STE PH E N TI GN O R
BORG McENROE
ISBN 978-88-6905-319-1 Titolo originale dell’edizione in lingua inglese: High Strung Harper An Imprint of HarperCollins Publishers © 2011 Stephen Tignor Traduzione di Paolo Lucca Realizzazione editoriale: studio pym / Milano Tutti i diritti sono riservati incluso il diritto di riproduzione integrale o parziale in qualsiasi forma. Questa edizione è pubblicata per accordo con HarperCollins Publishers LLC, New York, U.S.A. © 2017 HarperCollins Italia S.p.A., Milano Prima edizione HarperCollins novembre 2017
Sommario
1. L’angelo e il Ragazzino Terribile 2. Le invasioni barbariche 3. La prossima vittima 4. Una morte lenta 5. Il principe oscuro del Queens 6. Esilio a Park Avenue 7. La Valle delle Ceneri 8. Vittoria a tutti i costi 9. Andare incontro all’amore 10. Mr. Nasty 11. Il signore della disciplina 12. L’angelo caduto 13. Nessuno può battere Vitas Gerulaitis… 14. Ivan il potente 15. Buoni e cattivi 16. Super Saturday 17. Requiem per un assassino
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Epilogo 357 Ringraziamenti 381
In memoria di William e Anne P. Hamilton, miei nonni e miei primi istruttori di tennis.
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L’ANGELO E IL RAGAZZINO TERRIBILE Sono rassegnato all’idea che un giorno o l’altro anch’io dovrò perdere. Björn Borg
A molti appassionati di tennis, quando nel 1980 entrò sul Centre Court di Wimbledon con il suo passo agile e tranquillo, Björn Borg sembrò probabilmente una creatura discesa dal cielo. Il mito del Divin Svedese aveva cominciato a diffondersi a Londra fin dal 1973, quando lui, all’epoca diciassettenne, aveva debuttato nel tennis professionistico. Quell’anno la sua zazzera bionda e svolazzante, il sorriso timido e il volto imberbe gli avevano guadagnato il soprannome di Angelo Ragazzino, indirizzando su di lui le attenzioni di orde bercianti e scomposte di studentesse inglesi in lacrime o in preda a un riso isterico e incredibilmente aggressive. Dopo la sua prima partita, si erano gettate su di lui in trecento, scaraventandolo a terra. Fu così che ebbe inizio qualcosa cui
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nessuno aveva mai assistito sui campi dell’All England Lawn Tennis Club, un fenomeno che negli anni seguenti avrebbe assunto le forme più varie: il cosiddetto Borgasmo. (Quando gli fu chiesto se quell’esperienza lo avesse spaventato, Borg rispose con la flemma che sarebbe divenuta il suo marchio di fabbrica: «Be’, sì, mentre me ne stavo lì per terra con addosso tutte quelle ragazze ho avuto un po’ di paura. Ma è stato anche divertente».) L’anno successivo, gli organizzatori di Wimbledon diramarono un comunicato a sessanta scuole dei dintorni, chiedendo loro di tenere le studentesse sotto controllo. Ma le scuole non ci riuscirono, e nemmeno ci riuscì la polizia. «Il dio vichingo è stato assalito dalla folla» raccontò un membro del club nel 1974, «e nella calca un poliziotto ha perso l’elmetto e un altro agente è stato travolto e gettato a terra.» Nel corso degli anni Settanta, mentre Borg da giovane idolo delle donne diventava un maturo campione di livello mondiale, il suo mito e il suo soprannome mutarono con lui. Nel 1980 era stato ribattezzato l’Angelo Assassino. Borg, con i suoi silenzi e una fascia fermacapelli per aureola, era celebre per la sua glaciale precisione e per le vittorie impossibili in rimonta ottenute recuperando situazioni apparentemente disperate. Sembrava essere invincibile in quella che nel tennis è la massima prova di autocontrollo e saldezza di nervi: il match in cinque set. Dal 1976 aveva ottenuto dieci vittorie di fila. La sua regolarità quasi sovrumana e la sua riservatezza sul campo da gioco conferivano a tutto ciò
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che faceva un’aura misteriosa e soprannaturale. Su di lui cominciarono a circolare leggende metropolitane. Si diceva che il suo cuore battesse al ritmo di 35 pulsazioni al minuto (invece viaggiava tra le 50 e le 60), che dormisse dieci ore per notte in stanze d’albergo gelide (vero), che le corde delle sue racchette erano talmente tese che di notte, in hotel, saltavano mentre lui dormiva (vero), che avesse del ghiaccio nelle vene (probabilmente falso). Il suo collega Ilie Nastase lo chiamava il Marziano. Tutta questa mitologia era comprensibile perché Borg era uno di quei pochi atleti capaci da soli di rivoluzionare la natura di uno sport. Per trent’anni lo stile di gioco nel tennis maschile aveva previsto la discesa a rete dopo il servizio, per attaccare e mettere sotto pressione l’avversario, alla ricerca di traiettorie vincenti colpendo la palla il più vicino possibile alla rete. Si chiamava Big Game e sembrava la strategia di gioco definitiva. Borg, però, noto fin da giovane per la sua straordinaria testardaggine, sovvertì regole e geometrie del tennis. Convinto che anche un gioco tattico potesse essere, come il Big Game, una dimostrazione di forza, scelse di condurre le partite da fondocampo, sfinendo gli avversari. Per il dritto utilizzava un’impugnatura in precedenza osservata raramente e rese popolare il rovescio a due mani, anch’esso un colpo piuttosto infrequente prima del suo avvento, ma che praticamente tutti avrebbero cominciato a usare dopo di lui. Con lo stile di Borg, condizione fisica e atletica acquistarono un’importanza del tutto nuova nel tennis. Lo
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svedese cercava di mantenere il proprio peso al di sotto degli 80 chili, senza preoccuparsi eccessivamente della tecnica; ciò che gli interessava era arrivare sulla palla in tempo per colpirla, senza mai mancarla. Borg era minimalista anche nella tattica. Quando una volta gli chiesero come si preparasse per un punto importante, rispose che faceva in modo di «essere sicuro di mandare la palla dall’altra parte». Anche se si trattava di uno stile molto dispendioso in termini di energie sia fisiche sia mentali, alla fine degli anni Settanta aveva già spazzato via tre decenni di Big Game, imponendosi come il nuovo paradigma di gioco. Nessuno, del resto, avrebbe potuto portare argomenti contro la sua efficacia: nel 1980 Borg sarebbe arrivato in finale a Wimbledon dopo aver vinto il medesimo torneo per quattro anni di fila, un record mai eguagliato nel ventesimo secolo. Era al top della sua condizione. Nel giugno del 1980, l’articolo di copertina di Time, dedicato a Borg, si apriva con la domanda: È lui il più grande di sempre? e lo definiva un’incredibile macchina da tennis, una forza inesorabile per una parte velocità, per un’altra topspin e per due parti volontà d’acciaio. Le sue vittorie non solo erano inevitabili; sembravano essere state decretate dal cielo. Molti avrebbero potuto pertanto provare un pizzico di delusione nello scoprire che quel giorno l’Angelo Assassino, invece di discendere dal Valhalla, da Marte o dal Big Ben, era arrivato sul campo per disputare la finale direttamente da una stanza di un vicino Holiday Inn. L’albergo era lo stesso dove Borg soggiornava
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sempre durante il torneo e si trovava ad Hampstead, nei pressi del circolo tennistico dove lo svedese si allenava. Per arrivare all’All England Club occorrevano tre quarti d’ora di auto ed erano quattro anni che Borg copriva quel tragitto quasi sempre allo stesso modo: lui montava in macchina sul sedile del passeggero; alle sue spalle sedeva la fidanzata Mariana Simionescu, una giocatrice professionista di tennis più vecchia di lui di due anni che gli tagliava i capelli e gli preparava da mangiare; alla guida stava Lennart Bergelin, il suo allenatore cinquantacinquenne, che gli faceva anche da segretario e massaggiatore, si occupava delle racchette ed era per lui un secondo padre. Era dal 1976 che questo gruppetto di tre persone – che Borg considerava la propria famiglia – attraversava indisturbato il mondo del tennis. La macchina era sempre una Saab, uno degli sponsor di Borg, e a guidare era sempre Bergelin, per la stessa ragione per cui era sempre lui a rispondere alle telefonate del giocatore e a tenere perfettamente incordate le sue cinquanta racchette: il campione avrebbe così potuto concentrarsi soltanto su come mandare la palla oltre la rete. Anche il percorso che Bergelin seguiva tra i verdi quartieri residenziali di Londra era sempre il medesimo. Non era necessariamente il più breve, ma riduceva al minimo le possibilità che Borg potesse incontrare qualcosa di nuovo lungo il tragitto. La superstizione è una fede incrollabile tra i giocatori di tennis professionisti. Alcuni di loro fanno di tutto per non calpestare le linee del campo di gioco; altri
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mangiano solo da McDonald’s o indossano gli stessi calzoncini per dieci giorni di fila per non interrompere una serie di partite vincenti. Ma per Björn Borg non si trattava soltanto di una deformazione professionale; la superstizione era qualcosa che scorreva nel sangue della sua famiglia. I suoi genitori, Rune e Margarethe, avevano visto il figlio vincere per la prima volta all’All England Club nel 1977. L’ultima cifra di quell’anno divenne per loro una specie di segno premonitore. Da quel momento, sarebbero andati a Wimbledon per assistere alle partite del figlio soltanto negli anni dispari, lasciando quelli pari per gli Open di Francia, che Borg avrebbe vinto sei volte. Nel 1980 quella strategia non aveva mai fallito, anche se alcune volte soltanto per il rotto della cuffia. Nella finale di Wimbledon del 1979, per esempio, Borg era impegnato in una partita tiratissima contro Roscoe Tanner, uno statunitense dal gioco imprevedibile e aggressivo, un mancino con un servizio potentissimo che lo aveva sempre messo in difficoltà. Margarethe, com’era solita fare durante molti match del figlio, masticava una gomma, convinta di portargli fortuna. La partita durava da più di tre ore e Borg stava servendo per il titolo sul 5-4 nel quinto set. Conduceva il game per 40-0: triplo match point. Sua madre, pensando ormai di essere al sicuro, sputò la gomma per terra sul pavimento della tribuna riservata agli ospiti del giocatore. Borg fallì i tre match point. Margarethe raccolse la gomma e se la rimise in bocca. Suo figlio vinse i due punti successivi e la partita.
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L’ingresso di Bergelin nell’entourage dello svedese non migliorò la situazione. Se possibile, anzi, in quanto a superstizione, l’allenatore superava perfino la famiglia Borg. Nel 1975 Bergelin aveva portato la Svezia alla conquista della sua prima Coppa Davis. Durante il torneo non si era mai cambiato i mutandoni portafortuna decorati con tigri disegnate. Li aveva sempre indossati, nonostante in Spagna la temperatura sfiorasse i quaranta gradi! Quando la sua squadra aveva vinto, Bergelin si era calato i pantaloni e aveva cominciato a ballare sul tavolo con i mutandoni in bella vista. A Wimbledon, il figlio di Rune e Margarethe aveva trasformato quelle piccole fissazioni famigliari in uno stile di vita. Ogni anno, riponeva nel cassetto il completo Fila che aveva indossato per tutta la stagione e ritirava fuori la maglietta aderente a righine verdi con cui nel 1976 aveva vinto il suo primo titolo all’All England Club. Ogni anno chiedeva che gli venisse data la stessa sedia che aveva usato l’anno precedente e in campo voleva sempre e solo due asciugamani. Borg introdusse nel tennis anche quella che viene chiamata barba da playoff. Smetteva di radersi all’inizio di alcuni tornei, Wimbledon incluso. Entro la fine della competizione, aveva uno strato di peluria scura e incolta che gli ricopriva la parte inferiore del viso. (A volte, alla barba si accompagnavano anche alcuni foruncoli sul mento che pure sparivano alla fine del torneo. Ma questa infrequente manifestazione di ansia non trovava posto, per quanto ne sappiamo, nel suo sistema di superstizioni.)
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Simionescu credeva che le abitudini del suo fidanzato fossero un modo elaborato per «cercare ordine» e una «fonte di energia e concentrazione». Ma il giorno della finale di Wimbledon del 1980, la routine di Borg venne leggermente alterata. Seduto accanto a Mariana nei sedili posteriori della Saab c’era un socievole amico inglese di nome Tommie, gestore del ristorante del circolo dove si allenava Borg. Quel giorno era stato invitato a seguire la partita dal Player’s Box in compagnia di Bergelin e Simionescu. Incapace di contenere l’eccitazione di trovarsi in marcia verso la finale in compagnia del campione, Tommie prospettò ottimisticamente una vittoria per Borg. Bergelin lanciò un’occhiataccia a Mariana dallo specchietto retrovisore. Questa disse a Tommie di chiudere il becco. Borg se ne stava seduto tranquillo sul sedile anteriore, con i capelli biondi che gli accarezzavano le spalle, mentre l’auto procedeva lungo le stradine strette dei quartieri residenziali londinesi. Veniva da una serie di trentaquattro vittorie consecutive a Wimbledon: non aveva nessun bisogno che qualcuno cominciasse a parlargli della trentacinquesima. Anche se quell’anno il suo percorso per accedere alla finale era stato piuttosto lineare – non aveva avuto bisogno di nessuna delle sue celebri magie per arrivarci –, Borg sapeva che non era il caso di stuzzicare il fato. Il sorteggio gli diede come avversario al primo turno l’egiziano Ismail El Shafei. Mentre giocavano a carte in albergo, Simionescu ingenuamente gli assicurò che sarebbe stata una partita facile. Borg reagì facendo
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quella che per lui era probabilmente l’equivalente di una sfuriata: si alzò in piedi e cominciò a passeggiare silenziosamente avanti e indietro per la stanza. Un’ora dopo stava leggendo il giornale. Di punto in bianco lo posò e disse: «Mariana, vorrei solo ricordarti che non esistono partite facili. Un giocatore che la pensa in questo modo potrebbe anche smettere, e io non ho nessuna intenzione di farlo». Borg sapeva che nel tennis non esisteva nulla di prestabilito. Mentre gli spostamenti cittadini del dio vichingo erano tranquilli e prevedibili, quelli del suo avversario in finale, John McEnroe, erano diventati fonte di crescente agitazione. A Londra il ventunenne newyorkese non riusciva a trovare pace. Per essere più precisi, era perseguitato dal suo odioso alter ego creato dai giornali scandalistici: Superbrat, il Super Monello. I titolisti lo usavano come se fosse il suo vero nome: Scandalo per Superbrat!; Superbrat in difficoltà dà la colpa al clima inglese! C’era qualcosa in John McEnroe capace di ispirare i tabloid londinesi. Anche se non sarebbe mai diventato il più grande campione di sempre a Wimbledon, nessun altro tennista è mai stato in grado di rivaleggiare con lui in quanto a nomignoli. Nel corso degli anni lo avrebbero chiamato McLaPeste, McPericolo, McLaBizza, la Bocca Berciante, il Mercante di Minacce e – il mio preferito – l’Incredibile Broncio. Questi soprannomi e il loro immaginario lo segui-
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vano ovunque. McEnroe prendeva spesso il taxi insieme all’amico nonché compagno di doppio Peter Fleming. Durante una di quelle corse, la radio cominciò a trasmettere una canzone dei Police che, nonostante fosse uscita già da due anni, era stranamente programmata spesso in quei giorni: I Can’t Stand Losing You. Su un incalzante ritmo new wave, Sting, il cantante del gruppo, ripeteva meccanicamente le parole Non sopporto… Non sopporto… Non sopporto di perdere, Non sopporto… Non sopporto… Non sopporto di perdere almeno una decina di volte. Quando la canzone finalmente finì, ciò che disse il DJ sembrò quasi inevitabile: «Sembra scritta apposta per Superbrat!». Ecco com’erano state le cose per McEnroe a Wimbledon fin da quando, tre anni prima, diciottenne, a forza di pizza e barrette di cioccolato, aveva raggiunto le semifinali. Per giocare agli Open di Francia e a Wimbledon aveva saltato la consegna dei diplomi; il preside della Trinity School di Manhattan aveva autorizzato il viaggio giustificandolo come progetto per il suo Senior Year. I genitori di McEnroe pensavano che avere la possibilità anche solo di partecipare ai due tornei sarebbe stata un’esperienza formativa per Johnny, qualcosa di simile alla recente gita che il ragazzo aveva fatto a Washington insieme ai compagni di classe. Dopo una settimana McEnroe era famoso in tutto il pianeta e minacciava di vincere il torneo più importante del mondo del tennis. Per usare le parole della rivista Tennis, McEnroe avanzava nel tabellone come un marmocchio che si aggiri con
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passo incerto verso la sala del trono in un bizzarro e labirintico castello. Ma anche se in pochi credevano possibile una sua vittoria, il nostro studente delle superiori non era per nulla intimorito da quell’ambiente austero e dagli uomini che lo frequentavano. «Ricordo che una volta, prima di una partita, l’ho visto negli spogliatoi» racconta Fleming. «Stava parlando del suo avversario: “Se perdo con questo tizio, smetto di giocare!”. Quel tizio tra l’altro era un buon giocatore. John era già molto sicuro di sé anche all’epoca.» McEnroe era l’esordiente di Wimbledon più entusiasmante dall’epoca di Borg. I due avevano introdotto su quei campi apparentemente immutabili due elementi fondamentali della cultura giovanile degli anni Sessanta. Borg, che nel 1973 ricordava una versione one-manband dei Beatles, aveva portato il sesso; McEnroe, il teppistello invasore del 1977, la ribellione. Poco importava che Borg fosse più Shaun Cassidy che Mick Jagger o che McEnroe assomigliasse più a Danny Bonaduce della Famiglia Partridge che a uno qualsiasi dei rocchettari con la cresta che giravano per Londra all’epoca. Borg e McEnroe erano entrambi dei rivoluzionari per l’All England Lawn Tennis and Croquet Club. L’anno in cui McEnroe fece il proprio debutto a Wimbledon coincideva con il giubileo d’argento della Regina Elisabetta II, in occasione del quale i Sex Pistols, uno tra i più famigerati gruppi punk del Paese, guidati dal cantante Johnny Rotten, registrarono il discusso con-
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tro-omaggio God Save the Queen. (Non è un essere umano era una delle frasi più gentili della canzone.) Il 7 giugno, giorno della ricorrenza, i membri della band erano stati arrestati dopo aver cercato di suonare il pezzo incriminato a bordo di una barca sul Tamigi. Due settimane più tardi, gli appassionati di tennis inglesi, da buoni borghesi, si sentirono minacciati quando osservarono per la prima volta John McEnroe. Videro un americano con il volto cosparso di lentiggini e i capelli spettinati che fissava disperatamente la propria racchetta Wilson di legno. Videro un adolescente crollare e prendere a pugni l’erba per una caduta a causa della quale aveva perso un punto. La determinazione di McEnroe nella vittoria come nella sconfitta, scrisse un lungimirante Pete Asthelm su Newsweek dopo il torneo, si esprime attraverso un rossore e un’agitazione che lo fanno sempre sembrare sul punto di scoppiare in lacrime, tanto che alcuni si sono chiesti con rammarico se John avesse la benché minima idea di quanto fosse splendido e meraviglioso quello che stava facendo. Nel giro di qualche giorno, con le proprie espressioni, McEnroe avrebbe ridefinito il modo in cui determinazione e disgusto venivano manifestati sui campi da tennis. Invece che da vocianti studentesse inglesi, McEnroe fu accolto da un’ondata di indignazione. I tifosi di Wimbledon, in genere ben educati, non sapevano che dire di quel ragazzino sconosciuto che, come avrebbe detto lo stesso McEnroe, girava con «le guance paffute, le cosciotte e le barrette Snickers nella borsa» e non aveva paura di sfidare i letargici pensionati che facevano
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da guardalinee nel torneo. Quando nel 1977 perse un tie-break al secondo set nel quarto di finale contro Phil Dent, McEnroe mise un piede sopra la racchetta e cominciò a spingere. Sembrava volesse spezzarla. Dagli spalti cominciarono a fischiarlo. L’americano scoprì divertito che assestare un calcio alla racchetta, spedendola in mezzo al campo, non faceva che aumentare il volume dei fischi. Non importava che fosse il figlio di un avvocato e che provenisse da un agiato quartiere del Queens, a New York. Non importava nemmeno che fosse un fan dei Led Zeppelin, dinosauri del rock che i punk disprezzavano più di ogni altra cosa. Il tennis aveva trovato il proprio Johnny Rotten. McEnroe aveva saltato la cerimonia di consegna dei diplomi per ritrovarsi cucita addosso un’immagine pubblica inattesa e per nulla piacevole. Il ragazzino della Trinity, noto per le sue lacrime dopo le sconfitte subite nei tornei juniores – «Ora comincia il diluvio» dicevano i suoi avversari dopo averlo battuto – sarebbe diventato l’emblema di tutto ciò che non andava nella società occidentale. La peggior pubblicità per il nostro sistema di valori dai tempi di Al Capone, tuonò il New York Times. Intorno alla metà degli anni Ottanta, il sociologo E. Digby Baltzell dell’Università della Pennsylvania – lo stesso che una ventina di anni prima aveva reso popolare l’acronimo WASP, per White Anglo-Saxon Protestant – scrisse un libro sul ruolo del tennis nella società del ventesimo secolo. Uno dei possibili titoli cui pensò fu: John McEnroe e il declino della civiltà.
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Ma il comportamento di McEnroe difficilmente avrebbe fatto notizia se questi non fosse stato anche dotato di uno straordinario e singolare talento tennistico. Nel 1977 non era ancora un giocatore completamente maturo, ma un atleta che praticava diverse discipline sportive e che al tennis riservava soltanto due giorni alla settimana nella stagione invernale; all’epoca non era nemmeno un tennista a tempo pieno. L’americano aveva appena cominciato a sentirsi fisicamente abbastanza forte per giocare con quello stile serve and volley che sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica. Ma il suo gioco sottile e infido a tutto campo era qualcosa di nuovo nel tennis, esattamente come quello regolare e ripetitivo di Borg lo era stato negli anni precedenti. Entrambi sembravano ugualmente contrari a ogni logica. Borg aveva vinto difendendo invece di attaccare; McEnroe, in un’epoca in cui ad andare per la maggiore erano gli studiatissimi palleggi ispirati al gioco dello svedese, aveva imparato dal proprio allenatore Tony Palafox, ex tennista messicano, non solo ad accorciare i propri colpi ma addirittura – somma eresia! – a rallentarli. Palafox voleva anche che McEnroe sfruttasse ogni parte del campo e pensasse costantemente ai colpi successivi. Da giocatore era stato una sorta di artista del tennis e in John aveva trovato l’allievo perfetto. Ecco come McEnroe avrebbe raccontato la sua prima esperienza su un campo da tennis: «Non riesco a spiegarmi del tutto come, ma riuscivo a sentire la palla attraverso le corde. Fin dall’inizio ad affascinarmi è sta-
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to il fatto che la palla poteva essere colpita in modi così diversi: di piatto, tagliata, a effetto…». A tutto questo si aggiunga la profonda sensibilità che l’americano dimostrava di avere nei confronti di tutto quello che lo circondava. Chi lo guardava aveva la sensazione che non stesse soltanto giocando, ma che controllasse tutto quanto stava accadendo sul campo e sugli spalti. «Una volta mi trovavo in mezzo al pubblico in cima alle tribune del Queen’s Club» avrebbe raccontato Richard Evans, giornalista sportivo e primo biografo di McEnroe, «e ho starnutito. John era in campo. Ha smesso di giocare, si è fermato in piedi in mezzo al campo e mi ha detto: “Salute, Richard”.» A diciotto anni McEnroe doveva ancora produrre il suo primo capolavoro, ma il tocco dell’artista nel suo stile di gioco era inconfondibile. Il campioncino della squadra di calcio del liceo alternava fulminee incursioni a rete con eleganti e raffinati colpi smorzati e pallonetti con la noncuranza di un improvvisatore nato. Come Borg, anche lui avrebbe potuto giocare tenendo un libro in testa: non piegava mai troppo le ginocchia, non si girava né caricava eccessivamente il proprio peso sulla palla, non cambiava impugnatura tra un colpo e l’altro e quasi non effettuava il movimento di apertura. E a differenza di tutti gli altri tennisti del mondo, sembrava incapace di abbronzarsi e di aumentare la propria massa muscolare. (McEnroe si sarebbe sempre lamentato di non riuscire ad avere nemmeno lontanamente un braccio alla Popeye come quello che il suo eroe, Rod Laver,
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si era fatto giocando per anni con una pesante racchetta di legno.) Contando sulla propria superiorità fisica e implacabile precisione, Borg aveva portato il gioco a un estremo. Verso la fine degli anni Sessanta erano state introdotte nuove e più pesanti palline che avevano rallentato il ritmo di gioco e reso più praticabile uno stile come quello dello svedese. Dal canto suo, Borg aveva contribuito a rendere il gioco stesso molto più intenso. Ogni punto era diventato una guerra di logoramento, e l’effetto che imprimeva alla palla rendeva quest’ultima ancora più pesante per le racchette dei suoi avversari. «Era tutto un boom, boom, boom» avrebbe detto Cliff Richey, tennista americano della generazione precedente, dopo aver perso contro un Borg adolescente agli Open di Francia all’inizio degli anni Settanta. McEnroe portò il gioco esattamente all’estremo opposto. La sua agilità di movimento alleggerì nuovamente il tennis. Invece di affidarsi alla resistenza, l’americano contava sulle sensazioni e sulla creatività del suo polso e della sua mano. «Ha un tocco incredibile» avrebbe dichiarato Mary Carillo, newyorkese come lui e sua compagna nel doppio misto di quell’anno. «Davvero, è come se giocasse a mani nude.» Dopo aver studiato i colpi di McEnroe, l’allenatore Vic Braden avrebbe detto: «La sua biomeccanica è talmente perfetta da sembrare magica». Se questo stile magico non fu rivoluzionario come quello di Borg è perché era ancor più difficile da replicare. Mentre lo svedese impugnava la racchetta in modo
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diverso da quello tradizionale e utilizzava nuove tattiche di gioco, l’unicità di McEnroe stava in qualcosa di più profondo: la palla veniva ribattuta dalle corde della sua racchetta in un modo completamente diverso. In confronto a lui, gli altri tennisti professionisti colpivano la palla; McEnroe invece lasciava che la racchetta la guidasse dove lui voleva. Borg basava il proprio gioco sulla ripetizione; ogni colpo di McEnroe dava invece l’impressione di essere completamente diverso dal precedente. Jimmy Connors, che nel 1977 lo aveva eliminato in semifinale a Wimbledon, avrebbe sintetizzato così l’opinione diffusa e ancora un poco confusa che circolava sull’americano: «Questo ragazzino non è per niente facile da battere». Fu però prima di quella semifinale, quando entrambi si trovavano negli spogliatoi, che Connors fece il miglior complimento al suo giovane avversario. A venticinque anni, Jimbo era il giocatore statunitense numero uno nonché il mancino ribelle per eccellenza del tennis, il cattivo ragazzo prima dell’avvento di McLaPeste. Quando McEnroe tentò di presentarsi prima della partita, Connors gli diede le spalle. John, incapace perfino di sollevare gli occhi per guardarlo, si chiese: Che ci faccio io qui con questo tizio? Non gli ci sarebbe voluto molto per darsi una risposta. Non voglio vincere pensò quando cominciò la partita. Non ce la faccio. Connors aveva utilizzato un trucchetto psicologico da campione qual era. Fu l’inizio di una lunga ostilità tra le due più grandi star del tennis americano di quella generazione.
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Quando Connors si diresse impettito verso la rete per la stretta di mano dopo aver ottenuto la vittoria in quattro set, McEnroe fece di nuovo del proprio meglio per non incontrare il suo sguardo. Sembrava che se l’avesse fatto le cateratte del cielo si sarebbero aperte. Nei due anni successivi, McEnroe dimostrò tutte le sue qualità ovunque tranne che a Wimbledon. Sconfisse Borg e Connors. Diventò il tennista numero due al mondo. Vinse gli US Open. Sapeva che il suo stile serve and volley era perfetto per l’erba scivolosa del Centre Court, ma sia nel 1978 sia nel 1979 fu eliminato ai primi turni da giocatori meno quotati. Gli pesava sentirsi costantemente sotto esame e soffriva le aspettative del pubblico. Nel 1980, dopo essere avanzato nel tabellone del torneo con relativa tranquillità, McEnroe si trovò nuovamente nel punto in cui era stato eliminato nel 1977: una semifinale a tratti ostile e a tratti brillante con Connors. All’epoca McEnroe aveva ormai scalzato Jimbo dalle prime due posizioni del ranking, fomentando di conseguenza, come lui stesso avrebbe ammesso, un «gravissimo rancore». Quel giorno, tuttavia, fu soprattutto McEnroe a mostrarsi rancoroso, dirigendo la sua rabbia in particolar modo contro il canuto gentiluomo decisamente più anziano di lui, di nome Pat Smythe, che aveva avuto la sfortuna di essere designato come giudice di sedia per il match. Nel corso del primo set, McEnroe, con la sua matassa di capelli che sembravano aver appena preso la scossa e parevano sempre sul punto di schizzargli fuo-
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ri dalla fascia, rivolse gli occhi al cielo, con dipinta sul volto un’espressione di profondissima incomprensione. Prese una pallina e cominciò a palleggiare con la racchetta, accompagnando le sue parole con quel minaccioso sottofondo ritmato. «Posso parlare con il giudice arbitro?» disse, indicando il fondo del campo. Il giudice di sedia si sporse verso di lui: «No, no, no…». «Allora smetto di giocare» lo interruppe McEnroe. «Ho il diritto di parlare con il giudice arbitro.» «No, no, no…» «Smetto di giocare. Voglio il giudice arbitro.» Connors se ne stava in piedi incredulo e infastidito a fondocampo, facendo ruotare la sua racchetta d’acciaio sul dito indice. Con la lingua tra i denti, scavalcò la barriera che separava il campo dalla tribuna per farsi una risata alle spalle del connazionale insieme ai suoi sostenitori che occupavano le prime file. McEnroe fu subissato per l’ennesima volta da quell’ormai familiare clamore che sembrava accompagnarlo ovunque. Quella volta il pubblico rumoreggiò abbastanza da costringere Smythe a mettersi in piedi sul suo seggiolone e ruggire, con un tono esasperato che non ammetteva repliche: «Signor McEnroe, la richiamo ufficialmente!». La folla esplose in un boato di approvazione. Superbrat, brontolando a testa bassa, se ne tornò riluttante a fondocampo. Dopo due scambi, mise a segno un ace e vinse il game. Puntando la racchetta in direzione di Smythe gli disse: «E questo com’era?». Erano passati soltanto ventotto minuti dall’inizio della partita.
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Era una scena che tutti gli appassionati di tennis avrebbero imparato a conoscere bene: l’incredulità espressa tra farfugliamenti e borbottii, il giusto richiamo, la stizza del pubblico e poi, quando tutto sembrava finito e pareva impossibile che a McEnroe potesse essere rimasto anche solo un briciolo di concentrazione, l’ace finale. Se Borg vinceva controllando tutto dentro e fuori di sé, seppellendo le proprie emozioni, McEnroe lo faceva fomentando l’ansia che sentiva montare dall’interno ed esternandola. Manifestava tutto quello che provava, anche a costo di svelare agli occhi dell’avversario tutta la propria vulnerabilità. Sebbene non sia stato l’unico giocatore a esprimere in campo la propria rabbia o a caricarsi in quel modo, McEnroe fu probabilmente il primo a fingere di soffocare. Dopo aver effettuato un colpo particolarmente brutto o aver perso un punto importante, si portava una mano alla gola, piegava la testa all’indietro e spalancava la bocca come se non riuscisse a respirare. Anche se quelle sceneggiate e quelle sfuriate non sempre gli avrebbero permesso di esprimersi al meglio delle sue capacità, comunque non gli avrebbero nemmeno mai nuociuto gravemente: in un certo senso, talento e caratteraccio andavano in lui di pari passo. I tifosi avrebbero presto imparato a conoscere anche scambi come quello che McEnroe e Connors ebbero quando di lì a poco si incrociarono in occasione del cambio di campo. Puntandogli il dito in faccia, Connors disse a McEnroe che si stava comportando come un bambino, aggiungendo: «Tu qui devi solo tenere il
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becco chiuso». McEnroe rispose comunicandogli quello che avrebbe potuto baciargli. Ciononostante, si trattava comunque di un progresso rispetto a ciò che i due avevano fatto due anni prima durante gli US Open. Ai quarti di finale, quando McEnroe si era sdraiato lungo la linea laterale durante una pausa, Connors si era riempito la bocca d’acqua per poi sputarla ai piedi dell’avversario quando era tornato sul terreno di gioco. Dopo aver così marchiato il proprio territorio, Connors aveva vinto anche quel round. Giocare l’uno contro l’altro spesso portava entrambi a esprimere quanto di peggio sapevano dare. I loro incontri non erano opere d’arte, come invece sarebbero state le partite che l’anno successivo McEnroe avrebbe giocato contro Borg. Erano combattimenti all’arma bianca. Connors, giocatore di rimessa, colpiva da fondocampo e cercava di mettere McEnroe sotto pressione. Le poetiche discese a rete del giovane John erano respinte dagli implacabili dritti e rovesci di Connors, che un giornalista inglese avrebbe descritto come martellanti e prosaici. McEnroe aveva frequentato un’esclusiva scuola privata di Manhattan; Jimbo, proveniente da una famiglia operaia di East St. Louis, amava ricordargli che nelle vene di entrambi scorreva il medesimo sangue irlandese. Come fratello maggiore, McEnroe avrebbe probabilmente preferito Borg, immagine del gentiluomo e del cittadino modello, ma sembrava condannato a ritrovarsi sempre tra i piedi quel Connors così fastidiosamente simile a lui. Secondo Connors «tra noi era mancino contro man-
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cino, irlandese contro irlandese. Non era mai soltanto tennis». «Borg è stato il mio miglior avversario» avrebbe dichiarato McEnroe. «Eravamo come lo yin e lo yang. Con Jimmy invece era come se due tori salissero insieme sul ring.» La parte restante della semifinale di Wimbledon fu molto meno spettacolare. Frank Deford di Sports Illustrated l’avrebbe descritta come brutta e interminabile… Come restarsene a guardare una pianta che muore. McEnroe, nonostante lo scontro l’avesse molto provato, terminò il match ribaltando il risultato ottenuto tre anni prima. Era finalmente entrato in finale a Wimbledon. Era arrivato nella stratosfera del tennis. Si era lasciato Connors alle spalle ed era pronto a raggiungere Borg in cima alla vetta. Era convinto, come avrebbe dichiarato, che fosse giunto il suo momento e che se fosse riuscito a ritagliarsi un po’ di vantaggio all’inizio della partita, avrebbe potuto vincerla facilmente. Ma una parte di lui sentiva di essere ancora il figlio meno amato, l’ospite sgradito alla cerimonia d’incoronazione del beniamino di tutti. La notte prima della finale, nella sua suite all’Holiday Inn, Borg sollevò lo sguardo dal giornale per seguire alla TV l’intervista a McEnroe dopo la vittoria contro Connors. Il campione ascoltò in silenzio il newyorkese che, con un tono a metà tra lo sprezzante e il difensivo, dichiarò: «Ho sempre voluto incontrare Borg sull’erba, il mio terreno preferito. So che il pubblico di Wimbledon vorrebbe che Borg continuasse a
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vincere per sempre, ma questa volta sulla sua strada incontrerà McEnroe». Il giorno seguente, il neo-finalista entrò a passo lento negli spogliatoi dell’All England Club. Indossava un paio di pantaloni bianchi della tuta e la felpa della nazionale americana di Coppa Davis e trascinava un borsone porta-racchette Nike carico all’inverosimile. Con le sue spalle cadenti, McEnroe avrebbe potuto essere scambiato per un giocatore del circuito juniores. Quello era il venerabile spogliatoio A, sulle cui pareti spiccavano le foto dei campioni del passato e dove i giocatori usavano ancora i vecchi appendiabiti con le grucce. (Nel rispetto dello spirito di classe britannico, la stanza era riservata soltanto ai migliori giocatori al mondo; tutti gli altri erano relegati nello spogliatoio B.) Lo spogliatoio A era da anni il covo di Borg. Quando arrivò McEnroe, il quattro volte campione si trovava già lì, in compagnia di Bergelin, e misurava con passi ampi e regali la stanza nella sua felpa da riscaldamento Fila color rosso e panna, autografando un programma del torneo per un arbitro. Con Borg che camminava avanti e indietro alle sue spalle, McEnroe appoggiò la borsa a terra e ne estrasse una racchetta, una Wilson Pro Staff di legno. Si rimise in piedi e la fece girare nella mano sinistra, quella con cui giocava. In quel momento si sentì una persona completamente diversa. Come accade a un pittore quando mette mano al pennello o a uno schermidore quando
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impugna il fioretto, nel momento in cui afferrava una racchetta, in McEnroe si accendeva qualcosa. Superbrat, il marmocchio incredibilmente timido e nervoso con i capelli a cespuglio e le lentiggini, il ragazzino che non era nemmeno sicuro che qualcuno quel giorno volesse davvero vederlo in quel posto, era sparito. John McEnroe era pronto per giocare la sua prima finale di Wimbledon. Qualche minuto più tardi, alle due del pomeriggio di sabato 5 luglio del 1980, mentre si aggiustava distrattamente la zazzera e camminava impettito fianco a fianco con Borg per – come avrebbe detto Mariana Simionescu – «dimostrare che non gliene fregava niente», McEnroe fece il proprio ingresso sul Centre Court, precedendo di qualche passo il suo avversario disceso dal cielo. Si udì un brusio di disapprovazione.
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Ringraziamenti
Scrivere un libro è un lavoro che per metà richiede di starsene davanti a una tastiera e per l’altra metà consiste in chiedere favori a persone che spesso non si conoscono e con cui non saremo mai in grado di sdebitarci. Non sarei mai riuscito a scrivere nemmeno una parola senza il loro aiuto. Per la loro collaborazione e per avermi raccontato di quest’epoca nei miei dodici anni alla rivista Tennis, desidero ringraziare Patrick, Mark e John McEnroe Sr.; Ivan Lendl, Björn Borg, Peter Fleming, Fred Stolle, Mary Carillo, Ruta Gerulaitis, Mel Purcell, Juan Nuñez, Doug Henderson, Tony Palafox, Russ Adams, Eliot Teltscher, Cliff Drysdale, Tracy Austin, Nick Bollettieri, Butch Buchholz, Richard Evans, Peter Bodo, Bud Collins, Allen Fox, Matt Cronin, Steve Flink, Tom Tebbutt, Neil Amdur, Cindy Shmerler, Chris Clarey, Georg Diez, Christopher Roth e il compianto Gene Scott. Grazie anche ad Anita Aguilar della Public Library di New York, a
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Joanie Agler dell’International Tennis Hall of Fame, a Brad Kallet, Jackie Roe, David Rosenberg, Nick Trautwein e Amy Rennert. Un ringraziamento speciale alla mia famiglia, a Julie e Nula Kaputska e al mio editor, David Hirshey, le cui parole mi hanno aiutato quando la speranza di terminare in tempo il lavoro sembrava irrealizzabile: «Rimboccati le maniche e avanti tutta». Hanno funzionato. Tra i molti libri che ho letto per documentarmi su questo periodo, mi sono stati particolarmente utili Borg vs. McEnroe di Malcolm Folley, Total Tennis e My Life With the Pros di Bud Collins, A Rage for Perfection e Open Tennis di Richard Evans, Love Match di Mariana Borg, On Being John McEnroe di Tim Adams, Jimmy Connors Saved My Life di Joel Drucker, Endeavor to Persevere di Doug Henderson e The Tennis Bubble di Rich Koster. Voglio ringraziare in modo particolare Joel Drucker. Seppur in un momento difficile della sua vita, ha trovato il tempo per aiutarmi a decidere in che modo scrivere Mamma Nr. 2 e per discutere con me dei meriti letterari di Dumbo Cooper, andando ben oltre quanto sarebbe stato necessario.
Questo volume è stato stampato nell’ottobre 2017 presso la Rotolito Lombarda - Milano