RENEE ENGELN, PHD
BEAUTY
MANIA
ISBN 978-88-6905-285-9 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: Beauty Sick Harper An Imprint of HarperCollins Publishers © 2017 Renee Engeln Traduzione di Aurelia Di Meo Realizzazione editoriale: studio pym / Milano Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A. La citazione iniziale da The Armpit Song di Siwan Clark è stata pubblicata con il permesso dell’autore. Il brano tratto dalla poesia It’s Not Your Job di Caitlyn Siehl a pag. 39 è stato liberamente tradotto e pubblicato con il permesso dell’autrice. Il brano tratto dalla poesia di Rupi Kaur a pag. 388 è tratto da milk and honey. Parole d’amore, di dolore, di perdita e di rinascita, trad. it. di A. Storti, Tre60, Milano, 2017. © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins gennaio 2018
Questo libro è prodotto con carta FSC® certificata con un sistema di controllo di parte terza indipendente per garantire una gestione forestale responsabile.
Alle donne e alle ragazze che combattono, in tutti i modi che conoscono, per un domani migliore.
Indice
Introduzione 11 17 1. Sarò bella? 19 2. Just like a woman 41 3. Io, oggetto 63
PARTE PRIMA: LA MALATTIA DELLA BELLEZZA
PARTE SECONDA: GLI EFFETTI DELLA MALATTIA DELLA BELLEZZA SULLE DONNE 89
4. La mente pensa al corpo e il corpo alla mente 5. È una vergogna 6. Il vostro denaro e il vostro tempo
91 121 148
PARTE TERZA: COME I MEDIA ALIMENTANO LA MALATTIA DELLA BELLEZZA 181
7. I media dominanti sono perfidi 8. (Anti)social media e ossessioni online
183 215
PARTE QUARTA: I MODI IN CUI LOTTIAMO CONTRO LA MALATTIA DELLA BELLEZZA NON FUNZIONANO 241
9. L’alfabetizzazione mediatica non è sufficiente 10. Il problema della vera bellezza
243 265
PARTE QUINTA: COMBATTERE LA MALATTIA DELLA BELLEZZA 285
11. Abbassare il volume 12. Basta parlare del corpo 13. La funzione conta piĂš della forma 14. Imparare ad amare il proprio corpo e insegnare agli altri a fare lo stesso 15. Dare le spalle allo specchio e affrontare il mondo
287 314 341 370 397
Ringraziamenti 427 Note 429
A volte penso di poter conquistare il mondo, ma prima‌ Oddio, devo sfoltire le sopracciglia E, oddio, devo depilarmi le gambe E devo fare la pulizia del viso e tonificare la pelle E imbottire il reggiseno e pettinarmi Siwan Clark, The Armpit Song
Introduzione
Ho tenuto il mio primo corso universitario, Psicologia del le donne, quasi vent’anni fa. Più conoscevo le giovani stu dentesse che lo frequentavano, più ero colpita e inquieta. Di quelle ragazze dotate mi stupivano tanto l’intelligen za, la perseveranza, il senso dell’umorismo e la volontà di confrontarsi con concetti complessi quanto l’intensità delle ansie che gravavano sulle loro spalle. Tra queste c’e rano, com’è naturale, i risultati accademici, un impiego futuro, i problemi sentimentali; le ragazze, però, passava no un’allarmante quantità di tempo a preoccuparsi anche del peso, della pelle, dei vestiti e dei capelli. Un giorno una di loro ammise di aver saltato una lezione perché, semplicemente, si sentiva «troppo brutta per farsi vedere in giro». Le compagne le dissero che non era affatto brutta e le diedero delle comprensive pacche sulle spalle, consa pevoli che una donna preoccupata per il proprio aspetto non sarà mai sola. Poco tempo fa ho visto un amico, professore in una piccola università del Sud degli Stati Uniti. Chiacchieran do in un bar, mi ha raccontato un aneddoto sul program
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ma di viaggi umanitari all’estero che gestisce. Un paio di settimane prima che un gruppo partisse per una località tropicale, aveva chiesto agli studenti di scrivere se si sen tissero pronti. Cinque ragazze su sette avevano dichiara to di non esserlo perché non avevano perso abbastanza peso: sembravano più preoccupate dall’aspetto fisico che dal lavoro che avrebbero svolto una volta a destinazione. Nessun ragazzo aveva scritto che il proprio corpo non era pronto. Sono rimasta a bocca aperta. «No!» ho esclamato, incredula. «Sì» ha confermato lui. «Cinque su sette.» «E tu come hai reagito? Come si risponde a un’affer mazione del genere?» Mi ha detto che, dopo qualche esitazione, aveva ras sicurato le cinque ragazze, spiegando che la cultura in cui si sarebbero immersi era aperta e poco incline ai giudizi e alle critiche. Dubito che sia riuscito nel suo intento: la nostra cultura di appartenenza ci segue anche in viaggio, ed è stata proprio questa a spingere le studentesse a espri mere tali preoccupazioni. Oggi moltissime donne che dimostrano un coraggio straordinario in numerosi ambiti della loro vita crollano davanti allo specchio. Lottano con tutte le loro forze per essere trattate con il rispetto che meritano, ma ogni tan to sembrano disposte a rinunciarvi per poter cambiare la propria esteriorità. Mi capita di chiedermi se io e le donne adulte che co nosco siamo davvero diverse dalla studentessa che saltò una lezione perché si sentiva brutta o dalle ragazze che
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non erano pronte a partire perché non credevano di esse re abbastanza magre. Magari non ci siamo mai assentate dal lavoro per queste ragioni, ma quante volte abbiamo di scusso dei nostri difetti fisici o del fastidio causato dall’au mento di peso o dalla comparsa di nuove rughe? Quanto tempo impieghiamo ogni giorno per prepararci rispetto ai nostri colleghi uomini? Perché – quando una delle pro fessoresse che più stimavo ha detto a noi studenti che in dossava sempre una sciarpa in quanto il suo collo segnato dall’età era «troppo brutto per essere mostrato» – non ab biamo contestato quel tipo di ragionamento? Perché alcu ne mie colleghe si preoccupano ancora di quanti peperon cini (simbolo del loro grado di piccantezza) ricevono su un popolare sito che valuta gli insegnanti? Non ci mettiamo più in posa davanti allo specchio come fanno molte ragaz zine, ma temo dipenda dal fatto che lo specchio, anziché lasciarcelo alle spalle, lo abbiamo interiorizzato. Negli ultimi quindici anni ho studiato le difficoltà che la bellezza e l’immagine corporea causano a donne e ragazze. Ripenso spesso al primo corso che ho tenuto e alla giovane donna che un giorno non è uscita dalla pro pria stanza perché si sentiva troppo brutta. Non credo che il suo comportamento fosse atipico, né che lei fosse strana o eccessivamente vanitosa. Ritengo che stesse soffrendo, che fosse malata di bellezza. Il numero di donne affette da questa patologia non dovrebbe sorprenderci: secondo la cultura che abbiamo creato, l’importante è che siano belle e attraenti. Le aggre diamo con uno standard che non potranno mai rispec
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chiare e poi, quando si preoccupano del loro aspetto, le accusiamo di superficialità; o, peggio ancora, ne minimiz ziamo le ansie con un banale: «Siamo tutti belli a modo nostro», invitandole ad accettarsi così come sono. Ho scritto questo libro nella speranza che possa es sere una guida nella selva di messaggi sull’universo fem minile e sulla bellezza che riceviamo continuamente. Le donne di oggi (e le persone che tengono a loro) meritano una valutazione sincera e stimolante del ruolo che la bel lezza svolge nelle loro vite, e dei consigli con un fonda mento scientifico per lottare contro una cultura affetta da questa malattia. Accanto alle ricerche scientifiche presenterò le te stimonianze di donne che hanno cercato di affrontare la malattia della bellezza. Benché di estrazione sociale di versa, non costituiscono un campione esaustivo: sono sol tanto donne che avevano delle storie da raccontare e che hanno deciso di condividerle con me. Si tratta in realtà di un gruppo piuttosto privilegiato, di soggetti che frequen tano o hanno frequentato l’università; inoltre, non ci sono transgender. La maggior parte di esse ha chiesto che il proprio nome e i dettagli che le avrebbero rese riconoscibili fosse ro modificati per tutelare la privacy loro e delle persone che compaiono nei racconti: sono segnalate dalla presen za di un asterisco la prima volta che vengono menzionate. Se si escludono i cambiamenti per proteggerne l’identità e le modifiche effettuate per amor di chiarezza, le testimo nianze sono riportate fedelmente.
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Spero possiate riconoscervi in almeno una delle don ne citate. Malgrado le differenze, stiamo percorrendo tut te la stessa strada: le parole di chi ci ha preceduto possono essere guide illuminanti, mentre quelle di chi si sente sola o in difficoltà ci ricordano l’importanza di prenderci cura l’una dell’altra.
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PARTE PRIMA La malattia della bellezza
1 Sarò bella?
Parlando con le bambine mi capita spesso di porre una tipica domanda da adulti: «Cosa vuoi fare da grande?». Adoro la miriade di risposte diverse (l’insegnante, la scienziata, l’astronauta, la veterinaria, la pittrice, la pre sidente…) ma, al di là della vita che sognano, so che con ogni probabilità desiderano essere magre e belle. Cominciano a pensare al corpo che ritengono ideale a un’età sorprendentemente precoce: il 34 percento delle bambine di cinque anni si autoimpone delle limitazio ni alimentari di tanto in tanto, e il 28 percento vuole che il proprio corpo somigli a quello delle donne viste nei film e in televisione.1 Per avere un termine di paragone, tra gli importanti traguardi di sviluppo per i bambini di quell’età figurano l’uso corretto di forchetta e cucchiaio e la capacità di contare almeno fino a dieci. Parliamo di individui che stanno imparando a muoversi nel mondo e che, tuttavia, si preoccupano già del proprio aspetto e della magrezza. Nella fascia compresa tra i cinque e i nove anni, il 40 percento delle bambine dice di desiderare un corpo più
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snello,2 e quasi un terzo delle alunne di terza elementa re sostiene di avere costantemente paura di ingrassare.3 Quest’ansia non dipende da motivi di salute, bensì dalla consapevolezza che, nella nostra cultura, è importante es sere carine e che la magrezza è considerata un elemento essenziale della bellezza. Leigh*, una deliziosa e sveglissima bambina di sette anni dall’indole curiosa, venne nel mio ufficio con la ma dre, che aveva accettato di essere intervistata per questo libro. Dato che anche Leigh voleva partecipare, cominciai da lei. La madre rimase nella stanza ma si spostò dietro la figlia, in modo da influenzarne il meno possibile le ri sposte. Leigh era seduta su una poltrona troppo alta per lei, e faceva dondolare le gambe mentre parlavamo. Aveva un’espressione leggermente scettica, sembrava non sapes se come valutare la situazione (noiosa quanto una visita dal medico o piacevole perché poteva divertirsi con i gio cattoli sulla mia scrivania), ma in ogni caso era rilassata. «Leigh, secondo te com’è una bella donna? Riesci a immaginarne una molto carina?» le chiesi. Lei socchiuse gli occhi e annuì. «Ha i capelli lunghi e lisci e si trucca tanto. Porta i tacchi alti. È magra. Ha brac cia e gambe magre.» La descrizione ricordava i requisiti di un casting per modelle. Dopo aver illustrato nel detta glio la magrezza delle varie parti del corpo di quella don na immaginaria, Leigh fece una pausa. «Non so quanto sia grande la sua testa» osservò poi aggrottando la fronte. Fu un momento triste e al contempo affascinante: af
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fascinante perché l’idea di descrivere la testa di una don na la confondeva; triste perché la bambina riteneva già che la bellezza femminile fosse qualcosa di misurabile. Le domandai se per una ragazza fosse importante essere bella. «Si ricevono più complimenti e cose così» ri spose, senza sollevare lo sguardo dal cubo di Rubik in miniatura con cui stava armeggiando. Già nelle prime fasi dello sviluppo, i ragionamenti di molte bambine sono offuscati dal desiderio di essere più belle. Di certo io, a quell’età, non facevo eccezione. Ricor do che, quando avevo cinque anni, i nonni mi portarono ai Cypress Gardens, un ibrido tra orto botanico e parco tematico in Florida; oltre che dagli splendidi fiori, i Gar dens erano popolati da giovani donne affascinanti vestite da bellezze del Sud. Indossavano abiti leziosi e vaporosi dai colori pastello e impugnavano delicati ombrellini. Ho ancora diverse foto che mi ritraggono, in pantaloncini e maglietta, in posa accanto a loro mentre strizzo gli occhi per il sole. Ero troppo piccola per chiedermi perché una donna venisse pagata per passeggiare nei giardini ed es sere bella, o perché non esistessero corrispettivi maschili. Ero troppo piccola per chiedermi come ci si sentisse a por tare quegli abiti pesanti e pieni di crinoline nell’afa della Florida, anche se avevo i capelli sudati e appiccicati alla fronte. Ero troppo piccola per capire perché tutte le donne fossero giovani, bianche e magre. Da allora i tempi sono cambiati: oggi l’ossessione cul turale per la bellezza permane e gli standard sono per sino più alti. Poco tempo fa una mia parente ha accom
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pagnato a Disney World la figlia di sei anni che, quando ha visto Cenerentola e Biancaneve, ha protestato: «Quelle non sono vere principesse, sono signore normali vestite da principesse. Si vede, sono brutte». Le bambine di oggi crescono con la convinzione che la bellezza sia un requisito femminile fondamentale e che l’o biettivo sia approssimarsi alla perfezione. Persino le don ne scelte per interpretare le principesse suscitano in loro il pensiero: Bah. Ho visto di meglio. Per fortuna, malgrado fosse consapevole degli irrag giungibili standard da principessa, Leigh sembrava a suo agio con il proprio aspetto. «Leigh» la chiamai, distraendola per un istante dal le calamite giocattolo, «se qualcuno ti chiedesse come sei fatta, cosa risponderesti?» Rifletté per qualche secondo e disse: «Be’, sono alta più o meno come le altre bambine della mia età. Ho i ca pelli ricci e rossi e gli occhi verdi, e oggi ho un vestito blu scuro e scarpe azzurre». «Ottima descrizione. Che aspetto ha il tuo corpo se condo te?» Leigh replicò subito: «Ho le braccia magre e le gambe molto muscolose. Il resto è normale». «Ti piace il tuo corpo?» Lei annuì e diede una risposta meravigliosa. «Corro, mi arrampico e salto un sacco. E poi nuoto e tirando calci le mie gambe diventano forti.» «È più importante che il tuo corpo sia in grado di fare delle cose o che sia bello?»
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«Che faccia delle cose» ribatté senza esitare. La ma dre, alle sue spalle, sorrise sollevata. «Credi che la penserai sempre così?» le domandai. Leigh ci rifletté per un secondo. «Non lo so.» «Io spero di sì» dissi. «Anch’io» replicò lei, con lo sguardo basso e le gam be immobili. Mi chiesi cosa le sarebbe successo quando si fosse addentrata nel territorio accidentato dell’adolescenza. Non mi piaceva affatto l’idea che, molto probabilmente, in futuro non sarebbe più stata così entusiasta del pro prio corpo. Le statistiche non sono incoraggianti: circa il 90 percento delle giovani donne non ha alcun problema a indicare una parte di sé di cui non è soddisfatta e il 50 percento esprime quella che i ricercatori definiscono una valutazione negativa complessiva del proprio aspetto.4 L’im pressione di non essere abbastanza, che accomuna tante teenager, è strettamente legata alla delusione che provano guardandosi allo specchio.
La malattia della bellezza Studio da anni le difficoltà femminili rispetto alla bellezza e posso affermare senza ombra di dubbio che le ragazze e le donne che faticano a sentirsi a loro agio nel proprio corpo non sono una bizzarra sottocultura americana né una minoranza ossessionata dalla vanità. Si tratta delle nostre figlie, sorelle, studentesse, amiche,
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compagne, delle persone a cui vogliamo bene. Si tratta delle leader del futuro, stanche di chiedersi se un giorno saranno abbastanza attraenti, stremate dalla bellezza e sostanzialmente malate. Le donne si ammalano di bellezza quando la loro energia emotiva si concentra così tanto su ciò che vedono guardandosi allo specchio da rischiare di cancellare gli altri aspetti delle loro vite. È un processo che comincia molto presto, non appena alle bambine viene insegnato che la principale valuta di scambio femminile è risultare piacevoli agli occhi del prossimo. Se ne parla soprattutto in rapporto alla giovinezza, eppure è un malessere che riguarda ogni fascia di età, che non si supera crescendo, ma con impegno e perseveranza. La malattia della bellezza è alimentata da una cultu ra che si concentra più sull’aspetto delle donne che su ciò che possono dire, fare o essere. È rafforzata dalle immagi ni che vediamo e dalle parole che usiamo per descrivere noi stesse e altre donne, e anche da chi ci offende, insulta, critica o elogia esclusivamente per come ci presentiamo. È un malessere che fa soffrire, che trova terreno fer tile nella depressione e nell’ansia, e che finisce per aggra varle. A livello pratico ci sottrae tempo, energie e denaro, ci allontana dalle persone che vorremmo essere e dalle vite che vorremmo condurre. Ci costringe a guardarci allo specchio anziché esplorare e affrontare il mondo. Quella della bellezza non è una malattia canonica. I suoi sintomi non emergono da una radiografia o da un esame del sangue; come per altre patologie è però possi
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bile osservarne gli effetti generalizzati e devastanti. Alcu ni sono evidenti, come i disturbi alimentari e la richiesta sempre più alta di interventi di chirurgia plastica; altri sono più subdoli, come le ore che una ragazza può im piegare per scattare il selfie perfetto da postare sui social media. Anche se la malattia della bellezza non è diagno sticabile da un medico o da uno psicologo, posso assicu rarvi che qualsiasi operatore sanitario che lavora a stretto contatto con le donne l’ha incontrata. Tutti noi l’abbiamo incontrata. Se siete una donna, è molto probabile che l’abbiate sperimentata sulla vostra pelle. Ne avete patito gli effetti se avete pensato di restare a casa anziché partecipare a un evento importante perché non vi sentivate abbastanza belle. Se durante una riunione vi siete distratte perché sta vate paragonando il vostro corpo a quello di un’altra don na presente. Se avete deciso di non andare in piscina con i vostri figli perché la sola idea di mostrarvi in pubblico in costume era insostenibile. Se non volete più preoccuparvi per il vostro aspetto ma non riuscite a staccarvi dallo spec chio, sapete bene cosa significa essere malate di bellezza. I sintomi si riflettono nei pensieri e nei comportamen ti, ma la malattia riguarda anche la cultura in cui viviamo: una cultura affetta da questa patologia dà un peso mag giore al selfie senza veli di un’attrice che ad avvenimenti di portata mondiale. Trova sempre, a tutti i costi, il modo di commentare l’aspetto di una donna, per quanto sia irrilevante in una determinata circostanza. Insegna alle ragazzine che imparare a truccarsi è più importante che
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studiare scienze o matematica. Se state lottando contro la malattia della bellezza, sappiate che la colpa non è vostra, ma di una cultura malata che genera individui malati.
Lo specchio tiranno Dopo aver messo un annuncio sui social media per trovare donne da intervistare, una ragazza mi mandò il contatto della sorella, Artemis*, che riteneva fosse la can didata ideale. Per una donna cresciuta nella nostra cultu ra malata di bellezza, una riflessione sul proprio aspetto può equivalere a un pugno nello stomaco. Artemis, licea le diciassettenne, conosceva bene quella sensazione: era originaria dell’Asia meridionale ma, siccome entrambi i genitori erano nati negli Stati Uniti, definiva la propria etnia «semplicemente americana». Frequentava l’ultimo anno di superiori a Cincinnati, nell’Ohio. Non era possibile incontrarci di persona e quindi fis sammo un appuntamento telefonico. La chiamai a casa un pomeriggio di agosto: era appena tornata da una va canza in famiglia e doveva ancora disfare le valigie. Ini ziammo a parlare, mentre il condizionatore del mio uffi cio ronzava in sottofondo. «Perché secondo tua sorella sei la persona giusta con cui discutere di immagine corporea?» le chiesi. «Ho qualche sospetto…» disse nel tono sarcastico tipico degli adolescenti, senza rispondere alla mia do manda. Artemis trascorse gran parte della telefonata in
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piedi davanti a uno specchio a figura intera con il cellu lare premuto contro l’orecchio, a elencare i molti aspetti del suo corpo che le provocavano ansia. Nel corso della conversazione io camminai avanti e indietro nel mio uf ficio, tentando di capire come una ragazza in salute fosse diventata tanto insoddisfatta del proprio aspetto. Artemis si era resa conto per la prima volta che il suo fisico era importante in seconda media. La sorella le aveva prestato un vestito corto e smanicato; lei l’aveva provato e si era guardata allo specchio. «L’ho messo e ho pensato che non mi stava bene. Perché non ero… perché ero troppo grassa per indossarlo.» Sottolineò il ricordo con un secco: «Già». Fu il primo già di una lunga serie: Artemis immagi nava qualcosa di terribile per il proprio futuro e poi scop piava a ridere. Non sempre capivo dove finisse l’ironia e cominciasse il vero divertimento, ammesso che ci fosse. Dopo l’episodio del vestito, cominciò a convincersi di non essere magra come «tutte le altre». Negli anni ave va capito che in quel periodo non era affatto grassa, per quanto all’epoca si sentisse «enorme». Specchiandoci non vediamo la realtà, bensì il risul tato di anni di input culturali, commenti di amici e fami liari, preoccupazioni interiori. In un certo senso Artemis sembrava consapevole di avere una percezione distorta di sé, eppure riteneva che fosse scorretto da parte mia chiederle una valutazione realistica del suo corpo. Come poteva avere la certezza di essere grassa? Forse non lo era in senso stretto, ma con una rapida ricerca su internet
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avrebbe sicuramente trovato qualcuno che aveva il suo stesso fisico o che portava la sua stessa taglia e che veniva criticato per via del peso. Benché l’implacabile desiderio di magrezza sia un elemento importante della malattia della bellezza, esserne affette non significa necessariamente soffrire di un distur bo alimentare. Tali disturbi possono rivelarsi letali e sono più comuni di quanto vorremmo, ma in questo momento l’epidemia più diffusa è rappresentata dalla lotta quoti diana che donne e ragazze portano avanti per sentirsi a loro agio con il proprio aspetto. Ciò nonostante, nella ri cerca del corpo perfetto la malattia della bellezza spinge tante di noi sull’orlo dell’abisso di anoressia o bulimia. L’attitudine e i comportamenti con cui Artemis affrontava la perdita di peso la ponevano sicuramente tra i soggetti a rischio: a un certo punto aveva iniziato ad andare a dor mire molto presto per saltare la cena, spesso era esausta a causa della fame e non aveva la forza di fare nulla. «Molte adolescenti che si preoccupano tanto del pro prio peso rischiano di sviluppare un disturbo alimentare. Hai mai paura che possa capitarti?» le chiesi. Anziché rispondere, mi parlò di un’amica che soffri va di anoressia. «È magrissima. Si allena un sacco ed è molto bella. Ma ha sofferto di diversi disturbi alimentari. Non si è ancora ripresa del tutto.» «Eppure pensi che sia bella, giusto?» Artemis proseguì con entusiasmo: «È magrissima e super in forma. E a me piacerebbe tantissimo avere il suo fisico. Già».
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Note
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Questo volume è stato stampato nel dicembre 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano