti “rosa” Mancano pochi mesi alla fine dell’anno ed è il momento di iniziare a tirare le somme su quanto è stato intrapreso finora in campo medico-scientifico e non solo. Dalla ricerca, infatti, giungono notizie di nuove scoperte entusiasmanti che, di certo, porteranno alla futura messa a punto di terapie sempre più mirate e individuali. Di contro, i dati emersi durante il 17mo Rapporto sulla Sperimentazione clinica dei medicinali, pubblicato dall’Aifa, rivelano che negli ultimi dieci anni le sperimentazioni cliniche in Italia sono crollate quasi del 40% e il trend non accenna a cambiare. Aumentano, invece, gli studi sulle malattie rare, che rappresentano oramai un quarto del totale, mentre il maggior numero di trial viene condotto in ambito oncologico. Questa diminuzione, che ha coinvolto anche il resto d’Europa, potrebbe essere dovuta, da un lato a una contrazione delle sperimentazioni globali o europee che includono anche il nostro Paese, dall’altro all’incertezza sulla data di applicazione del nuovo regolamento europeo sulle sperimentazioni cliniche che entrerà in vigore l’anno prossimo. Bisogna però considerare che sono proprio gli studi a portare i farmaci dal laboratorio fino alle farmacie e ai pazienti e che, oggi più che mai, si devono mettere a punto nuove soluzioni che tengano conto delle polimorbidità e del generale invecchiamento della popolazione. In quest’ottica, ci sarebbero molti spunti di riflessione da fare. Tra i tanti, uno riguarda un aumento degli studi che tengono in considerazione la differenza di genere: solo per fare un esempio, l’efficacia dell’immunoterapia oncologica cambia a seconda del sesso. Questo dato viene avvalorato anche dal fatto che il prolungamento della sopravvivenza degli uomini che la ricevono sia quasi il doppio rispetto alle donne. A rivelarlo è una meta-analisi di 20 studi clinici randomizzati, condotta dallo Ieo, che ha stabilito quanto la risposta immunitaria venga influenzata proprio dal sesso. Infatti, le donne hanno mediamente una risposta più forte degli uomini nei confronti di numerosi agenti patogeni: ciò spiega il perché siano meno esposte alle infezioni, oltre a essere più reattive alle vaccinazioni. D’altro canto, sono più soggette alle malattie autoimmuni: è lecito pensare, allora, che le differenze che esistono nel sistema immunitario femminile e maschile siano fondamentali nel corso delle malattie infiammatorie croniche, tra cui il cancro, e che ne determinino la conseguente risposta ai farmaci. Finora il genere femminile è stato sottostimato in tutti gli studi clinici ed è ovvio che non abbia espresso una corretta potenza statistica nel dimostrare una correlazione tra sesso ed efficacia del trattamento. Inoltre, se le differenze non vengono considerate, si “sprecano” cartucce che non vanno a segno come dovrebbero e che, potenzialmente, potrebbero anche creare un danno. Ben vengano, perciò, nuovi approcci terapeutici che tengano finalmente conto delle diversità di genere: auspichiamo quindi che, a breve, anche nel mondo della farmacia possano giungere prodotti personalizzati o studiati con il bollino “rosa” o “azzurro”.

Nell’ultimo decennio

sono purtroppo calate

le sperimentazioni cliniche dei medicinali. La buona notizia, però, è che

a considerare la differenza di genere nelle terapie

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finalmente si sta iniziando

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Salute e benessere calano le temperature, arrivano gli starnuti

Pediatria il punto su efficacia e sicurezza degli psicofarmaci in pediatria

Editoriale Ne parliamo con “farmacia dei servizi”, la giusta risposta per la gestione della cronicità. e non solo Intervista a Marco Cossolo di Renato Torlaschi

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Corso ECM a distanza Modulo 4 Diagnosi di allergie alimentari: quali novità? A cura di Daniele Giovanni Ghiglioni

di Marcella Valverde

32 Igiene orale alitosi: all’origine non ci sono solo cause orali

di Carla Carnovale

39 Farmacologia antibiotici: cresce la resistenza

di Luca Vanni

di Renato Torlaschi

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Neuroscienze sedentarietà e rischio di atrofia cerebrale di Renato Torlaschi

Neonatologia l’intelligenza artificiale a favore dei prematuri di Marcella Valverde

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Attualità

Nutrizione etichette nutrizionali: strumento valido per comunicare la “serving size”?

48 Le aziende informano

di Maria Vittoria Conti

Professione Salute Bimestrale di counseling e formazione alla prevenzione Direttore responsabile Giuseppe Roccucci Board Scientifico Hellas Cena (Direttore) Donatella Ballardini Silvia Brazzo Mario Calzavara Mariano Casali Rachele De Giuseppe Massimo Labate Luca Marin Mara Oliveri Marco Rufolo Coordinamento editoriale Rachele Villa r.villa@griffineditore.it Marcella Valverde marcella.valverde@tiscali.it Redazione Andrea Peren a.peren@griffineditore.it Lara Romanelli l.romanelli@griffineditore.it

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Grafica Grafic House, Milano Hanno collaborato in questo numero Carla Carnovale, Maria Vittoria Conti, Daniele Giovanni Ghiglioni, Renato Torlaschi, Luca Vanni Vendite Stefania Bianchi s.bianchi@griffineditore.it Paola Cappelletti p.cappelletti@griffineditore.it Lucia Oggianu l.oggianu@griffineditore.it Ufficio Abbonamenti Maria Camillo customerservice@griffineditore.it Tel. 031.789085 - Fax 031.6853110 Stampa Alpha Print srl Via Bellini, 24 - 21052 Busto Arsizio (VA)

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Editore Griffin srl unipersonale Piazza Castello 5/E - 22060 Carimate (CO) Tel. 031.789085 - Fax 031.6853110 www.griffineditore.it Professione Salute. Periodico bimestrale Anno IX - n. 4 - ottobre 2018 Registrazione del Tribunale di Como n. 4 del 14.04.2010 ISSN 2531-8748 Iscrizione Registro degli operatori di comunicazione n. 14370 del 31.07.2006 Tutti gli articoli pubblicati su Professione Salute sono redatti sotto la responsabilità degli Autori. La proprietà letteraria degli articoli appartiene a Griffin. Il contenuto del giornale non può essere riprodotto o traferito, neppure parzialmente, in alcuna forma e su qulalsiasi supporto, salvo espressa autorizzazione scritta dell’Editore. Ai sensi della legge in vigore, i dati dei lettori saranno trattati sia manualmente sia con strumenti informatici e utilizzati per l’invio di questa e altre pubblicazioni o materiale informativo e promozionale. Le modalità di trattamento saranno conformi a quanto previsto dalla legge. I dati potranno essere comunicati a soggetti con i quali Griffin intrattiene rapporti contrattuali necessari per l’invio della rivista. Il titolare del trattamento dei dati è Griffin, al quale il lettore si potrà rivolgere per chiedere l’aggiornamento, l’integrazione, la cancellazione e ogni altra operazione prevista per legge. In base alle norme sulla pubblicità l’editore non è tenuto al controllo dei messaggi ospitati negli spazi a pagamento. Gli inserzionisti rispondono in proprio per quanto contenuto nei testi.

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ne parliamo con

“farmacia dei servizi”, la giusta risposta per la gestione della cronicità. E non solo Con l’avvento dei medicinali biotecnologici, le farmacie hanno subito una progressiva perdita nell’ambito della spesa convenzionata. Ora, grazie alla Legge di Bilancio del 2017, si aprono prospettive di grande interesse anche sotto il profilo del prestigio professionale e del valore sociale dei farmacisti

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Intervista di Renato Torlaschi

a gestione della cronicità rappresenta una delle principali sfide che il nostro Servizio sanitario nazionale deve affrontare. Che ruolo gioca la farmacia in questa partita? Lo abbiamo chiesto al presidente di Federfarma, Marco Cossolo. Proprio su questo tema, il Centro Studi Federfarma ha commissionato una ricerca, intitolata “Il ruolo della farmacia nel piano nazionale e nei piani regionali sulla cronicità”, a un autorevole gruppo di lavoro coordinato dall’ex direttore dell’Agenzia italiana del farmaco, Nello Martini. Dottor Cossolo, com’è nata e in cosa consiste la ricerca sulle cronicità commissionata da Federfarma? La ricerca parte da lontano, dal passaggio per il farmaco dal modello “chimico” a quello “biotecnologico”, avvenuto nel 1982 con il lancio della prima insulina, la Dna ricombinante. Si trattò di una vera rivoluzione che segnò la transizione da farmaci ad alta prevalenza epidemiologica e a basso costo, a medicinali con bassa prevalenza e altissimo costo e, come tali, riservati agli specialisti e da veicolare in distribuzione diretta. Di conseguenza, la spesa convenzionata, che negli

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anni 2000 rappresentava l’81,8% della spesa territoriale complessiva, nel 2010 è scesa al 60%, mentre quella ospedaliera è passata dal 18,2% al 40%. Una forbice che è destinata ad accentuarsi, con progressiva perdita per la farmacia della spesa convenzionata e, per il farmacista, del prestigio professionale e del valore sociale. In questo contesto la farmacia può riscattarsi ricoprendo un nuovo ruolo nell’ambito dei piani sulla cronicità, sia nazionale sia regionale, diventando componente essenziale e integrata del team multidisciplinare (medici di medicina generale, specialisti, infermieri), che attua la presa in carico dei pazienti con patologie croniche e multimorbidità. È un’opportunità da non perdere, considerando che stiamo vivendo in una fase di cambiamento strutturale della governance sanitaria: l’obiettivo, infatti, è quello di trasferire dall’ospedale al territorio la gestione della cronicità, evitando così accessi inutili al Pronto soccorso e ricoveri ospedalieri inappropriati. Attraverso quali strumenti le farmacie possono essere coinvolte nelle attività di educazione sanitaria e nella prevenzione primaria e secondaria? Il Piano nazionale cronicità contempla protocolli condivisi con i Medici di medicina generale e con gli specialisti, così come prevedono i Pdta (Percorsi diagnostico terapeutici assistenziali) dei modelli regionali più strutturati - Lombardia, Toscana e Veneto - analizzati dalla ricerca commissionata dal

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intervista a marco cossolo

Centro Studi Federfarma. A livello normativo, un’evoluzione della farmacia verso la gestione del paziente cronico si delinea già nei decreti ministeriali che, a partire dal 2010, hanno attivato la “Farmacia dei servizi”. Un modello che – finora sperimentato sul territorio a macchia di leopardo – ora può realizzarsi in maniera più compiuta grazie alla Legge di Bilancio del 2017, in cui viene previsto il finanziamento con 36 milioni di euro della sperimentazione per la remunerazione a carico del Ssn della Farmacia dei servizi. Da qui può partire la concreta opportunità di definire e implementare la rete delle farmacie territoriali nel riassetto delle cure primarie e nei piani regionali sulla cronicità? Sì. Al riguardo gli esperti interpellati dal Centro Studi offrono l’esempio concreto di cinque patologie croniche: diabete, fibrillazione atriale, osteoporosi, dislipidemie e ipertensione. Sono tutti casi in cui l’aderenza al trattamento da parte del paziente risulta scarsa e nei quali, quindi, maggiori possono essere i benefici di una sua presa in carico da parte della farmacia. Basti pensare alla riduzione delle ricadute e delle recidive, con indubbio miglioramento dello stato di salute dei pazienti, così come alla riduzione degli accessi ai Pronto soccorso e dei ricoveri ospedalieri, con impatto rilevante sulla sostenibilità economica del sistema sanitario. Ma ci sono anche altri vantaggi quali, per esempio, una migliore farmacovigilanza grazie al monitoraggio delle reazioni avverse e delle interazioni tra farmaci. Con la presa in carico del paziente cronico da parte delle farmacie si possono realizzare quindi anche risparmi a livello economico? Le analisi di farmacoeconomia, condotte sulle cinque patologie prese in considerazione nello studio, dimostrano che la gestione dei pazienti cronici da parte della farmacia può determinare un risparmio complessivo di ol-

tre 3,7 miliardi di euro, pari al 22,6% della spesa farmaceutica territoriale, che è di 16,5 miliardi di euro. Così si aprono nuove prospettive per il ruolo della farmacia che, oltre a essere garante dell’assistenza farmaceutica capillare e di prossimità, produce salute e sostenibilità economica del Sistema sanitario nazionale e regionale. Ovviamente parliamo di una farmacia-azienda capace di offrire un sistema logistico efficiente, professionale e capillare sia nell’ambito della distribuzione convenzionata, sia nella distribuzione per conto (Dpc). Questo tipo di farmacia, infatti, è capace di garantire l’eliminazione degli sprechi e il monitoraggio delle prescrizioni, attività quest’ultima che ha permesso, fin dal 2000, la creazione dell’Osservatorio nazionale sull’impiego dei medicinali (Osmed), sui cui dati si basano le decisioni di politica e la governance farmaceutica dell’Aifa.

[ La farmacia deve cambiare per assumere un ruolo

Come deve cambiare la farmacia per ricoprire un ruolo socialmente insostituibile anche nella Pharmaceutical care? L’auspicio della categoria è di promuovere un “Piano straordinario”, ma nel contempo organico e continuativo, che consenta di riclassificare la professionalità del farmacista sul piano delle conoscenze e della formazione professionale. In pratica, si tratta di un aggiornamento continuo sui Piani nazionali e regionali della cronicità; sui Pdta e sul nuovo sistema di garanzia dei Lea; sui criteri e sulle modalità dell’aderenza al trattamento nei singoli pazienti; sulle singole patologie croniche e sulla multimorbidità; sui farmaci innovativi e sulle categorie terapeutiche relative alle patologie croniche. Quanto serve, insomma, per poter svolgere i nuovi ruoli che la Pharmaceutical Care richiede alla “Farmacia dei servizi”, senza ovviamente rinunciare al bagaglio culturale e alla professionalità tradizionale del farmacista. Questo permetterà alla farmacia di affrontare il futuro con la consapevolezza di vedere confermato il suo indispensabile ruolo.

socialmente insostituibile sia nella presa in carico del paziente cronico, sia nella promozione di un Piano straordinario che metta in luce la professionalità del farmacista e la sua importanza in molti ambiti, tra cui l’aderenza al trattamento dei singoli pazienti

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Corso ECM 2018 Modalità di Formazione a Distanza (FAD) riservato agli abbonati paganti

Allergie e intolleranze alimentari Responsabile scientifico Prof.ssa Hellas Cena Medico Chirurgo, Specialista in Scienza dell’Alimentazione, Università degli Studi di Pavia

Descrizione del corso Negli ultimi decenni si è assistito a un incremento della prevalenza di malattie allergiche, in contrasto con la riduzione delle malattie infettive. Professione Salute, in collaborazione con il Laboratorio di Dietetica e Nutrizione Clinica dell’Università degli Studi di Pavia, tratta il tema “Allergie e intolleranze alimentari” proponendo aggiornamenti scientifici e indicazioni pratiche in merito a un fenomeno di grande attualità.

Struttura n MODULO 1. Intolleranza al lattosio: dalla definizione clinica all’intervento nutrizionale (Mara Oliveri, Valentina Leccioli) L’intolleranza al lattosio è una condizione causata dal deficit dell’enzima lattasi. Nei soggetti deficitari è essenziale un’alimentazione priva di lattosio per evitare la sintomatologia derivante dall’incompleta digestione. n

MODULO 2. Linee guida per la gestione della sensibilità al nichel (Marco Guarene, Francesca Sottotetti)

Il nichel rappresenta una delle cause della dermatite da contatto ed essendo presente in molti alimenti, nonché in diversi utensili da cucina, una modalità di esposizione è quella alimentare. Evidenze scientifiche dimostrano il beneficio derivato da un intervento dietoterapico, pianificando un adeguato livello di assunzione. n

MODULO 3. Celiachia e gluten sensitivity: diagnosi e gestione (Carmen Facchinetti)

La varietà dei disturbi legati all’ingestione di glutine è molto ampia e complessa: la gluten sensitivity è una condizione in cui l’ingestione di glutine provoca una sintomatologia sovrapponibile a quella relativa alla celiachia, differenziandosi da essa in quanto non vengono riscontrate alterazioni anatomiche intestinali e risposta autoimmune da parte dell’organismo. n

MODULO 4. Diagnosi di allergie alimentari: quali novità? (Daniele Giovanni Ghiglioni)

Ogni manifestazione indesiderata e imprevista conseguente all’assunzione di un alimento si traduce in quadri clinici estremamente diversi: l’iter diagnostico deve seguire percorsi scientificamente validati e definiti, riducendo al minimo il rischio per il paziente. n

MODULO 5. I probiotici nella prevenzione delle allergie (Debora Porri)

Negli ultimi anni sempre più studi hanno associato l’alterazione, meglio definita come “disbiosi”, del microbiota intestinale con la sensibilizzazione alle patologie allergiche, ipotizzando l’uso dei probiotici come azione preventiva ed efficace.

Obiettivi Il presente corso si prefigge di raggiungere i seguenti obiettivi: n alimentare in modo continuo le conoscenze delle figure professionali che lavorano in ambito sanitario; i contenuti forniti potranno essere trasferiti alla pratica clinica, con ripercussioni in termini di miglioramento della gestione clinica di singoli pazienti e di gruppi; n contribuire al mantenimento e rafforzamento del network comunicativo con le varie figure professionali in un percorso verso l’implementazione e lo sviluppo delle loro competenze individuali in ambito preventivo e terapeutico, che potrà avere importanti ripercussioni a cascata sulla popolazione affetta da allergie e intolleranze alimentari.

Modalità di somministrazione del corso e accreditamento ECM In ogni numero di Professione Salute a partire dal n. 1/2018 e per tutto il 2018 (gennaio-dicembre) sarà pubblicato un modulo composto da un articolo e da un questionario di valutazione. Tutti i moduli pubblicati sulla Rivista saranno disponibili online su sito www.fadmedica.it, dove sarà possibile, modulo per modulo, rispondere ai questionari di valutazione. L’erogazione dei crediti ECM avverrà al superamento di tutti i questionari. Tutti gli iscritti al corso riceveranno le informazioni necessarie per l’accesso online e la compilazione dei questionari.

Per informazioni: tel. 031.789085 e-mail: customerservice@griffineditore.it

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CORSO ecm A DISTANZA / MODULO 4

Diagnosi di allergie alimentari: quali novità? A cura di Daniele Giovanni Ghiglioni Specialista in Pediatria e Neonatologia Specialista in Allergologia e Immunologia UOSD Pediatria - Alta intensità di cura Ambulatorio di Allergologia Pediatrica Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano

Allergia: i “termini” del problema L’evoluzione delle conoscenze in campo allergologico ha generato nel tempo la modificazione del significato attribuito alla terminologia utilizzata per definire vecchie e nuove manifestazioni cliniche anche in campo alimentare. È pertanto fondamentale innanzitutto intendersi sui termini che utilizziamo. Un vocabolo usato abitualmente in aller10

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gologia, e soprattutto in allergologia alimentare, è “atopia”. Arthur Coca e Robert Cooke nel 1923 coniarono il termine “atopico” per distinguere una dermatite che, a differenza delle altre forme di eczema, non si presenta nella sede cutanea di contatto con una specifica sostanza scatenante, ma che non ha localizzazione precisa (= atopico: ἀτοπικός). Oggi per atopico si intende l’aumentata e persistente produzione di IgE verso i comuni allergeni, con una correlazione tra cellule B produttrici di IgE e i relativi livelli in circolo, significativamente più elevati di quelli dei non atopici. Atopia è, pertanto, una tendenza familiare o personale o a produrre IgE in risposta a dosi minime di allergeni, solitamente proteine, a sviluppare sintomi tipici quali, asma, rinocongiuntivite, eczema (1). Il termine va uti-

lizzato comunque con prudenza in quanto ancora oggi per molti medici atopia indica qualsiasi reazione IgE-mediata (quindi anche le reazioni appropriate e proporzionate); d’altra parte, soprattutto i pediatri, per atopia intendono una predisposizione genetica a una produzione abnorme di IgE (2). Il termine “allergia”, proposto da Clemens von Pirquet nel 1906, deriva dal greco (ἄλλος, ἔrgon) e indicava una “reazione modificata” del sistema immune, che oggi viene attribuita a una reazione di ipersensibilità determinata da meccanismi immunologici, o abnorme ipersensibilità immunitaria specifica verso sostanze eterologhe, innocue per la maggior parte degli individui (1,3). Le reazioni avverse ad alimenti comprendono tutte le reazioni indotte dall’assun-

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allergie e intolleranze alimentari

zione degli alimenti, sia quelle legate a una vera e propria allergia, ovvero una reazione immunitaria, che può essere IgE o non IgE mediata oppure mista, sia quelle legate a un’intolleranza alimentare (o ipersensibilità non allergica), dovute a caratteristiche peculiari del singolo paziente (ad esempio deficit enzimatici). Pertanto ne derivano le seguenti definizioni. Allergia alimentare: è una reazione avversa a un alimento, mediata da un meccanismo immunologico, che coinvolge meccanismi specifici IgE (IgE-mediati), meccanismi cellulo-mediati (non IgE-mediati) o entrambi IgE- e cellulo-mediati (mediata da IgE e non IgE misti). Sensibilizzazione allergica: presenza di IgE specifiche per un allergene. Allergene: qualsiasi sostanza, generalmente una proteina, che stimoli la produzione di immunoglobuline IgE o una risposta immunitaria cellulare. Intolleranza alimentare (o ipersensibilità non allergica): è una reazione all’ingestione di un alimento non causata da un meccanismo immunitario, ma da meccanismo che può essere enzimatico, farmacologico o indefinito. Allergia alimentare: i “numeri” del fenomeno Più di 50 milioni di americani hanno un’allergia di qualche tipo. Si stima che le allergie alimentari negli Usa incidano per il 4-6% tra i bambini e per il 4% in età adulta, secondo i Centers for Disease Control and Prevention. Nella popolazione generale l’allergia alimentare è collocabile all’1,5-2%. La prevalenza dell’allergia alimentare è sicuramente più elevata nei primi anni di vita: è tra il 2 e il 3% nei primi 2 anni, mentre tende a diminuire con l’età. È pur sempre vero che la percezione di ipersensibilità ad alimenti è superiore della prevalenza di sensibilizzazione atopica ai maggiori allergeni

alimentari e ancor di più dell’ipersensibilità ad alimenti valutata oggettivamente (4): tra allergia percepita e reale spesso il rapporto è oltre 10 a 1. Tuttavia, se negli ultimi anni l’asma allergica sembra aver raggiunto il plateau, dal 2006 riguardo all’allergia alimentare, soprattutto in studi australiani, si ipotizza che l’allergia alimentare non avrebbe ancora toccato il suo livello massimo di diffusione nelle società occidentali e che potrebbe raggiungere nei lattanti fino al 10% della popolazione generale. Per ora in Italia non si hanno segni analoghi a quanto suddetto, comunque i numeri stimati di bambini allergici sono i seguenti: nel nostro Paese sarebbero circa 200-300.000 i bambini allergici sotto i 18 anni, 34-50.000 in Lombardia, 2.000-3.000 a Milano. I sintomi e i segni di allergia alimentare Qualsiasi alimento può causare una reazione avversa, ma otto di essi determinano circa il 90% di tutte le reazioni: uovo, latte, arachide, noce, pesce, molluschi (e crostacei), grano, soia. Alcuni semi, tra cui sesamo e senape sono considerati importanti allergeni in alcuni paesi. Tra questi

alimenti sembra aumentare negli ultimi anni soprattutto l’allergia all’uovo: poiché è più facile nascere che diventare allergici all’uovo, l’attenzione sui meccanismi causali è ora concentrata nelle età prenatali. La sintomatologia clinica di un’allergia alimentare è estremamente variabile, dalla forma più lieve fino a reazioni che mettono in pericolo di vita (anafilassi). Le modalità di presentazione iniziale di una reazione allergica alimentare non rispecchiano necessariamente eventuali successive manifestazioni, anche per lo stesso alimento: pertanto un alimento che ha provocato solo sintomi lievi, in un’altra circostanza può causare sintomi più gravi successivamente, richiedendo pertanto un’attenta valutazione clinica sulle modalità di reinserimento nella dieta di allergeni precedentemente esclusi. I sintomi di una reazione allergica possono coinvolgere: > cute (orticaria, pallore, cianosi, dermatite atopica); > tratto gastrointestinale (dolori addominali, nausea, vomito, diarrea, scarso accrescimento nel bambino); > apparato respiratorio (tumefazione della

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lingua, sensazione di prurito, vellichio in gola, sensazione di costrizione alla gola e/o al torace, voce rauca, tosse secca persistente, dispnea, mancanza di respiro, respiro sibilante, asma); > sistema cardiovascolare (pallore, cianosi, polso debole, tachicardia, vertigine, sensazione di svenimento fino allo shock o collasso cardiocircolatorio). Quando sono coinvolti 2 o più distretti corporei si verifica la reazione più grave dell’allergia alimentare, cioè l’anafilassi, una reazione potenzialmente pericolosa per la vita, che può compromettere la respirazione e degenerare fino allo stato di shock anafilattico. La maggior parte dei sintomi nell’allergia alimentare si verificano entro due ore dall’ingestione, spesso iniziano in pochi minuti. In alcuni casi, molto rari, la reazione può essere ritardata da quattro a sei ore o anche oltre tale periodo. Le reazioni ritardate sono più comuni nei bambini che sviluppano eczema come sintomo di allergia alimentare e in persone con una rara allergia alla carne rossa (galattosio-alpha 1,3 galattosio: alpha-gal) causata dal morso di una zecca (Amblyomma americanum negli Usa, Ixodes ricinus in Europa) (5,6,7,8). Un altro tipo di reazione allergica relativamente ritardata è la sindrome enterocolitica indotta da proteine alimentari (FPIES), una grave reazione gastrointestinale che si verifica generalmente da due a sei ore dopo aver consumato latte, soia, grano, riso, uova e altri cereali e alimenti solidi (9). Si verifica soprattutto nei bambini più piccoli che vengono esposti a questi alimenti per la prima volta o nel periodo dello svezzamento. La sindrome enterocolitica indotta da proteine alimentari spesso comporta vomito incoercibile e può portare alla disidratazione. In alcuni casi, i bambini sviluppano una diarrea muco-ematica. Poiché i sintomi sono simili a quelli di una malattia virale o di un’infezione batterica (a volte la FPIES 12

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viene diagnosticata come sepsi), la diagnosi di FPIES può essere ritardata. La FPIES è un’emergenza medica che dovrebbe essere trattata con la reidratazione per via parenterale. Esiste anche una forma insidiosa cronica di FPIES, che nel bambino comporta scarso o arresto dell’accrescimento ponderale, malnutrizione per malassorbimento, anemia, diarrea cronica: l’assenza di test allergici positivi per alimenti, come nella forma acuta, rende particolarmente difficile l’inquadramento diagnostico con possibili ritardi nella diagnosi. D’altra parte non tutti coloro che manifestano sintomi dopo aver mangiato un alimento sono affetti da allergia alimentare o devono evitare quell’alimento assolutamente; per esempio in caso di sindrome orale allergica (prurito alla bocca e alla gola dopo aver mangiato frutta o verdura cruda o cotta) interessa il sistema immunitario, che riconosce allergeni inalanti simili alle proteine alimentari e determina una risposta allergica ad esso. L’allergene viene spesso denaturato riscaldando l’alimento, che può quindi essere consumato senza problemi. Per tali allergeni è importante il ruolo diagnostico dell’allergia molecolare.

Iter diagnostico Un’anamnesi accurata è il presupposto fondamentale per una corretta diagnosi di allergia alimentare. Risulta quindi essenziale: > raccogliere informazioni di carattere generale ovvero la familiarità per allergie, le manifestazioni cutanee e/o generali eventualmente correlate, le caratteristiche dell’alvo e le curve di crescita staturoponderale se si tratta di un bambino; > ricercare le correlazioni tra i sintomi manifestati dal paziente e l’assunzione dell’alimento in causa, rilevandone la quantità e le caratteristiche dell’alimento ingerito (crudo/cotto), il tempo di latenza tra assunzione e manifestazioni cliniche e l’eventuale presenza di altri fattori scatenanti, quali, ad esempio, l’esercizio fisico o eventi avvenuti recentemente in ambienti particolari (morsi di zecche, ecc.). Tuttavia, soprattutto in caso di reazioni ritardate, di manifestazioni cliniche croniche o sostenute da alimenti assunti regolarmente, esiste un’alta probabilità che l’anamnesi, per quanto dettagliata, possa portare da un lato a sovrastimare l’allergia alimentare, dall’altro alla mancata o scorretta identificazione dell’alimento coinvolto (10).

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allergie e intolleranze alimentari

Paziente con sospetta allergia alimentare >

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Reazione grave

Anamnesi compatibile con reazione immediata o tardiva

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Dieta oligoantigenica

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Challenge orale per alimento

> eventuale terapia antistaminica in atto; > inattività dell’estratto; > errata tecnica di esecuzione del prick test; > presenza di anergia cutanea. La negatività dei prick test non esclude la possibilità di reazioni allergiche non IgEmediate: se l’anamnesi è fortemente suggestiva di allergia alimentare, in presenza di prick test negativo per l’alimento sospetto (FPIES) è necessario eseguire una dieta diagnostica di esclusione ed eventuale test di scatenamento. Al contrario, poiché il valore predittivo positivo dei prick test è basso (variabile e circa del 50%), la positività dei pomfi va interpretata come espressione di una sensibilizzazione verso l’allergene testato, non necessariamente in grado di determinare manifestazioni cliniche; di conseguenza non va eliminato dalla dieta un alimento in assenza di una storia clinica realmente correlabile con l’assunzione di quell’alimento. Risultati falsi positivi possono inoltre essere attribuiti a: > sensibilizzazioni asintomatiche (in caso di costituzione atopica); > persistente cutipositività nonostante

l’acquisizione di tolleranza; > cross-reattività di laboratorio senza valenza clinica. In caso di reazioni allergiche di tipo ritardato o non IgE mediate (FPIES) può essere utilizzato nella pratica clinica l’atopy patch test (APT) (12,13,14). I patch test con gli alimenti (soprattutto latte vaccino, uovo e cereali) sono indicati nei casi di sospetta allergia alimentare, ma sono utilizzati anche in caso di aeroallergeni, soprattutto nei pazienti con lesioni eczematose severe e/o persistenti senza fattori scatenanti noti o in caso si riscontrino bassi livelli di IgE specifiche o IgE positive verso diversi allergeni privi di rilevanza clinica. La specificità dei patch test è inferiore a quella dei prick test per latte, uovo, grano e segale, mentre la sensibilità è maggiore, soprattutto per quanto riguarda i cereali, verso cui i patch test individuano una sensibilizzazione più precocemente dei prick test. Anche per i patch test la scarsa standardizzazione dei prodotti del commercio condiziona l’utilizzo di alimenti freschi. I patch test possono essere utilizzati anche per la diagnosi della sindrome orale-allergica a vegetali, per evitare l’alterazione delle

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Dieta di eliminazione mirata per alimento sospetto

>

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Challenge orale Tempi, dosi in rapporto alla gravità della reazione allergica

IgE specifiche/Prick test + – Allergeni alimentari Allergeni sospettati alimentari non specifici specifici

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IgE specifiche/Prick test – + Challenge Dieta di eliminazione orale mirata

>

Presidi diagnostici: prick test, IgE specifiche, patch test, challenge Gli skin prick test (SPT) (11) sono fondamentali ancora oggi nell’iter diagnostico dell’allergia alimentare: possono essere effettuati in qualsiasi età, sono sicuri (sono rarissime le reazioni anafilattiche documentate in letteratura), permettono di rilevare contemporaneamente un elevato numero di allergeni, sono rapidi e di costo contenuto. D’altro lato, gli aspetti negativi degli SPT sono rappresentati dalla scarsa standardizzazione degli allergeni a causa della possibile diversa concentrazione, potenza e stabilità dei diversi estratti, che possono influenzare le dimensioni dei pomfi e da altre variabili dipendenti dal paziente, tra cui l’età (il diametro dei pomfi varia con l’età e tende ad aumentare con la crescita), la reattività cutanea al momento dell’esame, la sede di cute utilizzata per eseguire i test (avambracci o dorso). Inoltre, soprattutto in allergia alimentare è possibile il rischio di deterioramento di alcuni preparati allergenici, che può compromettere l’attendibilità del test: in tal caso è necessario effettuare il Prick by Prick con alimenti freschi, una metodica che consente di saggiare tutti gli alimenti, compresi quelli per cui non sono disponibili in commercio i relativi estratti, anche in diverse condizioni di preparazione (crudi o cotti). Il valore predittivo negativo dei test cutanei, correttamente eseguiti, è molto alto e superiore al 95%. Risultati falsi negativi in caso di allergia IgE-mediata possono dipendere da: > selezione errata degli allergeni testati;

algoritmo per la diagnosi di allergia alimentare (3)

>

Come emerge dall’algoritmo riportato in questa pagina, i test epicutanei (prick test, in alcune circostanze anche i patch test), i test ematochimici generali (IgE totali, IgE specifiche), la dieta di eliminazione e il challenge alimentare rappresentano ancora oggi i cardini della diagnosi di allergia alimentare.

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proteine allergeniche termolabili (profiline) negli estratti commerciali, e per la diagnosi di allergie alimentari con manifestazioni gastrointestinali (15), come esofagite eosinofila (16,17), la sindrome enterocolitica indotta da proteine alimentari (FPIES) (18), nelle quali è però essenziale il ricorso all’endoscopia digestiva e alla biopsia. I patch test non dovrebbero essere effettuati su cute sottoposta a trattamenti topici, né con antinfiammatori (19), né con immunomodulatori, come il tacrolimus e il pimecrolimus (20), che possono avere un effetto simile. Attualmente sono pochi i lavori disponibili sull’effetto degli antistaminici, ma si consiglia la sospensione anche di questi farmaci almeno 72 ore prima dell’esecuzione dei patch test. Il minore spessore cutaneo del bambino più piccolo sembra condizionare una risposta cutanea agli APT più spiccata per maggiore penetrazione degli allergeni a contatto con le cellule di Langerhans, rispetto a bambini più grandi e agli adulti. L’uso dell’APT è limitato più che dalle possibili sensibilizzazioni successive all’esecuzione del test, dalle reazioni orticarioidi localizzate, persistenza di infiltrazione ed eritema per diverse settimane, prurito, estensione di una dermatite preesistente (21), rinocongiuntivite (22), asma bronchiale e reazioni sistemiche di lieve entità. Inoltre 14

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manca ancora un’adeguata dimostrazione che la preparazione degli APT non sia irritante o tossica né in soggetti sani di controllo né in soggetti con dermatite atopica. L’APT è positivo solo quando sono presenti papule e vescicole (da 2+ a 4+) della classificazione di lettura della Revised European Task Force on Atopic Dermatitis (23,24). Anche i test di laboratorio sono largamente utilizzati nella pratica clinica: il dosaggio delle IgE totali e specifiche (25) è indicato soprattutto in pazienti che presentano eczema atopico diffuso, dermografismo, assunzione di farmaci che interferiscono con le prove cutanee, rischio di gravi reazioni anafilattiche e nei casi di negatività dei prick test, ma anamnesi clinica positiva per atopia. I livelli di IgE specifiche verso un determi-

nato alimento correlano positivamente con il rischio di sviluppare manifestazioni allergiche clinicamente evidenti; tuttavia, le IgE specifiche, da sole, non sono in grado di predire con sicurezza la presenza di allergia alimentare: fino ad ora sono stati ottenuti risultati contrastanti, soprattutto a causa di variabili quali il tipo di alimento, l’età del paziente e la severità del quadro clinico. Nel processo diagnostico fin qui illustrato, dopo anamnesi, test cutanei, e dosaggio delle IgE specifiche, la diagnosi di certezza di allergia alimentare richiede una dieta diagnostica di esclusione seguita dal test di provocazione orale. La dieta di eliminazione ha generalmente una durata di 2-4 settimane, a seconda della corretta identificazione dell’allergene in causa e della sua completa esclusione. Se durante tale periodo la sintomatologia regredisce o scompare completamente, si può procedere con il test di scatenamento, da effettuarsi in ambiente protetto (tab. 1). L’esecuzione del test di scatenamento con l’alimento resta, nel percorso diagnostico suddetto, un esame imprescindibile per la diagnosi di certezza di allergia alimentare, ma rappresenta anche lo strumento indispensabile per valutare la modificazione dell’allergia alimentare nel tempo e l’evoluzione verso la tolleranza, che generalmente viene raggiunta, per alcuni alimenti, quali latte e uovo, prima della scomparsa

Tabella 1 allergia alimentare: dieta di eliminazione diagnostica 1. Dieta di eliminazione di specifici alimenti 2. Dieta di eliminazione estensiva (dieta oligoallergenica) 3. Dieta elementare 4. Protrarre la dieta per 15 giorni 5. Se non si è ottenuto il miglioramento atteso o si passa a una dieta più ristretta o si considera un diverso orientamento diagnostico 6. Se si è ottenuto un miglioramento della sintomatologia (80%) si procede al challenge alimentare

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Tabella 2 allergia alimentare - diagnosi: challengE Challenge alimentare In aperto

Medico e paziente conoscono l’alimento che viene testato > È facile da eseguire > Se la risposta è negativa sono superflui altri test > Sono possibili risposte falsamente positive

In singolo cieco Solo il medico conosce l’alimento che viene testato Né il medico né il paziente conoscono l’alimento che viene testato > I vari cereali possono essere impiegati come farine > Legumi e frutta a guscio possono essere frantumati semplicemente con un mortaio In doppio cieco > Latte e uovo in polvere sono facilmente reperibili. Altri alimenti possono essere liofilizzati > Pesci e crostacei, per mascherarne l’odore, possono essere congelati

della sensibilizzazione cutanea. Inoltre, in caso di allergia non IgE mediata, il test di scatenamento resta l’unico presidio efficace per valutare l’evoluzione verso la tolleranza dell’alimento in esame (tab. 2). Criteri generali per l’effettuazione del challenge Quando: stabile remissione dei sintomi (80%) Dose iniziale: dose subclinica Incrementi: dose subclinica Intervallo: 5-60 minuti Dose massima: dose usuale o sintomi Precauzioni al challenge > Controllo clinico accurato, in particolare delle eventuali lesioni cutanee e dell’apparato respiratorio con schedatura dei sintomi. > Disponibilità di equipaggiamento per il trattamento delle reazioni allergiche. > Reperimento preventivo di un accesso venoso. > Allertato rianimatore, prontamente disponibile all’intervento.

Allergia alimentare e ruolo della diagnosi molecolare: gli Ag molecolari o Component Resolved Diagnosis (CRD) Gli studi in campo allergologico degli ultimi anni sono stati a dir poco rivoluzionari e hanno consentito di individuare all’interno degli allergeni generali di ogni singolo alimento, la presenza di diversi tipi di epitopi allergenici, che possono essere correlati con le diverse manifestazioni allergiche proprie di ogni singolo alimento. Le tecniche di biologia molecolare hanno identificato, sequenziato e clonato numerose molecole, oggi disponibili per la diagnostica di laboratorio. Tramite risonanza magnetica e cristallografia a raggi X per molte di esse è stata definita anche la struttura tridimensionale. La lista delle molecole è aggiornata costantemente nella Official list of allergens dell’International Union of Immunological Societies Allergen Nomenclature sub-committee della World Health Organization (http://www.allergen.org). La diretta correlazione di ciascuno di questi epitopi con le manifestazioni cliniche non è ancora stata perfettamente e universalmente

individuata, anche perché, ognuno di essi può esprimere la propria azione diversamente in base al contesto nel quale si trova nell’alimento, alle modifiche che subisce con i diversi trattamenti dell’alimento stesso e alle modalità con le quali viene in contatto con il soggetto allergico e alla reattività del soggetto stesso. Nelle Raccomandazioni per l’utilizzo della diagnostica molecolare in allergologia stilate nel 2016 gli autori riassumono i punti principali così (26). > Molti allergeni presentano un’elevata complessità antigenica. > Un estratto allergenico è costituito da una miscela di proteine di cui solo una parte sono allergizzanti. > Ogni individuo risponde a un allergene sulla base delle proprie caratteristiche genetiche, pertanto un epitopo in grado di sensibilizzare un certo paziente potrebbe non avere lo stesso potere nei confronti di un altro. > Esistono numerosi allergeni cross-reattivi variamente distribuiti tra piante e animali che presentano diversi gradi di omologia strutturale tra di loro. > Si ritiene che si possa avere una crossreattività (fenomeno in cui lo stesso anticorpo può riconoscere due allergeni differenti) se ci si trova di fronte a un’omologia aminoacidica superiore ad almeno il 3540% e se almeno un frammento minimo di sei aminoacidi è presente sulla struttura primaria di due differenti allergeni. > Tra i diversi epitopi è possibile distinguere quelli costituiti da sequenze lineari di aminoacidi, da quelli costituiti da determinanti conformazionali, in cui gli aminoacidi presenti su differenti punti della sequenza aminoacidica, in seguito al ripiegamento della proteina, possono ritrovarsi vicini a costituire una nuova struttura con caratteristiche tali da poter essere riconosciuta come antigene da un anticorpo. Le IgE tendono a riconoscere essenzialmente epitopi di tipo conformazionale e questo spiega perché,

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Tabella 3 molecole allergeniche dei principali alimenti Alimento

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Epitopi principali (componente specifica maggiore)

Epitopi minori (componente specifica minore)

Anacardo (pistacchio)

Ana o 1 (vicilina) Ana o 2 (legumina) Ana o 3 (2s-albumina)

Arachide

Ara h 1 (vicilina)* Ara h 2 (2S-albumina) Ara h 3 (legumina) Ara h 9 (nsLTP)*

Ara h 6 (2S-albumina) Ara h 7 (2S-albumina) Ara h 10 (oleosina) Ara h 11 (olesosina) Ara h 12, Ara h 13, Ara h 14, Ara h 15, Ara h 16, Ara h 17

Gamberetto

Pen a 1 (tropomiosina) Pen m 1 (tropomiosina)

Pen m 2 (arginin-kinasi) Pen m 3 (cat. leg. miosina) Pen m 4 (CBP sarcopl.)

Grano

Tri a 14 (nsLTP) Tri a 19 (ω-5 gliadina)

Tri a 18 (aglut./isolect.) Tri a 20 (γ-gliadina) Tri a 25 (tioredoxina) Tri a 26 e 36 (glutenine) Tri a 37 (α-purotionina) Tri a 40 (inib. Α-amilasi) Tri a 41, 42, 43, 44, 45 gliadina

Latte

Bos d 4 (α-lattoalbumina) Bos d 5 (β-lattoglobulina) Bos d 8 (caseine)

Bos d 2 (lipocalina) Bos d 3 (S100 CBP) Bos d 6 (sieroalbumina) Bos d 7 (Immunogobuline) Bos d Lattoferrina

Nocciola

Cor a 14 (2S-albumina) Cor a 8 (nsLTP) Cor a 9 (legumina)

Cor a 6, Cor a 10, Cor a 11(vicilina), Cor a 12 (oleosina), Cor a 13 (oleosina)

Noce

Jug r 1 (2S-albumina) Jug r 2 (vicilina) Jug r 3 (nsLTP)

Jug r 4 (legumina)

Noce brasiliana

Ber e 1(2S-albumina)

Ber e 2 (cupina)

Pesca

Pru p 3 (nsLTP)

Pru p 7 (pemacleina)

Sesamo

Ses i 1 (2S-albumina) Ses i 3 (vicilina) Ses i 4 (oleosina) Ses i 5 (oleosina) Ses i 6 (legumina)

Ses i 2 (2S-albumina) Ses i 7 (legumina)

Soja

Gly m 5 (vicilina) Gly m 6 (legumina)

Gly m 7, Gly m 8 (2S-albumina)

Uovo

Gal d 1 (ovomucoide) Gal d 2 (ovoalbumina) Gal d 3 (ovotranferrina)

Gal d 4 (lisozima) Gal d 5 (livetina) Gal d 6 (YGP42) Gal d 7 (catena leggera miosina)

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Epitopi cross-reattivi

Ara h 8 (PR-10) Ara h 5 (profilina)

Tri a 12 (profilina)

Cor a 1 (PR-10) Cor a 2 (profilina)

Pru p 1 (PR-10) Pru p 4 (profilina)

Gly m 4 (PR-10) Gy m 3 (profilina)

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nell’ambito delle allergie alimentari, solo le componenti molecolari che sono resistenti alla denaturazione (cottura e/o digestione) e che pertanto mantengono inalterata o quasi la loro struttura secondaria e terziaria, e quindi gli epitopi rilevanti, possono causare allergie spesso gravi e sistemiche nei pazienti sensibilizzati. > Esistono notevoli differenze nei pattern di sensibilizzazione molecolare tra le differenti aree geografiche per cui un risultato di positività con test estrattivo può sottendere a positività diverse con diverso significato clinico (27,28). > La disponibilità di allergeni ricombinati e/o estrattivi altamente purificati ha così permesso di passare da una diagnostica tradizionale, che utilizza estratti allergenici, alla diagnostica molecolare o component resolved diagnosis (CRD) in cui vengono usate le singole molecole allergeniche, che permettono di definire in maniera dettagliata le molecole bersaglio della reattività IgE (29). Gli epitopi sono segmenti di molecola di 8-15 aminoacidi che generano la risposta immune specifica: essi possono essere sequenziali (sequenza lineare di aminoacidi), conformazionali (gruppo di aminoacidi non

sequenziali che sono vicini a causa di ripiegamenti – folding – o assemblaggio). I soggetti che presentano IgE verso epitopi sequenziali reagiscono all’allergene in ogni forma (denaturato, parzialmente idrolizzato, ecc.) e presentano una ritardata acquisizione della tolleranza orale per alcuni epitopi sequenziali specifici (latte, uovo, arachide). I soggetti che presentano IgE verso epitopi conformazionali possono tollerare l’allergene dopo denaturazione o idrolisi e quindi presentano una più rapida acquisizione della tolleranza orale. Le molecole allergeniche possono essere “genuine” o specie specifiche o panallergeni. Le prime sono esclusive e presenti solo in una fonte allergenica (alimentare o non alimentare) ed esprimono pertanto una vera e propria sensibilizzazione, mentre i panallergeni sono presenti in fonti allergeniche (alimentari e non) anche molto diverse tra loro e indicano la presenza di crossreattività (ad esempio tra alimenti e pollini). I panallergeni sono i seguenti e sono riportati nei paragrafi successivi: nsLTP, PR-10, CCD, VSSP, 2sASSP, 11-sGSSP, Siero-Albumine, Profilline, Parvalbumine, Tropomiosine (in corsivo i panallergeni di origine vegetale).

Le molecole principali in causa nelle allergie alimentari sono elencati in tabella 3 (26). La diagnosi di allergia e di allergia alimentare in particolare è in fase di rivoluzione con la diagnostica molecolare o CRD, che, per ora, deve essere integrata agli strumenti di diagnosi tradizionale, ma che pare essere in grado di diventare l’unico strumento diagnostico valido. Molecole associate ad allergie per alimenti di origine vegetale PR-10 protein: Bet v 1 omologhe. Allergeni simili al Betv1 si riscontrano in molti vegetali, quali mela e altri frutti delle Rosacee (pera, pesca, ciliegia, albicocca, fragola, mandorla), ma anche in noce, nocciola, nelle Apiacee (sedano, carota, finocchio, prezzemolo), nel kiwi, nella soia e nell’arachide. Non-specific Lipid Transfert Protein (nsLTP). Sono proteine di 9-10 kd distribuite in tutto il mondo vegetale. Esse presentano un grado variabile di omologia (dal 35 al 95%) verso LTP vegetali non botanicamente correlati. L’identità di sequenza tra LTP allergizzanti è bassa ad eccezione che tra Pru p3 e Mal d3. Le LTP sono allergeni alimentari potenzialmente pericolosi, dato che sono molto resistenti alla digestione peptica (e parzialmente a quella termica) e infatti sono spesso coinvolti in reazioni cliniche gravi per alimenti come noci, nocciole, pistacchi, castagne. Le LTP più spesso sono presenti nella buccia che nella polpa e quindi le abitudini culinarie (sbucciare i frutti) possono modificare la possibilità di reagire. Nei soggetti allergici alla mela o alla pesca ma non ai pollini, l’allergene responsabile è probabilmente un LTP. Profilline (più frequenti sono Bet v2, Mald4, Arah5). Monomeri di 12-15 kd, presenti in tutte le cellule eucariotiche con funzione di proteine legante l’actina. Sono panallergeni ubiquitari delle piante. Molto sensibilizzante, ma non determinante reazioni gravi. I soggetti sensibili alla profillina presentano una

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“polisensibilizazione” a tutti i pollini e agli alimenti che la contengono: virtualmente per tutti gli allergeni respiratori (tranne la parietaria), i vegetali e la frutta. È coinvolta nella sindrome “betulla artemisia-sedano-spezie”, ma anche nell’allergia alla nocciola, alla pesca, alla mela, alla pera, alla carota, alla patata, al lychee, al pomodoro e alla zucca. La profillina è termostabile, ma gastrolabile, pertanto le reazioni sistemiche risultano rare, mentre è molto più frequente una SOA. Proteine di deposito (storage proteins). È una famiglia eterogenea di proteine (per esempio, le 11S globuline, le 2S albumine e le 7S viciline), largamente rappresentate nella maggior parte dei semi allergenici. La sensibilizzazione alle storage proteins è importante nel caso di allergia ad arachidi, soia, noci, semi di cereali. Hanno una struttura chimica molto stabile al calore e alle proteasi, pertanto le storage proteins presenti ad esempio in arachidi, soia, noci o semi sono considerate un importante fattore rischio per gravi reazioni sistemiche. Una storia di anafilassi da ingestione di semi di sesamo, di girasole, mostarda o noce in pazienti non sensibilizzati alla pesca o ad altre Rosacee (esclusa la mandorla), suggerisce un’ipersensibilità alle seed storage proteins. Esse sono di gran lunga il primo allergene alimentare responsabile di gravi reazioni anafilattiche nell’adulto, mentre nel bambino sono il terzo allergene alimentare dopo latte e uova. Thaumathin-like-proteins (TLP). Sono polipeptidi di circa 200 amminoacidi, che condividono la somiglianza di sequenza con la taumatina, una proteina dal sapore dolce originariamente trovata nel frutto dell’arbusto della foresta pluviale dell’Africa occidentale (Thaumatococcus daniellii). A causa della loro espressione inducibile da stress, come l’attacco patogeno/parassita, i TLP vegetali sono classificati come la famiglia 5 (PR5), 1 su 17 famiglie di proteine PR correlate alla difesa.

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Determinanti carboidratici cross-reattivi (Cross-reactive carbohydrate determinants o CCD). Il ruolo dei determinanti carboidrati cross-reattivi (CCD) nelle sindromi polline-alimenti con cross reattività fra alimenti e pollini è controverso. Questi CCD sono presenti sulle glicoproteine dei vegetali quali sedano, pomodoro, arachide e patata, in ambrosia, coda di topo e polline di betulla. In realtà è in discussione la possibilità che possano causare sintomi clinici. Molecole associate ad allergie per alimenti di origine animale Tropomiosine. Sono una famiglia di proteine strettamente correlate che contribuiscono alla contrazione muscolare. Sono presenti nelle cellule muscolari, ma anche non muscolari, con la miosina e l’actina. Esse contengono un residuo di 7 aminoacidi, che spesso si ripete in modo ininterrotto all’interno della molecola. Assumono spesso una struttura ad alfa elica, con due molecole che si avvolgono una sull’altra. Questo le rende molto resistenti al calore e anzi la bollitura può liberare nel vapore acqueo l’allergene. Sono importanti come allergeni alimentari identificati nei crostacei, molluschi e nel parassita del pesce, l’Anisakis simplex. Parvalbumine. Sono considerate l’allergene maggiore del pesce. Gad c 1 del merluzzo e Cyp c 1 della carpa sono le maggiori parvalbumine del pesce e rappresentano in generale dei markers di sensibilizzazione ad esso. Il Gad c 1 è un allergene molto stabile. ll Cyp c 1, estratto ricombinante della parvalbumina di carpa, contiene il 70% degli epitopi presenti nell’estratto naturale del merluzzo, del tonno e del salmone. L’alfa parvalbumina è stata identificata quale allergene della carne di pollo: probabilmente l’omologia tra le parvalbumine di diverse specie può rappresentare un legame biologico perduto in alcuni allergeni del pesce e della carne.

Caseine. Esistono 4 gruppi principali di caseine, che possono essere distinte in base alla distribuzione delle cariche e alla precipitazione in seguito all’aggiunta di calcio: > α(s1)-caseina, costituita da due zone altamente idrofobiche separate da una regione polare (idrofilica), contenente 7 degli 8 gruppi fosfati; può precipitare anche con bassi livelli di calcio; > α(s2)-caseina, tutti gli aminoacidi sono concentrati alle estremità della proteina, in grado di precipitare anch’essa con basse quantità di calcio; > β-caseina, possiede l’estremità aminoterminale fortemente polare, mentre il resto è apolare (idrofobico): in questo senso assomiglia a un detergente; richiede livelli medi di calcio per precipitare; > k-caseina, l’unica delle caseine ad essere idrofila (e quindi necessita di un’elevata quantità di calcio per precipitare); stabilizza le altre caseine, una sua idrolisi determina la coagulazione (precipitazione) della caseina. Lipocaline. Famiglie del Lisozima, Famiglia delle Transferrine, Ovomucoide.

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questionario di valutazione 1. L’intolleranza alimentare si differenzia dall’allergia alimentare in quanto: a) sono coinvolti gli anticorpi IgG e non IgE b) sono coinvolti gli anticorpi IgA c) riconosce un meccanismo non immunologico d) l’intolleranza è un’allergia lieve 2. Il deficit di lattasi è una condizione clinica riconducibile all’allergia alimentare? a) Sì, nel 10% dei casi b) Sì, quando sono presenti anticorpi IgE elevati nel siero c) No d) Sì, se persiste nell’età adulta 3. Lo shock anafilattico può essere una manifestazione clinica dell’allergia alimentare? a) No, mai, può intervenire solo in caso di allergia per inalanti b) Solo se l’allergia è diretta verso molti alimenti c) Solo nei bambini d) Sì, è la manifestazione più grave di allergia alimentare

4. La dermatite atopica può associarsi ad allergia alimentare? a) Sì, è possibile che l’allegia alimentare condizioni un peggioramento della dermatite atopica b) Sì, ma solo se si associa ad asma bronchiale c) No, mai, la dermatite atopica non può mai essere correlata con l’allergia alimentare d) Sì, ma solo nei bambini inferiori a 6 anni 5. Quale delle seguenti caratteristiche non caratterizza il challenge in aperto? a) È facile da eseguire b) Se la risposta è negativa sono superflui altri test c) Sono possibili risposte falsamente negative d) Medico e paziente conoscono l’alimento che viene testato 6. La percezione dell’allergia alimentare da parte del paziente o del genitore del paziente: a) tra allergia percepita e reale spesso il rapporto è inferiore a 5 a 1 b) è sovrapponibile alla prevalenza di sensibilizzazione atopica ai maggiori allergeni alimentari

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>> c) può modificarsi nel tempo, in base all’evoluzione della malattia allergica d) tra allergia percepita e reale spesso il rapporto è superiore a 10 a 1 7. Gli skin prick test: a) possono essere effettuati a qualsiasi età b) possono essere effettuati solo dopo i 5 anni c) sono preparati con alimenti freschi d) hanno un alto valore predittivo 8. In caso di reazioni allergiche di tipo ritardato, quale di questi presidi diagnostici può risultare utile nella diagnosi? a) Prick test b) Prick by prick c) Patch test d) IgE specifiche 9. Quale di queste patologie allergiche in un bambino nei primi mesi di vita può simulare una sepsi? a) Dermatite atopica b) Orticaria c) Esofagite eosinofila d) FPIES 10. In un bambino con sensibilizzazione cutanea per latte vaccino, si deve: a) eliminare subito il latte e i formaggi dalla dieta b) proseguire la dieta con latte vaccino e derivati in assenza di una storia clinica realmente correlabile con l’assunzione dell’alimento c) eliminare solo il latte dalla dieta, perché i formaggi non sono allergizzanti d) proseguire l’alimentazione con latte e formaggi senza eliminarli mai dalla dieta 11. L’esecuzione del test di scatenamento con l’alimento: a) non è un esame dirimente per la diagnosi di allergia alimentare b) è, nel percorso diagnostico, un esame imprescindibile per la diagnosi di certezza di allergia alimentare c) è un esame imprescindibile per la diagnosi di certezza di

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allergia alimentare, solo in caso di allergia per latte vaccino d) può essere eseguito a domicilio su indicazione medica 12. Nella diagnostica molecolare o component resolved diagnosis (CRD) in cui vengono usate le singole molecole allergeniche: a) i soggetti che presentano IgE verso epitopi conformazionali reagiscono all’allergene in ogni forma e presentano una ritardata acquisizione della tolleranza orale per alcuni epitopi sequenziali specifici b) i soggetti che presentano IgE verso epitopi sequenziali possono tollerare l’allergene dopo denaturazione o idrolisi e quindi presentano una più rapida acquisizione della tolleranza orale c) gli epitopi sono segmenti di molecola di 8-15 aminoacidi e possono essere sequenziali o conformazionali d) i panallergeni sono esclusivi e presenti solo in una fonte allergenica 13. Per un’esecuzione in sicurezza del challenge alimentare, quale dei seguenti elementi non è corretto? a) Disponibilità di equipaggiamento per il trattamento delle reazioni allergiche b) Allertare preventivamente il dermatologo reperibile c) Controllo clinico accurato delle eventuali lesioni cutanee e dell’apparato respiratorio con schedatura dei sintomi d) Reperimento preventivo di un accesso venoso 14. I panallergeni associati ad allergie per alimenti di origine animale sono: a) nsLTP, PR-10, CCD, VSSP, 2sASSP, 11-sGSSP, Siero-Albumine, Profilline, Parvalbumine, Tropomiosine b) nsLTP, Siero-Albumine, Profilline, Parvalbumine, Tropomiosine c) Parvalbumine, Tropomiosine, caseine, profilline d) Parvalbumine, Tropomiosine, caseine, lipocaline 15. In caso di allergia non IgE mediata, il test di scatenamento: a) è l’unico presidio efficace per valutare l’evoluzione verso la tolleranza dell’alimento allergizzante b) non deve mai essere eseguito c) è utilizzabile solo dopo i 3 anni di vita d) deve essere eseguito solo in doppio cieco

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università degli Studi di Pavia Dipartimento di Sanità Pubblica, Medicina Sperimentale e Forense Unità di Scienza dell’Alimentazione

MASTER UNIVERSITARIO DI II LIVELLO IN DIETETICA E NUTRIZIONE CLINICA Anno Accademico 2018-2019

Il corso intende sviluppare competenze specifiche per conseguire i seguenti obiettivi: n identificare e prevenire i fattori di rischio correlati a comportamenti alimentari e stili di vita scorretti n acquisire le competenze specifiche per l’accertamento dello stato di nutrizione sui diversi gruppi di popolazione n pianificare e gestire protocolli di sorveglianza nutrizionale target specifici, con le dovute competenze statistiche e informatiche n sviluppare capacità di partecipazione a protocolli di nutrizione pubblica e di epidemiologia nutrizionale n programmare e promuovere interventi di educazione alimentare target specifici n fornire strumenti per migliorare gli aspetti comunicativi e relazionali con l’utente, i familiari, il team sanitario n pianificare e gestire le attività nell’ambito dei servizi di dietetica di collettività n acquisire competenze specifiche nella dietetica applicata allo sport e a condizioni patologiche o di rischio n identificare la terapia nutrizionale più adeguata alle differenti patologie, nonché le linee guida specifiche n acquisire competenze di base di psicologia del comportamento alimentare n ottenere nozioni di base sulla farmacologia applicata alle varie situazioni nutrizionali, non trascurando le interazioni farmaco-nutrienti n acquisire elementi di base di alimentazione artificiale n saper proporre soluzioni a problematiche nutrizionali di ordine pratico partendo dalla conoscenza e analisi della produzione scientifica internazionale in lingua inglese TIROCINIO Sono previsti tirocini formativi presso strutture sanitarie e non, liberi professionisti, aziende, enti, organizzazioni nazionali e internazionali DESTINATARI Il corso è rivolto ai laureati in: n Classe delle lauree magistrali LM/SNT1, LM/SNT2, LM/SNT3, LM/SNT4, LM-6, LM41, LM-47, LM-67 , LM-68, LM-13, LM-61, LM-8, LM-9, LM-70 n Classe delle lauree specialistiche: SNT/01/S, SNT/ 02/S, SNT/03/S, SNT/04/S, 6/S, 46/S, 14/S, 78/S, 8/S, 9/S, 69/S, 76/S, 75/S, 53/S MODALITÁ DI SVOLGIMENTO Il Master Universitario ha una durata annuale e prevede un monte ore di 1.500 ore articolate nel seguente modo: n didattica frontale, esercitazioni pratiche, tirocinio presso strutture

sanitarie e non, liberi professionisti, aziende, enti, organizzazioni nazionali e internazionali n a integrazione dell’attività didattica frontale sono previsti due cicli di seminari didattici in collaborazione con docenti dell’Università di Harvard in merito ad approfondimenti sull’obesità e l’apparato gastroenterico. I cicli si svolgeranno sotto forma di lezioni frontali e discussione di casi clinici, in lingua inglese, in moduli settimanali. All’insieme delle attività formative previste, con frequenza obbligatoria per almeno il 75% del monte ore complessivo, corrisponde l’acquisizione da parte degli iscritti di 60 crediti formativi universitari (CFU). Il Master è strutturato in moduli settimanali con cadenza mensile. Il conseguimento del titolo di Master Universitario è subordinato al superamento di una prova finale relativa al progetto, da svolgersi durante il periodo di tirocinio e di un esame finale consistente nella discussione di un elaborato inerente gli obiettivi formativi del master al fine di accertare le competenze complessivamente acquisite

BANDO E ISCRIZIONI È prevista l’iscrizione di massimo 40 partecipanti. Per informazioni relative al bando: http://spmsf.unipv.eu/site/home.html COSTO La tassa di iscrizione ammonta a € 3.000 SEDE DEI CORSI Le lezioni si terranno presso le strutture didattiche site nella Cascina Cravino, Via Bassi, 21 - Pavia SEGRETERIA ORGANIZZATIVA La Segreteria ha sede presso il Dipartimento di Sanità Pubblica, Medicina Sperimentale e Forense, Unità Scienza Alimentazione Per ulteriori informazioni rivolgersi a: Prof.ssa Hellas Cena - hellas.cena@unipv.it; Dr.ssa Rosella Bazzano - rosella.bazzano@unipv.it Telefono: +39 0382 987551 oppure +39 0382 987542 - Fax: + 39 0382 987991

Con il patrocinio dell’Associazione Nazionale Specialisti in Scienza dell’Alimentazione adv master PS 1.indd 31

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etichette nutrizionali: strumento valido per comunicare la “serving size”? Le diciture sulle confezioni possono essere il veicolo migliore per permettere ai consumatori di scegliere i cibi a minore densità calorica. Sarebbe però auspicabile che venissero anche dichiarate, a livello mondiale, le porzioni raccomandate definendo così linee guida dietetiche condivise, finalizzate a una corretta educazione alimentare

L’

di Maria Vittoria Conti Biologa specializzanda in Scienze dell’Alimentazione Laboratorio di Dietetica e Nutrizione Clinica Università degli Studi di Pavia

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obesità, definita dalla World Health Organization (Who) come “l’accumulo di grasso anormale o eccessivo che può compromettere la salute dell’individuo”, rappresenta uno dei problemi di sanità pubblica più evidente a livello mondiale ed è una condizione complessa, con

gravi dimensioni sociali e psicologiche, che colpisce individui di tutte le età e di vario grado socio-economico. Negli ultimi anni i tassi d’incidenza di sovrappeso e obesità sono aumentati, con oltre 1,9 miliardi di adulti e 124 milioni di bambini registrati nel 2016. Un trend crescente che

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si sta osservando anche nei paesi in via di sviluppo, dove la double burden of malnutrition è ormai un fenomeno riconosciuto e ampiamente studiato e a causa del quale si stima che oltre 115 milioni di persone soffrano di problemi legati all’obesità. Per entrambi i sessi quest’ultima può rappresentare una condizione con aumentato rischio d’insorgenza di malattie non trasmissibili legate all’alimentazione, tra cui diabete mellito, malattie cardiovascolari, ipertensione, ictus e alcune forme di cancro. A tal proposito, campagne di sensibilizzazione per ridurne il tasso di crescita sono portate avanti a più livelli e su più fronti: da progetti di educazione alimentare nelle scuole, all’entrata in vigore negli ultimi anni della Sugar Tax in nazioni come Francia, Messico e, da aprile 2018, anche Inghilterra, per ridurre la quantità di zuccheri aggiunti in bevande e alimenti. L’obesità cresce di pari passo con piatti sempre più abbondanti Ormai dato certo è che sovrappeso e obesità abbiano cause multifattoriali e che l’ambiente definito “obesogeno” sia implicato nell’insorgenza e nel decorso della patologia. Tra i vari fattori ambientali coinvolti, studi recenti hanno mostrato come, parallelamente all’aumento dell’incidenza di sovrappeso e obesità, siano aumentate anche le porzioni di alimenti e bevande. In particolare si è osservato come negli Stati Uniti le dimensioni delle porzioni, in tutte le categorie di alimenti, siano cresciute considerevolmente tra 1977 e 1996 superando le “Standard National Serving Sizes” dell’US Food and Drug Administration (Usda) e contribuendo ad aumentare l’intake diario di circa 300 calorie (1, 2). SteenhuisI H. et al. nel 2010 hanno registrato lo stesso andamento anche in Gran Bretagna e nei Paesi Bassi, dove il consumo di porzioni di dimensione media hanno portato a un aumento dell’intake giornaliero dal 12 al 16%, rispetto al consumo di piccole porzioni (3).

Pertanto, per promuovere un’alimentazione sana, è necessario prendere in considerazione non solo la qualità nutrizionale del cibo e delle bevande consumate, ma anche la quantità delle stesse. Una porzione tipica di pasta negli Stati Uniti è del 480% più grande rispetto alle porzioni standard di riferimento stabilite dalla Usda (3). Un curioso dato che conferma questo trend si ritrova anche nei libri di cucina dove le dosi per porzione sono aumentate di anno in anno; infatti, nelle edizioni più recenti si fa riferimento a un numero inferiore di porzioni per lo stesso peso di ingredienti. Il ruolo delle etichette alimentari A tal proposito una revisione pubblicata nel 2018 ha valutato il ruolo delle etichette alimentari nel consapevolizzare il consumatore non solo sulla qualità del prodotto acquistato, ma anche sulla porzione corretta da consumare (3). Nel 2016 è entrato in vigore in Europa il Regolamento UE 1169/2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti destinato ai consumatori, che ha aggiornato e semplificato le norme precedenti sull’etichettatura degli alimenti. Con questo nuovo regolamento si è stabilito che l’etichetta, definita come “qualunque marchio commerciale o di fabbrica, segno, immagine o altra rappresentazione grafica scritto, stampato, stampigliato, marchiato, impresso in rilievo o a impronta sull’imballaggio o sul contenitore di un alimento o che accompagna tale imballaggio o contenitore” (Art.1 Reg. 1169/2011), deve fornire indicazioni obbligatorie quali: la denominazione dell’alimento, l’elenco degli ingredienti, specificando gli allergeni, la durabilità del prodotto, le condizioni di conservazione e uso, il paese di origine e il luogo di provenienza e le dichiarazioni nutrizionali dello stesso (valore energetico, grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine, sale). Non è tuttavia obbligatorio riportare in eti-

[ Sovrappeso e obesità hanno cause multifattoriali, tra cui anche un ambiente definito “obesogeno”. Studi recenti hanno inoltre rivelato come, parallelamente all’aumento dell’incidenza di questo problema, siano cresciute anche le porzioni di alimenti e bevande

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> A sinistra, da Etichettatura degli alimenti. Ministero della salute 2015

Bibliografia 1. Young LR, Nestle M. The contribution of expanding portion sizes to the US obesity epidemic. Am J Public Health. 2002 Feb;92(2):246-9. 2. Nielsen SJ, Popkin BM. Patterns and trends in food portion sizes, 1977-1998. JAMA. 2003 Jan 22-29;289(4):450-3. 3. Brown HM, Rollo ME, de Vlieger NM, Collins CE, Bucher T. Influence of the nutrition and health information presented on food labels on portion size consumed: a systematic review. Nutr Rev. 2018 May 14. 4. Sinclair SE, Cooper M, Mansfield ED. The influence of menu labeling on calories selected or consumed: a systematic review and meta-analysis. J Acad Nutr Diet. 2014 Sep;114(9):1375-1388.e15. 5. Chandon P, Wansink B. Does food marketing need to make us fat? A review and solutions. Nutr Rev. 2012 Oct;70(10):571-93.

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chetta informazioni sulla quantità di prodotto da consumare. Gli autori della revisione hanno classificato quattro diverse categorie di effetti circa l’impatto delle etichette alimentari sul consumo delle porzioni: nessun effetto, effetto negativo, effetto positivo con aumento del consumo ed effetto positivo con riduzione del consumo. Un effetto positivo con riduzione del consumo di alimenti densi di energia e poveri di nutrienti o con aumento del consumo di cibi ricchi di nutrienti è stato riscontrato per la maggior parte degli studi presi in analisi, a eccezione di quelli che contenevano un linguaggio definito “persuasivo”. Ciò può

far pensare che le informazioni nutrizionali delle etichette alimentari possano influenzare positivamente il consumo delle porzioni e che quindi abbiano il potenziale per sensibilizzare circa questa tematica. A conferma di ciò, anche Sinclair et al., nel 2014, avevano rilevato che l’aggiunta di informazioni nutrizionali interpretative, come il simbolo del semaforo nelle etichette alimentari, aveva aiutato i consumatori nella selezione degli alimenti da consumare e nella scelta di alimenti con minor densità energetica (4). Allo stesso tempo si è anche osservato che le etichette che enfatizzano e descrivono un cibo come “sano” possono portare a confondere il consumatore. Infatti quest’ultimo può aumentare l’apporto dello stesso ritenendo di poterne consumare grandi quantità senza sensi di colpa o senza la paura di aumentare di peso (5). Inoltre chi seguiva una dieta dimagrante era più propenso a focalizzare la sua attenzione sulle etichette nutrizionali, aumentando il consumo di alimenti che percepiva essere più salutari. Uno dei limiti riscontrati dagli autori riguardo al ruolo delle etichette alimentari nell’indirizzare il consumatore nella scelta delle porzioni corrette è la mancanza di una terminologia standardizzata a livello mondiale per la definizione di porzione. Nei vari studi presi in analisi vengono utilizzate impropriamente come sinonimi le terminologie “serving size” “serving” e “portion”, che possono confondere il consumatore, impedendo inoltre di creare delle linee guida dietetiche internazionali. Sarebbe quindi necessario standardizzare la definizione di “portion” (quantità di cibo consumata in una singola occasione) e di “serving” (quantità raccomandata) in tutti i settori: a livello didattico, industriale, governativo e popolare, per utilizzare questo strumento non solo come mezzo di informazione ma anche di educazione.

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università degli Studi di Pavia Dipartimento di Sanità Pubblica, Medicina Sperimentale e Forense Unità di Scienza dell’Alimentazione

MASTER INTERNAZIONALE DI I LIVELLO A DISTANZA IN TRATTAMENTO INTEGRATO MULTIDISCIPLINARE DEI DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE E DELLA NUTRIZIONE Anno Accademico 2018-2019

Il Master Internazionale intende sviluppare competenze specifiche attraverso una formazione a carattere interdisciplinare nella gestione della prevenzione e nel trattamento psiconutrizionale dei Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione attraverso i seguenti step: n conoscere i criteri di riconoscimento e prevenzione nelle varie fasce d’età per i Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione (DAN) n acquisire le competenze teorico-pratiche per l’integrazione multidisciplinare del lavoro terapeutico nei DAN n acquisire conoscenze specifiche per l’accertamento dello stato di nutrizione nelle diverse fasce d’età n programmare e gestire interventi di educazione alimentare target specifici n acquisire conoscenze specifiche nella dietetica applicata a condizioni patologiche o di rischio per i DAN n conoscere gli elementi di base dell’alimentazione artificiale nonché della supplementazione orale n applicare metodologie e procedure (terapie cognitive di terza ondata, utilizzo delle nuove tecnologie) di intervento nelle varie fasce d’età e nelle diverse fasi del disturbo n conoscere tecniche di psicodiagnosi e assessment n prendere in carico il singolo e la famiglia in un’ottica integrata del contesto dove il disagio si dipana n acquisire capacità di formulare piani terapeutici in un progetto integrato n identificare e prevenire i fattori di rischio correlati a scorretti comportamenti alimentari e stile di vita n conoscere i servizi territoriali di diagnosi e cura dei DAN e gestione del paziente nella relazione con essi in base alla gravità della patologia (invio/refertazione e dimissione) n organizzare e gestire le risorse umane nell’ambito dell’approccio multidisciplinare integrato n fornire strumenti per migliorare gli aspetti comunicativi e relazionali con l’utente, i familiari, il team sanitario n conoscere e applicare le linee guida specifiche di riferimento nazionali e internazionali n diagnosticare e trattare il disturbo dell’immagine corporea nei soggetti con disturbo alimentare n ottenere nozioni di base sulla farmacologia applicata alle varie condizioni psicopatologiche DESTINATARI Il Master è rivolto a chi abbia conseguito il: n Diploma di laurea triennale/magistrale ai sensi del D.M. 270/2004 n Diploma di laurea triennale/specialistica ai sensi del D.M. 509/99 n Diploma di laurea conseguito ai sensi degli ordinamenti previgenti al D.M. n. 509/99 MODALITÁ DI SVOLGIMENTO Il Master Internazionale Universitario ha una durata semestrale e prevede un monte ore di 1.500 ore articolate in: n didattica online, su 12 moduli per un totale di 45 CFU

n attività interattive, esercitazioni pratiche, seminari, attività di studio/tutoring e preparazione individuale I moduli, nonostante siano relativamente indipendenti tra loro, sono strutturati secondo un ordine pedagogico in modo che lo studente segua un identificato ordine cronologico. Il Direttore del corso, a conclusione delle attività formative, rilascerà il Diploma di Master Universitario di I livello in: “Master Internazionale in Trattamento Integrato multidisciplinare dei Disturbi dell’Alimentazione e della Nutrizione”. Gli iscritti sono esonerati dall’obbligo ECM a seguito della Circolare Ministero Salute n. 448 del 5 marzo 2002 (G.U. n. 101 del 13 maggio 2002).

BANDO E ISCRIZIONI È prevista l’iscrizione di massimo 100 partecipanti. Per informazioni relative al bando: www.unipv.eu/site/home/didattica/post-laurea/master oppure Fundacion Universitaria Iberoamericana: www.funiber.it COSTO La tassa di iscrizione ammonta a € 2.800 SEGRETERIA ORGANIZZATIVA La Segreteria ha sede presso il Dipartimento di Sanità Pubblica, Medicina Sperimentale e Forense, Unità Scienza Alimentazione Per ulteriori informazioni rivolgersi a: Prof.ssa Hellas Cena - hellas.cena@unipv.it; Dr.ssa Rosella Bazzano - rosella.bazzano@unipv.it Telefono: +39 0382 987551 oppure +39 0382 987542 - Fax: + 39 0382 987991

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Calano le temperature, arrivano gli starnuti

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ono tra le malattie più frequenti e colpiscono tutti sul pianeta, democraticamente, senza privilegi né immunità. Quando le temperature si abbassano, arrivano puntualmente i problemi respiratori più classici, portando con sé mal di gola, raffreddore, tosse, febbre, malessere generale. Normalmente si risolvono in una decina di giorni, ma, in caso contrario, è bene parlarne sia con il farmacista, sia con il medico che, eventualmente, prescriverà farmaci o esami specifici. In queste pagine, ecco una serie di informazioni e suggerimenti che il professionista può raccomandare a chi si reca in farmacia per trovare il rimedio giusto, per sé o per i propri cari, che faccia stare subito meglio. Come funzionano le difese dell’organismo «Con la stagione fredda, le vie respiratorie sono in prima linea e offrono un sistema molto efficiente per bloccare e allontanare gli intrusi – conferma Paolo Fanari, direttore dell’U.O. di Pneumologia e riabilitazione pneumologica presso l’Auxologico Piancavallo (VB) e direttore del Laboratorio sperimentale di ricerca di Fisiopatologia respiratoria –. Il rivestimento di naso, trachea e bronchi, infatti, è costituito da particolari cellule che secernono muco, ossia le cellule mucipare, e da altre che sono caratterizzate da una sorta di ciglia, le cellule ciliate, appunto, che effettuano un continuo movimento oscillatorio. Lo strato sottile e appiccicoso di muco presente nel naso intrappola le sostanze estranee, come polvere, particelle di smog, microbi e così

I malanni di stagione sono un classico dei mesi più freddi: ecco, perciò, qualche regola da suggerire a chi arriva in farmacia con il fazzoletto in mano e il naso rosso

via, mentre le cellule ciliate le sospingono verso l’esterno. Questo di sistema di pulizia permette di proteggere i polmoni». «Le variazioni termiche tipiche della stagione fredda, però, hanno l’effetto di compromettere il funzionamento di questo sofisticato meccanismo, facilitando così la sopravvivenza dei germi patogeni che non

di Marcella Valverde

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cosa non si deve fare > Prendere subito un antibiotico al

primo starnuto. Se l’infezione è virale, è inutile. > No ai sedativi della tosse (quelli per la tosse secca) se c’è produzione bronchiale perché, altrimenti, si impedisce di espellere il catarro. > Evitare il fumo (o il fumo passivo) perché predispone allo sviluppo di bronchiti che possono anche diventare croniche.

vengono contrastati a dovere. L’aria secca degli ambienti riscaldati, infatti, “asciuga” ulteriormente le mucose con una compromissione della produzione di muco. In più, uscendo all’aperto, l’improvvisa esposizione al freddo può far diminuire l’efficienza delle mucose – prosegue Fanari –. Per ovviare, è bene coprirsi adeguatamente e mettere una sciarpa su bocca e naso per mantenere la giusta umidità delle prime vie aeree. Inoltre, meglio inspirare con il naso ed espirare con la bocca: in questo modo l’aria in ingresso passerà attraverso il prezioso filtro che si trova nel naso». Fattori predisponenti e vie di trasmissione «Il 90% delle malattie stagionali è di origine virale, mentre solo il restante 10% è batterico. I virus sopravvivono più facilmente al freddo ed ecco, perciò, che l’autunno e l’inverno sono le stagioni nelle quali è più facile ammalarsi. La diffusione dei virus è fa-

un po’ di prevenzione Per evitare di ammalarsi vanno curati anche gli stili di vita. Ecco quali sono i fattori che possono maggiormente influire. > Igiene delle mani: è forse una delle forme di prevenzione più semplicie ed efficace per noi e per gli altri. Dopo tragitti sui mezzi pubblici o in luoghi frequentati da altre persone, si dovrebbe sempre evitare di toccarsi naso, occhi e bocca perché è facile aver sfiorato superfici infette. > La mano davanti alla bocca: questo semplice gesto di buona educazione è un grande atto di rispetto verso gli altri che non vengono così “investiti” dalle goccioline di saliva cariche di virus. > Vitamina D: gli studi recenti hanno messo in luce una correlazione tra livelli bassi di questa vitamina e una maggior facilità ad ammalarsi. Confermato quindi il ruolo positivo della vitamina D3, la forma più biodisponibile, sul sistema immunitario.

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> Vitamina C: contrariamente a quanto si è ritenuto fino a non molto tempo fa, non svolge una funzione di prevenzione, ma aiuta a ridurre un po’ la durata della sintomatologia fastidiosa. È molto importante per la sua azione antiossidante. > Lisati batterici: sono preparati con funzione immunostimolante. Vanno prescritti dal medico e sono consigliati per i bambini o per gli adulti che abbiano una storia clinica di frequenti episodi bronchiali. > Aerare gli ambienti soprattutto se affollati. > Limitare il riscaldamento: temperature elevate rendono difficile il mantenimento della giusta umidità delle mucose. > Fumo: è sempre nocivo, ma in questi momenti non si devono irritare ulteriormente le vie aeree con sostanze dannose. Lo stesso vale per il fumo passivo. > Attività all’aperto: da evitare se fa molto freddo.

vorita anche da altri fattori, tra cui l’affollamento dei luoghi chiusi, l’umidità o l’eccessiva secchezza dell’aria. Temperature più basse a livello del naso e umidità ridotta sembrerebbero favorire le infezioni virali attraverso la vasocostrizione, con una riduzione della risposta immunitaria – sottolinea il pneumologo –. La via di contagio è diretta: le goccioline di saliva emesse parlando o attraverso starnuti e colpi di tosse si disperdono nell’aria che poi viene respirata. Ma attenzione: poiché i virus possono sopravvivere anche alcune ore fuori da un organismo, la trasmissione può essere anche indiretta, cioè, per esempio, attraverso mani “infette” che contaminano le varie superfici su cui posiamo a nostra volta le mani». In quante forme ci si può ammalare? La differenza tra raffreddore, influenza, parainfluenza è abbastanza sfumata perché i sintomi si assomigliano, mentre a cambiare sono i virus. Non c’è molto da fare: con un po’ di pazienza, passerà tutto nel giro di 7-10 giorni. «Non si devono prendere antibiotici al primo starnuto perché sono inutili nelle infezioni virali – raccomanda Fanari –. L’abuso di questi farmaci, oltre a poter provocare, alla lunga, una sorta di resistenza batterica, danneggia anche il microbiota intestinale “buono”, cioè quello che sostiene il lavoro del sistema immunitario. Se però i sintomi durano più di 10-12 giorni e ci si sente molto debilitati, si ha mancanza di fiato per qualsiasi azione fisica o continuano a persistere febbre o tosse bronchiale che cambia anche “suono”, è importante farsi visitare dal medico: fischi di tipo asmatico o rumori e rantolii sono tutti sintomi da non sottovalutare perché potrebbero indicare la presenza di qualcosa di più grave». Cosa spiegare e consigliare al pubblico Ecco, perciò, un sintetico vademecum delle problematiche più comuni da suggerire ai clienti che arrivano in farmacia:

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> Raffreddore (rinite): è un’infiammazione

acuta della mucosa nasale e faringea provocata da vari fattori. A parte il raffreddore allergico, la rinite è causata da oltre 200 tipi di virus che possiedono la capacità di mutare velocemente, impedendo al sistema immunitario di sviluppare difese durature e permettendo il ripresentarsi di ricadute a breve distanza. La reazione del corpo consiste in una secrezione nasale più o meno abbondante, poca febbre e qualche dolore muscolare. Dopo qualche giorno può comparire tosse e catarro. È importante bere molto per consentire al corpo di produrre la quantità di muco necessaria a eliminare gli “intrusi” e a idratare tessuti e mucose: nel giro di 7-10 giorni dovrebbe risolversi tutto. Se le secrezioni dovessero cambiare colore e tendere al giallo/verde, significa che vi è una sovrapposizione batterica: è il momento di parlarne con il medico. > Tosse: è un sistema messo a punto dall’organismo per mantenere pulite le vie aeree, ma può rappresentare anche un grande fastidio e disturbare il sonno. Se è secca e stizzosa, ossia senza produzione di muco, si può assumere qualche preparato emolliente che la attenui (ma senza abusarne) e umidificare l’ambiente per ridurre l’irritazione delle vie aeree. Se invece fosse produttiva – la cosiddetta “tosse grassa” – la scelta deve ricadere sui preparati mucolitici in grado di sciogliere il catarro per poterlo poi espellere: in farmacia non c’è che l’imbarazzo della scelta. Nel caso in cui non passasse e si trasformasse in bronchite, va raccomandata una visita medica. > Febbre: è la migliore risposta dell’organismo all’attacco di virus e batteri che non sopravvivono alle alte temperature. Se la febbre si attesta entro i 38-38,5 °C non è una buona strategia assumere antipiretici, mentre se dovesse salire sarà bene abbassarla perché potrebbe essere dannosa soprattutto per i bambini.

> Sinusite e otite: sono due complicazio-

ni del raffreddore e della sovrapposizione batterica. La sinusite è caratterizzata da mal di testa, dolore alla pressione intorno agli occhi, sulla fronte e sugli zigomi e secrezioni che cambiano colore, mentre l’otite provoca dolore interno all’orecchio, riduzione temporanea dell’udito o addirittura piccoli sanguinamenti. Occorre sempre rivolgersi allo specialista per una cura adeguata che ne eviti le conseguenze.

[ Tosse e raffreddore sono la risposta infiammatoria del corpo ai virus. Si tratta della prova di come il sistema immunitario stia reagendo all’infezione

Stili di vita corretti: contribuiscono a stare meglio > Riposare. Anche se si conduce una vita molto attiva, è importante prendersi qualche giorno di riposo per consentire all’organismo di respingere l’infezione. Inoltre, è un atto di riguardo verso chi ci vive accanto. > Suffumigi. È un vecchio metodo sempre valido per dare sollievo all’apparato respiratorio. Nell’acqua bollente possono essere disciolti prodotti appositi, ma anche oli essenziali balsamici (vedere più avanti). Migliorando l’idratazione, si allevia pure quel fastidioso senso di chiusura, tipico di questo genere di malanni. ottobre 2018

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vaccino antinfluenzale: quando è consigliato Esiste una popolazione a rischio, un gruppo di persone più fragili alle quali viene raccomandato di sottoporsi al vaccino antinfluenzale. Si dispone, però, anche di un vaccino antibatterico: nonostante riguardi solo il 10% delle infezioni, questa tipologia è consigliata soprattutto a chi soffre di bronchite cronica, anche ostruttiva, e di altre patologie croniche. «Tali vaccinazioni possono anche essere fatte contemporaneamente, ma in due siti iniettivi differenti – sottolinea Paolo Fanari –. L’indicazione, però, spetta sempre al medico». Quali sono dunque le categorie interessate alla vaccinazione? > Bambini sopra i 6 mesi, ragazzi e adulti che soffrono di malattie croniche, per esempio quelle cardiache o polmonari (asma, bronchiti croniche ostruttive, fibrosi cistica), diabete, riduzione delle difese immunitarie.

> Persone con più di 65 anni. > Bambini piccoli che si ammalano di fre-

quente. > Bambini e adolescenti in trattamento a lungo termine con acido acetilsalicilico, a rischio di Sindrome di Reye in caso di infezione influenzale. > Donne che all’inizio della stagione epidemica si trovano nel secondo e nel terzo trimestre di gravidanza. > Individui di qualunque età ricoverati presso strutture per lungodegenti. > Familiari e altri contatti soggetti ad alto rischio. > Grandi obesi. > Chi lavora a contatto con il pubblico, per esempio negli ospedali, negli asili, nelle scuole e via dicendo: oltre a proteggersi, non diventano loro stessi un veicolo di contagio.

> Lavaggi nasali. Vengono fatti con acqua termale o di mare, acquistabile in farmacia, e servono per eliminare il muco nella parte alta del naso e idratare le mucose. Sono adatte anche ai bambini piccoli che fanno fatica a soffiarsi il naso o non sono ancora in grado di farlo. > Aerosol. È un modo veloce per far arrivare i farmaci più in profondità, anche nei polmoni. Sono consigliati quando la tosse si è trasformata in bronchite. > Umidificatore. È da consigliare per la maggior parte delle case e dei luoghi pubblici, dove il tasso di umidità dell’aria è insufficiente. Se fossero presenti bambini piccoli, è meglio sceglierne uno che micronizzi l’acqua, cioè renda le particelle di vapore talmente piccole da poter attraversare le loro minuscole vie aeree. > Dormire. La carenza di sonno abbassa le difese immunitarie, per cui dormire bene è fondamentale per una guarigione in tempi brevi. Se, una volta sdraiati a letto, si aves-

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sero accessi di tosse, può essere utile dormire con il busto un po’ sollevato e prendere un cucchiaino di miele come emolliente prima di coricarsi. > Febbre e dolori muscolari. Si può ricorrere a farmaci che garantiscano un effetto analgesico e antipiretico, come il paracetamolo. Attenzione, però, a non abusarne. Non solo farmaci: ecco i rimedi naturali più efficaci Oltre a una corretta alimentazione con cibi facilmente digeribili, come brodo, minestre, succhi di frutta fresca e tisane, ci sono anche alcuni integratori alimentari che possono aiutare a sopportare meglio i sintomi di tipo influenzale. Tra questi, solo per citarne alcuni, i bioflavonoidi perché possiedono proprietà antinfiammatorie e antivirali. Non vanno dimenticati lo zinco, ottimo per l’efficienza del sistema immunitario, così come l’astragalo, che però non va assunto in caso di febbre, l’echinacea e il sigillo d’oro, che agiscono come immunostimolanti. Lo zenzero è adatto in caso anche di disturbi di stomaco, mentre gli estratti di bacche di sambuco contribuiscono a rendere meno “pesante” l’infezione. Sul fronte dell’omeopatia, vi sono diversi rimedi, ma vanno scelti in base al tipo di sintomatologia: un medico omeopata o un farmacista preparato potrà suggerire quello più adatto al caso specifico. Tra gli oli essenziali per le inalazioni, basilico, eucalipto, menta e pino sono utili per contrastare la congestione nasale. Per quella toracica, invece, si può optare per basilico, pino o tea tree perché aiutano a sciogliere ed eliminare il muco, oltre a svolgere un’azione antisettica. Un bagno caldo con mirra, pino, tea tree o elemi può infine essere di aiuto in caso di indolenzimento osteoarticolare.

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IGIENE ORALE / alitosi

alitosi: all’origine non ci sono solo cause orali

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on il termine medico di bromopnea si indica il persistente odore sgradevole dell’alito causato principalmente da disturbi che interessano il cavo orale, da cattive abitudini alimentari o di igiene orale quotidiana, o dal consumo di determinati cibi. Si tratta di un disturbo - ai più noto come alitosi - largamente diffuso (si stima che interessi una persona su due a livello globale) che può altresì avere cause extra orali da ricercare in patologie respiratorie (sinusiti e tonsilliti), malattie sistemiche (diabete mellito, disfunzioni epatiche e renali), affezioni gastrointestinali croniche. Anche l’impiego di alcuni farmaci può causare la comparsa e il perdurare dell’alito cattivo.

di Luca Vanni

La scarsa igiene orale, e quindi il conseguente accumulo di placca, è il principale fattore scatenante del disturbo. Eppure le cause dell’alitosi possono essere molteplici e correlabili a diverse condizioni fisiologiche e patologiche, orali e non

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Scarsa igiene orale Sono alcuni ceppi batterici anaerobici che in specifiche condizioni tendono a proliferare a una velocità anomala nella bocca e a decomporre con molta rapidità le sostanze proteiche presenti nei residui di cibo. La putrefazione microbica di ciò che resta dei cibi, delle cellule epiteliali morte e dei componenti salivari e del sangue, determina così lo sprigionamento dei cosiddetti cvs (composti volatili solforati), responsabili del cattivo odore dell’alito. A tal proposito, la saliva ha il compito di mantenere il pH della bocca a livelli tali da impedire la proliferazione dei batteri implicati nel suddetto processo di decomposizione. La produzione della saliva tende a diminuire nel corso della notte, nei mesi caldi, o a seguito di alterazioni dell’ormone adrenalina. L’alitosi è quindi il risultato di complesse interazioni tra i numerosi batteri del cavo

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IGIENE ORALE / alitosi

alito cattivo e alimenti: ecco la lista nera > il latte e suoi derivati, più di tutti, aggravano il problema per via dei processi fermentativi a cui vanno incontro durante la digestione; > la cipolla e l’aglio, sono in grado di agire sin da subito sull’odore dell’alito; > l’alcol, perché disidrata la bocca con molta rapidità facilitando così la comparsa del problema; > il caffè in quanto, essendo molto acido, contribuisce alla proliferazione dei batteri nel cavo orale.

orale, seppur non vi sia nessun ceppo batterico specifico responsabile del disturbo. In molti casi una igiene orale maggiormente accurata (in linea di massimo, bisogna lavare i denti 3 volte al giorno, soprattutto dopo ciascun pasto), che preveda anche l’impiego del filo interdentale e degli scovolini oltre alla pulizia della lingua, è sufficiente alla scomparsa dell’alitosi. L’impiego di un collutorio può contribuire alla risoluzione del problema. A tale scopo, vengono utilizzati preparati con antibatterici che contengono diversi principi attivi tra cui clorexidina digluconata, fluoruro amminico/fluoruro stannoso, triclosan, perossido di idrogeno, oli essenziali. Qualora l’alitosi dovesse persistere nonostante un’adeguata igiene orale, questa può essere determinata da patologie che interessano la dentatura, per esempio carie, gengiviti o parodontiti. Disturbi orali e alitosi Nella maggior parte dei casi (85-90%) il disturbo origina dal cavo orale. Come già accennato, la causa più frequente dell’alitosi è rappresentata dall’accumulo dei residui di cibo e dalla loro trasformazione attraverso i batteri della placca. La placca batterica, se non viene rimossa, può inoltre indurre l’insorgenza di problemi odontostomatologici quali infiammazione gengivale e parodontale.

La gengivite, tra le patologie orali maggiormente diffuse, consiste in un processo infiammatorio a carico della gengiva libera dovuto al deposito di placca e tartaro nella zona del colletto. Tale accumulo conduce all’insorgenza dell’infiammazione e alla comparsa dei conseguenti sintomi: rossore, gonfiore, sanguinamento, nonché alitosi. Si tratta, comunque, di una condizione reversibile a patto che venga affrontata tempestivamente rivolgendosi all’odontoiatra. Attraverso una visita di controllo, lo specialista potrà intervenire sulle cause che hanno scatenato l’infiammazione, dal momento che la

oral care e il ruolo del farmacista L’offerta relativa al mercato dell’oral care in farmacia (i cui dati di vendita si mantengono stabili, come è emerso durante l’ultimo Cosmofarma di Bologna) dovrebbe evitare un’inutile competizione con la grande distribuzione sulla base del prezzo e concentrarsi, invece, su specifici prodotti sottolineando gli effetti curativi e di prevenzione delle patologie orali. Infatti, per quanto riguarda spazzolini e dentifrici, spesso il consumatore non ne riconosce le peculiarità funzionali e curative, mosso

dalla convinzione che uno valga l’altro. In questa direzione il farmacista, ribadendo il proprio ruolo di esperto della salute, può fare la differenza evitando che l’acquisto dei prodotti per l’oral care sia relegato a una dimensione “fai da te”. Il paziente che si rivolge al farmacista cerca competenza per la soluzione di problemi specifici; per tale regione i farmacisti dovrebbero consolidare il ruolo di consulenti, confermandosi un efficace veicolo di informazione e di sensibilizzazione in termini di prevenzione.

gengivite non va mai sottovalutata perché può essere la fase iniziale della parodontite. La parodontite è invece un processo infiammatorio cronico del parodonto, il legamento che tiene attaccata la radice del dente all’osso. A causa dell’infiammazione, la gengiva si allontana dal dente creando le cosiddette tasche parodontali (sacche), nelle quali i batteri continuano ad accumularsi. Con il passare del tempo il tessuto osseo che circonda i denti viene distrutto e i denti, perdendo supporto, diventano mobili. È fondamentale, pertanto, che venga diagnosticata il prima possibile, affinché possa essere adeguatamente curata e portata a remissione. ottobre 2018

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neuroscienze / atrofia cerebrale

sedentarietà e rischio di atrofia cerebrale È stata scoperta una correlazione sorprendente tra il numero di ore impiegate quotidianamente per stare seduti e l’assottigliamento del lobo temporale mediale. Questo processo sembra essere associato a un decadimento cognitivo e della memoria

di Renato Torlaschi

Bibliografia 1. Siddarth P, Burggren AC, Eyre HA, Small

GW, Merrill DA. Sedentary behavior associated with reduced medial temporal lobe thickness in middle-aged and older adults. PLoS One. 2018 Apr 12;13(4):e0195549.

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tare seduti troppo a lungo espone le persone di mezza età a un maggior rischio di atrofia cerebrale: lo dimostra una ricerca pubblicata lo scorso aprile sul sito di PLoS One (1). Facendo uso di immagini ad alta risoluzione, ottenute con la risonanza magnetica, i ricercatori hanno scoperto che il comportamento sedentario è un predittore significativo dell’assottigliamento del lobo temporale mediale (MTL) e delle sue sottostrutture e che l’attività fisica, anche di elevata intensità, non riesce a compensare completamente gli effetti nocivi della prolungata sedentarietà. I nuovi dati rivelano, perciò, cosa comporta l’abitudine di stare seduti troppo a lungo. A coordinare lo studio è stata Prabha Siddarth, una biostatistica indiana che ora svolge la sua attività di ricerca presso l’Istituto Semel per le neuroscienze e il comportamento umano dell’Università della California di Los Angeles (Ucla). «Si ritiene che l’atrofia e i processi anti-neuroplastici associati con il decadimento cognitivo inizino proprio nel lobo temporale mediale», ha ricordato in un’intervista rilasciata a Medscape Medical News, «in particolare, l’ippocampo e le strutture che lo circondano sono essenziali per la funzione della memoria». Il ruolo cruciale dell’ippocampo I neuroscienziati pensano che le informazioni siano inizialmente raccolte nelle regioni che circondano l’ippocampo - quel piccolo organo fondamentale per la formazione della memoria a lungo termine e per la percezione spaziale - al quale verrebbero poi trasferite. «Per queste ragioni», ha aggiunto Prabha

Siddarth, «la scoperta che lo stare seduti a lungo riduce lo spessore di strutture cerebrali così importanti suggerisce una possibile area di intervento per migliorare la salute mentale nelle persone di mezza età e anziane». Lo studio ha coinvolto 25 donne e 10 uomini dai 45 ai 75 anni, senza alcuna forma di demenza, ai quali è stato sottoposto un questionario standard (International physical activity questionnaire). I ricercatori hanno chiesto loro il numero di ore passate ogni giorno in posizione seduta durante la settimana precedente la rilevazione. Successivamente li hanno sottoposti a una risonanza magnetica di dettaglio sulle aree cerebrali coinvolte nei meccanismi della memoria. Si è così riscontrato che lo spessore della corteccia entorinale e paraippocampale era inversamente correlato al numero di ore trascorse da seduti, indipendentemente dall’esercizio fisico effettuato nelle ore rimanenti. «Il risultato di questo lavoro», scrivono gli autori, «se da un lato rappresenta una novità dalle importanti implicazioni, dall’altro solleva diverse domande che, al momento, non trovano ancora una risposta. Ora è necessario esplorare il ruolo dei meccanismi biologici mediatori degli effetti del comportamento sedentario sui marcatori di neuroplasticità, per esempio valutando i biomarcatori immuni nel siero. Potrebbero anche essere presenti differenze in base a cosa si fa mentre si sta seduti, per esempio se si è mentalmente attivi o inattivi. Poi andrebbe verificato come ciò si riflette sul sistema cerebrale. Anche altri fattori legati allo stile di vita, come l’alimentazione, possono avere un impatto e quindi dovranno essere esaminati nei prossimi studi».

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pediatria / disturbi neuropsichiatrici

Il punto su efficacia e sicurezza degli psicofarmaci in pediatria A livello mondiale, le diagnosi di disturbi dell’umore sono aumentate anche nella prima infanzia. In particolar modo, per questa fascia di popolazione il consumo di psicofarmaci è cresciuto in modo preoccupante, talvolta persino con un loro uso improprio. Qual è la situazione in Italia?

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econdo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il 10-20% dei bambini e degli adolescenti nel mondo soffre di disturbi neuropsichiatrici (in particolar modo ansia e depressione), la maggior parte dei quali si manifesta intorno all’età di 14 anni. Nel corso degli ultimi tempi è stato inoltre registrato un aumento delle diagnosi di disturbi dell’umore anche nella prima infanzia; negli Stati Uniti, per esempio, sono stati segnalati dei casi intorno all’età di 5-7 anni, anche se le prime vere e proprie diagnosi vengono effettuate solo dagli 8-9 anni in su (1). Tali condizioni patologiche rappresentano la principale causa di disabilità nella popolazione pediatrica; se non trattate, infatti, possono comportare un aumentato rischio di suicidio (tentato o completato), cronicizzazioni o ricadute, con conseguenze, a lungo termine, che impattano negativamente sul percorso di crescita, sociale, educativo e scolastico del bambino. Nonostante i dati in merito al profilo di sicurezza ed efficacia di questi farmaci nella popolazione pediatrica siano estremamente limitati (molte delle informazioni a oggi disponibili sono state estrapolate da studi che hanno arruolato prevalentemente giovani adulti), l’uso di farmaci psicotropi in pediatria è cresciuto esponenzialmente in tutto il mondo. Secondo alcune stime, gli Stati Uniti possiedono i tassi di utilizzo pe-

diatrico più elevato (circa il 6.7%); molti di questi bambini sono esposti contemporaneamente a più farmaci psicotropi (19.2%) (2). Nella maggioranza dei casi, sono le ragazze tra i 12 e i 17 anni a ricorrere all’utilizzo di tali medicinali, in particolar modo per il trattamento di disturbi alimentari,

di Carla Carnovale Farmacista

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pediatria / disturbi neuropsichiatrici

le ultime evidenze in merito al profilo di efficacia degli antidepressivi Secondo quanto riportato sull’illustre rivista scientifica internazionale Lancet, solo la fluoxetina risulterebbe efficace per il trattamento della depressione maggiore negli adolescenti e bambini (6). Gli autori di questa ampia revisione hanno analizzato 34 studi clinici che hanno coinvolto 5.260 giovani affetti da depressione maggiore fino a maggio 2015 (età 9-18 anni) e che hanno confrontato gli effetti di 14 farmaci antidepressivi: 6 inibitori selettivi della ricaptazione della serotinina (citalopram, sertralina, paroxetina, fluoxetina, escitalopram e duloxetina), la mirtazapina (antagonista alfa2 e 5HT2), il nefazodone (serotoninergico), la venlafaxina (un inibitore selettivo del reuptake di noradrenalina e serotonina) e 5 triciclici (amitriptilina, imipramina, nortriptilina, desimipramina, clomipramina). Sebbene risulti difficile per gli autori definire completamente attendibili le conclusioni emerse dalla revisione (a causa della non sicura affidabilità dei dati riportati negli studi clinici analizzati), le analisi evidenzierebbero un profilo di rischio/beneficio favorevole solo per la fluoxetina. I benefici non supererebbero invece i rischi in termini di efficacia e tollerabilità per tutte

le altre molecole oggetto delle indagini: > la nortriptilina è risultata meno efficace di altri 7 antidepressivi e del placebo; > l’imipramina, la venlafaxina e la duloxetina hanno manifestato il peggior profilo di tollerabilità a causa di una maggiore insorgenza di effetti avversi che determinerebbe una mancata aderenza alla terapia e una sospensione del trattamento statisticamente significativo rispetto al placebo. La venlafaxina è stata invece associata ad un aumento significativo di pensieri suicidi o tentativi di suicidio rispetto al placebo e ad altri 5 antidepressivi. La qualità degli studi oggetto della revisione era tuttavia estremamente variabile: il 65% degli studi aveva ottenuto finanziamenti da aziende farmaceutiche, il 30% sono stati valutati come affetti da un elevato rischio di bias e il 60% da un moderato rischio di bias. Solo in 4 dei 34 studi coinvolti nella revisione, gli autori hanno invece rilevato un basso rischio di bias. Di conseguenza, così come ribadito dagli autori, è estremamente difficile tracciare un quadro esaustivo dei vari livelli di efficacia e tollerabilità di tutti i farmaci antidepressivi utilizzati in pediatria.

alterazioni dell’umore, disturbi di ansia e attacchi di panico; il sesso femminile è difatti coinvolto nel doppio dei casi registrati tra i maschi. Nel 2016, i risultati riportati in uno studio pubblicato sulla rivista European Journal of Neuropsychopharmacology hanno rilevato un aumento della percentuale di bambini sottoposti al trattamento di psicofarmaci tra il 2005 e il 2012 pari al 61% in Danimarca, 54% nel Regno Unito, 49% in Germania, 26% negli Stati Uniti e 18% in Olanda (3). Gli incrementi più importanti si sono registrati nelle fasce d’età tra i 10 e 36

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i 14 anni e tra i 15 e 19 anni. I farmaci più utilizzati sono stati quelli a base di citalopram, fluoxetina e sertralina. L’aumentato consumo di psicofarmaci tra i bambini e gli adolescenti rappresenta una tendenza mondiale (seppur meno evidente nei Paesi mediterranei, inclusa l’Italia), definita decisamente preoccupante dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Il panorama italiano I dati a oggi disponibili sull’approccio prescrittivo italiano sembrano essere più tranquillizzanti. Un recente studio farmaco-epidemiologico ha preso in esame i dati delle prescrizioni di psicofarmaci rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale tra il 2006 e il 2011, nei minori di 18 anni, in sette regioni italiane che rappresentano circa il 50% della popolazione pediatrica (Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Abruzzo, Lazio e Puglia). La classe di

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pediatria / disturbi neuropsichiatrici

psicofarmaci più utilizzata è stata rappresentata dagli antidepressivi, seguita dagli antipsicotici e dai farmaci per l’ADHD. Dall’analisi conclusiva dei dati è emerso che in Italia il ricorso alla prescrizione di psicofarmaci è inferiore rispetto a quanto rilevato in altre nazioni e, soprattutto, non ha subito delle variazioni significative in termini di prevalenza e incidenza negli ultimi anni (4). Appropriatezza prescrittiva: il caso della paroxetina Al di là dei dati di prescrizione, ciò che desta preoccupazione è correlato a un uso improprio di tali farmaci nei bambini, in particolar modo in relazione alla prescrizione di farmaci non autorizzati all’uso nei minori di 18 anni. Già in passato le Agenzie regolatorie avevano puntato l’attenzione sull’uso di medicinali a base di paroxetina, fortemente sconsigliata in questa fascia della popolazione, ribadendo la controindicazione all’impiego in età pediatrica per un aumento di rischio di ideazioni suicidarie associato al farmaco. Tuttavia, rappresentando uno dei medicinali antidepressivi di riferimento nella popolazione adulta, viene spesso prescritta anche ai pazienti minori di 18 anni. In base a tali evidenze, l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha ribadito, di recente, la necessità di una maggiore attenzione e consapevolezza da parte dei medici prescrittori circa l’utilizzo della classe di medicinali antidepressivi a base di paroxetina, sottolineando la potenziale pericolosità in bambini e adolescenti (5). Così come riportato nel Riassunto delle Caratteristiche del Prodotto (RCP) e sul Foglio Illustrativo di questi medicinali, l’Aifa ricorda che la paroxetina non deve essere usata per il trattamento di bambini e adolescenti al di sotto dei 18 anni di età per mancanza di dati significativi di efficacia a fronte di un

aumentato rischio di comportamento suicidario e atteggiamento ostile. Durante la revisione periodica a livello europeo del profilo di sicurezza dei medicinali contenenti paroxetina (effettuata nel marzo 2014), il rischio suicidario in bambini e adolescenti è stato difatti inserito come un rischio potenziale importante da approfondire e monitorare nel tempo, considerato che il farmaco non è indicato nella popolazione pediatrica. L’importanza di attenersi scrupolosamente alle indicazioni fornite dall’RCP è stata ribadita anche dall’ex Ministro della salute Beatrice Lorenzin, nel novembre 2015, in occasione dell’avvio del Tavolo Tecnico sugli antidepressivi nei bambini e negli adolescenti, istituito proprio per discutere dell’uso di psicofarmaci nei minorenni, dell’appropriatezza delle prescrizioni eseguite dai medici e dei necessari controlli distributivi da parte dei farmacisti.

Bibliografia 1. http://www.who.int/mental_health/maternal-

child/child_adolescent/en/ 2. Zito JM, Safer DJ, de Jong-van den Berg LT, et al. A three country comparison of psychotropic medication prevalence in youth. Child Adolesc Psychiatry Ment Health 2008;2:26. 3. Bachmann C, Aagaard L, Burcu M et al. Trends and patterns of antidepressant use in children and adolescents from five western countries, 2005-2012. Eur Neuropsychopharmacol. 2016;26(3):411-9. 4. Piovani D, Clavenna A, et al. Psychotropic medicine prescriptions in Italian youths: a multiregional study. Eur Child Adolesc Psychiatry 2016;25:235-45. 5. Comunicazione sull’utilizzo degli antidepressivi. AIFA. Pillole dal Mondo n. 1217. 18/05/2017. 6. Cipriani A, Zhou X, Del Giovane C et al. Comparative efficacy and tolerability of antidepressants for major depressive disorder in children and adolescents: a network metaanalysis. Lancet. 2016;388(10047):881-90.

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farmacologia / antibioticoresistenza

antibiotici: cresce la resistenza

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l tasso di infezioni dovute a batteri resistenti agli antibiotici è quasi raddoppiato rispetto al 2002 e il costo delle cure supera attualmente i due miliardi di dollari l’anno negli Stati Uniti, secondo un articolo pubblicato online in marzo su Health Affairs (1). Il problema non è nuovo e gli esperti hanno già allertato più volte riguardo alla necessità di potenziare la ricerca su questo tema. Lo studio, però, ha il merito di fornire cifre precise che, proprio come si poteva immaginare, sono allarmanti. Il ricercatore principale, Kenneth E. Thorpe della Emory University di Atlanta, ha riferito che il calcolo è stato complicato dal fatto che solo il 12% dei casi sono stati correttamente identificati dall’International classification of diseases (ICD-9-CM). A quanto riferiscono gli autori, si tratta della prima stima, estesa a tutti gli Stati Uniti, dei costi per il trattamento delle infezioni resistenti agli antibiotici: Thorpe e colleghi hanno scoperto che, mentre il numero complessivo di infezioni batteriche è rimasto relativamente costante tra il 2002 e il 2014, passando da 13,5 milioni a 14,3 milioni all’anno, la percentuale di quelle resistenti agli antibiotici è aumentata drammaticamente, salendo dal 5,2% all’11,0% e provocando 23mila decessi all’anno solo negli Stati Uniti. Super-batteri sempre più preoccupanti Come si diceva, lo studio di Thorpe ha invece approfondito l’aspetto economico connesso al fenomeno: i costi medi di trattamento sono stati di 1394 dollari per i pazienti con infezioni da batteri che rispondono ai farmaci, contro i 3.698 dollari di quelle dovute a mi-

crorganismi resistenti. Queste ultime hanno superato il milione e mezzo nel 2014 e hanno comportato un costo aggiuntivo di circa 2,2 miliardi di dollari. E si tratta quasi certamente di stime per difetto, visto che l’analisi non comprende i dati relativi ai pazienti istituzionalizzati, come quelli in case di cura, in altre strutture di assistenza a lungo termine o nelle carceri, dove in genere le percentuali di infezioni resistenti agli antibiotici sono ancora più alte. Inoltre, l’analisi non ha incluso i bambini che, per gli autori, «sono i principali portatori di Staphylococcus aureus resistente alla meticillina (Mrsa) e di pneumococco». Ovviamente il problema è globale e, a livello europeo, l’Italia è uno degli anelli deboli. Sul fronte dei Gram negativi, da noi è diffusa soprattutto la specie batterica Klebsiella pneumoniae che è resistente a quasi tutti gli antibiotici disponibili, compresi i carbapenemi. Insieme alla Grecia, siamo uno dei Paesi con le percentuali di K. pneumoniae resistente ai carbapenemi più elevate, molto superiori alla media europea. Come informa l’Istituto superiore di sanità, anche Escherichia coli ha raggiunto alte percentuali di resistenza agli antibiotici: 30% verso le cefalosporine di terza generazione e 43% verso i fluorochinoloni. Per quanto riguarda i patogeni Gram positivi, la percentuale di Staphylococcus aureus resistente alla meticillina (Mrsa) oscilla da anni intorno al 33-34%. E si dimezza la resistenza alla penicillina nello Streptococcus pneumoniae. Infine, la resistenza alla vancomicina negli enterococchi, che ha rappresentato un grosso problema clinico negli anni Novanta, torna a essere una minaccia.

L’antibioticoresistenza è un fenomeno che sta diventando sempre più esteso e preoccupante. Ecco cosa è emerso dagli studi più recenti

di Renato Torlaschi

Bibliografia 1. Thorpe KE, Joski P, Johnston KJ. Antibiotic-

Resistant Infection Treatment Costs Have Doubled Since 2002, Now Exceeding $2 Billion Annually. Health Aff (Millwood). 2018 Apr;37(4):662-669.

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neonatologia / fattori di rischio

L’intelligenza artificiale a favore dei prematuri Individuare i fattori di rischio che corrono i bambini nati pretermine è importante per ridurre la mortalità infantile. Questo è il compito di PISA, l’applicativo tutto italiano messo a punto da un team di ricercatori del Dipartimento di Informatica dell’Università di Pisa

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di Marcella Valverde

Bibliografia 1. Podda M, Bacciu D, Micheli A, Bellù R, Placidi G, Gagliardi L. A machine learning approach to estimating preterm infants survival: development of the Preterm Infants Survival Assessment (PISA) predictor. Sci Rep. 2018 Sep 13;8(1):13743.

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ombattere la mortalità infantile grazie all’intelligenza artificiale e con strumenti in grado di aiutare i medici a identificare tempestivamente i fattori di rischio nei neonati prematuri: questo è stato l’obiettivo del team tutto italiano che ha messo a punto “PISA” (Preterm Infants Survival Assessment), un applicativo in grado di stimare la sopravvivenza dei neonati prematuri che ora è a disposizione gratuitamente di tutta la comunità scientifica e medica internazionale e, in prospettiva, utilizzabile più diffusamente in ambito clinico. Lo studio che ha portato alla realizzazione di PISA è stato pubblicato su Scientific Reports (1), rivista del gruppo Nature: è stato condotto dai ricercatori del dipartimento di Informatica dell’Università di Pisa, coordinati da Alessio Micheli e da Davide Bacciu, e dall’équipe di neonatologi diretta da Luigi Gagliardi dell’Ospedale Versilia. Per avere un’idea di cosa sia PISA e di come funzioni, basta andare sul sito http://pisascore.itc.unipi.it/single-sample-mode/, inserire i dati richiesti, tra cui peso alla nascita, sesso o modalità di parto, e cliccare per il responso. Tanta semplicità d’uso, però, nasconde in realtà una sofisticata tecnologia basata sul “Machine Learning”: si tratta dell’apprendimento automatico, ovvero l’idea che i computer possano imparare a eseguire compiti specifici senza essere programmati per farlo

grazie al modo con il quale utilizzano i dati di cui dispongono. «Per realizzare PISA – spiega Micheli – abbiamo preso in considerazione i dati anonimi di oltre 29.000 neonati pretermine italiani e li abbiamo utilizzati per creare modelli di “Machine Learning”, ottenendo un algoritmo di previsione più accurato di quelli attualmente in uso a livello internazionale basati, invece, su modelli statistici classici». Lo studio è stato il primo a livello mondiale a mettere insieme una quantità di dati così ingenti. I ricercatori hanno utilizzato le informazioni provenienti dalla banca dati del Network Neonatale Italiano, un progetto che coinvolge 89 ospedali nazionali ed è coordinato anche dalla Neonatologia dell’Ospedale Versilia. «Ogni anno in Italia nascono all’incirca 4500 neonati molto prematuri, sotto le 30 settimane o i 1500 g di peso alla nascita. Sebbene rappresentino meno dell’1% delle nascite, costituiscono più della metà delle morti infantili in Italia e nei paesi sviluppati – sottolinea Gagliardi –. PISA rappresenta quindi uno strumento importante non solo per la cura dei singoli pazienti, ma anche per aumentare la comprensione delle cause di mortalità. Così si possono individuare terapie più efficaci e, in definitiva, migliorare la prognosi in questa popolazione fragile». La realizzazione di PISA, finanziata anche con fondi dell’Università di Pisa grazie al PRA “Metodologie informatiche avanzate per l’analisi di dati biomedici”, si inserisce nell’ambito dell’attività di ricerca del gruppo di “Computational Intelligence & Machine Learning”, CIML-Unipi, che comprende anche Marco Podda, coautore del lavoro.

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attualità

Dall’Enpaf, un contributo straordinario una tantum di 550.000 euro Si tratta di un’iniziativa rivolta a farmacisti titolari o soci di farmacia che svolgono la professione spesso in condizioni di disagio. Ecco di cosa si tratta e il regolamento per l’assegnazione

L’Enpaf, l’ente previdenziale dei farmacisti, ha stanziato complessivamente 550.000 euro da erogare a favore dei professionisti in difficoltà. Infatti, dopo l’intervento dell’importo complessivo di 850.000 euro, predisposto a favore dei farmacisti rurali sussidiati a basso reddito, ora il Consiglio di amministrazione ha stanziato questo nuovo contributo una tantum per i farmacisti titolari o per i soci di parafarmacia. Il presidente dell’Enpaf, Emilio Croce, sottolinea come, ogni anno, il Cda non dimentichi chi esercita la professione in condizioni spesso di svantaggio economico. «Credo che le iniziative assunte siano la migliore risposta della Fondazione alle difficoltà della Categoria. Ormai, sempre più l’Ente è impegnato nel settore del welfare allargato che comprende anche le ulteriori iniziative assunte in favore di coloro che sono in stato di disoccupazione involontaria, nonché la copertura sanitaria per i grandi interventi e la Long Term Care, estese a tutti gli assicurati attraverso l’Emapi», afferma Croce. Regolamento e scadenza Le domande per il contributo una tantum vanno presentate entro il 30 novembre 2018: per verificare se si possiedono i requisiti, è possibile consultare il regolamento completo che si trova sul sito internet della Fondazione. Possono richiedere l’assegnazione i seguenti professionisti: > Gli scritti all’Enpaf che, almeno dall’anno 2016, hanno svolto l’attività di farma42

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cista in qualità di titolare o di socio di esercizio autorizzato alla vendita di farmaci da banco ai sensi del D.L. n.223/2006 (conv. Legge n.248/2006) e che alla data della domanda siano tenuti al versamento della contribuzione previdenziale in misura intera per gli anni 2016, 2017 e 2018; > I farmacisti che, alla data di presentazione della domanda, siano in regola col versamento della contribuzione Enpaf in misura intera dovuta per l’anno 2018 e che, nei limiti della prescrizione, non abbiano una morosità pregressa pari o superiore a 1/4 del contributo previdenziale dovuto per ciascun anno. Saranno ammesse le domande degli iscritti che hanno in corso la rateizzazione della morosità contributiva antecedente solo nel caso in cui, al momento della domanda, siano state rispettate le scadenze dei pagamenti concordati con il piano di rientro e sia stato versato un importo pari almeno alla metà del debito contributivo. A pena di esclusione, sarà a carico del richiedente l’onere di fornire, unitamente alla domanda di assegnazione del contributo assistenziale, copia del piano di rientro e della documentazione attestante lo stato del pagamento. Fanno eccezione, limita-

tamente alla contribuzione obbligatoria degli anni 2016 e 2017, i richiedenti per i quali è stata disposta la sospensione della riscossione a seguito degli eventi sismici verificatisi nel Centro Italia negli anni anzidetti. Le iniziative future Non è tutto: nella prossima seduta del Consiglio di amministrazione sarà esaminata la proposta del contributo straordinario una tantum anche in favore dei farmacisti titolari di partita Iva e con rapporti di lavoro autonomo, soggetti unicamente alla previdenza obbligatoria Enpaf. Lo stanziamento previsto sarà pari a 150 mila euro. Marcella Valverde

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DiaDay, torna nelle farmacie italiane lo screening gratuito della glicemia Anche quest’anno, in concomitanza con la Giornata Mondiale del Diabete, si terrà la seconda edizione della campagna di controllo presso le farmacie aderenti a Federfarma e patrocinata da Fofi, Fnomceo, Sid e Cittadinanzattiva

Tra il 12 e il 18 novembre le farmacie tornano a essere protagoniste nella lotta al diabete. Come l’anno passato, infatti, quelle aderenti a Federfarma ospiteranno la seconda campagna nazionale che offre l’autoanalisi gratuita della glicemia. Contestualmente, verrà chiesto ai cittadini di rispondere a un questionario anonimo (il Diabet Risk Score Drs), convalidato dalla comunità scientifica internazionale e finalizzato a valutare il rischio di sviluppare il diabete nell’arco di 10 anni. Durante lo screening saranno anche rilevate informazioni circa l’aderenza da parte dei soggetti diabetici alla terapia prescritta dal medico. I risultati del test verranno consegnati subito e, nel caso in cui i valori lo richiedessero, le persone saranno invitate a rivolgersi al proprio medico. Ma non è tutto: le farmacie, infatti, forniranno anche un servizio educativo grazie a materiale sanitario informativo e consigli sui corretti stili di vita. «Scoprire per tempo il diabete o accertarne la predisposizione permette di individuare tempestivamente, insieme al medico, le terapie e i comportamenti più opportuni da adottare», ha affermato Marco Cossolo, presidente di Federfarma nazionale. «Oltre al grande valore sanitario, lo screening è un mezzo per ridurre i costi economici della malattia: chi scopre di essere predisposto e adotta stili di vita adeguati, infatti, può evitare il conclamarsi della patologia. Per il Sistema sanitario nazionale il diabete e le sue complicanze rappresentano un costo enorme che solo la prevenzione può arginare. Il

DiaDay dimostra, in modo concreto, il ruolo capillare che le farmacie svolgono sul territorio nazionale nell’ambito della prevenzione e dell’educazione alla salute. In quest’ottica, infatti, costituiscono un nodo di scambio tra il Ssn e le famiglie, scambio che si traduce in messaggi utili per definire politiche sanitarie efficaci, a vantaggio della salute e dell’economia nazionale», conclude Cossolo. L’importanza del Diabets Risk Score DRS Grazie ai dati del 2017, è stato possibile calcolare, nei soggetti prediabetici e in quelli normali, il rischio di sviluppare la patologia nell’arco di un decennio. Il risultato si ottiene da un punteggio ricavato dalle risposte di chi fa il test sui propri stili di vita, le abitudini alimentari, la familiarità col diabete e le caratteristiche personali, tra cui età, misura del giro-vita, peso. La diagnosi di prediabete in questa ricerca, che non prevede un carico orale di glucosio, può essere fatta solo grazie alla determinazione della glicemia a digiuno. La diagnosi di diabete, infatti, presuppone una glicemia a digiuno uguale o superiore a 125 mg% oppure di valori, in qualunque momento della giornata, uguali o superiori a 200 mg%. I dati raccolti durante lo screening mettono in luce come i prediabetici con probabilità elevata (1:3) di sviluppare la patologia siano soprattutto ultra-64enni (65,35%), seguiti dalla fascia di età 55-64 anni (23,70%). Circa i soggetti normali (122.355 casi, ossia la popolazione monitorata senza considerare diabetici

o prediabetici), una predisposizione molto alta riguarda quasi il 20% del campione, mentre il rischio moderato interessa il 21,53%. Sono numeri davvero impressionanti, ma fondamentali: scoprire in tempo il diabete o accertarne la predisposizione permette, infatti, “rimediare” con comportamenti adeguati e terapie mirate. Le donne sono le più attente Se l’obiettivo della campagna è quello di individuare tre tipologie di casi, ossia soggetti con diabete non diagnosticato, soggetti in condizioni di prediabete e altri normali ma comunque a rischio di sviluppare la patologia entro 10 anni, è interessante osservare ciò che è emerso l’anno scorso. A questo proposito, i dati diffusi da Federfarma sono indicativi: allo screening hanno aderito oltre 7.000 farmacie che hanno valutato più di 160.000 persone in tutta Italia, il 60% donne e il restante 40% uomini, individuando oltre 4.000 diabetici che non sapevano di esserlo e quasi 19.000 casi di prediabete. La preponderanza femminile è dovuta a una maggiore frequentazione delle farmacie rispetto agli uomini, visto che sono soprattutto loro a occuparsi della salute dei familiari, oltre che della propria. Ora, perciò, si attendono con interesse le statistiche che emergeranno dalla campagna 2018, auspicando un’alta adesione da parte del pubblico e un risultato, in termini di prevenzione, ancora più soddisfacente di quello dell’anno scorso. Marcella Valverde ottobre 2018

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Un nuovo test genetico per individuare le malattie coronariche Grazie a uno studio internazionale, è stato messo a punto un esame che potrebbe rivelare se una persona presenta maggiori probabilità di andare incontro a crisi cardiache

Le patologie coronariche (CAD, Coronary Artery Disease) sono la principale causa di malattia e mortalità a livello mondiale: per questo motivo, l’identificazione precoce degli individui ad alto rischio è essenziale per la prevenzione primaria. Poiché l’ereditabilità della CAD è stata stimata tra il 40% e il 60%, le informazioni complete sulla suscettibilità genetica potrebbero contribuire in modo importante alla conoscenza dei vari fattori che ne compongono il rischio. Sebbene la storia familiare sia stata a lungo considerata come un elemento che predispone alla CAD, la delucidazione dell’architettura genetica delle patologie coronariche è progredita sostanzialmente solo nell’ultimo decennio. Infatti, è con l’avvento degli studi di associazione genome-wide, ossia l’indagine di tutti, o quasi tutti, i geni che fanno parte del corredo genetico di diversi individui di una particolare specie, fondamentale per determinare le variazioni geniche tra gli individui in esame, che è possibile individuare un’associazione tra geni e particolari malattie tra cui, appunto, la CAD. Da un studio innovativo, scenari importanti per la prevenzione Come detto, la coronaropatia (CAD) può avere una causa ereditaria e un’architettura poligenica. Finora, i test disponibili erano stati condotti su campioni limitati, con probabilità di previsione di rischio non del tutto attendibili. Ora, invece, un nuovo test 44

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genetico potrebbe rivelare se una persona ha maggiori probabilità di essere colpita da un attacco cardiaco rispetto ad altre. È quanto emerge da uno studio, pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology con il titolo di Genomic Risk Prediction of Coronary Artery Disease in 480,000 Adults, che è stato realizzato da un team internazionale di ricercatori coordinato da Nilesh J. Samani dell’Università di Leicester (Regno Unito). Per sviluppare il test, chiamato Genomic Risk Score (GRS), i ricercatori hanno analizzato 1,7 milioni di varianti genetiche mettendo così a punto un metodo che studia modelli genetici piuttosto che un unico gene ereditario. Successivamente, li hanno testati utilizzando i dati genetici raccolti dalla UK Biobank relativi a 482.629 persone di età compresa tra 40 e 69 anni, tra cui 22.242 affette da cardiopatia coronarica. La sperimentazione ha dimostrato che i partecipanti con un punteggio GRS alto avevano una probabilità fino a quattro volte maggiore di sviluppare una patologia coronarica rispetto a quelli che avevano in-

vece totalizzato un punteggio inferiore. Il risutato genomico, sviluppato e valutato nel presente studio, rafforza la correttezza dell’utilizzo di informazioni genomiche per stratificare gli individui per il rischio di CAD in popolazioni generali: così si dimostra il potenziale per lo screening genomico già nelle prime fasi della vita per integrare la previsione del rischio convenzionale. I risultati di queste indagini, che non indagano tutto il genoma, hanno perciò gettato le basi per lo sviluppo di punteggi di rischio genomico (GRS) di un individuo. Quindi, offrono il potenziale per lo screening del rischio precoce e la prevenzione primaria ancor prima che altri fattori di rischio convenzionali diventino informativi. Secondo gli autori, l’impiego del test potrebbe aiutare a individuare i soggetti che, pur non presentando fattori di rischio tradizionali (tra cui colesterolo alto, ipertensione, diabete, indice di massa corporea elevato, fumo, storia familiare), sono predisposti a essere colpiti da infarto. Inoltre, poiché i GRS si basano sul DNA germinale, e il DNA non cambia nel corso della vita di un individuo, sono quantificabili nella prima infanzia, alla nascita o, addirittura, prima della nascita. Infine, anche se nello studio sono stati utilizzati campioni di sangue, gli autori affermano che il GRS potrebbe essere eseguito efficacemente anche tramite la saliva, semplificando e rendendo ancor più accessibile lo screening. Marcella Valverde

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attualità

Un collirio a base di curcuma per mettere un freno alla progressione del glaucoma Da uno studio recente è emerso che questa spezia, famosa per le sue numerose proprietà benefiche, potrebbe essere un elemento importante nella cura di una delle patologie oculari più diffuse e insidiose per la vista

Il glaucoma rappresenta la seconda causa di cecità nei Paesi industrializzati e, solo in Italia, interessa circa un milione di persone Denominata anche “il ladro silente della vista”, è una patologia subdola che si sviluppa quando il fluido contenuto nel bulbo oculare non riesce a defluire in maniera corretta aumentando così la pressione all’interno dell’occhio. Purtroppo, nonostante sia una malattia sempre più diffusa, non è ancora stata trovata una cura definitiva. Accanto ai rimedi oramai consolidati, tra cui l’utilizzo del laser, della chirurgia e di specifici colliri, ora gli specialisti potrebbero avere una freccia in più nel loro arco per tenere a bada il problema: un collirio a base di un estratto di curcuma che potrebbe dare risultati molto promettenti soprattutto se utilizzato nelle prime fasi della malattia. Ad annunciarlo, in uno studio pubblicato su Scientific Reports, sono i ricercatori dell’UCL Institute of Ophthalmology di Londra secondo cui la somministrazione di curcumina, cioè il pigmento

vegetale che conferisce il caratteristico colore giallo della spezia, all’interno di colliri permetterebbe di superare il problema della scarsa biodisponibilità e solubilità della sostanza, consentendone l’impiego anche per il trattamento di altri disturbi. Il perché della curcuma Si tratta di una spezia dalle numerose proprietà benefiche: questa radice, infatti, agisce come disintossicante e come cicatrizzante e può essere considerata un antinfiammatorio naturale in grado di ridurre il rischio di incorrere, tra l’altro, in malattie cardiovascolari e neurodegenerative. Il problema è che la curcuma per via orale, per essere attivata, deve essere associata al pepe nero e a un grasso. Inoltre, dovrebbe essere consumata in alte dosi per fornire dei risultati significativi. I ricercatori ora hanno trovato il modo di beneficiare dei suoi principi attivi introducendoli direttamente nel collirio. «La curcumina è un composto sorprendente che si è dimo-

strato promettente nel trattamento della neurodegenerazione implicata in numerose condizioni dell’occhio e del cervello, dal glaucoma alla malattia di Alzheimer -, afferma Francesca M. Cordeiro, che ha coordinato la sperimentazione -. Pertanto, poterla somministrare facilmente nei colliri potrebbe aiutare milioni di persone a tenere a bada una malattia come il glaucoma che è in costante aumento. Riteniamo, perciò, che le nostre scoperte possano fornire un contributo importante per migliorare la vita di chi deve convivere con questo tipo di patologie», conclude la ricercatrice. La tecnica e l’esperimento La curcumina è stata così inserita in un nanocarrier costituito da un tensioattivo combinato con uno stabilizzante, due sostanze già utilizzate in prodotti oculari e considerate sicure per l’uso umano. Tale sistema permette di fornire dosi elevate di curcumina con un aumento della sua solubilità di quasi 400.000 volte. Gli scienziati hanno poi somministrato il collirio a un gruppo di topi soggetti alla perdita di cellule retiniche, una delle prime fasi del glaucoma, due volte al giorno per tre settimane. Al termine del trattamento, hanno potuto osservare come il farmaco fosse stato in grado di ridurre significativamente la perdita di cellule gangliari della retina dei topi senza che si manifestassero reazioni avverse, segni di irritazione o di infiammazione. Marcella Valverde ottobre 2018

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Nobel 2018 per la Medicina: premiata l’immunoterapia contro i tumori

Quest’anno l’Accademia reale di Svezia ha attribuito il Nobel alla Medicina allo statunitense James P. Allison, nato nel 1948, e al giapponese Tasuku Honjo, classe 1942, per la scoperta dell’immunoterapia anticancro. Questo tipo di trattamento ha aperto la strada a una vera e propria nuova era nei trattamenti oncologici: grazie alle scoperte dei due studiosi, infatti, sono stati delineati approcci terapeutici che si sono rivelati efficaci per contrastare alcuni tipi di neoplasie, dal melanoma al carcinoma polmonare. Tutto è partito dallo studio sul ruolo di due proteine che agiscono come freno all’immunità, freno che, se disattivato, può permettere alle cellule immunitarie di esprimere tutto il loro potenziale contro quelle tumorali. “L’intuizione dei due studiosi è stata quella di sfruttare il sistema immunitario per attaccare le cellule cancerogene, un approccio innovativo per affrontare una patologia che miete ogni anno milioni di vittime e che costituisce una delle più gravi minacce alla salute dell’umanità”, come si può leggere nella motivazione che ha portato l’Accademia ad attribuire il premio ad Allison e Honjo. Gli attori di questo meccanismo sono molteplici: la risposta antitumorale, infatti, viene fornita dai linfociti T, globuli bianchi in grado di attaccare le cellule che trasportano gli antigeni tumorali. L’azione dei linfociti T, però, è condizionata dalla presenza di proteine che, da un lato, fanno da acceleratore e da altre che, invece, ne frenano l’attività. Una di queste è la CTLA-4, la proteina 46

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Ilustration: Niklas Elmehed - © Nobel Media AB 2018

Da Stoccolma sono arrivati i riconoscimenti più prestigiosi al mondo. Quello per la ricerca medica è stato attribuito a James P. Allison e Tasuku Honjo per gli studi che hanno dato il via a un nuovo approccio terapeutico anticancro

> James P. Allison e Tasuku Honjo al centro degli studi di Allison già negli anni ‘90. Nonostante lo scarso interesse da parte dell’industria farmaceutica, lo scienziato continuò a impegnarsi per trasformare la strategia in una terapia da applicare agli esseri umani. Allison, infatti, sviluppò un anticorpo anti-CTLA-4 in grado di legarsi alla proteina bloccandone l’azione. L’intento era quello di osservare se tale blocco fosse in grado di togliere il freno ai linfociti T, permettendo così al sistema immunitario di attaccare le cellule tumorali. Dopo il successo di questi studi sui topi, le conferme arrivarono nel 2010 su pazienti con melanoma a uno stadio avanzato, dimostrando una grande efficacia terapeutica. Parallelamente, nel 1992, presso la Kyoto University, in Giappone, Tasuku Honjo scoprì un’altra proteina, la PD-1, che si trova sulla superficie dei linfociti T. Nei suoi studi, il ricercatore aveva constatato che questa mo-

lecola, proprio come quella scoperta dal suo collega statunitense, frenava i linfociti T anche se attraverso un meccanismo differente. Dopo i primi esperimenti su modelli animali e a 20 anni dagli albori di questi studi fondamentali, sono finalmente arrivati risultati importanti in pazienti oncologici, portando alla remissione di tumori nel lungo periodo e a una possibile cura in chi ne abbia uno in fase metastatica. È da osservare che la strategia che blocca la proteina PD-1 si è dimostrata più efficace sulle forme tumorali a polmone, rene, linfoma e melanoma. Entrambe le proteine studiate sono state chiamate “checkpoint”: ecco perché questo nuovo approccio viene definito “terapia dei checkpoint immunitari”. In genere il trattamento viene comunque affiancato da metodi tradizionali di cura come chemioterapia, radioterapia, chirurgia, terapia ormonale e con farmaci a bersaglio molecolare. Ovviamente, anche l’immunoterapia non è esente da effetti avversi legati a un’eccessiva risposta immunitaria che, però, può essere gestita efficacemente con specifiche terapie. Inoltre, la ricerca non si ferma qui, ma prosegue cercando di mantenere affilate le armi contro le strategie messe in campo dalle cellule tumorali per aggirare la risposta immunitaria “senza freni”. Marcella Valverde

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ars galenica Con questo volume, Irene Ruffino, responsabile del Laboratorio di Galenica interno della Farmacia Ospedaliera di Santa Maria Nuova, ci accompagna nella storia della produzione farmaceutica dalle origini della spezieria fino alle più recenti produzioni.

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n famoso detto recita che gli occhi sono lo specchio dell’anima, e per questo è importante prendersene cura in maniera adeguata. Capita spesso, infatti, che a causa di agenti esterni come vento, polvere, allergeni stagionali e uso di cosmetici le palpebre possono essere interessate da patologie infiammatorie accompagnate spesso da rilevanti ipersecrezioni mucose, tra cui blefariti, orzaioli, congiuntiviti, da-

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Magnosol, integratore alimentare per carenzE di magnesio e potassio

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onciliare tante attività quotidiane è faticoso e può provocare una giustificata spossatezza fisica. Quando poi si attraversano periodi particolarmente intensi o debilitanti, i cali di energia e l’affaticamento muscolare diventano ancor più accentuati, a causa della carenza di determinati sali minerali. Anche un’alimentazione non corretta o situazioni di aumentato fabbisogno (eccessiva sudorazione dovuta al caldo o ad aumentata attività fisica o lavorativa, gravidanza, allattamento) possono causare carenze di questi elementi.

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energetico, al normale funzionamento del sistema nervoso e alla normale funzione muscolare. Il potassio è un minerale che contribuisce alla normale funzione muscolare. Il consumo varia in funzione delle individuali necessità. Si consiglia di assumere da 1 a 2 bustine al giorno, da sciogliere in circa mezzo bicchiere d’acqua.

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Gunabasic, L’INTEGRATORE CHE REGOLA IL PH

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unabasic è un integratore alimentare completo per regolare il pH. Perfettamente solubile, a base di sali minerali, beta carotene e zinco, con estratti vegetali e con stevia, è in grado di apportare in modo naturale il giusto fabbisogno di minerali ed oligoelementi. Un equilibrio acido-base bilanciato e con un pH fisiologico è infatti indispensabile per l’armonia dell’intero organismo. Per il mantenimento della condizione di benessere nel tempo, Gunabasic garantisce il riequilibrio del pH senza scompensare verso l’alcalinizzazione. Può essere d’aiuto a coloro che soffrono di acidità legata a una cattiva alimentazione e per controbilanciare gli effetti negativi di una dieta iperproteica, per chi ha ritmi di vita stressanti o abitudini poco salutari (fumo, al-

cool, mancanza di attività fisica) o sta affrontando una dieta dimagrante restrittiva, per gli atleti o per chi abusa di integratori proteici non bilanciati. È un ottimo coadiuvante dopo i 50 anni di età ed è utile anche nella prevenzione dell’osteoporosi. Gunabasic è una miscela sinergica e complementare di estratti minerali e vegetali. Tra i suoi componenti spiccano lo zinco, che contribuisce al fisiologico metabolismo acido-base, e il magnesio, utile per il mantenimento dell’equilibrio elettrolitico. Gli estratti vegetali di carota e finocchio sono efficaci per il drenaggio dei liquidi corporei, mentre l’estratto vegetale di tarassaco contribuisce alle funzioni depurative dell’organismo. Assunto alla sera prima di coricarsi, Gunabasic svolge un’azione antistress, conci-

liante il riposo e il sonno, condizione che unitamente al ristabilimento delle funzioni organiche di base è indispensabile per ritrovare la sensazione di benessere. Gunabasic è privo di glutine e da oggi è disponibile con edulcorante naturale da glicosidi steviolici (stevia). Guna Tel. 02.280181 info@guna.it - www.guna.it ottobre 2018

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LIPOSCUDIL PLUS, L’INTEGRATORE CHE CONTRIBUISCE AL CONTROLLO DEL COLESTEROLO NEL SANGUE

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iposcudil Plus è un integratore alimentare caratterizzato dalla presenza di quantità di riso rosso fermentato (di cui 10 mg di monacolina K) che contribuiscono al mantenimento di livelli normali di colesterolo nel sangue. Inoltre nella formula di Liposcudil Plus è stato inserito il Coenzima Q10 (30 mg) al fine di integrarne l’eventuale de-

plezione dovuta all’inibizione della sua sintesi. L’integrazione del Coenzima Q10 può essere utile nella mioprotezione e favorisce la bioenergetica cellulare. I componenti di Liposcudil Plus, il riso rosso fermentato da Monascus Purpureus e il Coenzima Q10, per mezzo di un’innovativa tecnica farmaceutica, sono stati adsorbiti in un sistema autoemulsionante che ne favorisce l’emulsionamento con i sali biliari. Pertanto tali principi presentano il vantaggio di essere più solubili e quindi maggiormente biodisponibili. Con l’impiego di questa tecnica si assicura un’ottimale efficacia del riso rosso fermentato nonché una migliore biodisponi-

bilità del Coenzima Q10. Liposcudil Plus è utile per favorire il controllo dei livelli ematici di colesterolo nell’ambito di una dieta globalmente adeguata. L’effetto benefico si ottiene con l’assunzione di una capsula al giorno da deglutire con un po’ d’acqua, preferibilmente dopo il pasto serale. La confezione contiene 30 capsule per un mese di trattamento. Per l’uso del prodotto si consiglia di sentire il parere del medico. Piam Farmaceutici Tel. 010 518621 info@piamfarmaceutici.com www.piamfarmaceutici.com

redux Patch Perfect Body, trattamento urto rimodellante per pancia e fianchi

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lanet Pharma lancia Redux Patch Perfect Body Rimodellante Pancia e Fianchi, un innovativo trattamento in confortevoli patches transdermici con tecnologia CTS per rimodellare e tonificare efficacemente pancia e fianchi. La tecnologia CTS (Controlled Technology System) permette il rilascio localizzato in 8 ore degli estratti naturali contenuti nei patches direttamente sulla zona da trattare, svolgendo così un’azione mirata e prolungata. L’intensa azione snellente e rassodante è garantita da uno speciale mix composto da 8 attivi di origine vegetale. Il rodisterolo è un attivo innovativo dalla spiccata azione lipolitica su accumuli adiposi di vecchia data 50

Professione Salute

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e cellulite; la caffeina contrasta l’accumulo di grasso nelle cellule, la garcinia cambogia esplica un’azione drenante e lipolitica. Il guaranà svolge un’azione lipolitica, drenante ed energizzante, la centella asiatica ha forti proprietà rassodanti ed elasticizzanti, mentre l’edera, grazie all’azione drenante, favorisce il microcircolo. Infine la cola svolge un’azione antiossidante, lipolitica e stimola il micro-

circolo e l’ananas svolge un’azione antinfiammatoria. Redux Patch Perfect Body è confortevole, facile e veloce da applicare, aderisce perfettamente al corpo con un effetto “seconda pelle”, che lo rende invisibile anche sotto gli abiti più aderenti, consentendo di indossarlo sia di giorno che di notte. È clinicamente e dermatologicamente testato. Planet Pharma Tel. 02 66013178 info@planetpharma.it www.planetpharma.it

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