trimestrale di informazione degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori Lombardi
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TRIMESTRALE di informazione degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori Lombardi
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4 angelo monti 4 igor maglica 6 dai presidenti Direttore Responsabile Angelo Monti Comitato editoriale Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori www.consultalombardia.archiworld.it www.architettilombardia.com Redazione Igor Maglica (caporedattore) Daniela Villa Direzione e Redazione via Solferino 19 20121 Milano tel. 0229002165 fax 0263618903 redazione@consulta-al.it Progetto grafico 46xy studio, Milano Impaginazione 46xy studio, Milano Copertina ESSERE ARCHITETTO 46xy Pubblicità Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori
Autorizzazione Tribunale n. 27 del 20.1.1971 Distribuzione a livello nazionale. La rivista viene inviata gratuitamente, in forma digitale, a tutti gli architetti iscritti agli Ordini degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Lombardia aderenti alla Consulta che abbiano rilasciato l’autorizzazione a: liberatoria@architettilombardia.com Gli articoli pubblicati esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti PPC, né la Redazione di “AL”
Quarantatreesimo anno Chiuso in Redazione 13 marzo 2015
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LUIGI CACCIA DOMINIONI vittorio gregotti umberto riva leopoldo freyrie antonio monestiroli stefano boeri mario piazza paolo rosselli federico bucci italo rota gizmo giancarlo consonni michele de lucchi duilio forte matilde marazzi emanuela bussolati francesco valesini ghigos ideas andrea campioli giacomo moor giacomo ortalli vincenza la rocca giuseppe cosenza emilio terragni
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pietro bergamini fabio bonomelli giulia canavotto daniele del grosso alessandro della vecchia anna eberle lorenzo iannuzzi lorenzo f. lanzani tommaso lolli francesca martellono denise c. mazzolini elena sartini
Monti maglica
ferrari BARATTO
PIERPAOLI
gozzi
ripamonti
boriani valenti bottelli
molteni
lorini vanoi giannetti per il numero
Angelo monti Ha insegnato alla Facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara e presso l’Università di Parma e vistiting lecture per il corso italiano della USC (Università della California). È stato presidente dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Como e fino al 2014 presidente della Consulta Regionale Lombarda. È Direttore editoriale della rivista “AL”.
igor maglica Caporedattore della rivista “AL”. Dal 1990 inizia a occuparsi di editoria e grafica ricoprendo nel corso della sua carriera professionale i ruoli di redattore, coordinatore editoriale, editor, caporedattore, grafico e art director per le riviste “qa”, “Costruire in laterizio” e “AL”.
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500. Un numero può riassumere una piccola grande storia. Fatta di passioni, ricerca, tentativi, a volte battute di arresto, e risultati positivi. Questo, credo, abbia rappresentato la rivista di Consulta per la cultura della professione in quarant’anni di pubblicazioni. Abbiamo pensato di cogliere l’occasione di questo anniversario per esplorare – con leggerezza e senza l’ambizione di essere esaustivi – le tante letture contemporanee della nostra disciplina, attraverso il libero racconto di grandi testimoni dell’architettura lombarda, di noti o giovanissimi architetti impegnati nella professione o nella pubblica amministrazione, di tanti che, formatisi come architetti, hanno scelto ambiti diversi o specialistici (artisti, designer, fotografi, grafici, manager, blogger, strutturisti...) e ancora di studenti che si preparano a esplorare una strada intrigante, sebbene non facile. In queste pagine, che ognuno ha liberamente interpretato, vi sono esempi personali ma al tempo stesso universali in cui possiamo ritrovare esperienze, attese e delusioni. Personalmente non ho mai interpretato
Come spesso accade la raccolta finale dei ventiquattro interventi che compongono il cuore di questo numero di “AL” è un insieme di scelte ponderate, di casualità e di fortuna. Abbiamo cercato di illustrare ai lettori, nel nostro piccolo, le molte possibilità d’impiego che la professione di architetto ci offre, oltre a quella canonica del progettista. Così, nelle seguenti pagine convivono, fianco a fianco, in un ordine volutamente né cronologico né alfabetico, alcuni conclamati maestri d’architettura lombarda, il Presidente del Consiglio nazionale
l’architettura come un’arte “a prescindere”, se non nella accezione di impegno civico alla costruzione collettiva di un abitare più degno che in alcuni casi – i più alti – assume l’aura di luogo. Questo numero non è un omaggio celebrativo – non è proprio il caso in questa contingenza storica – ma nemmeno disfattista, più semplicemente il capitolo di un racconto sull’identità disciplinare, che, sono certo, in molti modi continuerà. Mentre scrivo non so se questo sarà l’ultimo numero di “AL” o il primo di una nuova stagione. So che è stato giusto proseguire l’impegno di chi mi ha preceduto e di volere caparbiamente condurlo a questo traguardo. Questa è anche l’occasione per un ideale e corale ringraziamento ai tanti autori, istituzioni, collaboratori, che negli anni hanno consentito questa pubblicazione e in particolare, con un accento personale, a coloro che hanno contribuito con articoli, interviste, supporto redazionale e grafico durante i due anni della mia direzione. William Morris scrisse che “non possiamo sottrarci all’architettura”, per questo, oltre i periodi bui, voglio credere che il nostro destino sia di non perdere mai il filo rosso dell’architettura. Angelo Monti
degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori, un già Preside e un Prorettore delle Facoltà di Architettura, un grafico e direttore di importanti riviste di architettura, un ex Assessore e un Assessore di alcuni comuni lombardi, un fotografo di fama internazionale, il Presidente di AIAPP Lombardia, un pittore, poeta e professore, alcuni designer, maker e artisti, un’illustratrice, e tanti giovani che stanno iniziando a intraprendere le loro carriere professionali da soli o in gruppo, e tanti altri. Buona lettura e buona visione! Igor Maglica
Dai Presidenti Pubblichiamo qui di seguito il testo composto dalla giustapposizione dei brevi e liberi commenti ricevuti dai Presidenti degli Ordini lombardi sul significato dell’essere architetto. Il risultato è una riflessione congiunta sulla professione, atta a introdurre i molteplici e preziosi contributi che si susseguono in queste pagine.
L’architetto è una professione, non una missione. È un uomo o una donna cui la legge consente di edificare, sistemare, riequilibrare, inventando o favorendo modi di vivere. Può essere atterrito o inorgoglito, responsabilizzato o manipolato, coraggioso o ignavo. L’atteggiamento magnifico è di chi non si trincera nella norma edilizia né tenta di eluderla, ma la usa correttamente per individuare soluzioni giuste ed eleganti, non per forza spregiudicate. (1) Considerare la complessità e le contraddizioni del contemporaneo come un’occasione di progetto, come un valore da interpretare. Un incessante e faticoso dialogo tra differenze, mantenendo il controllo della nostra identità. (2) Citando Ignazio Gardella “fare un lavoro di assimilazione, non di imitazione, di assimilazione dei caratteri (…) l’impegno tecnico deve essere rivolto non solo alla costruzione dell’edificio ma soprattutto alla costruzione dell’idea che sta alla base dell’edificio (…) l’Architettura va al di là della sua ragion pratica. L’Architettura come ‘sostanza di cose sperate’ diventa espressione di civiltà”. (3) L’architetto è un tecnico. Quello che lo distingue dagli altri professionisti tecnici è l’uso che fa della tecnica: materia prima per scrivere, dipingere, comporre... creare con nuovi utilizzi di tecniche consolidate. Rivolgersi a un architetto significa chiedere soluzioni tecniche nuove a problemi noti o nuovi. L’architetto è un artista. (4) Fare architettura è immaginare la luce come presagio di bellezza, è rivedere luoghi rinati in funzioni diverse, è pensare a un mondo di relazioni umane e non solo di volumi nel quale si è trovata risposta ai molti bisogni dell’uomo. Architettura è alchimia di qualità artistica e competenza tecnica, è sapiente connubio tra sensibilità e poesia, tra curiosità e audacia. Il ruolo dell’architetto è regalare bellezza percepita non solo con gli occhi. (5) Immagino uno scambio di battute da una conversazione [im]possibile tra due grandi, in due epoche differenti, la stessa passione che accomuna noi tutti… l’architettura. Toyo Ito: “I’m trying to counter the fixity of architectures, their stolidity, 6
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1. Alessandra Ferrari, Presidente dell’Ordine degli APPC di Bergamo 2. Umberto Baratto, Presidente dell’Ordine degli APPC di Brescia
3. Michele Pierpaoli, Presidente dell’Ordine degli APPC di Como
4. Bruna Gozzi, Presidente dell’Ordine degli APPC di Cremona
5. Maria Elisabetta Ripamonti, Presidente dell’Ordine degli APPC di Lecco
with elements that give an ineffable, immaterial quality…”. Gio Ponti: “[Certo], l’incanto. Questa cosa inutile e indispensabile come il pane”. (6) Non si vola più, al massimo ci si muove nelle paludi della burocrazia, tra le macerie di un primitivo ed inutile impulso di sviluppo che ha generato mostri vuoti. Torniamo a pensare, torniamo a studiare, riprendiamoci la responsabilità di immaginare e costruire, sperando che il volo non sia quello di Icaro. (F.F.) (7) Rubo l’incipit all’amico Luciano Galimberti, presidente di ADI, che a un recente convegno sulla condizione della professione ha selezionato un brano di Alice nel Paese delle Meraviglie a mio avviso illuminante: “Cammino, cammino e resto sempre allo stesso posto”, disse Alice. “È normale”, rispose la regina, “se vuoi andare da qualche parte devi correre molto più veloce del tuo tempo”. Credo, infatti, che una delle difficoltà di essere architetti oggi in Italia, ma non solo, sia proprio questa: lo scenario è in continua mutazione, stentiamo a comprendere le ragioni dei mutamenti, abbiamo necessità di un aggiornamento continuo delle nostre competenze e dell’organizzazione dei nostri studi, dobbiamo guardare a mercati oltre confine: in altre parole dobbiamo davvero riuscire a correre più veloci dei mutamenti per non farci lasciare indietro. (8) Come la musica suggerisce spazi così l’architettura restituisce note. Entri in una cattedrale gotica e una nota alta si eleva verso il cielo, attraversi una periferia urbana e si fa largo un suono dapprima indistinto, poi dissonante. L’architetto è un direttore d’orchestra. (9) Il valore del nostro lavoro credo consista, ancora oggi, nel sapere prefigurare con un certo equilibrio e umiltà il destino del paesaggio. Ragionare e avere buone idee sulla costruzione di territorio, spazi, edifici, sono capacità che dobbiamo rafforzare quotidianamente con chiarezza e unitarietà, anche dialogando con chi ci sta intorno, nonostante i diffusi e cadenti pensieri di questo periodo. (10) Essere architetto significa indagare a fondo se stessi, lavorare con smisurata passione, alla ricerca dettagliata di combinazioni materiali e immateriali che generano emozioni e consentono di abitare bene il mondo. Ogni minimo segno tracciato è un gesto di responsabilità che rimane evidente agli occhi della società. (11) Chi è davvero l’architetto? Chi ha una sensibilità così attenta e capace da fare dell’architettura la più alta espressione etica di responsabilità verso se stessi e verso gli altri? Quando riusciamo a superare la mera capacità innestandola di profonda consapevolezza? L’architettura è modo di pensare, viene prima del progetto. (12)
6. Laura Boriani, Presidente dell’Ordine degli APPC di Lodi
7. Alessandro Valenti, Presidente dell’Ordine degli APPC di Mantova
8. Valeria Bottelli, Presidente dell’Ordine degli APPC di Milano
9. Fabiola Molteni, Presidente dell’Ordine degli APPC di Monza e Brianza
10. Aldo Lorini, Presidente dell’Ordine degli APPC di Pavia 11. Giovanni Vanoi, Presidente dell’Ordine degli APPC di Sondrio e Presidente di Consulta 12. Laura Gianetti, Presidente dell’Ordine degli APPC di Varese
testi disegni foto messaggi progetti per il numero
LUIGI CACCIA DOMINIONI
Dopo aver lavorato con i fratelli Castiglioni, nel 1943 apre il proprio studio a Milano in piazza Sant’Ambrogio, sede della sua residenza. Fonda con altri la ditta Azucena, che produce molte delle sue opere di design. Negli anni ’50 inizia la sua intensa attività di architetto, ancora operativo, che spazia dal condominio per la borghesia milanese, ai luoghi di lavoro, agli edifici religiosi e culturali.
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“La mia architettura è fatta di facciate e di piante. Per la facciata occorre tener conto dell’ambiente esterno: ad esempio, la Casa di piazza Sant’Ambrogio ha un ritmo pacato e tranquillo dato dalle sole otto finestre al secondo e al terzo piano, per rispetto dell’architettura della chiesa antistante. Le piante, invece, devono essere rispettose della vita delle persone che vi abitano, aderendo alle loro esigenze”.
da un intervista realizzata da Alessandro Sartori e Stefano Suriano nel febbraio 2015 a Luigi Caccia Dominioni, con la gentile collaborazione della famiglia Caccia Dominioni.
vittorio gregotti
Nel 1974 fonda la Gregotti Associati. Ăˆ stato professore di Composizione architettonica presso lo IUAV di Venezia e visiting professor presso le UniversitĂ di Tokyo, Buenos Aires, San Paolo, Losanna, Harvard, Filadelfia, Princeton, Cambridge (U.K.) e al M.I.T. di Cambridge (Mass.). GiĂ direttore di Casabella, collabora con il Corriere della Sera.
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il senso dell’opera Nel 1998 ho scritto per l’editore Einaudi un saggio dal titolo L’identità dell’architettura europea e la sua crisi. L’interrogativo che vorrei oggi pormi, che è anche il contenuto del mio ultimo libro dal titolo Il possibile necessario, è che cosa sia cambiato nella cultura architettonica europea rispetto alle ragioni di quella crisi: oggi, dopo quindici anni. A tutto questo si aggiunge la mia impressione che l’architettura, in quanto pratica artistica concreta, e specialmente le discussioni sui suoi fondamenti, non interessino più a quasi nessuno e in particolare non interessino né agli architetti né alla politica. Lo si vede dallo stato disastroso delle nostre città e delle loro periferie, e più in generale dall’incapacità di dare risposte agli sviluppi urbani e infine dalle crisi delle riviste di architettura con l’esplosione dell’informazione immateriale globale senza scelte critiche fondate. Parlare o scrivere di architettura dal punto di vista del suo fare e dei suoi fondamenti come capacità di messa in discussione delle difficoltà del presente, di modificazione positiva dello stato delle cose, sembra interessare ancor meno agli insegnamenti universitari delle nostre facoltà di architettura, a partire dalla progressiva messa a lato dell’insegnamento artigianale del mestiere, privo di ogni senso poetico del dettaglio e sostituito dall’impero del semilavorato che propone un diverso approccio alla forma e persino alla storia della nostra disciplina. Escluse le scarse eccezioni ovviamente. Perché allora scrivere di architettura, tentare di mettere a disposizione le esperienze dei propri errori quando sono proprio le riflessioni intorno alla specificità dell’argomento, alle sue relazioni con gli altri aspetti della cultura ed alle sue particolari prove di proposta di qualche frammento di verità, quando è proprio questo ciò che si rifiuta? Oggi si ricorre alle forme dell’architettura solo come calligrafia della visibilità mercantile inutilmente bizzarra, oppure nostalgica del passato, e persino si imita la tradizione dello stesso Movimento Moderno (privato però dei suoi ideali rivoluzionari politici e linguistici) mentre solo il successo mediatico e la fama mediatica sono gli obbiettivi prioritari. Proporre un piccolo testo dal titolo temerario come il Possibile necessario in quanto stato attuale della cultura architettonica europea e della sua crisi, suona quindi come proposta di un ottimismo con scarso fondamento nella realtà del presente e nei suoi valori che sfida la “complicazione senza complessità” dello stato di fatto della nostra disciplina. Una disciplina frantumata e sciolta nella nuvola minacciosa ed esclusiva della calligrafia della comunicazione mercantile, dello stato delle cose e dei poteri finanziari globali, di cui è divenuta positivo rispecchiamento, come una sorta di nuovo zdanovismo stalinista dei poteri. Bisognerebbe concludere che, se il mondo globale diventa soprattutto uno spazio espositivo di prodotti in vendita, quando il mito dei mezzi è diventato il solo contenuto da rappresentare (cioè, il contenuto anche dell’architettura), forse “l’abitare come essere dell’uomo sulla terra”, come scriveva Heidegger, non è più possibile. Un accumulo di informazioni senza critica non produce di per sé una verità, perché manca la scelta della direzione da assumere, cioè del senso dell’opera. O meglio manca loro il poetico “nuovo necessario” che non produce alcuna possibilità di visibilità mercantile, quanto piuttosto una flebile speranza di futuro ragionevole, autenticamente nuovo, per l’architettura. Chi come me ha passato più di sessantacinque anni di vita ad occuparsi di architettura un po’ in tutto il mondo pensandola come una nobile pratica artistica, fatica però a rinunciare alla sua possibilità di produrre ancora per suo mezzo qualche frammento poetico di una verità profonda, cioè crede ancora che “il bello sia la luce del vero”, come scriveva Plotino molti secoli or sono. Ed è questo che auguro agli architetti delle nuove generazioni.
Vittorio Gregotti Milano, dicembre 2014
Umberto Riva Allievo di Carlo Scarpa, inizia la sua attività professionale a Milano nel 1960. Affronta vari ambiti disciplinari: il design industriale, l’arredo di interni, l’architettura residenziale, le sistemazioni urbane. Ha tenuto corsi in diverse facoltà di architettura italiane. È Accademico di San Luca.
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Leopoldo Freyrie Ha fondato la Freyrie & Pestalozza Architetti Associati ed è tra i fondatori del Forum Europeo per le Politiche Architettoniche. Presidente del Consiglio degli Architetti d’Europa, è membro onorario dell’American Institute of Architects. Già Consigliere, dal 2011 è Presidente del CNAPPC.
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Un mestiere di cui essere orgogliosi
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l mestiere di architetto in questo periodo sembra essere uno dei più difficili. E non solo per le oggettive, gravi, condizioni di difficoltà economica in cui ci dibattiamo che prosciugano ambiti di mercato un tempo stabili. Ma anche, e soprattutto, per alcune delle conseguenze di questo prolungato stallo, che generano un pericoloso esaurirsi della capacità di pensare il futuro della nostra professione. Se da un lato comprendiamo bene che un modo tradizionale di fare l’architetto è ormai tramontato, non è facile ridisegnare i contorni di una professione così intimamente legata all’evolversi della società in tutti i suoi aspetti. Se guardiamo fuori dai nostri confini troviamo interessanti esempi di un dinamismo proteso a definire nuovi modelli organizzativi e anche nuovi percorsi per individuare forme diverse di committenza. E troviamo anche una tensione verso l’aggiornamento tecnologico che è fonte indispensabile di crescita. Gli esempi sono lì da vedere e ci indicano una strada certamente feconda che non dobbiamo avere remore a seguire, perché in molte situazioni dimostra di sapere dare frutti. Spesso il confronto con altri paesi un po’ ci sconforta, perché comprendiamo come il quadro nazionale sia poco reattivo e deludente, costantemente strangolato da una sorta di ingessatura generale che, tra incomprensibili ma ferrei percorsi burocratici e mortali
patologie, perde di vista sempre e comunque il cuore dei problemi ed è incapace di una visione generale. E a volte sembra che questo non sia più un paese per architetti. Nel senso di un posto capace di fare leva sulla grandezza del suo passato – anche molto recente, sia chiaro – per evolvere con una formula originale verso le nuove sfide del futuro. Eppure, proprio perché viviamo una delle peggiori stagioni, questo dovrebbe essere un momento per certi versi storico. È come se avessimo davanti una grande occasione, perché c’è da ridisegnare un paese, da capo a piedi. A partire dalle città, cuore della dinamica sociale e al tempo stesso camera di combustione delle contraddizioni e delle tensioni. L’Italia ha bisogno di un progetto per i prossimi vent’anni, ripensando radicalmente le basi degli agglomerati urbani: rigenerare le costruzioni e gli spazi pubblici senza più consumare suolo, risparmiare energia, definire strategie coraggiose su traffico e rifiuti, tracciare un disegno a scala territoriale vasta declinato in realizzazioni puntuali. Un’impresa difficile ma possibile, che necessita un lavoro profondo di ricerca, la necessità di procedere per sperimentazioni, la possibilità di discuterne con i cittadini ascoltando, proponendo e progettando. Ma tutto ciò è possibile solo sulla base di una visione condivisa della città del futuro, nella quale ogni attore – economico, sociale, culturale – partecipa al progetto stabilendo regole generali disegnate sui fini possibili. Una visione che deve essere concepita dai vari livelli di governo, dal nazionale al locale, attraverso poche chiare norme e molti progetti, lontani dall’idea di una codificazione giuridica della vita urbana, capaci invece di adattarsi alla rapidità dei fenomeni salvaguardando gli
Abbiamo davanti una grande occasione, perché c’è da ridisegnare un paese, da capo a piedi.
elementi fondamentali di difesa e rigenerazione dell’habitat. La rigenerazione delle città è un progetto di welfare dell’abitare di profonda innovazione culturale che supera le separazioni tra architettura e urbanistica, tra quartiere e megalopoli, tra governanti e governati. I processi di riforma in corso tra consumo del suolo e legge di governo del territorio, invece, mostrano ancora i segni di una visione politica superata dalla realtà
Noi architetti dobbiamo riscoprire l’orgoglio di un mestiere che è sicuramente uno dei più belli che si possano immaginare. dei nuovi modi dell’abitare, del cambiamento climatico, della necessità di integrazione dei mezzi e dei fini. In questa grande, e decisiva, sfida noi architetti possiamo svolgere un ruolo importante, proprio per la natura della nostra professione. Per la capacità di essere uno strumento fondamentale nelle nuove dinamiche sociali e urbane quali portatori di qualità tecniche in grado di tradurre in fatti concreti idee e aspirazioni. Certo, la politica deve capire che non può gettare al vento un’opportunità che non può essere trascurata, pena la marginalizzazione definitiva del paese e che deve porre mano a un grande piano di rigenerazione del territorio. Noi architetti in questo progetto possiamo essere uno tassello fondamentale, riscoprendo anche l’orgoglio di un mestiere che è sicuramente uno dei più belli che si possano immaginare. Un mestiere che può contribuire a dare bellezza al mondo e a restituire ai cittadini il piacere di vivere in un posto dignitoso, sicuro, confortevole. Leopoldo Freyrie
Una pagina sul progetto del nuovo Politecnico alla Bovisa a Milano Il progetto del Politecnico alla Bovisa è il progetto di un parco. L’elemento principale del progetto è un grande parco, lungo seicento metri e largo centocinquanta, disposto in modo da collegare due parti di città oggi interrotte da una enclave della ferrovia. Orientato come gli assi ortogonali della città antica, il parco consente di attraversare un’area oggi interclusa e diventa il luogo di incontro degli abitanti di interi quartieri della periferia nord ovest di Milano.¶ Partire da un parco e non da un edificio, significa partire da un luogo, un luogo in cui insediare un’importante istituzione culturale come una sede universitaria. Sarà questa a cambiare il destino della zona che da estrema periferia diventerà luogo delle relazioni con altre parti della città.¶ Lo sviluppo del progetto (fatto con Cesare Macchi Cassia nel 1990) è stato relativamente semplice. Il progetto è impostato su uno schema fortemente
ANTONIO MONESTIROLI
Laureato con Franco Albini, è stato assistente di Aldo Rossi. Ha insegnato Composizione architettonica alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e alla Facoltà di Architettura Civile, dove, dal 2000 al 2008, ha ricoperto la carica di Preside. È Accademico di San Luca e Professore Emerito di Composizione Architettonica presso il Politecnico.
gerarchico in cui gli edifici e i luoghi collettivi (la Biblioteca e l’Aula Magna, la piazza degli studenti e la piazza del Rettorato) sono collocati su due assi ortogonali. La Biblioteca e l’Aula Magna si fronteggiano alle due estremità del parco e danno la misura a un grande Foro che distribuisce le parti che vi si affacciano. Il sistema delle aule e dei laboratori di ricerca si dispone sui lati lunghi del parco e ne definisce i confini. In fondo l’idea del progetto coincide con l’idea del Foro e con il suo ruolo strategico. Attraverso il Foro le parti del Politecnico si relazionano fra loro e con la città. ¶ Le aule e i laboratori di ricerca sono organizzati all’interno di grandi isolati con un impianto a crociera. L’impianto a crociera, antico per concezione e tutto introverso, è adeguato ai luoghi di studio e di ricerca che devono consentire l’isolamento e la concentrazione di chi li frequenta. ¶ È un impianto che ha avuto una lunga permanenza nella storia e che, in questo progetto, contrasta fortemente con la totale apertura del parco centrale che appartiene alla città e ai suoi cittadini. A volte è difficile spiegare il valore di tutto questo. È difficile spiegare che fare un progetto per un’istituzione come l’Università può essere l’occasione per la costruzione di un luogo in cui tutti i cittadini riconoscono con orgoglio la loro cultura civica. Il valore del progetto coincide con la qualità di questo luogo, con la sua utilità e la sua bellezza.
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L’idea del Bosco Verticale nasce a Dubai, nell’aprile 2007, da una riflessione sulla crescita frenetica di una città nel deserto, culla del nuovo capitalismo petrolifero e finanziario. Dubai sorgeva grazie a decine di grattacieli; tutti rivestiti di vetro o di metallo; tutti riflettenti la luce solare e dunque generatori di calore nell’aria e sul suolo. Proprio in quei mesi, l’“Harvard Design Magazine” pubblicava una ricerca di Alejandro Zaera Polo secondo cui il 94% degli edifici alti costruiti dopo il 2000 erano rivestiti in vetro. Pelli vetrate in una città sempre più minerale.
stefano boeri
Professore di Progettazione Urbanistica presso il Politecnico di Milano, dal 1998 è titolare di Boeri Studio, nel 2009 fonda Stefano Boeri Architetti. È stato Assessore alla Cultura, il design e la moda del Comune di Milano. Già direttore delle riviste “Abitare” e “Domus”, è autore di numerosi libri.
Tornato in Italia, di fronte all’occasione di progettare due edifici alti nel centro di Milano, ho cominciato a immaginare due torri biologiche, rivestite di foglie. Foglie di piante, di arbusti, ma soprattutto foglie di alberi. Due torri rivestite di vita.
È nata così la scommessa del “bosco verticale”: due edifici alti 120 e 90 metri capaci di portare quasi 800 alberi alti dai 3 ai 9 metri nel cielo di Milano – oltre a 4.000 arbusti, 15.000 tra rampicanti e piante perenni. Un esperimento di botanica e architettura che punta a ridurre i consumi energetici grazie al filtro che una pelle discontinua di foglie esercita sulla luce solare e al microclima che si crea nei balconi. Una pelle che in piccola parte contribuirà a pulire l’aria di Milano, assorbendo, oltre all’anidride carbonica, le polveri sottili prodotte dal traffico urbano.
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Ma l’aspetto più radicale dell’esperimento – perché tale è – del Bosco Verticale consiste nel rapporto due/ uno tra alberi e abitanti. Nell’idea di una Casa per alberi, che ospita anche degli umani. E proprio oggi che questi ultimi cominciano a entrare negli appartamenti già abitati dalle piante, mi rendo conto che la vera questione che il bosco verticale pone non è quella – pur cruciale – della sostenibilità, ma piuttosto quella della biodiversità. Ospitare 21 mila piante appartenenti a più di 100 diverse specie, significa infatti innestare l’equivalente di una foresta di 2 ettari su un fazzoletto di terreno di 1.500 metri quadri, al centro di una grande città. Un ecosistema vivente e variegato che oltre alle piante ospita già numerosi nidi e richiama popolazioni di uccelli che avevano abbandonato il cielo di Milano. Un ecosistema complesso e dunque non totalmente prevedibile nei suoi sviluppi, che alcuni biologi stanno monitorando come un laboratorio vivente. Nell’anno in cui Milano e l’Italia ospiteranno l’Expo, la sfida del bosco verticale è quella di trasformare gli spazi domestici e di vita in luoghi abitati da migliaia di specie vegetali. Di imparare a coabitare con gli alberi, con la loro presenza e i loro ritmi di crescita, e con la loro straordinaria capacità di ospitare e rigenerare, anche nelle zone più inquinate e congestionate del mondo urbano, la ricchezza delle specie viventi.
Mario piazza
Nel 1996 fonda 46xy, studio di grafica, design e di strategie di comunicazione. È ricercatore presso la Scuola di Design del Politecnico di Milano. È stato art director di “Costruire”, “Arketipo”, “Domus” e “Abitare”, di cui è stato anche direttore e co-editor. Nel 2011 realizza il progetto grafico di “AL” e impagina gli ultimi otto numeri della rivista.
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«Ho buon senso?» «Ho buon senso con profondità?» «Ho un’intelligenza singolare?» «Sono buono, cattivo, intelligente, sciocco?» «Ho sfruttato fino in fondo, per la mia felicità, le situazioni in cui il caso mi ha posto?» «Sono riuscito a sfruttare fino in fondo le circostanze in cui fui posto nel 1810, quando Napoleone era onnipresente, nel 1814 quando cademmo nel fango e nel 1830, quando provammo ad uscirne?»
paolo rosselli
Fotografo, collabora attivamente con le riviste “Lotus”, “Domus” e “Abitare” ed espone alla Biennale di Venezia in tre edizioni. È autore di libri e monografie di architettura tra cui il primo atlante fotografico sull’opera di Giuseppe Terragni e Sandwich digitale, riflessione sulla condizione attuale della fotografia.
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Treno Tokyo-Nagoya, 2014.
federico bucci
Prorettore del Polo di Mantova del Politecnico di Milano e Professore ordinario di Storia dell’architettura, ha lavorato e collaborato con le redazioni di “Quaderni di architettura”, “Rassegna”, “L’architettura. Cronache e storia”, “Domus”. Attualmente è redattore di “Casabella”.
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Dopo la laurea in architettura, conseguita trent'anni fa e dopo una altrettanto lunga e faticosa scalata dei ruoli disponibili nell'Università italiana, sostenuta dalla ricerca e dall'insegnamento delle vicende storiche relative all'ambiente costruito, da qualche anno a questa parte svolgo un lavoro che non avevo mai fatto prima e per il quale non possedevo alcuna preparazione, nonché alcuna visibile e coltivata attitudine. Infatti, come si usa dire nel gergo accademico, nell’Ateneo dove ho “conquistato la cattedra”, sono stato anche nominato Prorettore delegato di uno dei suoi “poli territoriali”, quello da più tempo destinato ai percorsi formativi nelle discipline architettoniche, non a caso collocato in una piccola città dove la storia dell’architettura italiana ha scritto alcune tra le sue pagine più affascinanti. Una carica non elettiva, dunque, lontana dai labirinti delle mediazioni politiche necessarie per ottenere il consenso dei colleghi, cosa per la quale dovrei modificare il carattere con ovvie difficoltà. Ciò vuol dire che, applicando i regolamenti che ne definiscono le modalità organizzative, gestisco le attività di circa mille studenti (con una buona percentuale di provenienze dall’estero), un centinaio di docenti e una squadra calcistica di volenterosi tecnici, impegnati a far funzionare nel migliore dei modi una struttura pubblica dedicata alla formazione universitaria nel campo dell’architettura. Ho detto “gestisco”, ma in realtà, come ho appreso recentemente in un corso svolto da esperti del settore, la gestione amministrativa, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, deve essere lasciata alle specifiche figure professionali preposte per l’occasione, mentre è di competenza del docente che ricopre ruoli di responsabilità istituzionale la progettazione degli indirizzi strategici della ricerca scientifica e dell’attività didattica. Le intenzioni del legislatore saranno anche pregevoli, tuttavia non posso nascondere che la maggior parte del mio tempo, e quello di chi mi aiuta in questa avventura, è spesa alle prese con le ansie degli studenti, le lagnanze
dei colleghi, la macchinosa e sempre più ingombrante presenza della burocrazia e, infine, le alterne e spesso disarmanti reazioni dei pavidi protagonisti del mondo del lavoro di fronte alle richieste di investimenti in favore della ricerca. Cosa resta per progettare e costruire la miglior formazione per uno studente-architetto, da spendere necessariamente nel mercato del lavoro globale? Per fortuna ancora molto, al netto delle resistenze di chi non accetta i cambiamenti e continua a bloccare il ricambio generazionale. C’è ad esempio il tempo di una cena, insieme a due architetti di fama internazionale, entrambi vincitori del prestigioso premio Pritzker. Durante la quale ho ascoltato, letteralmente estasiato, storie di vita e di lavoro, storie straordinarie di un mestiere fondato sull’intreccio tra maestri e allievi, veri maestri che indicano la strada e veri allievi che sanno interpretare gli insegnamenti ricevuti, ma soprattutto, ho percepito la bellezza della quotidiana umanità, fonte primaria per ogni trasmissione del sapere. Alla fine della serata, il più giovane ha accettato l’invito a tenere un corso di progettazione nella nostra Scuola, mentre il suo maestro verrà a rendergli omaggio con una conferenza sui suoi più recenti lavori. Penso che sia un bel modo per offrire un servizio di livello molto qualificato a chi, da qualsiasi parte del mondo provenga, investirà tempo e denaro per studiare architettura presso il nostro Ateneo. Ma è un momento di crescita importante anche per i nostri docenti, che potranno trarre giovamento dall’apertura internazionale che questa operazione si propone. Perché, citando una frase del vecchio Nietzsche, quanto mai significativa per la formazione di un buon architetto, “i tuoi educatori non possono essere niente altro che i tuoi liberatori”. Dimenticavo, gli architetti incontrati in una cena a Porto, sono Alvaro Siza e Eduardo Souto de Moura, e quest’ultimo – grazie alla chiamata per “chiara fama” fatta dagli organi accademici – da quest’anno sarà professore al campus di Mantova del Politecnico di Milano.
italo rota
Affianca all’attività progettuale (Museo del Novecento a Milano, sedi di alberghi di lusso e altro) un’intensa attività teorica. È Direttore scientifico della NABA (Nuova Accademia di Belle Arti di Milano) e di Domus Academy; ha vinto vari premi, tra cui due Medaglie d’Oro all’Architettura Italiana.
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“L’opera d’arte che più mi rappresenta è me stesso”. Foto di Maurizio Camagna.
Gizmo:
gizmo
Collettivo di ricerca fondato a Milano nel 2004, attualmente è composto da Florencia Andreola, Marco Biraghi, Gabriella Lo Ricco, Mauro Sullam e Riccardo Villa. Si occupa di storia e critica dell’architettura, con particolare interesse ai fenomeni all’origine della cultura architettonica contemporanea e ai suoi sviluppi e trasformazioni.
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Gizmo dal 2004 si occupa prevalentemente di storia e di critica dell’architettura contemporanea; ma a ben vedere anche di molte altre cose. In una società complessa e interconnessa com’è quella attuale, d’altronde, le differenze – e dunque le vere qualificazioni – non consistono tanto nel “che cosa”, quanto piuttosto nel “come”. Occuparsi di storia e di critica dell’architettura, oggi, significa necessariamente occuparsi di molte cose; diversamente, rischia di non significare nulla, soprattutto se ce ne si occupa in modo “settoriale”, ovvero in un senso esclusivo e restrittivo. Gizmo è contro lo specialismo pedante; contro la genericità “onnicomprensiva” (e in realtà “nullacomprendente”); contro ciò che evita di entrare nel merito e di assumere posizione; contro ciò che non ha obiettivi (o che, peggio ancora, dichiara di non averne); contro la chiacchiera contemporanea, il brusio di fondo, che serve soltanto
fundamentals a mascherare il vuoto, e a lasciare tutto come prima. Gizmo si rifiuta di fare della critica un mero “esercizio”, un “orpello decorativo” a un testo o un progetto. Per Gizmo la critica – e di più ancora la storia – è sempre una questione di vita o di morte: il che non vuole dire mors tua, vita mea, com’è per molti “storici col pugnale”; significa che difenderne la possibilità e l’esistenza per Gizmo sono questioni della massima importanza.
Gizmo non esita a rompere gli schemi, anche a costo di inimicarsi il sistema dominante.
Gizmo si oppone con la forza e il coraggio delle idee alla rigidità, alla noia e alla monotonia dello pseudo-accademismo.
Ma altrettanto irrinunciabile per Gizmo è divertirsi seriamente ed essere seri divertendosi. L’aspirazione di Gizmo è avere l’intelligenza e la profondità per guardare al passato come a un tempo attivo, vivo; l’apertura mentale e la sensibilità per guardare al presente come a un tempo complicato ma interpretabile; la convinzione e l’immaginazione per guardare al futuro come a un tempo ancora possibile, nel quale si possa ancora dire e progettare qualcosa.
Gizmo si ribella alla facile compiacenza nei confronti dell’establishment; per Gizmo sono imprescindibili l’onestà intellettuale e l’integrità morale per opporsi agli interessi dei potenti; fondamentale è “demistificare”, anziché limitarsi a descrivere; decisivo è “mettere in relazione”, anziché semplicemente accostare;
Nella difficile condizione attuale Gizmo non ha paura di apparire né presuntuoso né modesto; cerca di osservare le cose da vicino; non ritiene indispensabile avere un’“opinione” a ogni costo e per ogni occasione; si sforza di guardare le cose da molteplici e differenti punti di vista. Gizmo è un collettivo di ricerca aperto.
giancarlo consonni Dal 1981 è professore di Urbanistica presso il Politecnico di Milano, dove ha fondato con altri l’Archivio Piero Bottoni. Affronta il progetto urbano con particolare attenzione agli spazi aperti e ai luoghi della socialità . Associa alla professione quelle di poeta e pittore; le opere e gli studi sono pubblicati dai maggiori editori italiani.
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“Autunno 1�, 1995. Inchiostri su carta copialettere.
michele de lucchi
Tra i protagonisti di Alchimia e Memphis, disegna oggetti di design e cura allestimenti di mostre; nel 1990 crea Produzione Privata. Ha realizzato opere di architettura in Italia e nel mondo; dal 2004 scolpisce casette in legno con la motosega per cercare l’essenzialità della forma architettonica. Espone nei più importanti musei del mondo.
Le Baracche sono esposte alla mostra Baracche e baracchette presso la galleria Antonia Jannone di Milano, fino al 4 aprile 2015. La foto di Michele de Lucchi è di Giovanni Gastel.
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Baracca 6, noce, 2014. Foto di Michele De Lucchi.
C’è molta filosofia nel lavoro dell’architetto, perché si deve sempre trovare un dialogo tra mondi diversi. Quello intimo e quello pubblico, ad esempio, sono due sfere che si tengono d’occhio in un confronto continuo. Io ho la fortuna di avere uno studio tutto mio ad Angera. L’ho realizzato per pensare ai miei progetti, disegnare, scolpire e fotografare. A Milano ho un ufficio molto più grande, quaranta collaboratori e quattro sale riunioni dove incontriamo i clienti. È un luogo di lavoro condiviso in cui la ricerca sperimentale si trasforma in progetti professionali. Progettare comporta un continuo movimento tra il sé e il mondo. Il movimento è anche quello interdisciplinare: la riflessione concettuale sulla forma attraversa come un flusso osmotico i diversi ambiti del disegno, della scultura, e della progettazione. Questo fluire genera un unico racconto del fare architettonico. La terra è un miracolo di equilibrio
dinamico e l’architettura deve trovare il suo equilibrio in un tempo e in uno spazio relativi. Sbagliando inseguiamo il mito dell’eterno, facciamo di tutto per controllare l’evoluzione della vita e mal tolleriamo i mutamenti. Usiamo vernici per evitare la perdita di lucentezza, fissanti per fermare l’ossidazione dei materiali, ci serviamo di calcestruzzo, palificazioni e imprese di costruzione nel tentativo di realizzare cose che durino nel tempo. La natura, al contrario, è molto aperta ai fenomeni di cambiamento. Del resto, tutto è in movimento e, come sosteneva Aristotele, il tempo è la sua misura. Per fare una baracca è necessario pensare che si può fare solo a mano. Una baracca ha carattere provvisorio ed è proprio l’aspetto di temporaneità ciò che più mi affascina. Sono costruzioni fatte di materiali leggeri provveduti sul luogo e senza mezzi speciali, senza trivelle e senza betoniere. Si fanno rapidamente e altrettanto rapidamente
deperiscono e naturalizzano. Facilmente si disfano. Non possiamo pensare di continuare a costruire per l’eternità, perché altrimenti non ci sarebbe più spazio per la natura e il mondo si coprirebbe di una crosta artificiale. Dobbiamo ricordare che siamo i custodi della terra e in architettura è possibile fare ecologia evitando lo spreco esasperato di spazio. Le baracche hanno forte personalità e sono un nuovo campo in cui sperimentare. Le mie sono fatte con tanti listelli di legno incollati insieme con pazienza. La pazienza è il collante. Senza, le baracche non sarebbero baracche. Hanno i tetti piccoli o grandi, non ci sono vie di mezzo perché non esiste convenzionalità e regola compositiva. Difficile riconoscere porte e finestre che non sono necessarie a priori. In una vera baracca possono essere aperte o chiuse in ogni momento e in ogni posizione. Del resto nulla è immutabile, nulla è definitivo, nulla è eterno.
La costruzione di uno Sleipnir crea un rapporto con il territorio e lo spazio circostante. È quasi un rito di fondazione. L’opera è in grado di trasformare la percezione della natura aiutandoci a leggerla. Per arrivare alla consapevolezza a volte è infatti necessario uno spiazzamento, che è poi l’arte. Penso che essa abbia un compito pionieristico e debba esplorare le terre di confine, i luoghi che non hanno
Duilio Forte Artista architetto italo svedese, “esplora lo spazio naturale, antropico e soprattutto poetico riportando nell’oggi la forza e l’esemplarità del mito di Sleipnir, impareggiabile destriero del dio Odino”. Autore di installazioni effimere e permanenti (giardini Montanelli di Milano), ha esposto alla Biennale di Architettura di Venezia.
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ancora mappe e guide. Lo spazio che c’è tra l’arte cosiddetta contemporanea e l’architettura è uno spazio di questo tipo, di frontiera: mi piace avventurarmi al suo interno, mapparlo e viverlo. L’opera è allora come una sfida tra l’autore e il pubblico: si instaura una sorta di gioco. Questa complicità è un grande traguardo, significa che puoi costruire un percorso e ogni singolo passo è quello che il fruitore vuole
ricevere. Ogni battuta è scatenata dalla precedente e introduce la successiva. In questo modo lo spazio si deforma e diventa un flusso. È come una sorta di stordimento. La nostra mente fatica a percepire la forma dello spazio, è un’ubriacatura percettiva che disorienta e crea piacere. E poi c’è la sacralità dell’uso dello spazio. La sauna, luogo di purificazione e riflessione. O il dormire, quando cediamo il corpo alla mente.
Sono le funzioni primarie dell’uomo che riescono ad attuarsi negli spazi sacri della domesticità, resi necessari prima dalle avversità e poi dall’antropizzazione spinta del nostro mondo. Mi piace immaginare che lo spazio dentro uno Sleipnir possa essere infinito. Quando possiamo immaginare la nostra fruizione di uno spazio questo si differenzia. Prende vita e crea una possibilità.
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Prima che una professione, essere ar-
nel campo delle tecnologie innovative,
chitetto è un modo di vivere, di rela-
nella divisione Ambiente, nata dalla co-
zionarsi con il mondo, le sue forme, i
stola della ricerca nucleare, che si occu-
suoi colori, di muoversi e guardare lo
pava di studi di impatto ambientale.
spazio, di coltivare le proprie passioni
Per alcuni anni ho continuato a tener-
e la propria creatività.
mi aggiornata con corsi di restauro,
Quindi, più che definirne il ruolo oggi,
poi ha prevalso l’interesse e la passio-
è meglio raccontare la mia esperienza.
ne per un lavoro, che comunque tutela
La scelta della facoltà di architettura si
il patrimonio storico, architettonico e
matilde marazzi
è sviluppata in me sin dalle medie, ma
paesaggistico, seppure alla scala terri-
ben ricordo il disgusto misto a com-
toriale.
passione del commissario di maturità:
Mi sono così immersa nel mondo della
Ha lavorato presso CISE, Enel Ricerca e CESI, occupandosi di sviluppo sostenibile, energie alternative, risparmio energetico, tutela del territorio e del paesaggio. Autrice di numerose pubblicazioni, ha insegnato al Politecnico di Milano. È Responsabile Ambiente di Pro Iter e Presidente della Sezione Lombardia di AIAPP.
allora al liceo classico era “ok” iscriversi
produzione e trasmissione dell’energia
a medicina o a lettere antiche. Io, inve-
elettrica, soprattutto ad alta e altissi-
ce, avrei voluto occuparmi di restauro,
ma tensione.
convinta che i vecchi edifici abbiano
Il rapporto che questi elementi instau-
belle storie da raccontare a chi voglia
rano con il paesaggio può essere loca-
ascoltarle.
le, se si valuta un singolo impianto, ma
Laureata in corso e con il massimo dei
ha rilevanza territoriale, se ci si riferi-
voti al Politecnico di Milano, al primo
sce all’intera rete o a sue parti.
colloquio mi dissero che un neolaureato
Nel primo caso, ci si muove nell’ambi-
non ha valore. Invece, nel giro di pochi
to di procedure strutturate e normate,
mesi sono stata assunta al CISE S.p.A.,
quali gli studi di impatto ambientale, il
centro ricerca di eccellenza per l’Italia
cui obiettivo è ottimizzare l’inserimen-
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to dell’opera, minimizzando gli impat-
Algeria, Tunisia, Libia, Montenegro,
formazione, le attività scientifico-cul-
ti. Numerose sono le esperienze da me
Croazia, ma anche Iran-Dubai e Co-
turali, l’informazione, l’aggiornamen-
condotte in Italia e all’estero, per le di-
lumbia-Panama.
to professionale e la ricerca nel campo
verse tipologie di produzione da fonti
Dal 2008, passando alla società d’inge-
dell’Architettura del Paesaggio.
tradizionali e rinnovabili.
gneria Pro Iter S.r.l., il focus si è sposta-
Sulla base della mia esperienza, posso
Il mio ruolo negli studi ambientali è
to sul mondo delle infrastrutture di tra-
affermare che quella dell’architetto è
quello di coordinatrice del gruppo di
sporto (stradali e ferroviarie), pur man-
una professione spesso entusiasman-
lavoro e di interfaccia con i progettisti,
tenendo una quota di idroelettrico.
te, che muta e si trasforma nel tempo
mantenendo in carico a me la parte di
Ho iniziato ad occuparmi anche di pro-
e richiede di mantenere buona elastici-
analisi del paesaggio.
gettazione di opere di mitigazione e di
tà mentale e tanta curiosità, per poter
Sicuramente più innovative sono le
parchi urbani, a scomputo degli oneri
cogliere gli stimoli e le opportunità che
analisi territoriali di scala vasta, che
di urbanizzazione. Uno stimolo ad ap-
la vita presenta.
ricorrono a sistemi informativi territo-
profondire nuove conoscenze e com-
riali (SIT).
petenze progettuali e di cantiere.
Nell’ambito della Ricerca per il Siste-
Dal 2012 e sino al Congresso mondia-
ma Elettrico (www.ricercadisistema.
le di IFLA (International Federation
it) abbiamo messo a punto, anche con
of Landscape Architects), che si ter-
collaborazioni in ambito universita-
rà a Torino il 18-23 aprile 2016, rivesto
rio, sistemi di supporto alle decisioni
la carica di presidente della Sezione
per minimizzare l’impatto della rete
Lombardia di AIAPP - Associazione
elettrica sul territorio e sul paesaggio,
Italiana di Architettura del Paesaggio,
poi applicate in numerosi studi di con-
che, fondata da Porcinai, rappresenta
nessioni HVDC tra Italia e Sardegna
i professionisti attivi nel campo del pa-
(Progetto SAPEI realizzato), Svizzera,
esaggio e mi occupo di promuovere la
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1 Fotosimulazione di progetto di impianto eolico in comune di Fiastra (MC). 2 Fotosimulazione del progetto della strada ex SS n.639 “dei laghi di Pusiano e di Garlate” a Cisano Bergamesco (BG). 3 Fotosimulazione con le mitigazioni proposte del progetto della strada ex SS n.639 “dei laghi di Pusiano e di Garlate” a Cisano Bergamesco (BG). 4 Milanofiori Nord. Parco Pubblico del comparto Assago D4. 5 Milanofiori Nord. Parco Pubblico del comparto Assago D4. L’asse di attraversamento del parco.
emanuela bussolati
Professionista freelance, ha collaborato con importanti case editrici in Italia e all’estero illustrando, scrivendo e progettando libri per la prima infanzia, pubblicati in tutto il mondo. Ha ricevuto il Premio Andersen piÚ volte: per diversi progetti, per il libro TararÏ Tararera, scritto in un linguaggio inventato e come autrice completa.
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ome capita che un architetto si occupi di libri per l’infanzia e che relazione c’è tra gli studi di architettura e questa particolare area di lavoro? Ho sempre pensato che il mio corso di laurea (Castiglioni, Zanuso, Rossi, De Carli, Canella, Perogalli, Alpago Novello…) sia soprattutto servito a imparare a progettare, cioè, a seguire un percorso, scegliendo i passi giusti, quelli da fare in determinate condizioni, in un determinato spazio, in un certo contesto storico, per una certa comunità. Scegliendo di mettere la propria specificità al servizio di quello spazio, di quel contesto, di quella comunità. Ogni strada felice ha alla base grandi incontri: io, con il mio bagaglio di capacità progettuali ancora grezze, dopo essermi occupata di architettura legata a territori specifici (le zone Walser), ho avuto l’occasione di conoscere Bruno Munari e Roberto Denti. l primo con una progettualità profonda, ma lieve e lieta, il secondo grande promotore di lettura e di libri. Il libro, come spazio progettuale mi ha subito affascinato: la pagina ha un formato, dei limiti, dei segni, dei vincoli: una copertina, una legatura, delle segnature... Il libro si configura come oggetto, tanto quanto una costruzione o un giardino. Non è curioso che si parli di “capitello”, “antiporta”, “canale”, “bindella”? Così come una costruzione o un giardino contengono vite, sensazioni, emozioni, tutte condizionate dallo spazio, dai servizi, dai materiali, dai colori, un libro contiene un’esplosione di significati al suo interno: la relazione tra gli autori e il lettore, l’interpretazione di quest’ultimo, le intenzioni del primo. n luogo è anche intrinsecamente comunicativo: ci sono mille sfumature di comunicazione tra un quartiere e l’abitante o addirittura il passante, che “leggono” in modo diverso lo spazio, a seconda della relazione che si crea con i pieni e i vuoti urbani, a causa di obiettivi differenti o di momentanei stati emotivi. Ma la medesima cosa si ritrova nel libro. Soprattutto nel libro per bambini: le dimensioni, i colori delle illustrazioni, la loro espressività e lo stile dei caratteri del testo contribuiscono alla facilità o meno della comunicazione tra chi racconta e chi “legge” e alla liberazione o no di un ulteriore spazio: quello mentale. el progettare libri c’è un aspetto meravigliosamente sartoriale: le dimensioni e la qualità della carta o del cartone, la pezzatura del foglio di stampa, la posizione delle fustelle che permettono alle due dimensioni di diventare tre, il modo di trattenere le pagine in un blocco unico, in un leporello o in una successione di stanze quasi teatrali, il tipo di stampa, la divisione dei luoghi deputati alla percezione visiva dai luoghi delegati al testo, tattile, visivo o auditivo che sia, l’importanza dei margini e delle interlinee, lo sviluppo contemporaneo di molti livelli di lettura… Non mi è sembrato innaturale passare a questa tipologia di progetti. Anzi, è stato molto stimolante. Seguire i processi di stampa, inventare legature, guardare come funzionano le macchine di incollatura o di applicazione dei materiali più disparati è stato un continuo stimolo e un continuo piacere che si è accompagnato al gusto di proporre al lavoro editoriale, prettamente di team, testi e illustrazioni mie. In tutta questa avventura, con buona ragione o no, mi sono sentita sempre profondamente architetto, nel senso rinascimentale del termine.
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Essere architetto significa per me applicare un percorso di progettazione al servizio di un’esigenza. Io l’ho applicato nel pensare libri pensando ai bambini.
francesco valesini
Dal 2014 è Assessore alla Riqualificazione urbana e all’Edilizia del Comune di Bergamo. Già Consigliere e Presidente dell’Ordine degli APPC della Provincia di Bergamo, è stato redattore della rivista “AL”. Titolare di Teka Studio, si occupa di nuova edificazione, ristrutturazione e restauro degli edifici.
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al centro della scena
Il 17 giugno dello scorso anno sono stato nominato assessore alla riqualificazione urbana della mia città. Una di quelle date che ti cambiano la vita. Da allora infatti il mio tempo è esclusivamente assorbito, in modo direi totalizzante, da questo impegno. Non riesco a pensare ad altro che alle molte questioni che ti trovi di fronte nell’amministrare una città. Mi manca senz’altro il mio precedente lavoro. Quella dimensione più solitaria e riflessiva che è propria dell’essere architetto. Un misurarsi costante e stimolante con i problemi dello spazio e delle forme, in tutte le sue diverse e molteplici accezioni. Perché l’ho fatto? Per un’idealità che mi porta a voler dare, a quarantasei anni, il mio contributo al cambiamento di un Paese stanco e cinico, compiaciuto dei suoi vizi e inconsapevole delle sue molte virtù. Un’esperienza anticipata da un’attività svolta per cinque anni all’interno di un Ordine professionale che mi ha portato, negli ultimi due anni, a diventarne presidente. Mi sorprende ancora oggi pensare come, all’interno di una organizzazione che sembra a volte aver smarrito il senso della sua stessa funzione, mi sia stato possibile vivere esperienze umane e
lavorative così intense e significative che mi hanno portato a conoscere, in profondità, la condizione più quotidiana, ma anche più diffusa del nostro essere architetto. Un mestiere che vive un paradosso: quello di una sua profonda crisi proprio nel momento in cui più risulterebbe utile il suo fondamentale contributo di saperi e di conoscenze, non solo per risolvere i più tradizionali e molteplici problemi spaziali della nostre realtà urbane ma per fornire un indispensabile contributo di idee e di creatività, passatempi questo termine, quanto mai necessari per ripensare e rilanciare modelli diversi di abitare e vivere le nostre città. Idee e creatività di cu oggi, credo, la cultura e la prassi ammintrativa di governo delle nostre città ha disperato bisogno per potersi rigenerare. Non c’è in questa mia motivazione nulla di ideologico, ma anzi, un pragmatismo che mi guida quotidianamente nelle mie azioni di amministratore che è forse ciò che di meglio mi può aver insegnato il mestiere di architetto. E che sento oggi, pur consapevole dei possibili fallimenti, più che mai indispensabile per raggiungere risultati realmente misurabili. Per quello che ho fino ad ora vissuto, mi sembra in-
vece che il rapporto tra architettura e politica sia oscillato, sopratutto dentro le realtá locali, in modo a volte schizofrenico, tra una specie di repulsione che conduce gli architetti a posizioni ideali del tutto inconcludenti e una disinvolta e spesse volte molto ambigua frequentazione, finalizzata a promuovere meri interessi di bottega. Questa condizione, fra le altre, porta l’architettura ad assumere un ruolo sempre più marginale nel dibattito pubblico sulle trasformazioni delle nostre realtà urbane, lasciando campo libero a un dialogo tra politica e cittadini che rischia di sconfinare in molti casi in un discorso generico e demagogico. Tutto incentrato sul quanto (i famigerati metri cubi), sul dove (aree libere/aree urbanizzate) e mai sul come, quando sappiamo che, nella maggior parte dei casi, la grande assente degli ultimi venticinque anni, è stata la qualitá di ciò che abbiamo costruito e basta guardarsi attorno, oltre confine, per rendersene tristemente conto. Ciò ha portato, come conseguenza, a un senso di inadeguatezza del nostro ruolo sociale che mi sembra spingerci sempre più fuori dai giochi. Quando invece è proprio al centro della scena che dovremmo stare.
Lo studio
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o Ide as, un fablab
il gruppo, fondato da Davide Crippa, Barbara Di Prete e Francesco Tosi nel 1998, ha realizzato mostre, installazioni e progetti segnalati e pubblicati sulle principali riviste. Lo studio si caratterizza per una marcata interdisciplinarità che va dall’exhibit alla grafica, dal design all’architettura.
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ghigos ideas
d i d e s ign ...
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Dall’alto: Cluster riso, Milano, Expo 2015; Fast Architecture, Milano NABA, 2006; Biblioteca dell’arte, Fondazione Maxxi, Roma, 2015; River club, Beijing, 2010; Recycled Stones, 2015; Sae Institute, Milano, 2013; Azzali House, Piacenza, 2010.
ANDREA CAMPIOLI
Professore ordinario di Tecnologia dell’architettura presso il Politecnico di Milano. Svolge ricerca sugli effetti indotti dall’innovazione tecnica e tecnologica sul progetto di architettura, con particolare riferimento ai processi orientati all’efficienza ambientale nel ciclo di vita dei sistemi edilizi.
Architettore chiamerò io colui il quale sapra con certa & marauigliosa ragione & regola… ❧ è assai complicato immaginare un profilo per la figura professionale dell’architetto nel nostro Paese, in un momento di profonda revisione dei presupposti su cui si è, per lungo tempo, fondato il nostro lavoro: i processi di crescita che caratterizzavano le nostre città hanno rallentato a favore delle trasformazioni endogene, anche se non è così ovunque, e il mercato del lavoro degli architetti, tradizionalmente costituito da piccole strutture prevalentemente attive entro confini nazionali, si sta espandendo geograficamente e articolando dal punto di vista dimensionale, secondo configurazioni già sperimentate all’estero. All’architetto oggi, più che una mutazione, è richiesta una moltiplicazione dei ruoli, sia per quanto riguarda l’oggetto della propria progettualità, sia per ciò che concerne l’expertise e le competenze che devono essere messe in campo. Pertanto, il suo profilo non può che essere molteplice. In ragione dei contesti nei quali opera, l’architetto è figura che mette a sistema il complesso quadro problematico che caratterizza i processi di conservazione e trasformazione dell’ambiente costruito, ma è anche soggetto che contribuisce proattivamente in strutture
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di progettazione articolate, all’interno delle quali la complessità dei problemi viene affrontata attraverso la convergenza di diversi apporti specialistici. E ancora, l’architetto progetta all’interno di dinamiche trasformative radicali e profonde, ma è chiamato a occuparsi anche − e in Italia, nei prossimi anni, molto probabilmente soprattutto − del progetto di conservazione, valorizzazione e riqualificazione del costruito. Più che di profilo molteplice, si deve allora parlare di molteplicità di profili, rispetto ai quali è tuttavia possibile riconoscere un carattere invariante nella capacità di ideare, progettare e governare i processi di trasformazione secondo i paradigmi della sostenibilità economica e ambientale. Al di là dei ruoli, questa è la vera sfida lanciata alle nuove generazioni di architetti: affrontare il progetto come attività ideativa che trasforma i nostri bisogni in spazi, come peraltro è sempre stato, con la consapevolezza che è indispensabile muoversi nella prospettiva di individuare e sperimentare soluzioni tecnicamente affidabili, colmando quella distanza che ha spesso contraddistinto il rapporto tra ideazione e costruzione, e ambientalmente efficienti, corrispondendo alla necessità urgente di ridurre i consumi di risorse sempre più scarse e di minimizzare gli impatti su un territorio sempre più fragile.
Le citazioni sono tratte da: L’architettura di Leon Battista Alberti Tradotta in lingua Fiorentina da Cosimo Bartoli Gentil’huomo & Accademico Fiorentino, Lorenzo Torrentino, Impressor Ducale, Firenze, mdl.
…Et à potere far questo bisogna che egli habbia cognitione di cose ottime & eccellentissime, & che egli le possegga. Tale adunque sarà lo Architettore.
GIACOMO MOOR
Nel 2011 fonda lo studio GM, dove, insieme a designer, architetti e artigiani, realizza mobili e complementi d’arredo per privati e aziende del settore, seguendo l’intero processo produttivo. Collabora con aziende di design tra le quali Ilide, Memphis e Environment Furniture.
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Sei un progettista e designer che ha scelto di controllare tutte le fasi realizzative di nuovi oggetti e arredi, partendo dalla loro ideazione fino alla realizzazione finale. Cosa ti ha portato a fare questa scelta? Durante i miei studi universitari al Politecnico di Milano lavoravo in una falegnameria. Una volta laureato ho deciso di unire questi due mestieri: progettista e falegname. Poco a poco mi sono ingrandito, ora ho alcune persone che seguono la produzione e io la supervisiono, in questo modo posso dedicarmi completamente al resto: dal disegno al rapporto con i clienti, i fornitori, le aziende. Si tratta di una formula che soddisfa molto il cliente e l’architetto che vogliono affidare il progetto a un’unica struttura che sappia offrire entrambi i servizi: la parte progettuale, più creativa, e quella della produzione. Sia i clienti privati che le aziende e le gallerie, con le quali collaboro, sono molto attente alle fasi di sviluppo del loro progetto, per cui spesso mi
vengono a trovare per vedere a che punto è il loro lavoro. A volte mi definisco un designer “su misura”. Chi mi contatta apprezza il mio lavoro, ma vuole qualcosa di speciale, di particolare, con materiali e finiture appositamente decise per lui. È affascinante perché ogni volta disegno un nuovo prodotto, ed è sicuramente la parte che mi dà più soddisfazioni, anche se trovo molto stimolante iniziare dare forma all’oggetto e poi trovarlo finito dal cliente. Come è nata la tua passione di artigiano “maker”, che lavora e modifica il legno con le proprie mani? Hai dei vantaggi rispetto a un tuo collega progettista? Inizialmente è stato come imparare un mestiere dall’inizio, ricordo che passavo giornate intere da falegnami a chiedere come si facesse quel taglio, qual era il legno migliore per quel progetto, che tipo di macchine avrei dovuto usare. La Brianza è un posto da scoprire, pieno di picco-
le e medie aziende, ognuna con la propria storia. Con molti di quei produttori ho stretto legami anche affettivi. Chi ha un’azienda manifatturiera del terziario ha logiche di produzione e di gestione completamente diverse dall’azienda di design; sono realtà estremamente concrete, basate sul lavoro manuale di generazioni. Nel mio team ci sono falegnami molto più esperti di me e insieme a loro realizzo il prototipo dell’oggetto che ho ideato. Ho sicuramente una cultura del legno e di cosa si può fare con questo materiale che mi permette di sviluppare prodotti che nascono insieme alla materia di cui sono composti. Il vantaggio grosso è sapere fin da subito se è possibile realizzare un mobile di una certa forma o se invece va rivista la struttura, se quel diametro o quello spessore bastano a farlo stare in piedi. Non disegno mai prodotti che vanno oltre il limite delle possibilità della materia, ma sempre nel rispetto delle caratteristiche di quel tipo di legno.
Intervista a cura della Redazione di “AL”.
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giacomo ortalli
Già capo progettista presso lo studio di Peter Zumthor, è stato visiting professor all’Ecole Spéciale d’Architecture di Parigi e critico invitato all’ETH di Zurigo. Nel 2013 ha fondato, insieme a Gaëlle Verrier, lo studio Ortalli Verrier, vincitore di premi e menzioni. Insegna presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio.
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Al bordo della città vecchia di Coira, nelle Alpi svizzere, c’è una casa ottocentesca decorata con pitture murali ricche e preziose, il cui interno è stato trasformato dall’architetto Rudolf Olgiati nel 1977. Al quarto e ultimo piano dell’edificio, un piccolo ingresso conduce allo spazio grande del nostro appartamento. La funzione principale della famiglia è emozionale, è una ricerca di amore e sicurezza. Queste qualità prendono vigore se i membri della famiglia sono fisicamente in grado di vivere insieme, anche quando si svolgono attività diverse; il bambino ha la sua camera, ma vuole stare in contatto con gli adulti per mostrare le sue nuove scoperte. Lo spazio grande è il centro di gravità dell’appartamento e beneficia dell’altezza maggiore, essendo situato sotto il colmo del tetto. Per chi vive in montagna, la necessità del fuoco è comparabile a quella dell’acqua. E cosa c’è di più bello di un camino? A terra, alcune pietre delimitano uno spazio per sedersi e contemplare il fuoco, di fronte alla nicchia scavata nel muro dove la legna brucia. In casa è importante abitare uno spazio segreto, che possa essere usato in maniera speciale e in momenti particolari: uno spazio che alteri l’esperienza del vivere quotidiano. Il nostro spazio segreto è una piccola terrazza sospesa fra le due falde inclinate delle case del borgo; è formata da quattro travi e due assi di pino. È impossibile da scoprire se non vi è svelato. Ogni finestra è un evento. La più grande permette di osservare dall’alto l’attività in strada, alcune perforano il tetto e garantiscono luce zenitale diffusa, altre a forma d’imbuto inquadrano il paesaggio alpino; queste piccole finestre diventano dei punti di luce quando si osserva la casa dal borgo, di notte. Le porte sono antiche e basse, amplificano la transizione da uno spazio all’altro. Unica eccezione è la porta che conduce allo spazio del bagno, contenuto in un blocco ribassato; in questo caso la porta è dipinta di bianco ed evidenzia la qualità plastica del volume. Una colonna è fisicamente presente nello spazio, nella stessa misura di un essere umano. La riduzione di alcuni centimetri del diametro, nell’ultimo terzo superiore, la rende scultorea e slanciata, alla maniera degli antichi greci. Il bambino ci gira intorno, per lui la colonna è molto grande. Nelle case alpine tradizionali lo spazio del tetto non era un luogo dove abitare, bensì un magazzino per il fieno e il legname. Il soffitto è l’elemento della memoria: le travi strutturali originali sono in legno massiccio, gli elementi aggiunti sono dipinti e si perdono nella massa bianca dei muri. Sembra di vivere dentro una tenda, o in un nido, invece siamo al quarto e ultimo piano della casa. Muri, colonna e soffitto sono dipinti di bianco e formano un guscio che ci avvolge come un mantello. Il bianco fa sparire i dettagli, i giunti, gli incastri. Il volume prende consistenza, la sua qualità plastica domina lo spazio. Il bianco, assenza di colore, dona valore a tutte le cose che ci stanno a cuore e che raccontano le trasformazioni della nostra vita. Questo insieme di elementi rende l’appartamento un posto ideale nel quale abitare. Un luogo autentico, un’immagine del mondo al centro del quale vi è l’uomo.
vincenza la rocca
Si laurea in Architettura presso il Politecnico di Milano con una tesi vincitrice del Concorso nazionale d’architettura sostenibile promosso da Expoedilizia Roma 2013. Collabora con studi italiani fino al 2014. Nello stesso anno si trasferisce a Berlino dove attualmente vive e lavora.
Disegno di Vincenza La Rocca. 52
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Forse il tutto era la negazione del progetto di architettura, d’altra parte prendiamo le città italiane: c’è una piazza e su questa si affacciano architetture romaniche, barocche, tardo settecento, ognuna realizzata per una specifica funzione, singolarmente autonome, ognuna con una sua storia, ed è proprio per questo che insieme stanno benissimo. achille castiglioni, 1993
giuseppe cosenza
Direttore dell’Area programmazione e Sviluppo della Città preso il Comune di Como, matura una lunga esperienza all’interno della Pubblica Amministrazione collaborando con diversi Comuni, Consorzi, Enti Parco e, successivamente, con la Comunità Montana del Triangolo Lariano e la Provincia di Como.
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Non nascondo la difficoltà che provo nel descrivere il ruolo e le funzioni dell’Architetto nella Pubblica Amministrazione in quanto, al di fuori delle competenze attribuite dalla legge, fortemente caratterizzato da diversi fattori che inevitabilmente, come in altre professioni, riguardano la sfera umana e soggettiva peraltro condizionata dal contesto sociale ed economico in cui si opera. Non so dire esattamente quando, ma a un certo punto della vita, come accade credo per molti, ci si domanda che ruolo si vuole rivestire nella società, nel mio caso nel rispetto delle regole che governano la professione nell’ambito della Pubblica Amministrazione. Ritengo infatti che pur nel rispetto della leale collaborazione e di un atteggiamento propositivo che dovrebbe orientare l’azione di un pubblico funzionario nel raggiungimento degli obiettivi politico-istituzionali vi siano tuttavia ampi margini di manovra nel cercare di caratterizzare la propria attività in funzione dei risultati e delle ricadute sui cittadini dal punto di vista sociale ed economico. Infatti, negli ultimi anni progressivamente si è passati da un sistema di controlli e verifiche ad uno, per certi versi più propositivo e qualificante, finalizzato all’assunzione di responsabilità, ad esempio nell’ambito della pianificazione territoriale di area vasta e locale e della programmazione negoziata. Ed è per tale motivo che oggi più che in passato, a mio avviso, sussistono ampi margini nell’interpretare il ruolo di chi opera nelle Pubbliche Amministrazioni, non più come mero controllore di progetti, bensì quale promotore di iniziative che richiedono capacità “imprenditoriali” e “manageriali” un tempo prerogativa solo del settore privato. Certo, tale situazione presuppone una predisposizione soggettiva di tipo relazionale, un’adeguata capacità professionale, sacrificio e abnegazione al lavoro, assunzione di responsabilità e una spiccata autorevolezza nella gestione dei rapporti fra il decisore politico e la parte privata, soprattutto in questi ultimi anni in cui si assiste sempre più nel nostro Paese a forme
di collaborazione pubblico-privato nell’ambito della sponsorizzazione per il recupero e la valorizzazione dei beni culturali, nelle procedure di projet financing, nella definizione di convenzioni di programmi di recupero urbano, nella realizzazione, concessione e gestione di servizi pubblici. In tale contesto appare del tutto evidente la possibilità di poter esercitare un ruolo decisivo anche all’interno della Pubblica Amministrazione che può diventare vero e proprio motore di sviluppo nell’ambito delle politiche territoriali. Vi assicuro che è una condizione unica e per certi versi straordinaria. Tale condizione mi ha consentito nel tempo di attivare, promuovere e partecipare a progetti e iniziative di alto contenuto professionale che costituiscono un bagaglio di conoscenze tecniche, giuridiche e normative di significativa importanza nell’affrontare le sfide di oggi ma anche del futuro e che, rispetto al passato, riguardano la possibilità di concorrere in prima persona allo sviluppo sociale ed economico delle nostre comunità e non più nell’esclusivo e mero esercizio burocratico del potere di controllo. Ad esempio, nell’ambito della pianificazione urbanistica, ora e in futuro appare indispensabile instaurare forme di collaborazione, ad esempio, nei processi di riqualificazione urbana che interessano ampie parti delle nostre città abbandonando la logica della dispersione territoriale che nel nostro paese e in Lombardia, in particolare, ha rappresentato una ingiustificata aggressione e consumo di suolo. Posso rivendicare come, con lungimiranza, nel 2006 con l’appoggio delle varie componenti politico-istituzionali della Provincia di Como ho avuto l’opportunità, in qualità di progettista, di predisporre il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale che prevede prescrizioni vincolanti di limitazioni al consumo di suolo dei Piani di Governo del Territorio dei Comuni. Nella mia nuova esperienza di Dirigente presso il Comune di Como ho assunto l’impegno, nella ridefinizione degli obiettivi di piano, di poter attivare iniziative di rigenerazione urbana o
progetti di riqualificazione di piazze di interesse storico-monumentale. Sono solo alcuni esempi di attività rilevanti che mai avrei immaginato di poter affrontare da Architetto all’interno della Pubblica Amministrazione considerata, a volte e a ragione, un apparato burocratico privo di professionalità adeguate o comunque non in grado di governare processi complessi. Nell’accennare alla mia esperienza, il mio auspicio è di poter fornire ai colleghi più giovani la speranza, ove accompagnata da passione e volontà di sacrificio e servizio verso la collettività, di poter esercitare anche dall’interno della Pubblica Amministrazione la professione di architetto con dignità e capacità nella consapevolezza che in fondo il frutto del proprio lavoro come nel caso della pianificazione o della progettazione consiste nell’impegno a poter contribuire a migliorare la qualità dei luoghi e della vita delle persone. E, in ultimo, un appunto per rivendicare con orgoglio, pur riconoscendo che all’interno della Pubblica Amministrazione sussistono elementi e sacche di inefficienza, che incontro molti esempi di quella professionalità e di quelle eccellenze di cui il nostro Paese ha bisogno, in questo grave momento di crisi economica, e che richiede impegno e creatività nell’affrontare la sfida del futuro.
Emilio terragni
Nipote di Giuseppe Terragni, è stato Presidente dell’Ordine degli Architetti PPC di Como dal 1991 al 1998. Nel dopoguerra fonda, insieme a Elisabetta Terragni, lo studio Terragni Architetti di Como, che si occupa della progettazione ed esecuzione di residenze, edifici scolastici e allestimenti museali.
Max Bill (a sinistra) esamina il progetto di Emilio Terragni. C.I.A.M. Venezia, 1953.
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Planimetria del progetto.
Con che spirito la tua generazione ha affrontato l'inserimento nel mondo del lavoro professionale? La mia generazione ha affrontato tale inserimento con entusiasmo. Ci siamo sentiti protagonisti di quello straordinario evento che fu poi chiamato Ricostruzione, non solo fisica, di un Paese semidistrutto dagli eventi bellici ed emarginato da mezzo mondo. Avevamo però la sensazione di un pericolo, quello di un progressivo scollamento fra la teoria degli studi didattici e la pratica del lavoro quotidiano. Tale scollamento presentava un carattere fisiologico, ma vi erano segnali preoccupanti di una successiva deriva patologica. Contavamo sulla possibile nascita di anticorpi. Cosa intendi per anticorpi? Sul piano teorico scoprimmo l’esistenza di una didattica alternativa, ovvero la Scuola di Architettura patrocinata dal C.I.A.M. a Venezia, frequentata dagli studenti di tutto il mondo, nei primi anni ’50. Ci siamo misurati sul tema della riorga-
nizzazione dei padiglioni della Biennale d’Arte ai Giardini, in una simbiosi totale fra professori, assistenti e studenti, tale da incidere in qualità sul nostro lavoro progettuale. Sul piano operativo assistemmo alla nascita dell’INA Casa, palestra nella quale si potevano confrontare i problemi dell’edilizia economica popolare, finalmente con una normativa unificata in un Paese caratterizzato da molti paralleli e pochi meridiani. Dopo oltre cinquant’anni di Professione quali sono stati gli elementi di continuità nel tuo lavoro? Nel rapporto conflittuale fra teoria didattica e prassi lavorativa, ho cercato, non sempre riuscendovi, di attenermi a un metodo di lavoro e di evitare un’attitudine al virtuosismo.
Tratto da un’intervista di Michele Pierpaoli, Presidente dell’Ordine degli Architetti PPC di Como, a Emilio Terragni, già Presidente dell’Ordine.
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Interviste agli studenti di architettura
le DOMANDE
Nel mese di dicembre 2014 abbiamo deciso di invitare un gruppo eterogeneo di studenti e neolaureati della Facoltà di Architettura a partecipare a una breve intervista. I dodici ragazzi – attraverso il coinvolgimento di Matteo Moscatelli, docente di Composizione e progettazione urbana del Politecnico di Milano – hanno risposto liberamente alle quattro domande sul tema della professione di architetto, secondo le loro aspettative, le loro esperienze e le loro personali propensioni.
1. Quale aspetto della professione di architetto che conosci, o immagini, ti ha maggiormente affascinato e ti ha portato a intraprendere questo corso di studi? Come è cambiato il tuo punto di vista (se è cambiato) nel corso dei mesi o degli anni che stai trascorrendo all’Università? 2. C’è un campo in particolare della progettazione che vorresti approfondire (interni, allestimento, restauro, urbanistica, ecc.)? Pensi che un architetto possa operare anche al di fuori della progettazione architettonica (insegnamento, editoria, fotografia, grafica, ecc.)? Saresti interessato? 3. Qual è la tua idea di studio di architettura? Ruota attorno alla figura di un solo architetto, affiancato da un gruppo per lo più di esecutori, o è formato da un team di architetti alla pari, o pensi a una struttura estesa anche ad altre professionalità? C’è un modello ideale fra questi, secondo te? 4. Credi che in futuro si andrà verso una sempre maggior specializzazione della figura dell’architetto, quindi, verso la suddivisione di alcune competenze tecniche (redazione di capitolati, perizie estimative, collaudi e materia di sicurezza; attività grafiche di modellazione 3d e rendering; certificazioni energetiche, ecc.), o ritieni che l’aspetto della multidisciplinarità, che da sempre caratterizza questa professione, possa considerarsi comunque vantaggioso?
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PIETRO BERGAMINI (Verona, 1988) II anno del Corso di Laurea Magistrale in Architettura presso il Politecnico di Milano. 1. Fin dal primo anno del corso di studi in architettura sono rimasto affascinato dalla dimensione umanistica della disciplina e dal rigore culturale legato sia alla sfera della teoria che a quello della pratica. Negli anni della formazione universitaria ho subìto sicuramente alcune fascinazioni culturali che mi hanno portato ad approfondire maggiormente alcuni temi piuttosto di altri. Oggi, reduce da un’esperienza di tirocinio in Cina, il mio interesse si è spostato su tematiche riguardati progetti di scala urbana in contesti in via di sviluppo. 2. Per quanto riguarda la dimensione progettuale, il mio interesse maggiore è rivolto, oggi, a progetti di scala urbana. Nonostante questo, ritengo che per un architetto sia una possibilità molto importante e stimolante quella di lavorare a stretto contatto con discipline diverse, piuttosto che rifugiare il proprio interesse nell’unicum della progettazione, immaginando di utilizzare le diverse discipline – come la grafica, la fotografia, l’editoria e l’insegnamento – ai fini di una costante ricerca, da un lato utile come esercizio intellettuale, dall’altro come continua fonte di nozioni per la progettazione.
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Uno degli esempi di più grande successo rispetto a questo tema è il caso di Rem Koolhaas, che con AMO svolge, con risultati sorprendenti, ricerca in campi non strettamente legati alla tradizionale disciplina architettonica. 3. Se guardiamo alle principali strutture consolidate di studi di progettazione, è possibile riscontrare un grande successo per tutti i tre principali modelli di studio professionale. Credo che questi modelli siano a proprio modo equivalentemente vincenti. Forse, immaginando gli sviluppi del mondo globalizzato in cui viviamo oggi – assoggettato al potere dell’immagine – il primo modello, strutturato sulla figura di un unico grande architetto, avrà un successo ancora maggiore poiché in qualche modo più legato alla proliferazione del fenomeno dell’“archistar”. 4. Ritengo che per un architetto l’aspetto della multidisciplinarità, e in particolare l’interesse per il maggior numero possibile di conoscenze, sia fondamentale; detto questo, però, immagino il futuro della disciplina professionale, analizzando quanto sta accadendo oggi, come diviso in due parti: una formata da studi di piccole e medie dimensioni in cui il carattere multidisciplinare sarà una condizione necessaria alla sopravvivenza lavorativa; al suo opposto la dimensione formata da studi professionali di grandi dimensioni (molti di questi oggi sono vere e proprie multinazionali nel campo della progettazione) in cui la suddivisione prestabilita delle competenze porterà alla formazione di una classe di architetti estremamente preparati, ma su un terreno molto ridotto.
FABIO BONOMELLI (Seriate, 1987) I anno del Corso di Laurea Magistrale in Progettazione Architettonica presso il Politecnico di Milano.
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1. Penso che l’architetto rivesta un ruolo di grande responsabilità all’interno della società, perchè egli pensa, progetta e costruisce “oggetti” che entrano in contatto con la vita delle persone e che molto spesso finiscono per influenzarla diventandone parte integrante. Ritengo questo uno degli aspetti più affascinanti ed importanti della professione di architetto. All’interno del mio percorso universitario ho sempre cercato di indagare la complessità di aspetti che compone l’architettura, non solo quelli di carattere tecnico, ma anche percettivo, e quindi legati indissolubilmente alle sensazioni e alle emozioni che uno spazio è in grado di suscitare in chi lo percorre. 2. All’interno del mio percorso di studi ho sempre trovato molto limitante scegliere di approfondire un ambito architettonico più di altri, questo perché, in parte, non mi sento pronto a focalizzarmi in un campo specifico e, in parte, lo ritengo un atteggiamento settorializzante. Questo pensiero deriva dal fatto che non ritengo l’architetto un “esperto” di un particolare tipo di progetto, ma una figura trasversale che sappia orientarsi all’interno di qualsiasi progetto architettonico, dal dettaglio costruttivo allo sviluppo urbanistico. Una delle questioni interessanti dell’architettura è proprio la pluralità di aspetti che la compongono; questo permette a un architetto di poter allargare i propri orizzonti e, volendo, di andare oltre l’ambito progettuale. Questi aspetti, però, a mio avviso, richiedono degli studi specifici o una capacità critica che è difficilmente riscontrabile negli architetti molto giovani. 3. Immaginare uno studio di architettura che ruota attorno alla figura di un solo architetto lo trovo molto avvilente, anche se quest’idea oggi è trasmessa dalle “archistar” – architetti dietro i quali è presente un team di professionisti al quale, in molti casi, non viene
riconosciuto alcun merito. Parlando di modelli ideali, secondo me, uno studio di architettura dovrebbe essere composto da un gruppo di professionisti, architetti e non, in grado di lavorare fianco a fianco in modo che uno compensi le “carenze” dell’altro. Ritengo che il confronto tra architetti/professionisti possa il più delle volte essere un valore aggiunto per il progetto. 4. Guardando il settore lavorativo l’intenzione sembra essere quella di voler specializzare la figura dell’architetto suddividendone le competenze, in modo da renderne più “produttivo” il lavoro all’interno dello studio. Il modello che sembra si sta sviluppando all’interno degli studi di grandi/medie dimensioni sembra essere quello industriale, un approccio che porta a perdere quel carattere di “artigianato” che tanto ha caratterizzato questo tipo di professione. Malgrado questo, spero che la multidisciplinarità continui a permanere all’interno della figura dell’architetto, anche perchè è uno degli aspetti più affascinanti e interessanti di questo “lavoro”.
GIULIA CANAVOTTO (Bergamo, 1989) laureata in Architettura delle Costruzioni presso il Politecnico di Milano. 1. L’aspetto che da sempre mi affascina della professione di architetto e che mi ha portata a intraprendere il corso di studi è la possibilità di dar forma a uno spazio e di caratterizzarlo in base alla propria sensibilità e alle inclinazioni dei diversi committenti. Nel corso degli anni a questo aspetto si è aggiunta la scoperta di quella che è la progettazione architettonica, che in realtà comprende una serie infinita di elementi e di aspetti che possono essere di volta in volta
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approfonditi e sviscerati. Ciò che oggi mi appassiona maggiormente dell’architettura è proprio la varietà e la vastità di questa materia che permette, attraverso la peculiarità di ogni progetto e la sensibilità dell’architetto, di scoprire e di indagare ogni volta aspetti diversi: da quelli compositivi e distributivi, a quelli relativi al rapporto con chi vivrà lo spazio che si va a configurare, a quelli, più concreti, legati alla definizione delle componenti tecniche e impiantistiche e alle scelte dei materiali e dei complementi d’arredo. 2. Seppur durante il percorso universitario io abbia scelto prevalentemente corsi di costruzioni e urbanistica, il settore che da sempre ho voluto approfondire, e nel quale ho avuto la fortuna di trovare il primo impiego, è quello dell’architettura di interni. Ciò che mi ha sempre affascinata di questo settore è l’estrema attenzione al dettaglio, la necessità di occuparsi integralmente del progetto e l’immediatezza con cui lo spazio prende forma per un committente e per un uso ben precisi; a differenza, per esempio, della progettazione urbanistica che, seppur molto interessante per aspetti diametralmente opposti, richiede spesso un maggiore sforzo di astrazione per definire forme, funzioni e utenti. Penso che un architetto possa occuparsi anche di altri ambiti oltre a quello della progettazione architettonica – quali l’insegnamento, l’editoria, ecc. – necessari per favorire lo sviluppo dell’architettura attraverso la ricerca, il confronto e la circolazione di nuove idee. Al tempo stesso ritengo che, comunque, sia l’attività progettuale che contraddistingue la figura dell’architetto e che gli permette di verificare costantemente le problematiche concrete legate alla realizzazione del progetto. Per quanto mi riguarda, mi interessa sempre trovare delle attività “trasversali” che mi permettano, anche dopo
la conclusione del percorso universitario, di approfondire diversi aspetti e di mantenere vivo il confronto con altri architetti. 3. Penso che uno studio di architettura debba essere formato da un team di professionisti che collaborino, scambiandosi idee, per raggiungere il miglior risultato progettuale. Credo sia fondamentale che ogni componente dello studio, pur occupandosi prevalente di alcuni ambiti piuttosto che di altri, a seconda delle proprie attitudini e della propria esperienza, abbia sempre ben presente il progetto nella sua integrità in modo da tenerne sotto controllo tutti gli aspetti ed evitare incongruenze. Per questo stesso motivo penso sia necessaria anche una stretta collaborazione con le figure specializzate – quali ingegneri, termotecnici, paesaggisti, ecc. – che, nel caso di studi di grandi dimensioni, possono operare anche all’interno dello studio stesso. Pur essendo questa la mia idea di studio di architettura, basata anche sulla mia brevissima esperienza, non escludo che altri modi di organizzare uno studio, dettati da un diverso approccio alla professione, possano essere validi. Per questo non credo che ci sia in assoluto un modello ideale di studio di architettura. 4. Credo che la specializzazione delle professioni sia ormai una necessità, soprattutto rispetto alle sempre maggiori richieste di documentazioni tecniche, redatte per ottenere autorizzazioni e certificazioni, e di elaborati grafici, quali immagini foto-realistiche, schematizzazioni e grafici, che rendano sempre più comprensibile il progetto al committente. Penso però che molte di queste attività debbano essere svolte da figure professionali ad hoc e che l’architetto debba comunque sempre rimanere quella figura multidisciplinare che, conoscendo il più possibile tutti gli aspetti, sia in grado di coordinare tutti i professionisti coinvolti in vista della coerenza e dell’unità del risultato finale.
DANIELE DEL GROSSO (Sesto San Giovanni, 1992) I anno del Corso di Laurea Magistrale in Progettazione Architettonica presso il Politecnico di Milano. 1. Quello che mi ha sempre affascinato della figura dell’architetto è la possibilità di influenzare, in positivo o purtroppo in negativo, la vita delle persone che si trovano a confrontarsi con l’oggetto architettonico, in maniera maggiore rispetto alla quasi totalità delle altre discipline. Inoltre, la permanenza nel tempo degli edifici più riusciti, che rimangono come segni di un pensiero lontano spesso ancora attuale, come testimonianza del ragionamento dell’architetto di un’epoca passata, è un aspetto che mi ha sempre attratto. La possibilità di lasciare un segno del proprio passaggio non deve tuttavia ricadere nella completa autoreferenzialità. La mia esperienza didattica mi ha portato a comprendere la difficoltà di tutto ciò e il fatto che spesso, in realtà, non siamo in grado di controllare completamente tutti gli aspetti e le conseguenze che il progetto assumerà nel tempo. 2. L’aspetto della professione che sto approfondendo nel corso di laurea magistrale è la progettazione degli interni, legata in maniera diretta al restauro e al riutilizzo di vecchi edifici, anche se un domani mi piacerebbe riuscire a operare sia su edifici già esistenti, che su opere di nuova costruzione. Dal mio punto di vista la figura dell’architetto, grazie al suo percorso di studi interdisciplinare, è facilitata, qualora sia nei suoi interessi, a intraprendere strade che differiscono dall’ambito della progettazione vera e propria e a dedicarsi ad aspetti diversi della professione. Ritengo che questo aspetto sia molto interessante e che possa essere una risposta ai vari interessi che possono affiorare
durante gli studi o lo svolgimento della professione, oltre che un modo per riuscire a variare la propria produzione. 3. Per quanto riguarda la mia esperienza personale sto imparando quanto sia importante il dialogo e il confronto con altre persone nell’ambito del progetto architettonico, anche se spesso questo porta a un allungamento dei tempi. Proprio per questo sono convinto che un edificio che sia il frutto del lavoro congiunto di più menti, possa disporre di una maggiore complessità e possa meglio rispondere alle esigenze sempre diverse dei fruitori o dei committenti, rispetto a uno che sia il risultato del ragionamento di una sola persona. Mi riferisco anche ai vari aspetti statici e tecnologici che i progettisti devono tenere in considerazione, perciò credo che in uno studio di architettura ideale le diverse figure professionali debbano collaborare e aiutarsi, sopperendo alle mancanze che ognuno ha nei diversi campi e dando così maggior forza al progetto. Non conosco in maniera approfondita il funzionamento dei grandi studi di architettura, ma credo che uno studio fondato da un gruppo di architetti dove si può trovare la compresenza di diverse figure professionali, come MVRDV, possa essere preso come riferimento. 4. Penso che la figura dell’architetto, come la conosciamo, non possa esistere se non pensandola come in grado di svariare tra i vari ambiti che la disciplina comporta. Le grandi opere d’architettura non sarebbero state lontanamente immaginate da un gruppo di progettazione a compartimenti stagni, in cui ogni figura si occupa solamente di un aspetto del progetto. Non so cosa risulti più vantaggioso a livello economico e, di conseguenza, a cosa si andrà incontro nel futuro, ma penso che per fare un buon progetto di architettura ci sia bisogno di figure che riescano a intrecciare le proprie conoscenze, i propri interessi e le proprie capacità nei diversi campi, sia per quanto
riguarda la fase progettuale sia per quella, fondamentale, che riguarda il rapporto con la committenza o, nel caso di un edificio pubblico, con i futuri utilizzatori. Proprio per questo credo che l’aspetto della multidisciplinarità, così vantaggioso, così fortemente radicato nella figura dell’architetto, sia qualcosa che non scomparirà mai del tutto, perché in grado di fornire risposte articolate e spesso riuscite proprio grazie a tutto ciò.
ALESSANDRO DELLA VECCHIA (Busto Arsizio, 1991) II anno del Corso di Laurea Magistrale in Architettura delle Costruzioni presso il Politecnico di Milano. 1. La scelta di intraprendere questo corso di studi è stata influenzata dall’esempio di mia sorella più grande, la quale, prima di me, ha affrontato questo percorso. Sono sempre stato affascinato dai lavori che faceva e dalla passione e dedizione spese per farli. Grazie a lei ho colto due degli aspetti che più mi affascinano della professione: in primo luogo l’attualità dei problemi che si affrontano, in quanto ogni esercizio progettuale pone l’uomo al centro di tutti i pensieri, e quindi l’idea di poter realizzare qualcosa che assecondi i bisogni dell’individuo; in secondo luogo la varietà delle competenze a cui un architetto è chiamato a rispondere, mettendosi sempre in gioco e ampliando il proprio bagaglio culturale costantemente, grazie anche alla diversità di saperi a cui egli può fare riferimento. 2. Ogni studente nel corso del suo ciclo di studi è stato chiamato a cimentarsi almeno una volta all’interno di uno degli ambiti sopra citati. Mi piacerebbe molto approfondire il campo dell’architettura degli interni, ambiente in cui si concentrano maggiormente le ricerche
personali che svolgo nel tempo libero (tramite letture di riviste specializzate o siti internet dedicati al settore). Sono affascinato anche dall’urbanistica: questo lo devo soprattutto ai diversi docenti che ho avuto all’interno di questo percorso accademico, che hanno saputo trasmettere la passione per questo ambito (verso il quale all’inizio ero un po’ perplesso). Credo che un architetto possa tranquillamente operare al di fuori della progettazione architettonica (ed è proprio questo, per ricollegarmi alla domanda precedente, che mi piace della professione); non escludo uno sbocco professionale in tal senso, anche perchè sarebbe una bella sfida da affrontare. 3. È difficile rispondere a questa domanda, soprattutto per la poca esperienza che ho di lavoro all’interno di uno studio architettonico vero e proprio. L’idea che ho in testa nasce da una sorta di fusione tra le varie ipotesi presentate dalla domanda: uno studio di architettura deve essere formato da un team di architetti molto affiatato, magari ciascuno con una propria abilità personale ma non per questo inderogabile (ad esempio se uno è bravo nell’esecuzione di immagini 3D non è detto che debba per forza eseguire solo render), all’interno del quale però è necessario riconoscere la figura di un leader (o più di uno), per una questione legata non tanto a un concetto di superiorità o potere, ma a un fatto di responsabilità e affidabilità. Non escludo comunque la possibilità che questo team di architetti possa essere esteso ad altre figure professionali con le quali si è obbligati a cimentarsi e confrontarsi. 4. Credo che in futuro si andrà verso una maggior specializzazione della figura dell’architetto, a partire da una maggior formazione all’interno delle facoltà di architettura in taluni ambiti piuttosto che in altri. Nonostante questo, ritengo che l’aspetto della multidisciplinarità sia fondamentale, perchè un
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architetto deve essere aperto verso tutti i saperi (ricollegandomi alla definizione di architetto data da Vitruvio, architetto è colui che è abile sia nella teoria che nella pratica in egual misura). Non è detto, come già accennato prima, che una cosa escluda l’altra: all’interno della vasta gamma di saperi può risaltarne uno per cui essere riconosciuto.
ANNA EBERLE (Trento, 1991) laureanda in Progettazione Architettonica, presso il Politecnico di Milano. 1. Sono sempre stata attratta dalla dinamicità di questo mestiere, dalla possibilità di creare qualcosa di nuovo partendo da un foglio bianco e di tradurre un concetto in realtà fisica. Il mio amore per questa professione è nato quando ero ancora bambina e i miei genitori stavano costruendo la nostra casa. L’architetto incaricato mi mostrava con grande entusiasmo come un giorno sarebbe diventata la mia nuova casa. Io però ero troppo piccola per poter cogliere e capire il senso dei suoi disegni così lui, un giorno, si presentò con un modellino e mi disse: “Sarà così, e così sarà la tua camera!”. Non ricordo se ero più emozionata io nel vedere la mia futura casa o lui nel potermela realmente mostrare, ma ricordo perfettamente che in quel momento mi voltai verso mio padre e gli dissi: “Io, da grande, voglio fare l’architetto!”. L’entusiasmo e la continua ricerca della perfezione anche nel singolo dettaglio costituiscono gli aspetti fondamentali che mi stanno accompagnando in questi primi anni di progettazione e di studio dell’architettura. 2. Il campo in cui mi piacerebbe maggiormente operare è quello legato alla progettazione sostenibile, intesa non solo come progettazione responsabile nella
scelta e nell’uso dei materiali, ma soprattutto come ricerca di elevatissimi standard di comfort climatico ed abitativo. Sì, penso che l’architetto possa operare anche al di fuori del mondo della progettazione e possa intraprendere anche “percorsi alternativi” come può essere quello della grafica o della fotografia. Sono anche dell’idea che, soprattutto nella fotografia e nel design, non serva essere architetti o fotografi per produrre un buon elaborato ma, anzi, è la passione e la costanza che fanno uscire le più grandi opere. Mentre per quanto riguarda l’insegnamento e l’editoria, il discorso che bisogna fare è diverso. Per diventare un buon insegnante/professore bisogna avere delle doti, che non tutte le persone possiedono, come ad esempio: il dono della retorica, della chiarezza, della semplicità e della sintesi; per poter catturare l’attenzione e l’interesse degli studenti. Sicuramente anche questo campo può essere intrapreso dall’architetto che ha voglia di dedicare le proprie conoscenze e la propria esperienza alle future generazioni di architetti. 3. Ritengo che al giorno d’oggi uno studio di architettura non debba più avere un’organizzazione piramidale, come poteva essere negli anni ’50 e ’60 dove a gestire il lavoro era un solo architetto, visto come un Capo-Maestro; ma debba essere formato da un team di architetti alla pari, ognuno specializzato in un settore. Grazie anche alla grande facilità di comunicazione e alla globalizzazione, è oggi possibile aprire i propri orizzonti verso paesi esteri e facilitare così collaborazioni con studi o con professionisti stranieri. 4. La figura dell’architetto si è sempre distinta per la sua grande professionalità ed esperienza nella progettazione architettonica, a qualsiasi scala: restauro, urbanistica, allestimenti… Era proprio questa multidisciplinarità a permettere all’architetto di emergere maggiormente rispetto ad altre professioni, ma oggi, in un ambiente lavorativo sempre più competitivo, le
competenze tecniche generalizzate, se pur approfondite, non sono più sufficienti, ma bisogna focalizzare il proprio studio e la propria dedizione verso un unico settore, che può essere quello dell’architettura degli interni, del design, delle certificazioni energetiche… Già oggi, i nuovi architetti che escono dalle Università, sono sempre più indirizzati verso uno specifico settore, scelto spesso negli ultimi anni di studio, in modo già da potersi distinguere rispetto agli altri colleghi.
LORENZO IANNUZZI (Tradate, 1990) laureando in Progettazione Architettonica presso il Politecnico di Milano. 1. Ciò che mi ha maggiormente affascinato della professione architettonica è l’aspetto “artigianale” di questa materia. L’architettura è una scienza che richiede la capacità di spaziare in campo artistico, tecnico e filosofico, indagando inizialmente i bisogni reali dell’uomo e trovando una soluzione stilistica inequivocabile. 2. Il campo che vorrei approfondire nella mia formazione è il recupero e restauro di beni architettonici; questo interesse nasce dalla imminente situazione politico/ sociale del nostro tempo, cui siamo chiamati a rispondere; credo sia fondamentale approfondire, inoltre, l’aspetto della progettazione di interni, spazi che l’uomo abita per la gran parte del suo tempo. 3. Secondo la mia personale idea, uno studio di architettura dovrebbe essere formato da un team di architetti alla pari; questo garantirebbe un costante dialogo e quindi una riflessione più approfondita del progetto; inoltre, caso per caso, questo assetto assicurerebbe una naturale suddivisione degli incarichi all’interno del gruppo di collaboratori. 4. Guardando l’esempio di molti
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grandi studi, credo che andremo sempre più verso la specializzazione di alcune figure a discapito della multidisciplinarità del singolo, minando quindi la formazione e la crescita personale del tecnico.
LORENZO FRANCESCO LANZANI (Monza, 1990) laureato in Architecture & Urban Design, Chalmers University of Technology, Svezia. 1. Se debbo pensare a cosa ha dato origine al mio interesse verso la professione dell’architetto, questa mia ricerca di un perché mi porterebbe a rispondere: “la capacità dell’architetto di produrre immagini e visioni dello spazio e della realtà che lo circonda, la capacità di ‘deformare’ la realtà”. L’architetto mette in relazione condizioni attuali e future, crea un link tra realtà e percezione futuribile e rielabora gli elementi al fine di permetterne una lettura alternativa. Durante i miei cinque anni di studio la visione utopica dell’architetto, quale figura in grado di modellare lo spazio e la sua percezione, non è sbiadita, ma, al contrario, si è approfondita e articolata. 2. Vi son due campi diametralmente opposti che vorrei approfondire nella mia futura carriera lavorativa: il disegno degli interni, insieme al design dell’arredo, e il disegno del paesaggio. L’architetto nella sua definizione, e mia personale interpretazione, dev’essere in grado di articolare un discorso progettuale che possa svariare dal dettaglio di un serramento alle curve sinuose di un paesaggio collinare. Questo certo non vuol dire che l’architetto debba eccellere in tutti i campi; ovviamente, ogni singolo individuo prima che essere un professionista è portato per un campo specifico o un altro, ma come professionista l’architetto deve saper relazionarsi con tutte le scale di progetto. 3. Nella mia visione dello studio
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di architettura non è presente una figura centrale autoritaria, quanto invece un team composto dalle diverse figure professionali in grado di collaborare e integrare le proprie competenze. L’esperienza in università mi ha fornito la certezza che nel lavorare in team di progetto, e permettendo alle diverse figure di esprimersi, il discorso progettuale ne giovi e si arricchisca, ma rimane necessaria una figura in grado di tenere le fila del progetto e articolarne le varie parti, l’architetto appunto. 4. Nel futuro la specializzazione prenderà progressivamente il posto della multidisciplinarità, molte figure professionali dovranno fare fronte a richieste sempre più specifiche e dettagliate in un preciso campo di lavoro. Su questo punto la mia opinione personale è che l’architetto rimarrà una figura relativamente multidisciplinare, in quanto è nella sua multidisciplinarità che può svolgere la propria professione, nella sua capacità di relazionarsi con sempre più ambiti, più specifici, ma interconnessi. L’architetto diverrà una figura di connessione professionale.
TOMMASO LOLLI (Bologna, 1990) laureando in Progettazione Architettonica presso il Politecnico di Milano. 1. Il mio incontro con l’architettura è avvenuto in modo relativamente casuale: durante due anni di infruttuosi studi di filosofia, caratterizzati per lo più da nozionismo e pedissequa filologia, ho maturato un interesse per lo più superficiale per questa disciplina, che mai avevo realmente considerato: mi interessava soprattutto la congiuntura di elementi artistici e creativi con elementi formali, scientifici e ordinativi; un duplice aspetto che, aggiunto a una cultura progettuale propositiva e non solo di
assimilazione passiva, mi ha spinto a fare un grande salto nel vuoto. Con l’esperienza di studio finora affrontata mi sono reso conto che quel concetto, ancora astratto e forse vincolato alla mia formazione filosofica, benché estremamente radicato nella cultura della materia, non è che una minima parte dell’architettura: mi sono reso conto dell’importanza fondamentale dell’architettura sia nella vita privata che nella vita pubblica, intendendola come l’effettivo teatro della vita di una società, focolare di vecchie memorie e di speranze per il futuro. Attingendo definizioni dal mio passato, l’architettura si è configurata come un “motore immobile” e spesso senza gloria della vita dell’uomo, con la sua capacità di accoglierci e contenerci. In questo senso lato di “socialità” ho trovato la radice del mio interesse (relativamente più maturo) per l’architettura, intesa come strumento per cambiare, possibilmente in meglio, il mondo che abitiamo. 2. Nella mia carriera universitaria mi sono affezionato molto a due campi della progettazione: interni e urbanistica. Nonostante questa opinione possa, a prima vista, trarre in notevole confusione, mi sembra che entrambi i campi abbiano gli stessi princìpi primi, poi evidentemente bisognosi dei loro linguaggi propri per essere declinati nelle rispettive dimensioni. L’aspetto centrale è la considerazione dello spazio come elemento primario nella scoperta percettiva di un’architettura e, a livello didattico, la sua amministrazione come oggetto primario e punto focale. La giusta articolazione di spazi collettivi e spazi privati, l’attenzione per la qualità degli spazi, l’attenta divisione, netta o per nuances, tra interno ed esterno sono aspetti che caratterizzano fortemente queste due discipline. Si potrebbe dire provocatoriamente che la città è una “grande casa con dei muri abitati”, e che forse la vera prova dell’architettura sia proprio il sapersi confrontare con successo
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nella sua duplice scala di interno e contesto urbano. La formazione dell’architetto per un’insita interdisciplinarità che la caratterizza, ha le possibilità di confrontarsi con altri ambiti tangenti all’esercizio della professione. Per giunta, in un momento in cui la comunicazione mediatica dell’immagine e dell’apparenza si radica anche in ambiti didattici e scientifici, sarebbe più che utile che gli architetti dediti a professioni “collaterali” contribuissero a rifondare una divulgazione più accurata e meno settoriale, meno schiava della foto patinata e più attenta alla vera cultura del progetto, senza chiudersi nell’autoreferenzialità della professione. Penso, quindi, che ambiti come l’insegnamento, l’editoria, la fotografia e la grafica siano assolutamente a portata dell’architetto, ma soprattutto mezzi per divulgare e far conoscere il bellissimo mondo che rischiamo di tenere solo per noi. Il mondo dell’editoria mi ha sempre affascinato, la grafica e la fotografia sono “quella marcia in più” che potrebbe essere veramente utile per la comunicazione rapida, esaustiva e delicata dei progetti, mentre l’insegnamento dell’architettura, percorso che sto effettivamente valutando di tentare, sarebbe di fondamentale importanza, specialmente in un paese come l’Italia, ricco di patrimoni di qualsiasi età. 3. Nella mia idea uno studio di architettura deve essere non solo un luogo di produzione e di lavoro, ma anche un luogo di confronto e discussione, elementi cardine per la crescita qualitativa di qualsiasi prodotto, e quindi anche di qualsiasi progetto. Ciò senza comunque togliere una certa individualità e autonomia del lavoro, senza cercare forzatamente quell’unione di svariati pezzi che non può ontologicamente essere ricondotta a un’unica identità. Sarebbe necessario un sapiente compromesso tra diverse competenze, che abbiano
in comune un unico obiettivo progettuale. Un modello ideale potrebbe essere uno studio con figure professionali diverse, che ricercano insieme un prodotto comune e condiviso, tra cui architetti, ingegneri, impiantisti, tecnologi, grafici, che collaborino insieme alla creazione di un progetto (con anche la sua comunicazione, parte fondamentale) caratterizzato comunque dal controllo, benché condiviso, di un prodotto che sia uno per identità e non per assimilazioni e addizione di parti non comunicanti. 4. Non solo l’architettura, ma in generale il mondo scientifico sta andando verso una specializzazione molto rigorosa dei saperi; non può necessariamente dirsi un male, ché l’umiltà dell’uomo impone il riconoscere la limitatezza delle nostre esperienze nei confronti di uno scibile che cresce esponenzialmente col tempo; non nascerà più un Leonardo, non per carenza di geni in circolazione, ma per sovrabbondanza di conoscenze. È quindi inevitabile che anche l’architettura si specializzi, perché le branche esplorabili sono talmente tante che decisamente non basta una vita per approfondirle tutte. Vero è che ci sono modelli educativi che, dato per perso il sapere assoluto, si sono concentrati solamente sulla specializzazione, ignorando qualsiasi trasversalità, complessità o interdipendenza della materia affrontata. Quale può essere il ruolo della multidisciplinarità di un insegnamento in questo contesto? O addirittura, c’è ancora un ruolo? A mio parere sì: se è vero che è inevitabile la specializzazione, nonché essere cosa giusta e auspicabile, è solo la conoscenza, per quanto superficiale, di più materie possibili che rende valido il concetto di specializzazione: se non è più possibile saper fare tutto, è possibile lo stesso conoscere. Ma non è tanto il sapere realmente effettuare un’operazione che ci rende meno ciechi, quanto sapere
abbastanza per avere le capacità conoscitive per immaginare come le cose possano funzionare, di modo da poter sfruttare la specializzazione altrui secondo una nostra idea. È in questo contesto che la multidisciplinarità non perderà mai valore nei confronti delle specializzazioni: appunto come metro di conoscenza e controllo di altri ambiti affini; una conoscenza allargata e aperta porta con sé una forma mentis capace di scoprire, confrontare e selezionare ciò di cui si ha bisogno, qualità che mancano in compartimentazioni stagne, ma assolutamente necessarie nella formazione di un buon architetto.
FRANCESCA MARTELLONO (Milano, 1992) laureanda in Progettazione Architettonica presso il Politecnico di Milano. 1. Ho scelto di studiare architettura, perché sono sempre stata affascinata dalla stretta relazione tra lo spazio progettato e la naturale risposta delle persone, che reagiscono in modo quasi inconsapevole agli stimoli che ne derivano, e quindi dalla capacità di saperne interpretare i bisogni e anticipare i comportamenti, con l’obiettivo di rendere un luogo quanto più riuscito possibile nella sua funzione concreta, dovendo contemporaneamente ricercare un’armonia estetica e una coerenza tipologica con il contesto esistente. Ho studiato in un liceo artistico, sono cresciuta imparando a conoscere diverse discipline artistiche, ma dell’architettura mi affascinava, e mi affascina tuttora, il modo in cui si rapporta in modo diretto e costante con l’uomo, che ne è spettatore e fruitore al tempo stesso. È il fondamento della vita dell’uomo moderno, e io ero attratta da quella possibilità di influenzare la vita delle persone, o meglio, era
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quello che credevo, senza essere consapevole delle implicazioni. Continuavo a immaginare un architettura scultorea, che potesse esistere anche fine a se stessa, ora immagino un’architettura al servizio delle persone, interpretando in modo più consapevole quella possibilità di controllo dei comportamenti umani, propria della disciplina, che mi aveva, all’inizio, conquistata e che sognavo in modo così naif. Ho imparato che le implicazioni sono ben maggiori di quelle che pensavo, ma mi riservo il diritto di continuare a sperare di avere la possibilità in futuro di mettere in pratica la mia idea di un’architettura che riesce a trovare un punto di equilibrio nella antica dualità tra forma e funzione a vantaggio della persone. Ciò che è inevitabilmente cambiato, piuttosto, è la mia idea di buona architettura (fortunatamente!). 2. In realtà, non c’è un campo dell’architettura che non vorrei approfondire. Mi piacerebbe credere ancora nell’idea che un architetto possa avere le capacità e le competenze per muoversi nella progettazione a ogni scala, con una forte multidisciplinarità pur mantenendo sempre la propria personale visione, ma dubito che oggi una figura di questo tipo possa ancora esistere. Tenendo conto di questo presupposto, sto sviluppando un sempre maggiore interesse per la progettazione architettonica in ambienti estremi (tali per ragioni geografiche o sociali). Soprattutto sono affascinata dall’idea di un’architettura “resiliente”, in grado di rispondere a eventi drammatici come alluvioni, uragani o tsunami, sperimentando nuovi modelli di intervento che pongono al centro l’adattabilità, opponendo a ogni rigidità un principio di flessibilità. Fino a qualche anno fa, non riuscivo a concepire l’idea di un architetto che non progetta, dedicandosi ad attività che avrebbero dovuto, dal mio punto di vista, essere al massimo collaterali a quella di progettazione. Grazie ad alcuni corsi che ho
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seguito e a un libro (Anthony Vidler, Storie dell’immediato presente) che ha completamente cambiato il mio punto di vista nei confronti della critica architettonica, oggi sono convinta che un architetto possa “dare il proprio contributo” all’architettura anche operando al di fuori della progettazione architettonica, riuscendo a essere comunque al centro dell’azione. Per quanto riguarda il mio futuro, pensare di non avere la possibilità di progettare una volta fuori dall’università, per ora mi spaventa, ma non mi sento di escludere alcuna strada, e devo ammettere che tutto sommato immaginarmi un giorno a scrivere di architettura non è poi così male… 3. Credo che il modello ideale di studio di architettura sia quello dove al suo interno si sia capaci di adattare il proprio team al tipo di progetto che ci si trova a dover affrontare. L’idea di un solo architetto che abbozza a matita uno schizzo, seguito da persone con diverse competenze tecniche che si adoperano per renderlo possibile, credo sia molto lontana dal definire un buon modo di “fare architettura”. Mi immagino piuttosto un team di architetti, con diverse specializzazioni, che lavorano insieme attorno a un tavolo, discutendo, per arrivare a formulare una proposta progettuale complessa, in quanto composta dal lavoro sinergico di più menti. Penso poi a diverse altre personalità che si affiancano a questo team, alternandosi in modo sempre diverso a seconda dei diversi progetti di cui ci si sta occupando, dando, quindi, ogni volta un apporto nuovo. 4. Ritengo indubbiamente che la multidisciplinarità sia un aspetto fondamentale per un architetto. Maggiori sono le competenze specifiche, maggiori saranno le variabili di cui si potrà tenere conto in fase di progettazione, e quindi gestire adeguatamente nelle fasi successive. Tuttavia mi sembra che con il passare degli anni questa
professione vada definendo un numero sempre maggiore di sfaccettature, e che le nuove tecnologie che sono continuamente sviluppate richiedano competenze tecniche sempre più specifiche. Non ci si può più aspettare una figura dell’architetto in grado di occuparsi di ogni sfaccettatura, a meno forse di trascurare la parte di pura progettazione nella sua accezione ideologica e umanistica. Credo che una sempre maggiore specializzazione della figura dell’architetto sia diventata una necessità, seppur assolutamente evitando che queste diverse specializzazioni vengano come chiuse in compartimenti stagni, in quanto una mutua contaminazione e collaborazione tra le diverse competenze specifiche deve essere il presupposto di ogni studio di architettura
DENISE CARLOTTA MAZZOLINI (Cittiglio, 1991) II anno del Corso di Laurea Magistrale in Architettura delle Costruzioni presso il Politecnico di Milano. 1. Ciò che mi ha sempre colpito del mestiere dell’architetto è il fatto che non esista un unico aspetto che caratterizza l’uomo in quanto creatore e progettista. L’ho sempre visto come una figura poliedrica che per fare bene il proprio lavoro deve occuparsi di diversi aspetti: la composizione, il calcolo delle strutture, l’attenzione alla salute fisica, lo studio della luce e del colore, la misura e la distanza tra i corpi, l’ergonomia e la grafica. Ho deciso di intraprendere questo corso di studi perché progettare l’architettura significa affrontare un programma vasto che va scoperto poco per volta, non si tratta di soli numeri, calcoli, disegni o modelli, c’è tutto un mondo che salta fuori col tempo e che ogni volta stupisce per quello che ha da raccontare. 2. Dal generale al particolare, per
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poi fare ancora qualche passo indietro nel caso non si sia convinti del risultato. I salti di scala aiutano a capire se le misure, le distanze o le geometrie soddisfino l’occhio. È in quel preciso istante che capisci quello che più ti appassiona, nel mio caso ho scoperto una propensione verso l’urbanistica: lo studio dei flussi, i movimenti, i ritmi, le pause, la vista dagli assi infrastrutturali, gli spazi verdi o pavimentati, le ombre create dagli oggetti, la percezione del paesaggio circostante. Sì, credo che essere architetto aiuti ad acquisire una serie di schemi mentali che ordinano le idee e il processo pratico, permettendogli di lavorare anche nei campi dell’editoria, della fotografia e dell’insegnamento. 3. Non ho chiaro in mente come potrebbe essere uno studio di architettura dove il potere decisionale spetta a una sola persona, sono convinta della necessità di un confronto tra le parti poiché credo che la discussione e il dibattito portino alla crescita comunitaria. Per questo motivo ritengo che un team di architetti alla pari, che uniscono le loro competenze e le divulgano, siano l’ingrediente fondamentale per un’ottima riuscita. Data la complessità del campo di cui si sta parlando, si devono inoltre considerare le figure di ingegneri, strutturisti e impiantisti che in una prima fase della progettazione devono lavorare in parallelo con gli architetti; dovrebbero, quindi, costituire una componente fondamentale all’interno dello studio affinché questo risulti efficiente in ogni campo. 4. Credo nell’accostamento tra le parole multidisciplinarità e progresso. L’ipotesi che col passare del tempo vi possa essere una sempre maggiore specializzazione dell’architetto la ritengo riduttiva per una figura così ricca di sfaccettature. Il vantaggio della molteplicità è il continuo cambiamento che permette di avere sempre la mente aperta a tutti gli aspetti che competono questo mestiere. Inoltre, trovo che occuparsi solo di
alcune competenze tecniche, faccia perdere all’architetto lo sguardo d’insieme e di conseguenza rischia di atrofizzare alcuni dei suoi aspetti creativi.
ELENA SARTINI (Senigallia, 1992) laureanda in Progettazione Architettonica presso il Politecnico di Milano. 1. Quando ho scelto la Facoltà di Architettura non avevo ben chiaro in cosa consistesse la professione di architetto. Nella mia mente, l’architetto era, riassumendolo in poche battute, colui in grado di dare senso e forma a un determinato spazio e l’aspetto che più mi incuriosiva era proprio l’occasione offerta da una tale professione di creare luoghi adatti alle esigenze delle persone. A me personalmente allettava l’idea di poter, grazie a questo lavoro, realizzare spazi interni confortevoli, sia sotto l’aspetto visivo, sia della sicurezza, e contribuire al benessere di chi ne usufruirà. Durante gli studi, in particolare durante il terzo anno accademico, ho avuto modo di considerare altri aspetti fondamentali di questa professione. Ad esempio pensare all’architetto come “artista civico”, colui che si occupa della progettazione dello spazio pubblico, disegnando gli spazi aperti e attribuendo ad essi un significato o una funzione. Ho così maturato l’idea che un buon architetto ha il compito di valorizzare anche il “vuoto” tra gli edifici, luogo dell’incontro e del possibile, spazio delle relazioni sociali. 2. Al momento il campo della progettazione che mi affascina maggiormente è quello degli interni. Ho la sensazione che un progetto a piccola scala, per la sua dimensione più contenuta, possa essere più facilmente
controllabile e possa offrire all’architetto la possibilità di curare al meglio ogni dettaglio. Tuttavia, nonostante la mia attuale propensione sia per la progettazione d’interni, ritengo che quanto più un architetto sviluppa capacità in tutti gli ambiti della progettazione architettonica, tanto più la sua figura risulterà valida e completa. Inoltre, chi più di un abile architetto, attivo a livello di progettazione, è in grado di insegnare la sua materia? In base alla mia esperienza universitaria, infatti, ho verificato che, più di uno storico, solo colui che opera concretamente nel campo dell’architettura rende tale insegnamento efficace. Non è escluso, inoltre, che l’architetto possa operare anche nel campo della fotografia e della grafica; tuttavia probabilmente sarà per lui necessario acquisire nozioni e conoscenze più tecniche e specifiche che il tradizionale percorso di studi in architettura non sempre prevede. 3. Nella mia attuale idea, uno studio di architettura è organizzato secondo una struttura piramidale al cui vertice vi è la mente, ovvero la figura di uno, o al massimo due architetti, uniti da un legame coniugale, fraterno o di amicizia. Nei gradini sottostanti sono collocati i collaboratori, che immagino essere più di meri esecutori, bensì un gruppo di persone laureate, perlopiù giovani, freschi e motivati che contribuiscono attivamente all’ideazione e alla realizzazione di un nuovo progetto, ciascuno con il proprio specifico apporto. Penso pertanto che uno studio sia più produttivo, quanto più eterogeneo, composto da laureati ed esperti in diversi settori quali quello dell’architettura, dell’ingegneria, del design, ecc. Il modello ideale ritengo essere quello di una struttura estesa anche ad altre professionalità, affinché il prodotto finito possa risultare il più completo possibile. 4. SENZA RISPOSTA
g li auto ri
Daniela Villa Architetto, si è laureata al Politecnico di Milano, dal 2011 lavora presso diversi studi di progettazione. Dal 2012 inizia a collaborare con la Consulta Regionale Lombarda degli OAPPC, prima come stagista, poi come redattrice della rivista “AL”. In qualità di web master ha realizzato alcuni siti internet di studi architettura.
MATTEO MOSCATELLI Architetto e PhD, si è laureato al Politecnico di Milano. Nell’ambito del progetto residenziale e dello spazio pubblico, su cui si concentra la sua attività, ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti. Svolge attività didattica al Politecnico di Milano e all’Istituto Europeo di Design.
Stefania Buila, Serena Cominelli, Alessandro D’Aloisio, Paola Faroni, Luisa Favalli, Fabio Maffezzoni, Roberta Orio, Alessio Rossi, Roberto Saleri, Eliana Terzoni (Termine del mandato: 28.10.2017) Consulta Regionale Lombarda degli Ordini degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori tel. 02 29002174 www.architettilombardia.com Segreteria: segreteria@consulta-al.it Presidente: Giovanni Vanoi Segretario: Alessio Rossi Tesoriere: Marcello Rossi Consiglieri e Delegati: Umberto Baratto, Laura Boriani, Valeria Bottelli, Eugenio Campari, Alessandra Ferrari, Carlos Gomes de Carvalho, Bruna Gozzi, Aldo Lorini, Fabiola Molteni, Gian Luca Perinotto, Michele Pierpaoli, Maria Elisabetta Ripamonti, Pietro Triolo, Alessandro Valenti Ordine APPC di Bergamo tel. 035 219705 www.bg.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettibergamo@archiworld.it Informazioni utenti: infobergamo@archiworld.it Presidente: Alessandra Ferrari Vice Presidente e tesoriere: Carlos Manuel Gomes de Carvalho Vice Presidente: Marcella Datei Segretario: Arianna Foresti Consiglieri: Remo Capitanio, Giuseppe Joi Donati, Gianpaolo Gritti, Riccardo Invernizzi, Silvia Lazzari, Sandra Marchesi, Alessandra Morri, Chiara Raffaini, Stefano Tacchinardi, Sara Zenti (Termine del mandato: 12.6.2017) Ordine APPC di Brescia tel. 030 3751883 www.bs.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettibrescia@archiworld.it Informazioni utenti: infobrescia@archiworld.it Presidente: Umberto Baratto Vice Presidente: Laura Dalè Segretario: Gianfranco Camadini Tesoriere: Eugenio Sagliocca Consiglieri: Stefania Annovazzi,
Ordine APPC di Como tel. 031 269800 www.ordinearchitetticomo.it Informazioni utenti: info@ordinearchitetticomo.it Presidente: Michele Pierpaoli Vice Presidente: Elisabetta Cavalleri Segretario: Lorenza Ceruti Tesoriere: Alessandra Guanziroli Consiglieri: Alessandro Cappelletti, Margherita Mojoli, Elisa Molteni, Angelo Monti, Entico Nava, Matteo Nava, Giacomo Pozzoli, Stefano Seneca, Alessandro Soldini, Giulia Turati, Gabriele Vaccarella (Termine del mandato: 17.2.2018) Ordine APPC di Cremona tel. 0372 535422 www.architetticr.it Presidenza e segreteria: segreteria@architetticr.it Presidente: Bruna Gozzi Segretario: Elisabetta Bondioni Tesoriere: Laura Patrini Consiglieri: Eugenio Amedeo Campari, Maria Luisa Fiorentini, Antonio Lanzi, Massimo Masotti, Vincenzo Paolo Ogliari, Andrea Pandini, Paola Pietramala, Silvano Sanzeni (Termine del mandato: 2.10.2017) Ordine APPC di Lecco tel. 0341 287130 www.ordinearchitettilecco.it Presidenza, segreteria e informazioni: ordinearchitettilecco@tin.it Presidente: Maria Elisabetta Ripamonti Vice Presidente: Paolo Rughetto Segretario: Marco Pogliani Tesoriere: Vincenzo D. Spreafico Consiglieri: Davide Bergna, Laura Colombo, Paolo Manzoni, Elio Mauri, Giorgio Melesi, Diego Toluzzo, Giulia Torregrossa (Termine del mandato: 8.10.2017) Ordine APPC di Lodi tel. 0371 430643 www.lo.archiworld.it Presidenza e segreteria:
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Consiglieri: Maria Grazie Angiolini, Marco Ballarè, Chiara Lorenza Colzani, Luca Elli, Emanuele Gatti, Andrea Meregalli, Mauro Monti, Vania Mottinelli, Fabio Sironi, Corrado Spinelli, Mariarosa Vergani (Termine del mandato: 23.12.2017) Ordine APPC di Pavia tel. 0382 27287 www.ordinearchitettipavia.it Presidenza e segreteria: architettipavia@archiworld.it Informazioni utenti: infopavia@archiworld.it Presidente: Aldo Lorini Segretario: Paolo Marchesi Tesoriere: Maura Lenti Consiglieri: Roberto Fusari, Luca Pagani, Gian Luca Perinotto, Paolo Polloni, Loretta Rizzotti, Giorgio Tognon, Alessandro Trevisan, Andrea Vaccari (Termine del mandato: 2.9.2017) Ordine APPC di Sondrio tel. 0342 514864 www.so.archiworld.it Presidenza e segreteria: architettisondrio@archiworld.it Informazioni utenti: infosondrio@archiworld.it Presidente: Giovanni Vanoi Segretario: Claudio Botacchi Tesoriere: Andrea Forni Consiglieri: Marco Del Nero, Mauro Marantelli, Carlo Murgolo, Giulia Pedrotti, Nicola Stefanelli, Giulia Maria Vitali (Termine del mandato: 23.9.2017) Ordine APPC di Varese tel. 0332 812601 www.ordinearchitettivarese.it Presidenza: presidente.varese@awn.it Segreteria: infovarese@awn.it Presidente: Laura Gianetti Vice Presidente: Giuseppe Speroni, Emanuele Brazzelli Segretario: Matteo Sacchetti Tesoriere: Maria Chiara Bianchi Consiglieri: Giorgio Maria Baroni, Luca Bertagnon, Alberto D’Elia, Mattia Frasson, Ilaria Gorla, Carla Giulia Moretti, Dario Pesca, Franco Segre, Maria Cristina Tomasini, Stefano Veronesi (Termine del mandato: 1.10.2017)
trimestrale di informazione degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori Lombardi
La rivista AL, fondata nel 1970, raggiunge ogni tre mesi i 27.635 architetti iscritti ai 12 Ordini degli Architetti PPC della Lombardia: 2.353 iscritti dell’Ordine di Bergamo; 2.356 iscritti dell’Ordine di Brescia; 1.720 iscritti dell’Ordine di Como; 706 iscritti dell’Ordine di Cremona; 955 iscritti dell’Ordine di Lecco; 403 iscritti dell’Ordine di Lodi; 713 iscritti dell’Ordine di Mantova; 12.080 iscritti dell’Ordine di Milano; 2.534 iscritti dell’Ordine di Monza e della Brianza; 876 iscritti dell’Ordine di Pavia; 372 iscritti dell’Ordine di Sondrio; 2.306 iscritti dell’Ordine di Varese. Ricevono, inoltre, la rivista: 90 Ordini degli Architetti PPC d’Italia; 1.555 Amministrazioni comunali lombarde; Assessorati al Territorio delle Province lombarde e Uffici tecnici della Regione Lombardia; Federazioni degli architetti e Ordini degli ingegneri; Biblioteche e librerie specializzate; Quotidiani nazionali e Redazioni di riviste degli Ordini degli Architetti PPC nazionali; Università; Istituzioni museali; Riviste di architettura ed Editori.