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PETER MOSER AURAI
by The Pill
BY MARTA MANZONI PHOTOS BY ROBERTO DE PELLEGRIN
Aurai, dal pre-latino “Aur”, spazio erboso attorno alle acque, da cui Lagorai.
La prima cosa che capisco di Peter Moser è che per Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e il gotha della Silicon Valley, Peter Moser, semplicemente, non esiste. Nessuna traccia di lui sul World Wide Web. I rivoluzionari di oggi non hanno i social. La seconda cosa che capisco di Peter Moser è che ama il Lagorai quanto lo amo io. Solo che lui, una delle migliori Guide Alpine della zona, lo conosce come il palmo della sua mano. “Vedi quella è Cima d’Asta, il mio regno. Là dietro c’è il maso dove vivo, sperduto tra le montagne” mi dice indicandomi la vetta situata tra l'Altopiano del Tesino, la Valsugana e la Valle del Vanoi. A febbraio 2020, prima che il mondo si fermasse, Peter Moser, l’irriducibile, ha unito tutte le oltre duecento cime sopra i duemila metri della catena del Lagorai-Cima d'Asta. Creste a fil di cielo, pendii ripidi e molto esposti, discese tecniche in picchiata, percorsi di sci alpinismo inediti. Ogni giorno ha fatto oltre seimila/settemila metri di dislivello, scalando creste rigorosamente in stile alpino, leggero ed essenziale. “Avevo con me solo un po’ d’acqua e qualche nocciolina, che spesso non mangiavo neanche. Non avevo un tempo prefissato, non mi interessava il record, era solo una scusa per stare fuori, nel mio ambiente. Sapevo che mi sarei dovuto adeguare alle condizioni che trovavo in quota, navigando a vista. Il programma era solo un’idea. Alla fine comunque, in tutto, ci ho messo quattordici giorni”.
Un viaggio d’esplorazione dell’anima e della natura incontaminata. Come compagni di avventura, cervi, aquile, camosci e lupi. La neve sotto i piedi, il vento tra i capelli, lo sguardo rivolto all’orizzonte e, nelle orecchie, il suono del suo respiro. “Sono molto geloso delle mie montagne. Il Lagorai è l’ultimo baluardo selvaggio del Trentino, lontano dai riflettori del turismo, e voglio che rimanga così com’è. È unico e il suo valore inestimabile. È una terra di nessuno. Di origine vulcanica, se lo guardi dall’alto è costituito da enormi creste che si allineano a perdita d’occhio. Qui l’unico impianto è il Cermis e c’è solo una strada, chiusa in inverno. Per gran parte non è neanche un Parco Naturale, se ci pensi è indicativo: significa che sono i montanari che l’hanno preservato intatto, uguale a millenni di anni fa”.
Un’aquila danza allo zenit, volteggiando curiosa sopra le nostre teste. È l’unica amica di gioco che incontriamo durante la giornata. Sembra che qui, l’umanità non sia mai esistita. “Mi muovo in silenzio, come un animale, seguendo il mio istinto. La montagna non deve accorgersi del mio passaggio. Se noto delle impronte di un lupo, vado dall’altra parte, per non interferire. Mi dispiace persino lasciare la mia traccia sulla neve. Mi immergo dentro le montagne e divento parte di loro. Credi che se ci fossero state con noi altre trenta persone, oggi sarebbe stata lo stesso una giornata così speciale?” La domanda, ovviamente è retorica. Ed è impossibile non essere d’accordo con la risposta implicita. “La montagna non è per tutti. So di essere egoista, ma è così. Ci vuole un approccio graduale, rispettoso. Se mi accorgo che una persona non condivide i miei stessi valori, preferisco evitare quella compagnia. Mi è capitato di dire di no a un cliente che mi aveva offerto una somma ingente per fare tre classiche Nord delle Alpi, quando mi sono accorto che era solo un collezionista”.
Peter Moser, radici altoatesine scritte nel cognome, un figlio d’arte delle montagne, autodidatta. Improvvisare è il suo mantra. “In famiglia siamo contadini, non ho parenti
alpinisti. All’inizio, è stata la semplice conseguenza di un richiamo. Così da piccolo, verso i dieci anni, quando ho mosso i miei primi passi in parete, ho imparato tutto da solo. A dodici anni ho scalato il mio primo 8a. Ero abituato a convivere con la paura, visto che a ogni uscita si presentava una situazione di rischio, era inevitabile fosse così. Mi ricordo una volta, sullo spigolo di una via, ho visto uscire il sangue dalle unghie per quanto stringevo le prese. Avevo tredici anni e andavo da primo. Ora non direi mai ai ragazzi ai quali insegno di fare così. Mi ritengo un po’ un sopravvissuto. Un sano timore è positivo, ti fa sempre stare in allerta. Queste esperienze hanno forgiato la mia personalità e la mia conoscenza della montagna. Sono sempre stato attratto dall’avventura, da queste forti sensazioni e da tutte le attività: ghiaccio, sci alpinismo, vie lunghe. L’importante è stare in montagna”. A vent’anni Peter Moser diventa Guida Alpina. Nel suo curriculum ci sono ripetizioni di itinerari superiori all’8c, salite alle grandi Nord delle Alpi, centinaia di vie in Dolomiti e in tutta la catena delle Alpi, numerose prime aperture sia su roccia che su ghiaccio. Ricci ribelli e indomabili, proprio come il loro padrone, fisico asciutto e pronto a scattare, un nome perfetto, destinato a diventare leggenda, per pochi intenditori. “Non ho mai rispettato le regole, sin da bambino: non sai quanti ceffoni da mia mamma! Mi considero un fuorilegge: non ho mai fatto nulla nella mia vita che mi sia stato imposto. Sono fatto così”.
Peter Moser è uno spirito selvatico, un puro. Una persona autentica, una forza della natura. Un’alpinista per il quale conta essere, non apparire. “Con gli sponsor metto subito in chiaro le cose e ho detto molti no a diverse proposte che ho ricevuto. Con Aku mi trovo bene proprio perché condividiamo la stessa visione della montagna. Una passione comune che va ben oltre la semplice performance sportiva. C’è molto confronto legato non soltanto allo sviluppo di scarpe innovative come la Rock DFS GTX, ma sul mondo outdoor nella sua multiformità. Un altro modello dell’azienda che trovo interessante è il Hayatsuki GTX: uno scarpone adatto a percorsi impegnativi e misti”.
Dopo un grave infortunio e la rottura dei crociati, Peter Moser accetta di entrare, come atleta e alpinista professionista, nell’esercito. Dopo cinque anni la disciplina militare inizia però ad andargli stretta. Così finisce questa esperienza, che lo aiuta a capire cosa cerca davvero in montagna: l’alpinismo è il suo universo parallelo di libertà, la sua evasione. Un anarchico di natura, inteso come ideale libertario fondato sull'autonomia e la libertà degli individui, contrapposto a ogni forma di potere costituito. “Essere libero mi permette di esprimere me stesso. Credo di non essere portato in niente, tranne che a fare fatica. Sono una testa dura: se ho un obbiettivo non mollo. Per questo vado in montagna da solo: sono più veloce e ogni emozione è più forte. Ho un contatto diretto con la natura. Ho difficoltà a trovare una persona che abbia i miei stessi ideali e allo stesso tempo il mio stesso passo”. In effetti per uno che è abituato a polverizzare duecento mila metri di dislivello all’anno immagino sia difficile trovare un socio di scorribande. “A volte conosco un nuovo compagno di cordata ma il giro dopo trova sempre qualche scusa per non venire…”.
Peter mi confida che in futuro gli piacerebbe mettersi alla prova in qualche spedizione internazionale, visto che non ne ha mai vissute. Ma ovviamente non mi dice dove vorrebbe andare. Oggi, insieme a lui, è una Pasqua decisamente alternativa. Partendo dalla Val Cava, pelliamo fino alla Cima del Gronlait, che divide la Valsugana dalla Val dei Mocheni, un’area nota per la presenza di una minoranza linguistica germanofona di origine medievale. Scendiamo dal versante sud-est, arrivando in Val Portella. Ripelliamo fino in cima e sciamo fino al paese di Fierozzo, dove ci vengono a recuperare in auto. Un piccolo assaggio del suo Lagorai. Una cima, mentre lui, durante la sua traversata, ha fatto fino a trenta vette al giorno, indomito. Su e giù dalle creste a fil di cielo, tutte d’un fiato. Peter Moser, l’irriducibile. E il suo Lagorai, così bello quand'è bello, così splendido, così in pace.